particelle elementari
I semi della materia
Quali – e quanti – sono i mattoni fondamentali della natura? Come si aggregano per formare le strutture più complesse? Quali teorie esistono per prevederne il comportamento? Sono questi gli interrogativi che hanno guidato lo studio delle particelle elementari, un vero e proprio viaggio nella realtà microscopica: una realtà nella quale il protone e neutrone sono dotati di struttura interna e la carica elettrica può esistere anche in ‘frazioni’
Verso il 1930 le uniche particelle conosciute erano l’elettrone, il protone e il neutrone, cioè i costituenti dell’atomo. Il protone e il neutrone sono quasi duemila volte più pesanti dell’elettrone. Se infatti, grazie alla relazione di Einstein tra massa ed energia (E=mc2), esprimiamo la massa delle particelle in milioni di elettronvolt (MeV) (1 MeV è l’energia che un elettrone acquista sotto la differenza di potenziale di 1 milione di volt) otteniamo per la massa dell’elettrone me=0.511 MeV, mentre per protone e neutrone mp=938 MeV e mn=940 MeV.
Una caratteristica comune a queste tre particelle è una quantità chiamata spin (in inglese «trottola»), come se ciascuna di esse ruotasse sempre su sé stessa. Il valore del loro spin è s=1/2, valore espresso in unità h, dove h è la costante di Planck.
Per queste particelle – e per tutte le altre che hanno spin multiplo di 1/2 – vale il principio di esclusione di Pauli: due particelle identiche non possono avere la stessa posizione e la stessa velocità nel medesimo istante. Tutte le particelle che obbediscono a questo principio sono chiamate fermioni dal nome di Enrico Fermi che ne comprese il comportamento. Elettroni, protoni e neutroni erano all’epoca considerate particelle elementari, perché si pensava non fossero ulteriormente suddivisibili.
Nei primi decenni del Novecento lo studio dell’atomo aveva insegnato che l’energia luminosa viene assorbita ed emessa da un atomo sotto forma di quanti, corpuscoli di energia – quindi particelle – chiamati fotoni. Un fotone ha massa nulla e ha spin 1, e inoltre un numero qualunque di fotoni identici può essere emesso o assorbito allo stesso istante e nello stesso punto, e quindi non obbediscono al principio di esclusione di Pauli. Per questa loro caratteristica i fotoni vengono classificati come bosoni, dal nome del fisico indiano Satyendra Nath Bose che se ne è occupato.
Descrivere le onde luminose grazie a particelle ha introdotto una profonda novità nel modo in cui si affronta la forza che agisce a distanza tra due cariche (forza elettromagnetica). Immaginiamo che ciascuna carica emetta continuamente un numero grandissimo di messaggeri in tutte le direzioni; la grande maggioranza si perde nello spazio, senza alcuna conseguenza, ma alcuni vengono raccolti dall’altra carica e viceversa. Questo scambio di messaggeri, che possiamo chiamare ‘virtuali’ in quanto diventano reali solo se vengono raccolti, costituisce la forza di scambio tra le due cariche. La teoria che descrive l’interazione tra cariche elettriche e fotoni, chiamata elettrodinamica quantistica (QED, Quantum electrodynamics), ha avuto un enorme successo nel predire i risultati degli esperimenti ed è stata la base dell’odierna fisica delle particelle.
Nel 1932 il fisico Carl David Anderson, in uno studio sui raggi cosmici, scoprì una nuova particella con le stesse caratteristiche dell’elettrone, ma con carica positiva. La particella, chiamata positrone proprio per la sua carica, era stata prevista teoricamente alcuni anni prima dal fisico inglese Paul Adrien Maurice Dirac. La scoperta di Anderson fu completata anni dopo da quella dell’antiprotone (di carica negativa) e dell’antineutrone.
