Partiti e movimenti
I grandi eventi politici e militari che condussero all’unificazione italiana furono il risultato dell’azione di una parte ristretta ma via via sempre più estesa delle popolazioni degli Stati preunitari. Tale azione raramente fu una conseguenza di moti spontanei e incontrollati mentre molto spesso apparve come esito di iniziative organizzate da gruppi, comitati, partiti, associazioni, circoli il cui intento politico era variamente e irregolarmente orientato da ideali, culture, interessi materiali e religiosi. Benché labili dal punto di vista della stabilità organizzativa, le realtà associative che in questi anni operarono in Italia con l’intento di favorire, se non imporre, una visione politico-ideale, anche quando fallirono, furono determinanti nel permettere la sperimentazione di quel meccanismo psicologico, prima ancora che politico, con cui si definisce il rapporto di comando/obbedienza sempre presente, per quanto debole o poco vincolante, all’interno delle organizzazioni politiche. Anche negli anni successivi al 1861, quando ai vincitori la strumentalità dell’organizzazione apparve superflua in un sistema di libertà, il divario crescente tra Stato e società impose nuovamente – all’interno della sfera pubblica – il problema dell’organizzazione politica di parte.
Il partito, come strumento che andava al di là delle naturali divisioni all’interno della «classe che governa», sembrò a lungo, ai successori di Cavour, un residuo destinato a estinguersi con la trasformazione in senso liberale della società. In realtà, terminata l’emergenza dei primi anni postunitari, si cominciò ben presto ad avvertire l’effetto della contaminazione del modello delle pur esecrate formazioni antisistema con la loro capacità di imporre quella peculiare forza vincolante dell’obbligazione, indispensabile per confrontarsi sul terreno della lotta politica anche in funzione della conquista del consenso elettorale.
Già negli anni del Risorgimento, insomma, il partito era percepito come un crocevia indispensabile, indipendentemente dalla sua forma organizzativa, per presentarsi in modo credibile sull’arena politica. Come disse Agostino Bertani nel 1863, sfidando persino il mito dell’azione diretta con cui Garibaldi aveva sino ad allora cercato di operare: «non vi ha uomo per quanto potente di braccio, […] per quanto amato e seguito da popolo, che possa riuscire in un’impresa quando prima non se la intenda col proprio partito» (La Salvia 1999).
La presenza nella penisola italiana, sin dagli anni della Restaurazione, di forze politico-ideali in qualche modo riconoscibili pubblicamente era più o meno direttamente influenzata dal punto di vista ideale soprattutto dall’esigenza di sostenere o respingere i princìpi della rivoluzione francese. Decisamente ostili al retaggio delle nuove idee esportate dalle truppe napoleoniche furono i controrivoluzionari che si richiamavano alla dottrina cattolica e che, dopo il 1815, moltiplicarono in diverse parti della penisola attività e iniziative editoriali e associative – ridotte sia dal punto di vista della partecipazione sia da quello della diffusione – con cui s’intendeva non solo appoggiare la restaurazione al trono dei sovrani scalzati da Napoleone, ma soprattutto impedire la diffusione dell’ateismo e del razionalismo come precipitato culturale della rivoluzione. Nel 1817, dalle ceneri dell’antica Amicizia Cristiana nacque a Torino Amicizia cattolica che raccolse consensi in una parte dell’aristocrazia e della cultura controrivoluzionaria piemontese.
Egualmente ridotto dal punto di vista numerico, ma in decisa crescita dopo la metà degli anni Trenta, apparve l’associazionismo politico e intellettuale riguardante la cultura liberale, che in diversa misura guardava invece a un programma di allargamento delle libertà. Da questo punto di vista è importante registrare in questi anni la nascita di un fitto reticolo associativo a scopo sociale, economico e culturale che costituì, per i notabili liberali destinati a formare le future classi dirigenti, un prezioso strumento per conoscersi, stringere relazioni, discutere dei problemi della comunità locale e nazionale. In questi ambiti prepolitici, infatti, si fuoriusciva dalla vecchia logica dei circoli ricreativi, puntando a ricavare un utile sociale per l’intera comunità. Erano associazioni agrarie, casse di risparmio, società per la costruzione di teatri, società storiche, circoli di lettura, in grado di elaborare e diffondere «opinione pubblica», promuovendo spesso un dibattito di tipo assembleare che, come ricorderà Marco Minghetti, costituirà una palestra di indubbio valore per chi sarà chiamato di lì a breve a confrontarsi con la politica attiva. Quei ristretti ambiti associativi scopertamente politici erano costretti a mantenere le caratteristiche di elitaria segretezza e (in alcune componenti) di settarismo, tratti già presenti nel periodo napoleonico e destinati ad accentuarsi negli anni successivi al Congresso di Vienna, visto che nessun regime restaurato prevedeva alcuna libertà d’associazione.
Le due grandi componenti del liberalismo, che semplificando si possono definire moderata e rivoluzionaria, avevano nel complesso un’aspirazione comune che in estrema sintesi mirava a un progetto di indipendenza dall’influenza straniera nella penisola e a quello, connesso, di una più o meno accentuata estensione delle pubbliche libertà e della partecipazione dei cittadini al funzionamento del sistema politico. Comune era anche l’apprezzamento per i principali motivi ispiratori della rivoluzione francese del 1789. Sino alla vigilia del 1848, però, non sempre si sarebbe potuto tracciare un confine netto tra le due anime del liberalismo, visto che non pochi dei liberali che alimentavano il fenomeno delle crescenti iniziative editoriali e dell’associazionismo economico e culturale erano anche protagonisti dell’attività cospirativa. In Piemonte, tuttavia, il movimento liberale seppe sfruttare l’ambizione espansionistica di Carlo Alberto, trovando un momento di sintesi nella comune avversione all’influenza austriaca in Italia. Il ruolo attivo della monarchia, per quanto inizialmente avversa a concessioni di stampo liberale, favorì l’emersione di una giovane generazione che si allontanò dalle suggestioni del liberalismo settario e del mazzinianesimo per approdare a una collaborazione con il sovrano.
In generale, comunque, un po’ in tutta la penisola, gli anni Quaranta favorirono, nella disarticolata galassia di personalità, giornali, sette, opinioni che definiamo liberali, processi di distinzione soprattutto sui tempi e sugli strumenti d’azione. La componente più moderata preferiva insistere sulla necessità della formazione di una nuova classe dirigente, della diffusione dei programmi oltre che sull’importanza della persuasione morale e della crescita di un’opinione pubblica favorevole alla trasformazione politica e costituzionale degli Stati italiani. In questo contesto ideale si collocarono le opere di Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Giacomo Durando, Massimo d’Azeglio. Questi scritti fornirono le basi politiche e propagandistiche ideali per la definitiva distinzione tra liberalismo moderato e rivoluzionario. Dal punto di vista organizzativo, infatti, i liberali più attenti al rispetto della legalità e inclini a guardare all’indipendenza nazionale come al prodotto della graduale diffusione di una maggiore libertà sottolineavano la necessità di operare per via informale facendo leva sull’influenza intellettuale e su un’attività pubblicistica e giornalistica, politicamente impegnata. La grande eco di tali lavori presso l’opinione pubblica fu determinante per dare impulso a una nuova prospettiva di unificazione nazionale che, ripudiando il metodo insurrezionale, si orientava verso l’ipotesi federalista e, indipendentemente da chi avrebbe presieduto la federazione italiana, verso un politicamente proficuo incontro tra cultura cattolica e cultura liberale. Se tale illusione, e in particolare il progetto del neoguelfismo giobertiano, era destinata a tramontare in seguito alla fuga di Pio IX a Gaeta, non altrettanto avvenne per la visione di una nazione da costruire attraverso un paziente intreccio di risorse istituzionali.
La componente rivoluzionaria, erede diretta della tradizione giacobina, poneva invece l’accento sulla necessità di un’azione concreta e più diretta, in grado, anche con iniziative extralegali e violente, di liberare la penisola da influenze straniere e mettere fine ai regimi assolutisti.
L’organizzazione più rilevante in questo ambito, incontrastata sino agli anni Trenta, fu la carboneria, la cui ispirazione patriottica e liberale si era forgiata sull’ostilità al regime di occupazione napoleonico. Diffusa anche in altri paesi europei e fortemente influenzata dalla massoneria, la carboneria, le cui origini rimangono incerte, operava come società segreta con l’obiettivo di abbattere l’assolutismo e favorire l’indipendenza nazionale in una cornice istituzionale repubblicana, anche se su questo punto le posizioni non erano del tutto omogenee. La struttura organizzativa era basata su singole e autonome associazioni con programmi locali, inquadrate su nove livelli gerarchici che culminavano nell’Alta e Potentissima Assemblea. Provvista di un complesso rituale d’iniziazione, che prevedeva tra l’altro un giuramento e la condanna a morte per i traditori, la carboneria, che vide passare tra le sue file, in modo più o meno fugace, numerosi protagonisti del Risorgimento, non riuscì a liberarsi del carattere esoterico tipico della setta segreta. Linguaggio e complessi rituali unitamente a un programma conosciuto solo dai vertici ne impedirono la diffusione e la resero più debole di fronte ai primi insuccessi operativi.
