PARTITI POLITICI
(v. partito, XXVI, p. 423; partiti politici, App. IV, II, p. 745)
Politologia: origini e funzioni dei partiti politici. − I p.p. sono libere associazioni di persone, che sorgono dal momento in cui si riconosce al popolo il diritto di gestire il potere politico, e che si organizzano per raggiungere questo scopo. La loro competizione caratterizza e sostanzia l'esistenza e il funzionamento dei regimi parlamentari.
Dal punto di vista della loro origine, la più influente classificazione è quella elaborata dal politologo norvegese S. Rokkan (1970), secondo il quale i p.p. sono il prodotto di profonde e specifiche fratture sociali (cleavages) che hanno segnato i processi di costruzione dello stato e della nazione in Europa. Esse sono: la frattura fra centro e periferia, che diede origine a partiti che o interpretavano o direttamente rappresentavano gli interessi del centro e a partiti che difendevano gli interessi delle periferie; la frattura fra stato e chiesa, che diede a sua volta origine a partiti laici, che rappresentavano gli interessi dello stato, e a partiti confessionali che difendevano gli interessi delle organizzazioni ecclesiastiche; la frattura fra interessi urbani e interessi agrari, che diede origine a partiti borghesi-cittadini e a partiti, per l'appunto, agrari; infine, la frattura fra i proprietari dei mezzi di produzione e i lavoratori dell'industria, che diede origine a partiti che ne rappresentavano gli interessi specifici.
Se, in conformità a questo schema, a ogni giuntura di sviluppo e a ogni frattura facesse seguito una coppia di partiti, il sistema partitico conseguente presenterebbe otto partiti con radicamenti più o meno profondi nel processo di evoluzione storica del rispettivo sistema politico. Ma poiché numerose altre variabili, in aggiunta alla profondità e alla persistenza delle fratture sociali, giocano un ruolo nel processo di strutturazione e di mantenimento dei singoli partiti, la configurazione concreta dei sistemi di partito competitivi è più complessa (Sartori 1976). La più importante delle variabili intervenienti è costituita probabilmente dal sistema elettorale. In estrema sintesi, i sistemi elettorali proporzionali consentono a ciascun singolo partito maggiori probabilità di sopravvivenza, mentre i sistemi elettorali maggioritari favoriscono aggregazioni fra i partiti, che tendono quindi a diminuire di numero, e condannano i partiti piccoli (Sartori 1982). Cosicché, se alla fine del processo di traduzione delle fratture sociali in p.p. è plausibile attendersi un sistema a otto partiti laddove la legge elettorale contempli la rappresentanza proporzionale (che è peraltro la più diffusa nel continente europeo), dove, invece, i sistemi elettorali sono maggioritari quel processo si concluderà in una drastica limitazione di numero dei partiti (come in Gran Bretagna). Tuttavia, è altresì probabile che nel corso dello sviluppo storico un solo partito sia riuscito a caratterizzarsi al tempo stesso come partito del ''centro'', dello stato, degli interessi urbani e degli interessi dei proprietari dei mezzi di produzione. Questo partito sarà quindi laico, urbano, borghese, ma potrà nondimeno presentare un volto ''conservatore'' e un volto ''progressista'' (liberale). Inoltre, potrà essere emerso ed essersi poi consolidato un partito a sfondo confessionale come il democristiano; potranno esistere partiti ''nazionalisti'' o regionalisti; l'eventuale scissione, questa volta strettamente politica, dei comunisti dai partiti dei lavoratori (socialisti), potrà aver prodotto un nuovo partito così come, sul fronte degli agrari e degli industriali, potrà essersi formato un partito reazionario, di tipo fascista.
A uno stadio relativamente puro, il sistema partitico si presenterebbe, secondo le previsioni della teoria delle fratture sociali, con cinque-sei partiti relativamente importanti. In effetti, al momento della loro strutturazione all'inizio degli anni Venti, i sistemi partitici dei regimi democratici occidentali presentarono una configurazione di questo tipo che riapparve, quasi immutata, anche dopo la seconda guerra mondiale e persistette fino all'inizio degli anni Sessanta.