Nacque così il concetto di antimateria, un duplicato della nostra materia ordinaria, i cui costituenti sono caratterizzati dalla stessa massa, dallo stesso spin, ma con tutte le altre caratteristiche cambiate di segno. Per esempio, un elettrone ha un numero elettronico (un’altra sua proprietà) con il valore +1, mentre un positrone ha un numero elettronico pari a -1. Poiché il numero totale di elettroni nell’Universo è fisso e non può né aumentare né diminuire, un nuovo positrone può essere prodotto solo se nello stesso istante viene creato anche un nuovo elettrone, in modo che il numero elettronico resti invariato. L’antimateria non esiste allo stato naturale nel nostro Universo: una particella di materia e una di antimateria di massa m possono essere prodotte in urti in cui l’energia E sia maggiore di 2mc2 (la somma delle energie) e appena un’antiparticella incontra la sua corrispondente di materia, ambedue si annichilano in un lampo di energia, e scompaiono.
Com’è possibile che il nucleo contenga tanti protoni, tutti di carica positiva, senza esplodere sotto l’effetto della repulsione elettrica che agisce tra di loro? Che cosa costringe i neutroni ad affollarsi nello stesso spazio angusto? Dipende tutto dalla forza nucleare forte (v. fig.), una forza attrattiva per protoni e neutroni, molto maggiore di quella elettrica per distanze inferiori al raggio del nucleo (circa 10-13 cm) e trascurabile per distanze maggiori.
Il fisico giapponese Hideki Yukawa mostrò che gli intermediari di questa forza erano i pioni, particelle dotate di massa e con carica pari a 0,1 e -1, scoperti in seguito nei raggi cosmici.
Il quadro delle particelle e delle forze fu completato negli anni Trenta da due eventi: la scoperta dell’esistenza di particelle praticamente invisibili, i neutrini (insieme alle loro antiparticelle, gli antineutrini), con massa trascurabile, senza carica, ma dotate di spin 1/2; l’individuazione, dovuta a Enrico Fermi, della forza nucleare debole come responsabile del decadimento del neutrone in un protone, un elettrone e un antineutrino (radioattività), come pure dei decadimenti della maggioranza delle particelle pesanti scoperte nel corso degli anni. Si era quindi già arrivati a un quadro abbastanza soddisfacente della struttura elementare della materia: quattro fermioni ‘elementari’ – con le relative antiparticelle – , cioè il protone (antiprotone), il neutrone (antineutrone), l’elettrone (positrone) e il neutrino (antineutrino) costituivano tutta la materia esistente. Tra esse agivano quattro forze trasportate da bosoni: la forza elettromagnetica, trasportata dai fotoni, la forza nucleare forte, trasportata dai pioni, la forza nucleare debole e infine la forza di gravità che è del tutto trascurabile rispetto alle altre, date le piccolissime masse delle particelle.
Dopo la guerra cominciarono a entrare in funzione acceleratori di energia via via crescente per studiare in dettaglio queste particelle e cercarne di nuove. Il sorprendente risultato fu che, a ogni aumento dell’energia disponibile, venivano scoperte nuove particelle, prevalentemente bosoni di massa superiore al pione, ma anche particelle con le stesse caratteristiche del protone (che da qui chiameremo barioni, dal greco barùs «pesante»).
In meno di vent’anni si arrivò a quasi un centinaio di particelle che non si potevano più chiamare elementari! A differenza dell’elettrone e del neutrino, i quali risultavano puntiformi, protone, neutrone e tutte le nuove particelle scoperte avevano un raggio misurabile.
Una serie di esperimenti sugli urti elettrone-protone ad alta energia raggiunse la conclusione che il protone conteneva al suo interno un gran numero di particelle puntiformi, cui fu dato il nome di partoni, senza alcun dettaglio sulle loro caratteristiche.
Nel 1964 i fisici Murray Gell-Mann e Yuval Ne’eman elaborarono un modello in cui gli elementi di base della materia sono tre. Questi elementi, chiamati up, down, strange, sono fermioni, cioè hanno spin 1/2, e hanno una caratteristica inattesa: la loro carica è una frazione della carica dell’elettrone. L’elemento up ha carica 2/3 e il down e lo strange hanno carica -1/3. Gell-Mann e Zweig ebbero il coraggio di proporre che questi oggetti fossero la vera base della materia e dettero loro il nome di quark, una parola tratta da Finnegans wake, un romanzo dello scrittore irlandese James Joyce.