Fu tuttavia la Giovine Italia a occupare quasi completamente lo spazio politico della corrente del liberalismo rivoluzionario. Giuseppe Mazzini ne fece uno strumento per giungere all’unificazione nazionale attraverso un nuovo modo di concepire il ruolo del popolo e dell’organizzazione politica. Non volle comunque rompere i legami con le altre realtà cospirative, in particolare con Filippo Buonarroti che in quegli anni aveva dato vita ai Veri italiani, una setta venata fortemente di ideali socialistici. La Giovine Italia viene considerata la prima formazione politica moderna perché, pur mantenendo le caratteristiche di un’associazione clandestina, si era dotata di un programma pubblico, e perché si percepiva come strumento di educazione politica e morale. Mazzini dichiarò esplicitamente nella Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia che mezzi e scopo dell’associazione dovevano essere l’educazione e l’insurrezione. Inoltre l’Associazione, che poteva contare su un proprio periodico e sulla saltuaria pubblicazione di opuscoli e giornali, si auto-finanziava mediante la riscossione delle quote degli aderenti. Il numero degli affiliati crebbe rapidamente anche grazie al proselitismo pubblico favorito dalla presenza di un programma noto a tutti e di una buona rete di collegamenti interni garantita dai cosiddetti «viaggiatori». Il loro ruolo era quello di facilitare l’omogeneizzazione politica e la forma unitaria dell’azione cospirativa delle «congreghe» provinciali (nominate da quella centrale) sparse per tutta la penisola e che nel 1833 raccoglievano circa 12.000 affiliati (alcune fonti ritengono 50.000).
Per Mazzini, tutti i popoli erano chiamati a dedicare le proprie energie alla liberazione dall’oppressione dello straniero e dei tiranni e non a caso nel 1834 egli fondò la Giovine Europa, definita un «patto di alleanza tra i popoli d’Europa». L’attenzione verso il sociale, come momento decisivo di educazione alla politica consapevole, invece si declinò, dal punto di vista organizzativo, nella creazione a Londra, dove viveva in esilio, nel 1841, di una branca della Giovane Italia: l’Unione degli operai italiani dotata di un proprio periodico, «L’Apostolato Popolare».
La Giovine Italia raccolse maggiori adesioni nello Stato pontificio, nel Regno delle Due Sicilie e nel Regno di Sardegna, Stati in cui la carboneria fu protagonista – rispettivamente nel 1817, 1820 e 1821 – di moti falliti che causarono la crisi dell’organizzazione. Mazzini, un affiliato testimone di quella crisi, proprio nei limiti organizzativi e del programma carbonaro seppe cogliere l’occasione per rompere con il settarismo e rilanciare nel 1831, con la Giovine Italia, il progetto di lotta ai regimi assoluti e di unificazione nazionale. Vicini alle posizioni della carboneria ma favorevoli a un sistema di monarchia costituzionale furono i «federati», cioè coloro che aderirono alla Federazione Italiana, sorta su spinta della sede centrale parigina della carboneria, con l’intento di cercare consensi tra i patrioti più moderati del Piemonte e della Lombardia.
La Giovine Italia, con la sua capacità d’influenza su migliaia di giovani di ogni ceto sociale (a esclusione del mondo contadino), e nonostante i numerosi insuccessi militari, i fallimenti delle azioni cospirative e le parziali eclissi operative, impresse nelle generazioni che si apprestavano a vivere l’ondata rivoluzionaria del 1848 un nuovo modo di concepire e organizzare la lotta politica come impegno etico totalizzante, strumento militante di trasformazione della sfera pubblica: si trattava, per Mazzini, di un «piccolo» Stato destinato a entrare a far parte dello Stato vero e proprio e a trasformarlo.
Il profondo rivolgimento politico causato dai moti del 1848 ebbe, tra le tante conseguenze, quella di mettere in moto un’intensificazione dell’attività politica anche dal punto di vista organizzativo. Le costituzioni concesse sotto l’incalzare degli eventi, indipendentemente dalla loro più o meno effimera durata, garantivano ai cittadini, quantomeno implicitamente, il diritto di associarsi politicamente facendo così emergere il fenomeno sommerso dell’intensa attività politica degli anni che precedettero il biennio rivoluzionario. Infatti, a partire dal 1846, quando l’elezione del nuovo pontefice Pio IX sembrò confermare le aspettative del progetto nazionale neoguelfo, si formarono nuovi centri di dibattito politico-intellettuale e si accrebbero le spinte per accordi tra gli Stati della penisola. In realtà, il fallimento delle numerose speranze e delle diverse ipotesi corrispondenti ad altrettante fasi del periodo 1846-49 (il neoguelfismo, il cauto riformismo, l’insurrezionalismo, l’ambigua guerra di Carlo Alberto giocata sia sul versante annessionistico sia su quello federativo, la fase democratica degli esperimenti «repubblicani» a Roma e Venezia) sembrò dimostrare con i fatti la debolezza sia della prospettiva neoguelfa sia di quella mazziniana, ispiratrice del breve esperimento della Repubblica romana. Gli eventi del 1848-49, al di là della capacità di recupero dell’esercito asburgico, avevano messo in luce il crescente divario all’interno della galassia liberale tra la componente moderata e quella democratica. L’obiettivo comune dell’indipendenza non aveva eliminato le apprensioni dei gruppi dirigenti moderati nei confronti dei possibili eccessi democratici dei processi costituenti.
Tra le macerie della rivoluzione era tuttavia rimasto ancora integro lo Statuto albertino con tutto ciò che comportava in termini di speranza di ripresa delle aspirazioni risorgimentali e di rafforzamento delle libertà politiche. Di fatto, dalla sconfitta del 1848-49 emerse una sorta di nuovo e ibrido progetto politico incentrato sul recupero della cultura moderata attraverso una nuova leva operativa, il governo costituzionale del Regno di Sardegna che, sotto la guida di Cavour, acquisì un profilo parlamentare trasformandosi in una vera e propria centrale organizzativa del progetto annessionistico-unitario della monarchia sabauda.
Fu proprio per integrarsi nel mosaico di forze che in tutta la penisola guardavano al Piemonte come motore di una possibile unificazione che Mazzini, la cui azione continuava a essere, anche in Piemonte, fuori legge, sciolse la Giovine Italia per dar vita all’Associazione nazionale italiana, nella convinzione che il problema della guerra per l’indipendenza fosse prioritario rispetto a quello della democrazia, sebbene nei suoi appelli venne sempre ribadita la necessità che la rivoluzione fosse anche sociale. Con l’Associazione nazionale Mazzini intendeva far nascere un movimento politico non clandestino che, interagendo con le forze moderate, potesse influenzare direttamente gli auspicati processi di unificazione in corso, indirizzandoli verso una successiva fase costituente. Contemporaneamente diede vita a un Comitato centrale democratico europeo (1850) per collegare i diversi esponenti delle cause nazionali del Centro-Europa e dei Balcani. L’Associazione nazionale si fece promotrice della raccolta di fondi per la liberazione del paese, mostrandosi particolarmente attiva in Liguria, in Piemonte e in Lombardia, dove vi furono, tra il luglio 1851 e la fine del 1852, circa un centinaio di arresti che si conclusero con l’impiccagione a Belfiore, alle porte di Mantova, di dieci patrioti. Il fallimento di un moto scoppiato a Milano nel febbraio 1853, sulla cui opportunità si erano divisi gli stessi mazziniani, inferse un duro colpo al progetto di Mazzini che sperava ancora di mettere l’insurrezione popolare al centro dell’iniziativa politica unitaria. Dopo quel fallimento egli fondò il Partito d’azione, con cui intendeva dare un profilo più militante e operativo alla sua attività cospirativa. Nel 1857, organizzò a Genova un tentativo di impadronirsi di armi che fallì come peraltro la concomitante spedizione di Carlo Pisacane a Sapri, promossa peraltro con l’intento di affrontare il problema dell’indipendenza sulla base delle contraddizioni poste dalla questione sociale e dal conflitto di classe ignorato da Mazzini.
Le continue sconfitte delle iniziative mazziniane spinsero molti esponenti dell’intellighenzia democratica (tra cui, decisivo, Bertani) a pensare a una alternativa operativa o ad avvicinarsi al pragmatismo del progetto piemontese, rinunciando alla tradizionale pregiudiziale antimonarchica. In particolare Daniele Manin, protagonista della resistenza della Repubblica veneziana nel 1849, si allontanò definitivamente da Mazzini, fondando nel 1857 la Società nazionale a cui, tra gli altri, aderì anche Giuseppe Garibaldi. La nuova organizzazione si poneva l’obiettivo di recuperare al progetto unitario l’intera galassia dei democratici, disillusi circa la credibilità della sterile strategia mazziniana. Dopo la morte di Manin, la Società fu rivitalizzata dall’avvocato siciliano, esule in Piemonte, Giuseppe La Farina che la utilizzò per coordinare e incanalare le nuove forme di organizzazione sorte a livello locale tra il 1859 e il 1860, favorendo la strategia cavouriana per il radicamento dell’egemonia sabauda. La forza di penetrazione della Società nazionale che, non dimentichiamo, agiva alla luce del sole nel Regno di Sardegna e clandestinamente altrove, consisteva nel mettere in secondo piano il problema della forma politica statale a cui venivano sempre anteposte l’indipendenza e l’unificazione italiana.
In virtù di queste premesse la Società seppe conquistare la fiducia di una cospicua componente del movimento democratico più moderato che, nel giro di pochi anni, grazie anche ai successi delle campagne del 1859-60, si trovò a orbitare stabilmente attorno alla prospettiva monarchica. Si trattò di una sfida che mirava a estendere le basi del movimento unitario e che, raccolta dai democratici, si presentò come primo grande momento di sintesi del movimento liberale in cui venivano riconosciuti ruolo e importanza delle componenti popolari nel perseguire il processo di unificazione nazionale. La Società, che aveva come proprio organo di stampa il settimanale «Il Piccolo Corriere d’Italia», era organizzata in un comitato centrale e in comitati provinciali e municipali (se ne contavano 94 alla fine del 1859), per aderire ai quali era sufficiente fare domanda scritta e accettarne il programma che nel 1860 era ormai sintetizzato dalle parole indipendenza, unificazione e casa Savoia.