Una diversa interpretazione dell'origine dei partiti, per quanto dotata di minore potenziale analitico ed esplicativo, è quella formulata da M. Duverger (1951). Lo studioso francese guarda al ''luogo'' d'origine dei partiti e li distingue, pertanto, in parlamentari, extraparlamentari, antiparlamentari.
In una prima fase i partiti, in particolare laddove il Parlamento costituisce un'arena di reale confronto con il potere esecutivo, nascono in Parlamento sulla base della loro disponibilità o meno ad appoggiare l'esecutivo. Sono i partiti dei nobili e dei notabili, che tuttavia ben presto, con l'espansione del suffragio, saranno costretti a cercare il consenso fuori del Parlamento. Nel frattempo, alcuni gruppi, che godono già di qualche risorsa organizzativa, ma che sono al di fuori del Parlamento, si preparano a contestarne il potere e, nella misura del possibile, a mandarvi propri rappresentanti. È il caso dei partiti socialisti che, grazie alle organizzazioni sindacali, godono di un forte strumento di aggregazione per il loro appello elettorale. Così com'è il caso dei partiti confessionali che possono far leva sulla rete di associazioni religiose pronte a fornire il loro supporto, fra l'altro spesso proprio in chiave antisocialista (il che spiega la contemporanea presenza di forti partiti socialisti e forti partiti democristiani dove la frattura tra stato e chiesa è e rimane significativa). Infine quando, non senza resistenze e resipiscenze, socialisti e democristiani hanno trovato un loro ''accomodamento'' entro la vita parlamentare, sorgono in opposizione al Parlamento e al modo di fare politica (quella democratica) che esso rappresenta, altri due tipi di partito che non solo nascono ''fuori'' del Parlamento (partiti extraparlamentari) ma sono orientati ''contro'' il Parlamento (partiti antiparlamentari). Pur con tutte le differenze del caso, i movimenti fascisti e i partiti comunisti di stampo bolscevico appartengono a questa categoria e, nuovamente non a caso, la loro presenza simultanea suggerisce una sorta di reciproca alimentazione proprio sulla base della reciproca contrapposizione.
L'origine di tutti i più importanti partiti occidentali ha avuto modalità spiegabili secondo i canoni offerti da S. Rokkan e da Duverger. Diversa è, naturalmente, la nascita dei partiti del Terzo Mondo, spesso organizzazioni di tipo personalistico e populistico, anche se un po' dovunque si sono affermati partiti socialisti, comunisti e democristiani (Randall 1988). Diversa ancora l'origine dei partiti cosiddetti ''verdi'', che hanno fatto la loro comparsa in numerosi sistemi politici occidentali in quanto riflesso di una nuova frattura sociale fra industrialismo e post- (o pre-) industrialismo e in quanto portatori di un esplicito intento di difesa (o recupero) dell'ambiente. Non è possibile, al momento, valutare la profondità di questa frattura e la sua persistenza; ma è ipotizzabile che essa possa servire non tanto a istituzionalizzare nuovi partiti quanto piuttosto a ridefinire lo spazio politico e la collocazione dei partiti già esistenti, tutti costretti a fare i conti con la tematica ambientale e con alcuni dei valori di tipo postmaterialista che essa implica.
Gran parte della letteratura classica da M. Weber a R. Michels si è occupata in vario modo dell'organizzazione dei partiti e del ruolo che, conseguentemente, essi svolgono. In estrema sintesi, tre sono le modalità organizzative fondamentali dei partiti che riflettono una sorta di evoluzione storica, e cioè: il partito di notabili, il partito elettorale (o di rappresentanza individuale), il partito di massa (o d'integrazione sociale). Se tre anche sono, in senso lato, le funzioni più importanti e qualificanti che i partiti svolgono − partecipazione politica, competizione elettorale e governo −, allora i tre tipi di partito suddetti svolgono queste funzioni secondo modalità e intensità diverse.