Nello schema di Gell-Mann e Zweig un protone risulta costituito da tre quark, due up con carica 2/3 e un down con carica -1/3, e quindi la sua carica totale è 1, mentre un neutrone è costituito da due quark down e un quark up, con carica totale 0. Nello stesso modo sono costituite le particelle pesanti dette barioni con la sostituzione di un quark strange al posto di un quark down. Inoltre nel modello a quark i bosoni sono tutte e sole le combinazioni possibili di un quark e un antiquark: per esempio un pione positivo è costituito da un quark up e un antiquark down. La corrispondenza tra combinazioni possibili e particelle già individuate sperimentalmente è risultata perfetta. Ciononostante, l’accoglienza riservata a questa proposta fu piuttosto fredda in quanto prevaleva l’idea che i quark fossero un utile artificio matematico, più che reali particelle.
Il chiarimento venne nel 1974 da nuovi, inattesi risultati sperimentali. Due diversi esperimenti scoprirono simultaneamente una particella, chiamata J/ψ, costituita da un nuovo quark, il charm, con carica 2/3, e dal suo antiquark. Questa particella (e tutta la sua famiglia che fu prontamente individuata) mostrò una forte somiglianza con il positronio, una specie di atomo costituito da un positrone al centro con il ruolo di un nucleo positivo, e un elettrone che gli ruota attorno. La precisione di questa analogia con una struttura reale e molto ben studiata portò la prova conclusiva della realtà dei quark. Essa fu inoltre suffragata nel 1977 dalla scoperta di una nuova particella di massa di 9440 MeV, che risultò essere costituita da un nuovo quark chiamato b (bottom oppure beauty), di carica -1/3 insieme al suo antiquark.
Restava comunque un problema fondamentale. Perché nessuno ha mai visto un quark in un esperimento, nonostante tutti i tentativi fatti? A questa domanda rispose la teoria sviluppata, in analogia con la elettrodinamica quantistica, per interpretare l’interazione tra quark e denominata cromodinamica quantistica (QCD, Quantum chromodynamics).
In questa nuova teoria al posto della carica elettrica della QED c’è una nuova carica che dà origine alla forza forte che lega i quark. Questa forza è trasmessa da bosoni di massa zero e spin 1, detti gluoni dalla parola inglese glue «colla», equivalenti ai fotoni nella QED. La carica forte è detta colore e si presenta in tre forme distinte, per cui un quark può essere rosso, verde o blu. Nessuna particella del mondo macroscopico può essere colorata, per cui un quark non può mai restare da solo e le uniche strutture costituite da quark che possono esistere libere sono i bosoni privi di colore, per esempio rosso-antirosso, e i barioni costituiti da tre quark, di tutti e tre i colori.
Se si tenta con un urto violento di estrarre un quark da un protone, il quark impiegherà l’energia che gli è stata ceduta nell’urto per produrre coppie quark-antiquark e l’unica cosa visibile sarà un getto di particelle ‘normali’, senza colore (v. fig.).
Proprio l’esistenza dei gluoni permette di interpretare l’apparente contrasto tra tre quark e molti partoni citato prima nello studio del protone: un proiettile lanciato contro un protone vedrà come bersagli al suo interno non solo i quark che lo costituiscono ma anche tutti i gluoni che vengono scambiati tra loro, dando l’impressione di molti bersagli.
Siamo così arrivati alla descrizione più attuale della struttura della materia. Essa è costituita da quattro fermioni, i due tipi di quark, up e down, l’elettrone e il suo neutrino. I quattro costituenti interagiscono tra loro con quattro forze: la gravità che trascuriamo, la forza elettromagnetica trasmessa dai fotoni, la forza forte trasmessa dai gluoni e la forza debole.