Più in generale, comunque, dal punto di vista delle organizzazioni politiche, il periodo che va dal 1859 al 1861 mise in mostra significativi fermenti associativi in stretta relazione con la tumultuosa e rapida evoluzione della «questione italiana». Ovunque nella penisola, di fronte al collasso degli antichi regimi, si moltiplicavano, spesso a partire da esigenze operative, forme di aggregazione politica, riflesso degli avvenimenti in corso e dell’intenso dibattito sui caratteri, i tempi e i modi dell’unificazione. Il fenomeno appariva decisamente vivace nelle regioni centro-settentrionali e in particolare a Milano, Bologna, Livorno e nelle Marche, contribuendo a ridisegnare la nuova dislocazione delle forze liberali. Al progetto cavouriano sostenuto dalla Società nazionale si affiancò per un breve periodo quello di alcuni settori democratici in polemica con le cautele del costituzionalismo parlamentare che, sostenuti informalmente dagli ambienti piemontesi ostili a Cavour, a partire dallo stesso sovrano, convinsero Garibaldi ad abbandonare la presidenza onoraria della Società nazionale per assumere quella della Nazione armata, evoluzione di un’altra associazione, i Liberi comizi con cui Urbano Rattazzi, verso la fine del 1859, aveva voluto sfidare Cavour anche sul piano organizzativo. La Nazione armata aveva per obiettivo l’unificazione sotto l’egida dei Savoia, ma il suo carattere ambiguo, monarchico e popolare allo stesso tempo, incontrò le ostilità degli ambienti liberali delle regioni centrali e di quelli dell’influente diplomazia britannica, determinandone una rapida fine. Nel complesso Cavour, attraverso l’azione aggregante della Società nazionale, tendeva a ridurre l’autonomia dell’azione di Garibaldi, pur favorendolo negli obiettivi, come in occasione della campagna per «il milione di fucili», avviata dal condottiero nizzardo e sostenuta da un fondo controllato di fatto da La Farina. Per sfuggire al controllo governativo, Bertani diede vita a una Cassa centrale di soccorso a Garibaldi e ai Comitati di soccorso che, pur nell’unità degli scopi pratici, intendevano porre le basi per dare – come ebbe a dire Bertani – «forza e partito» al programma e al prestigio militare di Garibaldi. Su queste basi presero forma, in molte località, i Comitati di provvedimento, strumenti attraverso cui, raggiunta l’unificazione, il generale intendeva proseguire l’azione politico-militare per conquistare all’Italia Roma e Venezia.
La Camera dei deputati del Regno di Sardegna (eletta per la prima volta nell’aprile del 1848) rappresentò un’importante palestra istituzionale per l’organizzazione parlamentare di alcune grandi correnti politiche. Da quel momento, sull’esempio della tradizione francese, cominciarono a essere utilizzati i termini di destra e sinistra relativamente alla collocazione dei seggi rispetto al presidente della Camera. Nei banchi dell’estrema destra sedeva, guidato dal conte Clemente Solaro della Margarita, il gruppo dell’antiliberalismo legittimista, sostenitore di una politica filo-austriaca e sensibile alle richieste del cattolicesimo più tradizionalista. Esisteva poi il centro-destra, a cui aderì Cavour appena eletto nel 1849. Tale gruppo di deputati, spesso assecondati da quelli della destra clericale, costituiva il principale nucleo di sostegno al governo. A queste formazioni si contrapponevano una sinistra moderata, che faceva capo a Rattazzi, favorevole all’annessione della Lombardia e fautore nel 1849 dello sfortunato tentativo di riprendere la guerra contro l’Austria, e una sinistra democratica che, guidata da Lorenzo Valerio, Antonio Mordini, Agostino Depretis e Angelo Brofferio, aveva rinunciato alla pregiudiziale repubblicana accettando l’ambito parlamentare per battersi a favore di una trasformazione in senso progressista del sistema. Tali gruppi si identificavano con le personalità politiche che li guidavano e avevano nei loro organi di stampa il principale strumento di riferimento organizzativo e di comunicazione pubblica, secondo una modalità che si apprestava a diventare una tradizione della vita politica ottocentesca. Nel corso dei primi anni di vita parlamentare, infatti, le redazioni dei più importanti giornali surrogavano spesso la mancata formalizzazione di gruppi e correnti parlamentari, ricoprendo un ruolo di indirizzo e di proposta che ebbe un rilievo notevole nel dibattito politico. « Il Risorgimento» era l’organo del gruppo moderato cavouriano, spesso in polemica con «La Concordia» prima, «L’Opinione» e «Il Diritto» poi, espressioni del centro-sinistra; agli estremi si registrava la battagliera presenza dell’organo dei cattolici «L’Armonia» e dell’intransigente alfiere della sinistra radicale «Il Progresso».
La dislocazione politica e topografica dei partiti parlamentari piemontesi venne sconvolta già nel 1850 dalla presa di posizione di Cavour a favore della libertà di stampa e delle leggi Siccardi, con cui, avviando la laicizzazione del Regno, di fatto confermava in ambito istituzionale la prospettiva modernizzatrice che aveva già caratterizzato la sua azione in campo economico. Da allora Cavour avviò il distacco del suo gruppo dalla destra clericale avvicinandosi al centro-sinistra di Rattazzi, operazione che culminò nel 1852 con il cosiddetto «connubio», cioè l’esplicita enunciazione di un’alleanza parlamentare destinata a fornire la base della maggioranza dei suoi futuri governi e a ridurre la forza dell’ala democratica del Parlamento. Tale maggioranza permise il consolidamento in senso liberale e costituzionale del sistema restringendo il raggio d’azione della destra e limitando le tentazioni antiparlamentari di Vittorio Emanuele II.
All’indomani dell’unificazione del paese, il Parlamento subalpino divenne nazionale mantenendo, a livello politico, l’identificazione con la variegata galassia del liberalismo italiano. La sua composizione riproduceva, a grandi linee, la divisione politica che aveva accompagnato le vicende risorgimentali: da un lato la componente moderata e governativa che si riconosceva nella politica cavouriana, dall’altro, all’opposizione, la componente democratica che, pur avendo abbandonato le pregiudiziali repubblicane e antisistemiche, affondava le proprie radici politiche nell’azionismo garibaldino e nella cultura mazziniana. Due realtà che, negli anni successivi, sotto l’etichetta di Destra e Sinistra, finirono per attirare a sé raggruppamenti di parlamentari piuttosto eterogenei, spesso aggregati sulla base di appartenenze regionali o dell’influenza di singole personalità politiche. Per limitarci ad alcuni esempi, la Destra «toscana», la Sinistra «meridionale» e la Consorteria «emiliana» erano espressione di un multiforme universo liberale che non si fondava né sull’organizzazione, né tantomeno sul partito extraparlamentare, per strutturare la sfera di una «politica» che si esauriva nell’incessante attività di dibattito e mediazione parlamentare a sostegno o meno del governo e degli interessi regionali.
Anche la classe dirigente italiana, sulla scorta del pensiero liberale europeo, giudicava estremamente pericolosa qualsiasi ipotesi di partito organizzato al di fuori del Parlamento. Per il moderato Bonghi «i partiti politici sono essenzialmente partiti che dividono la classe che governa» (Bonghi 1933, p. 19). Nonostante l’assenza di appartenenze politiche rigide e l’avvio di un processo di omogeneizzazione della classe politica, all’indomani dell’Unità i parlamentari di Destra e di Sinistra continuarono a rappresentare, sull’onda delle divisioni emerse nel processo di unificazione nazionale, due raggruppamenti effettivamente contrapposti e alternativi. La percezione di un’identità e di una appartenenza politica forgiata sul terreno del conflitto risorgimentale, e come tale non facilmente riassorbibile, restò viva nei parlamentari quantomeno sino alla fine degli anni Settanta.
La Destra storica rappresentava indubbiamente l’espressione più matura e consapevole della classe dirigente. Essa era composta, per lo più, da ristrette élites dell’Italia centro-settentrionale, i cui legami erano stati ulteriormente rafforzati dalla convinta adesione al progetto dinastico dei Savoia e dalla fedeltà alla vicenda risorgimentale cavouriana. Una prospettiva che, per cultura e contingenza storica, rifiutava di considerare nel proprio programma qualsiasi tematica riconducibile alle questioni della democrazia e dell’inserimento delle masse nello Stato: «Il più delle volte sono gruppi di uomini che gli studi, le consuetudini, e spesso anche le cospirazioni e gli esigli accostarono tra loro assai prima che fossero riuniti nella stessa aula parlamentare» (A. Guerrieri Gonzaga, cit. in Salvestrini 1965, p. 80).
L’eterogeneità in termini di cultura, tradizioni e interessi di queste élite non era ridimensionata dalla convinta adesione a un progetto politico unitario e dall’aristocratica convinzione delle finalità «etiche» del «fare gli italiani». Secondo il senatore lombardo Stefano Jacini «la Destra storica era stata un aggregato di uomini, per temperamento, per antecedenti e per convinzioni, disparatissimi, messi insieme dalle esigenze di un elevato e patriottico opportunismo, negli anni della lotta per l’esistenza nazionale; concordi solo riguardo al modo con cui siffatta lotta si doveva combattere» (Jacini 1889, p. 225).
Complici le difficoltà dell’azione di governo, le divisioni interne al gruppo della Destra emersero in maniera piuttosto evidente negli anni successivi all’unificazione. Emblematica, a questo proposito, la frattura tra la componente piemontese e quella tosco-emiliana (definita dagli avversari «consorteria»), che si delegittimavano reciprocamente con l’accusa di ambizioni egemoniche nella gestione dell’amministrazione pubblica. La stessa «consorteria», peraltro, era composta da due correnti, che si confrontavano sulla questione dell’impianto amministrativo del paese, e che riflettevano le due anime del moderatismo: al progetto dell’emiliano Minghetti, favorevole al decentramento, si contrappose l’azione del toscano Bettino Ricasoli, successore di Cavour, volta a ribadire la necessità dell’accentramento.