Il partito di notabili, oramai praticamente inesistente, è essenzialmente un'organizzazione che partecipa alle elezioni e fornisce personale di governo, ma che non si preoccupa di far crescere la partecipazione politica. Il partito elettorale è in special modo una macchina per raccogliere voti, e quindi per mobilitare a questo fine, in maniera intermittente, il proprio elettorato; è interessato a conquistare cariche politiche, a distribuire posti e risorse, e per questo anche a governare; la sua struttura è costituita da un ceto ristretto di professionisti della politica. Il partito di massa, la cui organizzazione è ampia, capillare, basata su un esteso funzionariato, mira a sollecitare la partecipazione dei suoi elettori e dei suoi iscritti, a integrarli nel tessuto socio-politico; prende parte alle competizioni elettorali non solo per ottenere cariche di governo, ma soprattutto per attuare un programma; può anche rinunciare alla vittoria elettorale pur di mantenere la sua identità politica.
Fra le teorizzazioni più influenti in merito alle trasformazioni intervenute nei partiti durante gli anni Sessanta va menzionata la tesi dello studioso tedesco, esule negli Stati Uniti, O. Kirchheimer, che parla dell'inevitabile avvento di una nuova forma di partito come partito ''pigliatutti''. Prodotto da fenomeni sociali ed economici − prosperità, declino delle ideologie, riduzione dei conflitti, accresciuto ruolo dei mass media -, il partito ''pigliatutti'' definisce un tipo di partito ormai unicamente interessato a richiamare e a estendere in maniera indifferenziata il proprio elettorato. A tal fine accentua il ruolo della leadership a scapito di quello degli iscritti e degli attivisti, si apre all'influenza dei gruppi di pressione, stempera il suo programma.
Variamente ripresa, discussa, sottoposta a verifica, la tesi di Kirchheimer continua a permeare il dibattito sul ruolo dei p.p. nelle democrazie occidentali. Ci si chiede se essi governino davvero, come e quanto (Castles e Wildenmann 1986; Katz 1988), vale a dire se le risorse che essi acquisiscono e utilizzano, di cui si appropriano e che distribuiscono siano molte o poche rispetto a quelle disponibili in un dato sistema. Ci si chiede se le loro decisioni siano davvero rilevanti, vale a dire se facciano un'effettiva differenza rispetto alle tendenze della società e dell'economia (Castles 1982), oppure se i partiti non possano essere altro che gestori di situazioni che non riescono, non sanno, non vogliono modificare. Ci si chiede se siano venute meno tutte le differenze, anche fra partiti conservatori e progressisti, di destra e di sinistra, vale a dire se i partiti si assomiglino sempre di più e quindi non offrano reali alternative, ragion per cui la stessa alternanza di coalizioni o di partiti apporterebbe variazioni inconsistenti alle politiche pubbliche. Ci si chiede, infine, se essi abbiano ancora compiti da svolgere e un futuro da vivere. Per quanto la letturatura più importante non sia concorde sulle risposte a questi quesiti, in generale prevalgono quanti affermano che i partiti fanno una differenza, che fra di loro esistono differenze anche nelle politiche pubbliche e non solo nelle affermazioni programmatiche, che i partiti non sono organizzazioni in declino ineluttabile (von Beyme 1982; Wolinetz 1988).
Variamente criticati per la loro incapacità di rappresentare efficacemente società che cambiano, per la loro struttura burocratica oppure per il loro essere esposti ai gruppi di pressione e alle lobbies, per la loro occupazione delle istituzioni oppure per l'inadeguatezza decisionale e governativa, i p.p. continuano a essere l'organizzazione politica maggiormente diffusa in tutti i sistemi politici: occidentali, comunisti, ex comunisti, del Terzo Mondo. In qualche modo, con tutte le differenze del caso, i partiti e i vari sistemi di partito costituiscono uno strumento di modernizzazione, talvolta a carattere autoritario, e di competizione, per lo più democratica.