Le interazioni deboli rappresentano l’ultimo capitolo studiato e completano il quadro della teoria.
Con l’entrata in funzione di acceleratori capaci di produrre particelle con masse di centinaia di GeV (miliardi elettronvolt), come i collisori protone-antiprotone del CERN (Centro europeo per le ricerche nucleari) a Ginevra e del Fermilab vicino a Chicago e il «collisore elettrone-positrone» LEP (Large electron-positron collider) del CERN, sono state scoperte e studiate le particelle estremamente pesanti che fanno da messaggeri nelle interazioni deboli. Si tratta dei bosoni di spin 1, W, di massa 80 GeV, e Z, di massa 91 GeV, individuati dal fisico italiano Carlo Rubbia negli anni Ottanta.
La struttura delle famiglie di particelle e le loro interazioni rappresentano il cosiddetto modello standard che riassume la comprensione odierna della struttura della materia. Ogni processo è previsto e calcolato e l’accordo con i risultati sperimentali è buono.
Ma, nonostante questi successi, molti e fondamentali sono ancora i punti interrogativi. Il maggiore e più urgente è il fatto che non siamo ancora in grado di giustificare alcuna delle masse misurate per le particelle. Inoltre la gravità non è mai stata integrata insieme alle altre forze e non abbiamo ancora individuato le particelle che costituiscono la cosiddetta materia oscura, cioè la maggior parte della materia dell’Universo. Questo compito è affidato agli esperimenti destinati a svolgersi al CERN, dove è in via di costruzione il più grande acceleratore del mondo LHC (Large hadron collider, «grande collisore di adroni») che entrerà in funzione nel 2007.
È evidente che, date le loro dimensioni, le particelle elementari non sono visibili con i nostri sensi limitati. Possiamo però vedere le tracce che le particelle cariche lasciano quando, viaggiando a una velocità prossima a quella della luce, attraversano un gas o un liquido o un solido.
I primi grandi rivelatori di particelle sono state le camere a bolle. Una particella che passa attraverso un contenitore di liquido quasi in ebollizione colpisce una fila di atomi sul suo cammino strappando a ognuno uno o più elettroni. Gli atomi diventano ioni carichi che fungono da ‘semi’ attorno a cui nasce una fila di piccole bollicine. Fotografando rapidamente l’acqua si fissa così l’immagine della traccia della particella. Le tracce risultano curve perché la camera è immersa in un campo magnetico che permette di misurare la carica e la velocità della particella proprio dalla curvatura della traiettoria imposta alla particella.
Negli anni Ottanta del secolo scorso si sono diffusi i rivelatori a gas (v. fig.), che hanno maggiore velocità di risposta. Di nuovo viene utilizzata la ionizzazione degli atomi colpiti dalle particelle che attraversano il dispositivo. Ma questa volta i protagonisti della rivelazione sono gli elettroni strappati. Essi sono attratti da campi elettrici verso una serie di finissimi fili conduttori posti su un lato del rivelatore. Questi rivelatori hanno il grande vantaggio di essere molto veloci e possono essere interrogati al momento preciso in cui avviene l’interazione con le particelle.
Negli ultimi quindici anni hanno preso piede i rivelatori solidi, costituiti da lastrine di silicio (v. fig.): sulle due facce della lastrina sono impiantate, come nei chip, sottilissime linee parallele di metallo che raccolgono gli elettroni estratti dalla particella nell’attraversare il materiale.
Tutti questi rivelatori sono disegnati per rivelare la traiettoria, la velocità e il segno della carica delle particelle cariche che li attraversano. Per misurare l’energia di queste particelle e per rivelare quelle neutre, come fotoni e neutroni, occorrono altri dispositivi in grado di frenare le particelle grazie al loro spessore e alla loro massa producendo un segnale elettronico proporzionale all’energia delle particelle. Essi sono in generale realizzati con lastre di piombo o di ferro alternate a piani di rivelatori capaci di dare un segnale per ogni particella che li attraversa.