Queste divisioni, tuttavia, non mettevano in discussione i rapporti di forza parlamentari alla Camera. Non deve sorprendere, quindi, che nel momento stesso in cui si assisteva a una proliferazione dei raggruppamenti politici – tanto che «con pochissimo sforzo potremmo trovare almeno una dozzina di Destre e una mezza dozzina di Sinistre, senza contare i Centri [...]» («La Nazione», 8 novembre 1872, cit. in Cammarano 1999, p. 30) – si avviasse quel processo di allentamento delle frontiere ideologiche tra i due schieramenti tradizionali in conseguenza del quale «gli uomini più eminenti di Destra e di Sinistra, della maggioranza e dell’opposizione si trovano ora in condizioni tali che davvero sarebbe poco agevole il definire il confine che separa gli uni dagli altri in fatto di princìpi» («L’Opinione», 9 dicembre 1871, ibid.).
Francesco De Sanctis era convinto che questa confusione per cui «non sappiamo più cosa è Destra e cosa è Sinistra, e cosa vogliamo e dove andiamo» dipendesse dalla mancanza di «fibra» e di «coltura in tutti gli strati, o almeno negli strati più elevati»; ciò che mancava era «una classe politica che [avesse] fede in certe idee, e le soste[nesse] virilmente e se ne fac[esse] propagatrice» (De Sanctis 1998, pp. 57-58). Anche la Sinistra non brillava per coesione interna. L’impressione era che «se l’opposizione fosse stata compatta, l’indomani della pubblicazione della legge delle guarentigie, avrebbe potuto aspirare al governo, ma essendo essa divisa quanto, se non più, della maggioranza, questa poté durare al potere qualche anno ancora» (Zanichelli 1898, p. 86).
Per gli uomini provenienti dalle varie tradizioni del liberalismo democratico e repubblicano, una volta acquisita – dopo la sconfitta di Mentana – la consapevolezza dell’impossibilità di azione sul terreno militare e del confinamento al ruolo di minoranza parlamentare, si profilò un «rompete le righe» rispetto alle culture politiche di provenienza. La Sinistra, divisa al proprio interno, si orientò verso un lungo periodo di opposizione al governo degli eredi di Cavour. Le sue componenti principali erano costituite dalla Sinistra del Parlamento subalpino, capeggiata da Depretis, e dai democratici di derivazione mazziniana e garibaldina, le cui personalità più autorevoli erano Francesco Crispi, Giovanni Nicotera, Benedetto Cairoli e Agostino Bertani. A queste due anime si collegò una parte consistente della deputazione meridionale, benché tale adesione fosse determinata più da un’avversione alla politica della Destra che non da una reale contiguità ideologica. La generica prospettiva di un liberalismo progressista non poteva essere sufficiente per definire la fisionomia politica di una Sinistra che, fino alla prima metà degli anni Sessanta, rimase in gran parte legata al mito della partecipazione popolare al completamento dell’unificazione territoriale del paese.
Una nuova fase, per l’opposizione, si aprì invece dopo il 1867, all’indomani del fallimento del progetto garibaldino di occupare Roma. «Finito il garibaldinismo – scrisse Bertani a Crispi – ognuno deve agire secondo le proprie convinzioni» (Crispi 1912, p. 330). E le convinzioni erano davvero molteplici se si considera che nell’ottobre 1867, a contrapporsi al governo della Destra, presieduto da Menabrea, vi era una composita opposizione parlamentare in cui si distinguevano il Centro-Sinistra di Rattazzi, il Terzo partito di Mordini, Nino Bixio e Depretis, la Sinistra di Crispi e la Permanente, un raggruppamento di parlamentari piemontesi guidato da Gustavo Ponza di San Martino. Se nei cinque anni successivi all’Unità le generiche esigenze di rinnovamento e di apertura verso le istanze popolari si erano tradotte nell’opposizione al progetto di accentramento amministrativo e alla forte pressione fiscale, una volta esaurita la fase propulsiva delle vicende risorgimentali esse furono progressivamente invocate da numerosi settori della società esclusi o insoddisfatti della politica della Destra.
Alcuni settori della Sinistra, consapevoli della propria subalternità all’interno del sistema politico, nel tentativo di modificare gli equilibri politici, optarono per un cauto riformismo amministrativo e tributario che, pur sacrificando qualsiasi ambizione in termini di progettualità politica, si riteneva potesse scardinare l’egemonia parlamentare della Destra. Questo era l’obiettivo della Sinistra meridionale che, nel 1867, iniziò a raccogliersi in Parlamento attorno a De Sanctis, mentre, con l’ingresso italiano a Roma, Rattazzi e lo stesso De Sanctis divennero gli ispiratori di una Sinistra «giovane» che prendeva le distanze da quella «storica» proprio per l’abbandono della pregiudiziale delle grandi riforme politiche.
Questo tipo di opposizione trovava il proprio bacino di provenienza principale nel Mezzogiorno, riuscendo a coinvolgere ampie fasce dei ceti medi e della borghesia agraria che scorsero nella Sinistra non tanto lo strumento che avrebbe permesso una democratizzazione del sistema politico, quanto piuttosto un utile canale attraverso cui ridefinire i rapporti di forza tra le varie componenti regionali presenti in Parlamento. Nel breve periodo l’obiettivo era quello allentare i drastici vincoli di bilancio imposti dalla Destra, ritenuti ingiustamente punitivi da gran parte della realtà meridionale. Così a fronte di un’Italia centro-settentrionale in cui l’originaria matrice azionista della Sinistra stava progressivamente traducendosi in una concezione di liberalismo più avanzato e aperto alle istanze di cauto progresso sociale, nel Mezzogiorno la fisionomia della Sinistra appariva decisamente più complessa. Divisa tra il risentimento conservatore del notabilato escluso dal potere e il volontarismo dei garibaldini, la Sinistra meridionale tradusse in maniera emblematica la rinuncia dell’opposizione costituzionale a individuare una propria identità politica anche al di fuori del negoziato parlamentare e sulla base di un programma alternativo a quello della Destra. «Signori – disse nel 1874 De Sanctis alla Camera – che un’opposizione principalmente politica metta ogni volta il sì ed il no, sia pure; ma io credo che in questione di riforme e di finanze non si possa e non si debba stare sempre in sul no, unicamente perché le proposte vengono da avversari politici» (De Sanctis 1970, p. 43).
Dal punto di vista sociale sia Destra che Sinistra rappresentavano gli interessi della borghesia nazionale. La Sinistra disponeva di vasto sostegno tra la piccola e media borghesia, oltre che tra la borghesia agraria del Sud, mentre la Destra – che era caratterizzata da una forte omogeneità sociale e culturale tra rappresentanti e rappresentati – trovava i propri consensi in ampi settori di borghesia agraria del Centro-Nord. Una identificazione tra élite politica e detentori del potere nella società civile che traduceva una concezione aristocratica della politica come «arte di governo», riservata a chi aveva i mezzi per esercitarla:
La classe politica – disse Ruggiero Bonghi – è bene che non sia campata in aria; voglio dire, è bene che abbia per ogni modo radice ed eserciti azione nel paese. Chi si vuole occupare di politica, non ne deve campare. L’uomo politico deve essere un signore, che è sempre il migliore mestiere, o un professore o un avvocato, o un medico, o un commerciante, o uno scienziato, o un uomo di lettere; e quella classe politica è migliore, che più si trova fornita da ciascuna di queste posizioni sociali in quelle proporzioni d’influenza che ciascheduna ha nel paese. [...] Il pericolo maggiore, che sia possibile correre, è in ciò: che dalla vita politica s’allontanino con nausea tutti quelli che hanno e che sanno (cit. in Salvestrini 1965, p. 75).
Sotto il profilo elettorale, la ristrettezza del suffragio favoriva il contatto diretto tra candidato ed elettori, alimentando un contesto notabilare in cui potevano emergere esclusivamente personalità in grado di far valere la propria autorità sociale nei ristretti ambiti dei collegi uninominali, rendendo superflua la dimensione organizzativa e in gran parte anche quella politico-ideologica. Una svolta maturò all’indomani della «rivoluzione parlamentare» del 1876, quando la caduta del governo Minghetti e l’avvio del primo governo guidato dalla Sinistra determinarono – soprattutto a destra – un’intensificazione delle spinte organizzative, anche in vista dell’attesa riforma elettorale che però si realizzerà solo nel 1882. Dopo un iniziale disorientamento, la Destra avviò la creazione di una rete organizzativa che, accanto al raggruppamento parlamentare guidato da Quintino Sella, prevedeva la diffusione di associazioni costituzionali a livello locale. Nella primavera del 1876 fu così fondata l’Associazione costituzionale centrale, con sede a Roma, che avrebbe dovuto incentivare la nascita e coordinare l’attività delle associazioni periferiche, sulla falsariga dei modelli preesistenti come l’Associazione costituzionale di Milano e l’Associazione unitaria meridionale di Napoli. L’esito di questa operazione fu coronato da un certo successo e in diverse città videro la luce associazioni costituzionali.
La loro struttura organizzativa e statutaria era piuttosto elementare: a grandi linee ogni associazione era formata da soci la cui iscrizione, mediante versamento di una quota, era subordinata alla condizione che avessero titoli per essere elettori. L’assemblea dei soci avrebbe poi provveduto a eleggere sia il presidente sia il consiglio direttivo e, ogni anno, era incaricata di approvare il bilancio dell’associazione presentato da revisori appositamente nominati. In prossimità di una scadenza elettorale, solitamente, il consiglio direttivo poteva cooptare soci per formare un comitato elettorale, cui era affidata non soltanto la gestione della propaganda pubblica (svolta quasi integralmente a mezzo stampa), ma anche la definizione della lista dei candidati nel collegio locale e quella degli elettori «favorevoli». Tali liste venivano poi ratificate dall’assemblea che, anche in una realtà particolarmente favorevole come quella di Reggio Emilia, non superava i 70-100 partecipanti.
A partire dal 1876 anche la Sinistra avviò una più intensa attività extraparlamentare, organizzata su Associazioni progressiste, anch’esse coordinate da una struttura centrale. Sia le «Progressiste» che le «Costituzionali» assumevano in realtà i connotati del comitato elettorale, attivandosi soprattutto in prossimità delle elezioni.