Nel corso del tempo, i partiti hanno spostato l'asse delle proprie attività dall'organizzazione della società, dal tentativo di educare e far partecipare, all'impegno nelle istituzioni, all'espletamento di un ruolo di governo. Così facendo, naturalmente, hanno dovuto cambiare le loro strutture e reclutare personale di tipo diverso; sono quindi diventati organizzazioni più attente e più sensibili agli imperativi elettorali, e risultano composti da un minor numero di burocrati e da un maggior numero di tecnici.
Numerosi sono stati i gruppi e le formazioni sociali che hanno assunto posizioni vicarie o alternative rispetto ai p.p. negli ultimi due decenni. A volta a volta sono stati i sindacati a proporsi come alternativa praticabile, poi i movimenti sociali a dichiararsi rappresentativi di società in mutamento, poi i mass media a farsi interpreti delle esigenze della cittadinanza. Tuttavia è apparso chiaro che, con tutte le loro inadeguatezze, i p.p. rimangono, almeno per questa fase storica, e non solo nel mondo occidentale, insostituibili. Infatti, soltanto i partiti possono svolgere congiuntamente, seppure con enfasi diverse e con gradi diversi di successo, le tre più importanti funzioni: partecipazione politica, competizione elettorale, governo. Ciò che viene spesso interpretato come un declino dei p.p. nelle democrazie occidentali, va invece letto come un insieme di fenomeni di ridefinizione dei compiti dei p.p. e di ridistribuzione del potere fra società, partiti e istituzioni. Insomma, le trasformazioni dei partiti segnalano la trasformazione della politica, della sua quantità e della sua qualità, nelle democrazie occidentali. Organizzazioni flessibili e adattabili, per quanto criticabili, i partiti hanno dimostrato di saper durare, rappresentando la società e governandola comunque meglio di qualsiasi altra struttura alternativa.
Bibl.: M. Duverger, Les partis politiques, Parigi 1951 (trad. it., Milano 1961); O. Kirchheimer, The transformation of Western European party systems, in Political parties and political development, a cura di J. La Palombara e M. Weiner, Princeton 1966, pp. 177-200; S. Rokkan, Citizens, elections, parties, Oslo 1970 (trad. it., Bologna 1982); G. Sartori, Parties and party systems, New York 1976; L. Epstein, Political parties in western democracies, Londra 1980; G. Pasquino, Crisi dei partiti e governabilità, Bologna 1980; K. von Beyme, Parteien in westlichen Demokratien, Monaco 1982 (trad. it., Bologna 1987); The impact of parties. Politics and policies in democratic capitalist states, a cura di F.G. Castles, Beverly Hills-Londra 1982; A. Panebianco, Modelli di partito. Organizzazione e potere nei partiti politici, Bologna 1982; G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, Milano 1982; Western European party sistems, a cura di H. Daalder e P. Mair, Beverly Hills-Londra 1983; New political parties, n. speciale di International Political Science Review, 6, 4 (1985); Visions and realities of party government, a cura di F.G. Castles e R. Wildenmann, Berlino 1986; R.J. Dalton, Citizen politics in western democracies. Public opinion and political parties in the United States, Great Britain, West Germany, and France, Chatham (N.J.) 1988; Party governments: European and American experiences, a cura di R.S. Katz, Berlino 1988; When parties fail: Emerging alternative organizations, a cura di K. Lawson e P.H. Merkl, Princeton 1988; G. Pridham, Political parties and coalitional behaviour in Italian politics, Londra-New York 1988; Political parties in the Third World, a cura di V. Randall, Beverly Hills-Londra 1988; Parties and party systems in liberal democracies, a cura di S. Wolinetz, New York-Londra 1988.