La principale struttura propagandistico-organizzativa, tanto per la Destra quanto per la Sinistra, rimaneva indubbiamente l’organo di stampa. Nel 1873 in Italia risultavano presenti 387 periodici politici (di cui 273 nell’Italia centro-settentrionale, Sardegna compresa) e 132 quotidiani (105 al Centro-Nord). La loro funzione superava di gran lunga la stretta dimensione comunicativa: era attorno ai giornali, infatti, che le forze politiche prendevano forma, che si stipulavano nuove alleanze o si consumavano rotture tra eminenti personalità dell’universo liberale: «Tu sai – scriveva un deputato della Sinistra a Giuseppe Zanardelli nel 1876 – quale importanza abbia sull’andamento del partito l’avere un organo stimato e autorevole e non ignori le premure che il Depretis ed altri amici si sono date per ampliare e migliorare la redazione del ‘Diritto’» (cit. in Ullrich 1980, p. 411).
Il giornale rappresentava uno strumento di condizionamento dell’opinione pubblica indispensabile, soprattutto in un contesto di sostanziale fragilità organizzativa:
La stampa venduta – scrisse il costituzionalista Vincenzo Arangio-Ruiz – è stata, in maggiori o minori proporzioni, una piaga costante, iniziata, dopo alcuni anni dalla costituzione del regno d’Italia [...]. La condizione non florida della stampa periodica in Italia [...] contribuisce ad allargare la piaga, ed a confonderne il significato di ‘giornale ufficioso’ con quello di ‘giornale pagato’. Anche in ciò la sinistra ha volte in peggio e rese poi deplorevoli certe trovate, che già la Destra inaugurava. Con questa, l’ufficiosità era collettiva del ministero; con la sinistra era diventata singolare: c’erano, difatti, l’organo del Depretis e l’organo del Nicotera [...]. La vera precipua ragione di tale mercimonio è la mancanza della organizzazione dei partiti nella società, il difetto di forze sociali, legate pel trionfo di un’idea, a cui si consacrino danari, e per cui si fondino giornali. Questi, o sorgono per speculazioni private, o più raramente, hanno il compito di rappresentare le idee di un uomo politico notevole. Nell’un caso o nell’altro, il sussidio governativo è una conseguenza logica, inevitabile. Gli organi per guidare la pubblica opinione sono indispensabili ai ministri (Arangio-Ruiz 1985, p. 303)
La non formalizzazione di una struttura politica nazionale da parte degli ambienti moderati e progressisti non era tuttavia imputabile alla mancata comprensione da parte delle classi dirigenti dell’utilità del partito organizzato, quanto piuttosto alla convinzione che la natura di «macchina» di queste organizzazioni avrebbe prodotto un deterioramento delle istituzioni liberali. Per Bonghi era «felice lo Stato libero in cui i partiti non si organizzano, e possono, senza pericolo di essere sopraffatti, cansare di organizzarsi ad associazioni, infelice e dimentico di sé quello che lascia organizzare nel suo seno associazioni intese a dirittura a distruggerlo!» (Bonghi 1933, p. 144).
La consapevolezza di avere attuato il massimo sforzo riformista conciliabile con gli interessi della borghesia, senza tuttavia essere riusciti ad avvicinare le masse al progetto liberale, contribuì a mettere in moto uno spontaneo processo di convergenza «fra i partiti che si professano devoti alla monarchia liberale [...] poiché le condizioni del paese in cui si agitano e minacciano le fazioni estra legali consiglia la riunione e la compattezza» («L’Italia Centrale», 20 ottobre 1882, cit. in Cammarano 1999, p. 166). Proprio muovendo da queste premesse avrebbe preso forma, a partire dalle prime elezioni a suffragio allargato del 1882, la prospettiva del trasformismo.
All’esterno delle aule parlamentari, il principale ispiratore della politica della Sinistra italiana nel periodo immediatamente successivo all’unificazione fu Mazzini. Rientrato sul finire del 1860 dall’esilio londinese, fu promotore di un’intensa attività organizzativa e propagandistica volta a politicizzare l’associazionismo operaio e a illustrare alle classi popolari un percorso di emancipazione economica e morale. Grazie alle tolleranti disposizioni statutarie, nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento le società operaie avevano avuto una notevole diffusione nel Regno di Sardegna. Composte prevalentemente da artigiani e operai, ma dirette nella maggior parte dei casi da esponenti della borghesia, queste società – che rappresentarono le prime esperienze organizzate di intervento politico delle classi subalterne – si dedicavano essenzialmente all’attività di mutuo soccorso ripudiando qualsiasi prospettiva di lotta di classe.
Con l’unificazione queste società conobbero un ulteriore impulso. In occasione dell’VIII congresso delle società operaie, tenutosi a Milano nell’ottobre 1860, i delegati delle nuove associazioni d’ispirazione democratica si fecero portavoce di temi, quali l’introduzione del suffragio universale, che esulavano dai tradizionali problemi della beneficenza e del mutuo soccorso tra soci. L’anno successivo, in occasione del congresso di Firenze, emerse una netta frattura tra lo schieramento democratico-mazziniano e quello moderato, prevalentemente piemontese, sulla questione della legittimità dell’impegno politico per le società operaie. L’abbandono del congresso da parte della componente moderata, legata agli schemi tradizionali dell’associazionismo operaio, consentì ai mazziniani di mutare il congresso in una piattaforma sociale e politica. Sul primo fronte, pur condannando lo sciopero – considerato da Mazzini immorale – venne avanzata la richiesta dell’abolizione degli articoli del codice penale contrari all’associazionismo sindacale. Ma il dato più significativo fu l’approvazione di vere e proprie mozioni «politiche» sull’unificazione delle società operaie, sulla necessità del suffragio universale e dell’istruzione gratuita e obbligatoria. Lo sviluppo di questo movimento organizzativo – affiancato progressivamente dalla realtà della cooperazione di consumo e produzione – è testimoniato dalle statistiche che, alla fine del 1862, registravano la presenza di 445 società operaie (di cui, tuttavia, solo 30 nel Mezzogiorno), con oltre 130.000 soci. Numeri che, oltretutto, sarebbero raddoppiati nel giro di un decennio.
A partire dalla metà degli anni Sessanta, tuttavia, si registrò un progressivo declino dell’influenza di Mazzini sul nascente movimento operaio. Esso si spiega con la crescente inconciliabilità tra la sua fiducia in un percorso di politicizzazione aconflittuale delle masse (emblematico a questo proposito il cosiddetto «Atto di fratellanza» approvato in occasione dell’XI congresso delle società operaie tenutosi a Napoli nel 1864, imperniato sul rifiuto del conflitto di classe) e l’emergere di un disagio sociale in aumento. All’indomani di Mentana, inoltre, anche il tema unificante del patriottismo aveva cominciato a perdere parte della propria attrattiva per le classi subalterne: per queste ultime la «pedagogia» esercitata dal contatto con le istituzioni era oscurata dalla coercizione imposta dalle rigide disposizioni in materia di ordine pubblico e tributario. Le violente e spesso spontanee manifestazioni di protesta seguite nel 1869 all’introduzione della tassa sul macinato, decisa dal governo Menabrea per sanare il disavanzo di bilancio, palesarono il disorientamento della struttura organizzativa mazziniana del movimento operaio. I moti, che provocarono oltre 250 morti, un migliaio di feriti e poco meno di 4.000 arresti, per quanto poco connotati ideologicamente, fecero emergere l’esistenza di un diffuso malessere sociale la cui pericolosità, per la classe dirigente liberale, era da ricondurre non tanto al processo di scollamento tra ceti popolari e istituzioni, quanto alle potenzialità politiche eversive che questo avrebbe potuto comportare.
Il rifiuto da parte del pensiero mazziniano di forme di resistenza organizzata da parte delle classi subalterne contribuì a dischiudere un ampio margine di manovra alle prospettive di emancipazione sociale e solidarietà operaia promosse dalla fondazione a Londra, nel 1864, dell’Associazione internazionale dei lavoratori, i cui princìpi, ispirati da Marx, si rivelarono apertamente in contrasto con quelli mazziniani. Nel giro di pochi anni, soprattutto all’indomani delle traumatiche vicende della Comune di Parigi, l’Internazionale divenne il polo d’attrazione delle giovani generazioni di rivoluzionari. Piuttosto indifferenti allo spiritualismo mazziniano, queste si avvicinarono rapidamente alla cultura materialista del socialismo europeo, formandosi ideologicamente negli appassionati dibattiti che attraversavano l’Internazionale, a partire dal contrasto tra l’istanza del collettivismo marxista, teso a privilegiare i criteri dell’organizzazione e della centralizzazione delle forze operaie al fine di conquistare il potere politico e di eliminare le divisioni di classe, e l’ipotesi proudhoniana ispirata al federalismo e al mutualismo.
All’interno di questo confronto mosse i primi passi l’attività cospirativa in Italia del russo Michail Bakunin che, benché in contatto con Marx, che sperava di utilizzarlo per contrastare l’influenza mazziniana sul movimento operaio italiano, sul finire degli anni Sessanta aveva formulato una personale dottrina di un comunismo libertario basato sull’autodeterminazione delle singole comunità. Le sue idee nel Meridione venivano diffuse principalmente dal periodico «Il Popolo d’Italia», attorno a cui gravitava anche il principale circolo dell’estremismo mazziniano «Libertà e Giustizia».
Sperando di conquistare posizioni all’interno della Prima Internazionale, Bakunin diede vita ad alcune società segrete, l’Alleanza delle democrazie socialiste o Fratellanza e poi l’Alleanza internazionale della democrazia socialista, che avevano per obiettivo «la propaganda pubblica, l’organizzazione segreta della società e la sollevazione effettiva a mano armata» (Nettlau 1928, p. 59). L’arretratezza politica del mondo contadino, verso cui erano destinate le attenzioni di Bakunin, associata a una concezione «romantica» del momento rivoluzionario – che secondo l’anarchico russo avrebbe necessariamente risvegliato «l’istinto profondamente socialista che è sopito nel cuore di ogni contadino italiano» (Rosselli 1927, p. 165) – contribuivano a rendere fragile e poco strutturata questa rete operativa. Il rifiuto dell’azione politica e del partito, insieme all’individuazione del soggetto rivoluzionario nel sottoproletariato e nei diseredati delle campagne, rendevano il progetto bakuniniano estremamente affascinante agli occhi della scarsamente politicizzata e cospirativa cultura rivoluzionaria italiana, che si rifaceva al modello del «colpo di mano» risorgimentale, in cui fortuna e audacia contavano più della dottrina e della preparazione.
Per queste ragioni Bakunin rappresentò, a partire dal 1871, il principale punto di riferimento in Italia delle sezioni dell’Internazionale, che da Napoli iniziarono a diffondersi nel resto del paese. Garibaldi, che non esitò ad aderirvi in virtù dei suoi princìpi di solidarismo umanitario, definì l’Internazionale «il sole dell’avvenire». Nello stesso frangente, invece, era destinata ad approfondirsi la frattura tra Bakunin e Mazzini, complice la scomunica mazziniana degli avvenimenti della Comune di Parigi, che il patriota genovese considerava incompatibili con i princìpi del proprio credo. Gli stessi, d’altronde, che l’avevano rapidamente convinto a prendere le distanze dall’Internazionale a cui pure inizialmente aveva aderito.
Nonostante incontrasse un’opposizione ideologica sempre più consistente, il mazzinianesimo continuò tuttavia ad accrescere la propria struttura organizzativa anche dopo la morte di Mazzini, avvenuta nel marzo 1872. Questi, con il suo ultimo atto politico, il XII congresso delle società operaie tenuto a Roma nel novembre 1871, si propose di superare le divisioni interne al proprio movimento ribadendo, in polemica con l’Internazionale, la validità sostanziale del suo pensiero sociale, sintetizzato nell’Atto di fratellanza del 1864 (già respinto da Marx come possibile statuto dell’Internazionale). In occasione del XII congresso di Roma si riunirono 100 delegati quasi tutti mazziniani, in rappresentanza di 153 società. Tre anni dopo le società «affratellate» erano il doppio. A livello organizzativo il fulcro dei repubblicani era costituito dalla struttura militarizzata dell’Alleanza repubblicana universale, composta da piccoli e autofinanziati comitati locali dotati di un vertice centrale segreto. Per capacità organizzative, chiarezza di programma e forza propagandistica essa presentava numerose caratteristiche che in seguito saranno tipiche delle organizzazioni partitiche novecentesche.
Il congresso di Roma sancì di fatto la definitiva presa di distanza dagli internazionalisti, che si radicarono soprattutto in Romagna e nelle Marche per arrivare, secondo la polizia, al numero di 155 circoli e sezioni con oltre 32.000 iscritti, anche se, in realtà, questi numeri nascondono la galassia di un associazionismo operaio i cui princìpi, il più delle volte, avevano solo lontani riferimenti con il pensiero di Bakunin. Relativamente all’opzione tra i due grandi ideali che dividevano l’Internazionale, non esistevano dubbi. La grande maggioranza dei rappresentanti delle 21 sezioni internazionaliste italiane, intervenuta a Rimini nell’agosto 1872 al I congresso della Federazione italiana dell’Internazionale, confermò l’adesione al comunismo anarchico e federalista, senza però confrontarsi sull’analisi concreta della questione sociale.
Sebbene il movimento socialista conoscesse una fase di espansione, l’assenza di riflessioni politiche più articolate di quelle della messianica «liquidazione sociale», permetteva al mazzinianesimo di rappresentare ancora la risposta politica più matura ai problemi dei ceti subalterni in Italia. Il tema della politicizzazione della classe operaia e quello dell’organizzazione non potevano d’altronde essere tenuti distinti e, in tal senso, il socialismo «evoluzionista» di stampo marxista, appariva decisamente inadeguato. Lo stesso Friedrich Engels doveva riconoscere che in Italia «la maledetta difficoltà è soltanto di riuscire a mettersi in contatto diretto con gli operai. Questi maledetti dottrinari bakunisti, avvocati, dottori, ecc., si sono interposti dappertutto e si comportano come se fossero i rappresentanti nati dei lavoratori» (cit. in Zangheri 1993, p. 353).
I repubblicani mantenevano una indubbia superiorità sul fronte organizzativo. Nei primi anni Settanta la realtà semiclandestina dell’Alleanza repubblicana universale fu affiancata da una struttura organizzativa legale di carattere regionale. Modello e guida per le nascenti consociazioni repubblicane fu la Consociazione romagnola, che funzionava come punto d’incontro tra la galassia di circoli e di società operaie repubblicane attive nel territorio e la direzione regionale. La modalità organizzativa ricalcava i tradizionali organismi mazziniani: si trattava di gruppi composti da 10 membri che si autofinanziavano con quote mensili. Ciascun gruppo eleggeva 3 membri destinati a prendere parte ai comitati circondariali incaricati, tra l’altro, del controllo amministrativo e finanziario delle singole società. I membri dei comitati circondariali davano vita a un comitato generale dal quale erano eletti, a maggioranza assoluta, i 7 membri della direzione regionale responsabili della guida politica della Consociazione.
Gli internazionalisti si trovavano in una situazione interlocutoria. Il II congresso della Federazione italiana, svoltosi a Bologna nel marzo 1873, vide la partecipazione di 60 rappresentanti di 11 federazioni e 23 sezioni e, accanto alla parola d’ordine dell’ateismo, ribadì, sul piano dei princìpi, la condanna di ogni tipo di Stato in quanto ostacolo alla «libera e spontanea associazione dal basso all’alto» e alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e del capitale. L’unico vincolo imposto sul piano dell’azione concreta era quello della solidarietà nella lotta economica, mentre per l’ennesima volta fu rigettato un progetto politico unitario, lasciando «a ciascuna federazione, sezione, nucleo od individuo la piena libertà di seguire il programma politico che ritiene migliore e di organizzarsi pubblicamente o segretamente all’attuazione del medesimo» (cit. in Zangheri 1993, p. 383).
Un particolare accento fu posto sul tema della propaganda nelle campagne e a tal fine si istituiva una commissione di «propaganda stabile» e una di «propaganda militante» da affiancare alla commissione statistica, per la raccolta dei dati sulla questione sociale, e a quella di corrispondenza, per i contatti tra internazionalisti. Nessun rilievo particolare fu dato all’attività sindacale e di resistenza, considerata ininfluente per le sorti del proletariato e utile solo al fine di rafforzare la coesione tra i lavoratori e aumentare l’impatto propagandistico degli ideali internazionalisti. Il Congresso fu interrotto anzitempo dall’intervento della polizia che trasse in arresto alcuni dei principali esponenti dell’Internazionale italiana, tra cui Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Andrea Costa, Lodovico Nabruzzi.
Una svolta parve determinarsi nel corso del biennio 1873-74 quando, sull’onda emotiva degli avvenimenti della Comune e di un’impennata degli scioperi (103 nel solo 1873 di fronte ai 13, di media, del decennio precedente), gli internazionalisti italiani si convinsero dell’esistenza di concrete prospettive insurrezionali. Secondo l’ideale settario di Bakunin, si trattava di dar vita a una decisa ondata di azioni esemplari che avrebbero risvegliato la coscienza annebbiata delle masse diseredate, trascinandole verso la rivoluzione. L’esito del progetto, tuttavia, fu fallimentare: le forze dell’ordine, scoperti i piani dei rivoltosi, fermarono sul nascere il movimento, coinvolgendo nella repressione anche i capi repubblicani (tra cui Aurelio Saffi, leader indiscusso dopo la morte di Mazzini, Alessandro Fortis, Eugenio Valzania, Federico e Alfredo Comandini) riuniti nell’agosto 1874 a Villa Ruffi, presso Rimini, per dare una risposta, quasi certamente negativa, alle richieste di collaborazione operativa provenienti dagli internazionalisti. Bakunin tentò in maniera maldestra di portare avanti il piano insurrezionale, che aveva come obiettivo l’occupazione di Bologna, anche dopo l’arresto di Andrea Costa, vero ideatore del progetto, ma fallì miseramente causando l’arresto di quasi tutti i congiurati. Obbligato alla fuga, Bakunin, qualche tempo dopo, ammise con una certa dose di amarezza: «l’ora della rivoluzione è passata, non in causa degli spaventosi disastri di cui siamo stati i testimoni e delle terribili disfatte di cui siamo state le vittime più o meno colpevoli; ma perché, con mio grande rincrescimento, ho constatato e constato ogni giorno di nuovo che il pensiero, l’esperienza e la passione rivoluzionaria non si trovano assolutamente nelle masse» (cit. in Zangheri 1993, p. 432).
Se le prospettive internazionaliste parevano compromesse dopo il fallimento dei tentativi insurrezionali del 1874, due anni dopo la situazione parve mutare di segno in seguito agli esiti sostanzialmente favorevoli dei processi contro gli internazionalisti e alle speranze di una politica meno repressiva da parte della Sinistra, ora al governo. In un clima di rinnovata fiducia – nonostante le difficoltà – si tenne a Tosi, presso Pontassieve, il III congresso della Federazione italiana dell’Internazionale, che ribadì il credo nella rivoluzione come unico strumento per la risoluzione della questione sociale. L’approvazione della piattaforma finale, tuttavia, non poteva celare l’emergere di una corrente «evoluzionista», ostile alle tradizionali attitudini cospirativo-insurrezionalistiche dell’Internazionale italiana, che faceva capo al giornale «La Plebe» fondato nel 1868 da Enrico Bignami. Passata dall’iniziale orientamento democratico-radicale a un’impostazione socialista, «La Plebe» fu, con «Il Povero» di Palermo, uno dei pochi organi di stampa internazionalisti che non ruppe i contatti con il marxismo, ospitando a più riprese articoli di Engels. Questa corrente segnalava l’emergere di una nuova cultura socialista, incline a uno sperimentalismo gradualista ed evoluzionista che – ispirandosi agli ideali del comunardo francese Benoît Malon, esule a Palermo, e del pensiero positivista – non rifiutava la lotta politica ed elettorale per il raggiungimento dei propri fini. Fu proprio su iniziativa di Bignami e di Osvaldo Gnocchi Viani che una quindicina di sezioni internazionaliste lombarde, piemontesi e venete formarono, nel 1876, la Federazione dell’Alta Italia dell’Associazione internazionale.
Il declino del bakuninismo conobbe un’accelerazione a partire dall’aprile dello stesso anno, quando Cafiero e Malatesta, sulla falsariga del tradizionale modello insurrezionale, tentarono di promuovere un’ondata rivoluzionaria occupando alcuni villaggi del Matese, in Campania. Il fallimento della rivolta e la conseguente repressione, che oltre ad autorevoli esponenti del socialismo colpì molte testate giornalistiche e circoli, segnarono l’inizio del declino dell’anarchismo italiano, spingendo l’intero movimento socialista italiano a una fase di crisi e di ripensamento. Le difficoltà conosciute dal movimento internazionalista italiano rispecchiavano il più generale travaglio vissuto da tutte le correnti del movimento operaio internazionale: se nel 1876 a Filadelfia era stato sancito lo scioglimento della Prima Internazionale, l’anno successivo a Gand si ebbe di fatto la dissoluzione dell’Internazionale anarchica. Il declino della prospettiva anarco-insurrezionale per il socialismo italiano significava la fine di ogni illusione di emancipare il proletariato preservandolo dal contatto con la politica.
Testimonianza emblematica della trasformazione conosciuta dal socialismo italiano è la lettera di Costa, pubblicata su «La Plebe» il 3 agosto 1879 con il titolo Ai miei amici di Romagna. Il rivoluzionario imolese vi esponeva il travaglio politico di chi, pur senza abbandonare la fede negli obiettivi del comunismo anarchico, s’interrogava sulla complessità del progetto rivoluzionario, che richiedeva necessariamente una maggiore duttilità nell’individuazione degli strumenti da utilizzare e una più acuta sensibilità «per gli affari di ogni giorno». Il ripensamento di Costa, che ebbe una vasta eco negli ambienti socialisti italiani, era originato dalla constatazione del crescente successo della lotta politica organizzata condotta da numerose realtà del socialismo evoluzionista europeo e che in Italia, invece, era appannaggio della democrazia radicale e mazziniana. «L’orrore per la politica – scrisse pochi mesi più tardi – non deve farci dimenticare che noi viviamo in un mondo politico: noi non possiamo e non dobbiamo rimanere indifferenti a quello che avviene ogni giorno» (cit. in Manacorda 1971, p. 153). Muovendo da tali premesse, Costa era giunto a considerare inevitabile, in contrasto con l’ipotesi anarchica, la costituzione di un partito che fosse una federazione di tutte le componenti socialiste. Nonostante le numerose parentesi in carcere, iniziò così per l’internazionalista imolese una stagione di febbrile attività che condusse, nell’aprile del 1881, alla nascita del settimanale «Avanti!» e, nell’agosto dello stesso anno, alla convocazione di un congresso clandestino a Rimini, cui partecipò una quarantina di delegati romagnoli, in cui venne approvata a grande maggioranza la costituzione del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, in attesa di dar vita a un partito nazionale. Il programma e il regolamento, pubblicati a qualche giorno di distanza su «La Plebe», insistevano sul ruolo fondamentale del partito, concepito come federazione, ma dotato di una forza normativa e unitaria sconosciute alla precedente federazione dei circoli anarchici. Strumenti di lotta sino a quel momento considerati insostituibili, quali il ribellismo e l’insurrezione «sono da lasciarsi alla iniziativa individuale, non possono né debbono essere levati a principio generale per tutti, non possono né debbono essere la condotta sistematica di un grande partito, che deve poter disporre di mezzi d’azione maggiori assai e poter muoversi alla luce del sole». La rivoluzione, benché necessaria ed inevitabile, «deve aver per organo un partito fortemente ordinato, capace di provocarla, quando esistano le condizioni necessarie alla sua buona riuscita, e d’inspirarla ed anche di dirigerla quando sia scoppiata» (cit. ivi, p. 166).
Di grande importanza anche il riconoscimento dell’utilità – in vista dell’irrinunciabile rivoluzione – della lotta politica quotidiana, della propaganda e delle riforme, era la testimonianza di una significativa evoluzione del movimento socialista, che proiettava le multiformi aspirazioni di Costa sul terreno del conflitto politico concreto. Ulteriore conferma fu offerta dalla decisione di accettare la partecipazione di candidati socialisti alle elezioni amministrative e politiche, lasciando alle singole associazioni provinciali la scelta di considerare le candidature esclusivamente a fini propagandistici e agitatori, o di renderla effettiva. Tale direttiva, approvata in occasione di un congresso straordinario tenutosi nel febbraio 1882, consentì a Costa, eletto nella circoscrizione di Ravenna, di accettare l’incarico, divenendo il primo deputato socialista nella storia del Parlamento italiano. Nel frattempo, a Milano, il gruppo che faceva capo a «La Plebe» e alla Federazione dell’Alta Italia dell’Internazionale (poi Federazione socialista dell’Alta Italia), era giunto alle stesse conclusioni circa l’opportunità di partecipare alla prova elettorale.
Il buon esito dell’operazione era tuttavia reso problematico dalla crescente influenza esercitata sul movimento operaio lombardo dal Partito radicale di Felice Cavallotti, giornalista e letterato dal forte temperamento e dalla grande capacità oratoria. Forti di un prestigioso organo di stampa, «Il Secolo», e di un agguerrito e vivace drappello di deputati, i radicali si presentavano come i legittimi eredi della tradizione democratica risorgimentale. Assieme ai repubblicani, nell’aprile del 1879 avevano creato la Lega della democrazia il cui programma prevedeva, tra l’altro, la revisione in senso democratico dello Statuto, l’introduzione del suffragio universale, la nascita di milizie popolari e la riforma fiscale. Alla vigilia della riforma elettorale, l’ambizione principale dei radicali era quella di estendere la propria influenza nel vasto e organizzato tessuto operaio cittadino. Questo tentativo, lungi dall’essere coronato da successo, si tradusse in una vera e propria crisi di rigetto che ispirò la nascita, all’interno del Consolato operaio di Milano (originariamente una federazione di società di arti e mestieri a sfondo mutualistico), di una vera e propria cultura operaistica profondamente diffidente nei confronti della tradizionale dirigenza borghese del movimento operaio e decisamente più interessata alle tematiche salariali e alle rivendicazioni di classe. Emblema di questa svolta operaistica fu la presentazione, da parte del Circolo operaio milanese, aderente al Consolato e guidato dal guantaio Giuseppe Croce e dal tipografo Augusto Dante, di una candidatura autonoma in vista delle elezioni, sotto l’etichetta di un costituendo Partito operaio composto interamente da lavoratori manuali.
All’indomani dell’Unità, la tradizione cattolico-liberale disponeva ancora in Italia di buone radici. In occasione del congresso internazionale di Malines, nell’agosto 1863, l’invocazione di Charles de Montalembert a seguire le «due grandi idee», e cioè «l’unità religiosa della Chiesa cattolica, la libertà politica nelle odierne forme di governo», aveva trovato particolarmente ricettivi i partecipanti italiani che mostrarono la volontà di muoversi sia sul terreno religioso (con la creazione nel 1865, da parte del bolognese Giambattista Casoni, dell’Associazione cattolica italiana per la difesa della libertà della Chiesa in Italia) sia su quello eminentemente politico (nel corso dello stesso 1863 il genovese Francesco Montebruno aveva fondato a Genova gli «Annali cattolici», possibilisti in tema di dialogo col liberalismo). Questo fervore aveva lasciato presagire la possibilità di una presenza cattolica organizzata alle elezioni del 1865 (si era perfino parlato di un «partito cattolico»), ma l’ipotesi era naufragata immediatamente sotto l’attacco concentrico dei liberali governativi, poco disponibili a cedere posizioni ai cattolici, e della rivista dei gesuiti, «Civiltà Cattolica», che nel numero del 1° marzo 1866 aveva giudicato «chimerica» qualsiasi possibilità di conciliazione fra Stato e Chiesa.
Il movimento cattolico liberale tuttavia non vide frenato il proprio dinamismo, complice anche il prestigio dei suoi referenti internazionali, a partire dalle teorie di Dupanloup, diffuse in Italia da Alfonso Capecelatro. Vi era, oltretutto, qualche esponente dell’episcopato favorevole all’esperimento: il vescovo di Genova Andrea Charvaz, ad esempio, aveva sostenuto il gruppo degli «Annali», anche quando questo si era trasferito a Firenze nel 1866 e aveva fondato un nuovo periodico, la «Rivista Universale», che aveva lanciato un’altra formula destinata a divenire famosa, «cattolici col papa, liberali con lo Statuto».
Sul fronte ufficiale l’ambiguità era ancora notevole. La prima pronunzia vaticana circa il divieto per i cattolici di partecipare alle elezioni (non expedit) arrivò il 30 gennaio 1868, attraverso una formulazione piuttosto equivoca, che non si comprendeva se contenesse un semplice suggerimento di opportunità o qualcosa di più. Benché riconfermata solennemente dalla Sacra Penitenzieria il 10 settembre 1874, l’ambiguità sarebbe stata superata in maniera definitiva soltanto il 30 luglio 1886, quando il Sant’Uffizio statuì ufficialmente che «non expedit prohibitionem importat».
Alla vigilia del non expedit, il risveglio delle organizzazioni laicali cattoliche era stato testimoniato dalla creazione, nel 1867, da parte di due aristocratici bolognesi – i conti Mario Fani e Giovanni Acquaderni – della Società della gioventù cattolica italiana, un’organizzazione prevalentemente religiosa che voleva reagire alla grave crisi di costumi e di dinamismo che colpiva la pratica sacramentale, per rispondere così alla crescente sfida culturale portata dalle grandi correnti del protestantesimo europeo. La presa di Roma cambiò profondamente il quadro d’azione: l’irrigidimento della questione politica faceva sì che il Vaticano trovasse molto più utile rispetto al passato disporre di un «movimento cattolico». Non è certo casuale che nell’aprile del 1871 la «Civiltà Cattolica» inaugurasse una rubrica intitolata «movimento cattolico» volta a dare voce alle iniziative internazionali del «movimento cattolico per la causa del papa», ma che rappresentava inevitabilmente anche un invito alla mobilitazione dei cattolici italiani.
Questa si caratterizzò anzitutto come una controffensiva dell’intransigentismo. Dopo le iniziative bolognesi del 1867, era sorta a Firenze nel 1869 una Società promotrice cattolica, mentre a Roma sorse alla fine del 1870 la Società romana per gli interessi cattolici che si dotò di un suo giornale, «La Voce della Verità», raccogliendo nel giro di un anno 1.100 iscritti e migliaia di simpatizzanti. Ne nacquero molte altre con intenti filantropici e sociali latamente politici, tanto che nel 1872 si riunirono in una Federazione detta Piana (dal nome del pontefice Pio IX). L’invito rivolto dal papa ai giovani di opporsi «di fronte alla virulenta empietà» non era caduto nel vuoto. Già nel corso delle celebrazioni del terzo centenario della battaglia di Lepanto, tenutesi a Venezia nell’ottobre del 1871, era stato letto un ordine del giorno a nome della gioventù cattolica per promuovere il primo congresso dei cattolici italiani che si svolse nel giugno del 1874 a Venezia, con una modesta partecipazione di sacerdoti, ma con una nutrita presenza di esponenti dell’emergente movimento laicale cattolico. Il discorso di apertura, incentrato sul culto del Pontefice «Vicario di Gesù Cristo, dottore infallibile della fede e della morale», fu letto dal barone siciliano Vito D’Ondes Reggio, cospiratore risorgimentale, poi deputato al Parlamento subalpino e italiano, dimessosi dopo la presa di Roma.
Si trattava di un’evoluzione significativa: richiamandosi al pontefice come a una sorta di autorità suprema, ma inevitabilmente lontana, i laici si affrancavano dalla tutela di un episcopato assai meno barricadiero di loro. Il rinvio a una dimensione totalizzante della dottrina cattolica apriva la strada a nuovi settori di intervento nei quali esistevano margini di autonomia, dal momento che la strumentazione della Chiesa in ambito sociale era piuttosto modesta.
Il primo intervento di rilievo in questa direzione fu rappresentato dalla creazione, durante il congresso di Firenze del 1875, di un’Opera dei congressi, alla cui guida fu chiamato Acquaderni, che doveva articolarsi su base parrocchiale con «comitati» al fine di «sostenere le opere della estirpazione della bestemmia, dell’insegnamento della dottrina cristiana, dell’accompagnamento del viatico, del denaro di S. Pietro». Evidentemente l’impostazione era di marca più religiosa che politica, ma è indubbiamente significativo il fatto che nel programma di azione si indicava come i cattolici dovessero «prendere parte alle elezioni provinciali e comunali, battersi per ottenere la libertà di insegnamento e creare scuole cattoliche, diffondere la buona stampa» (cit. in Tramontin 1981, p. 337).
Negli anni della presidenza Acquaderni (1875-78), l’Opera – che poteva contare su 3 comitati regionali, 16 comitati diocesani e 533 comitati parrocchiali – restò prevalentemente confinata al contesto lombardo-veneto. Basata prevalentemente sulla realtà settentrionale della parrocchia, specie di area rurale e nelle piccole e medie città, l’Opera non ebbe, nella prima fase, una vita agevole e sotto la presidenza di Scipione Salviati (1878-84) – complice il cambio di pontificato – conobbe una prima fase di crisi. L’espansione a livello organizzativo (negli anni Ottanta si avevano 12 comitati regionali, 109 comitati diocesani e circa 1.300 comitati parrocchiali) e il successo dei congressi nazionali non poterono nascondere la perdita di slancio dell’anima «religiosa» del movimento, piuttosto scettica nei confronti della forte ideologizzazione dell’Opera. Nel 1881, insieme al cambio di nome in Opera dei congressi e dei comitati cattolici in Italia, veniva approvata una serie di statuti in cui si affermava l’esigenza della «difesa degli interessi religiosi e sociali degli italiani», senza tuttavia venire meno alla tensione dei tempi.
In realtà, con la morte di Pio IX (7 febbraio 1878) e l’ascesa al soglio pontificio di Leone XIII, il quadro di riferimento era mutato. In particolare ci si attendeva che il nuovo pontefice, non essendo direttamente coinvolto nella lotta del periodo risorgimentale, potesse essere meno rigido in materia di conciliazione e potesse incarnare il papa riformatore che ancora si attendeva.
L’incertezza degli equilibri parlamentari, oltretutto, sollecitava le élites cattoliche integrate a un intervento diretto sul terreno politico. La dissoluzione della Destra storica aveva lasciato un vuoto prontamente percepito da questi settori, che faticavano a trovare un’intesa con la Sinistra massonica e, almeno a parole, più «radicale».
La situazione, insomma, era in fermento: nel 1878 il giurista e storico torinese Federico Sclopis lanciò la proposta di un «partito conservatore nazionale». Don Giacomo Margotti, il 29 ottobre dello stesso anno, scriveva un articolo sull’«Unità Cattolica» in cui, riformulando le sue posizioni del 1861, metteva apertamente in dubbio l’utilità dell’astensionismo, venendo prontamente redarguito dal campione dell’intransigentismo, don Davide Albertario, che il 16 novembre lanciò sul proprio giornale la formula della «preparazione nell’astensione». Nel febbraio del 1879 a Roma, nella casa del conte Paolo di Campello, fu organizzato un incontro per parlare della possibile fondazione di un partito di «conservatori nazionali», a forte partecipazione cattolica. Il modello, evidentemente, era quello del conservatorismo britannico, proprio in quegli anni promosso in Italia da Roberto Stuart, che nel 1878 aveva addirittura fondato un periodico dal titolo «Il Conservatore», per sostenere la necessità storica dell’incontro fra cattolicesimo e liberalismo moderato. Ben più importante del velleitario tentativo di casa Campello fu la fondazione a Firenze in quello stesso anno della «Rassegna Nazionale», un periodico diretto da Manfredi da Passano che si proponeva di proseguire la tradizione dei «cattolici col papa e liberali con lo statuto» e che per lungo tempo (sino alla chiusura, nel 1915) rappresentò un autorevole punto di riferimento culturale, sostenuto soprattutto dalla vivace e colta élite veneta (tra i finanziatori vi era l’industriale Alessandro Rossi, mentre tra i collaboratori stabili figurava il celebre costituzionalista Attilio Brunialti).
L’attesa apertura da parte del Pontefice fu solo parziale. Con l’enciclica Quod apostolici muneris (28 dicembre 1878), in cui veniva ribadita la condanna del socialismo, Leone XIII aveva cercato di depotenziare la delicata questione dell’impegno politico, invitando i cattolici a concentrarsi sull’azione sociale (il che peraltro non era semplice se si considera che molte misure amministrative di portata «sociale», implicavano evidenti conseguenze politiche, come dimostrò per esempio la partecipazione cattolica alle elezioni amministrative di Roma del 1881).
Il governo delle divisioni all’interno del movimento cattolico non era facilmente gestibile. Emblematico, a questo proposito, il caso di don Albertario, «l’atleta del giornalismo cattolico». Divenuto direttore de «L’Osservatore Cattolico», aveva immediatamente incarnato il modello di un giornalismo popolare antiliberale, polemico e aggressivo nei toni. Albertario aveva introdotto una componente per così dire «di classe», sino ad allora estranea allo stesso movimento cattolico intransigente, che aveva il suo bersaglio privilegiato nei cattolici delle élites lombardo-venete, perfettamente integrate all’interno del nuovo sistema politico e caratterizzate da una cultura modernizzante e disponibile al dialogo e al confronto internazionale.
Il 1882, ben più del 1876, rappresentò la fine dell’originario spirito fondativo che aveva presieduto alla nascita dello Stato italiano. Si concludeva l’epoca del liberalismo classico, con il suo riferimento al modello britannico e si apriva una nuova fase in cui il problema del governo della trasformazione sociale diventava prioritario rispetto all’originaria esigenza di consolidamento della fragile unificazione, con profondi riflessi anche a livello di politica estera. Le elezioni a suffragio allargato, il successo dell’appello al trasformismo e la nascita di nuove organizzazioni socialiste, del movimento operaio e di quello cattolico, accelerarono l’evoluzione dei due grandi modelli lasciati in eredità dal Risorgimento: il partito setta e il partito d’opinione. Mentre i liberali scelsero, non senza conflitti al loro interno, di abbandonare ogni prospettiva di organizzazione di parte, vale a dire di battaglia ideale, e di blindare il governo utilizzandolo come forma generale di organizzazione politica dell’Italia legale, le forze escluse dalla legittimazione costituzionale videro invece nell’organizzazione la modalità più coerente e funzionale per contestare il sistema. Il Partito operaio italiano e quello socialista rivoluzionario, il primo deputato socialista in Parlamento, l’intransigentismo cattolico il cui antiliberalismo era sempre più politico-sociale e sempre meno temporalista, furono segnali inequivocabili, per quanto confusi, che l’opposizione antisistema stava iniziando a concepire l’organizzazione non più come strumento eversivo separato dal contesto politico di riferimento, bensì come imprescindibile percorso per la conquista del consenso.
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