Storia. -La storia dei p.p. italiani negli anni dal 1978 al 1994 può essere suddivisa in due fasi. Una prima fase, più lunga, corrisponde al periodo fino al 1989, ma con propaggini fino al 1993: sono anni contrassegnati dalla sostanziale stabilità del sistema dei partiti e dall'apogeo della partitocrazia. Una seconda fase, più breve, va dal 1989 al 1994 ma con una potente accelerazione degli eventi a partire dal 1993: in questi anni gli elementi di novità e i tentativi di aggiustamento appena avviati vengono affiancati e travolti da una drammatica crisi del sistema, sotto l'urto delle inchieste giudiziarie di ''tangentopoli''. La nuova legge elettorale fornirà poi gli strumenti per l'affermazione di nuovi soggetti e di nuovi protagonisti nelle elezioni politiche del marzo 1994 (v. anche italia: Storia; e parlamento in questa Appendice).
Il sistema dei partiti e la partitocrazia. - Il sistema politico italiano è stato, per tutto il periodo 1948-94, un sistema bloccato, privo di quell'elemento vitale di ogni democrazia, rappresentato dalla possibilità di alternanza fra maggioranza e opposizione. Questa particolarità e questa anomalia italiana − definite dalla fortunata formula di "bipartitismo imperfetto" (Galli 1966) − riposavano su precise ragioni storiche legate al quadro politico e istituzionale succeduto al fascismo. Le prime elezioni dopo il varo della Costituzione repubblicana avevano sancito una divisione fra partiti legittimati e partiti non legittimati. A questo risultato aveva concorso anche la definitiva collocazione dell'Italia nel quadro delle alleanze occidentali, una scelta che l'elettorato aveva apprezzato a larga maggioranza. Questa scelta e la contemporanea espansione del dominio sovietico nell'Europa orientale avevano definitivamente escluso il PCI (e, in questa fase, il PSI suo alleato) dal novero delle forze a cui poteva essere riconosciuta una legittima aspirazione a governare. Si trattava di una sentenza emessa tanto dagli elettori che dai partiti usciti vincitori dallo scontro del 18 aprile 1948. Il PCI dal canto suo appariva tutt'altro che propenso ad abbandonare la sua collocazione internazionale e la scelta di campo filosovietica, elementi portanti della sua tradizione e ragione di consenso presso il suo elettorato. Il recupero tentato, sul versante della legittimazione, rivendicando la comune lotta contro il fascismo non fu mai considerato sufficiente. Questa rivendicazione, nel momento in cui veniva agitata prevalentemente da forze politiche escluse, contribuì paradossalmente a indebolire l'opzione antifascista affievolendone il ruolo di elemento fondante della repubblica e di presupposto per una nuova pedagogia della nazione. La scelta antifascista veniva fatta valere invece sul versante di destra dello schieramento politico-parlamentare impedendo la legittimazione dei monarchici e dei neofascisti del MSI. Si ebbe così un sistema caratterizzato da un forte blocco di centro, da contrasti ideologici molto alti, da una debole dialettica di governo e da impossibili alternative così a destra come a sinistra.
La DC del resto era tutt'altro che propensa a lasciarsi confinare nel ruolo di partito conservatore e di destra. Non lo era e quella collocazione era occupata da altri. Del resto l'assenza di un partito conservatore datava dagli esordi della storia unitaria. Un ruolo conservatore svolsero in una certa fase dell'Italia liberale le forze cattoliche e clericali, ma fuori del Parlamento autoescludendosi dalla partecipazione e rimanendo in un'area delegittimata. Ma quando i cattolici si presentarono come partito ciò avvenne sotto l'insegna del popolarismo. Forse l'unico momento in cui scattò il meccanismo dell'alternanza al potere fu nel passaggio dal governo della Destra storica a quello della Sinistra nel 1876. Ciò non avvenne tuttavia in seguito a una prova elettorale, ma nell'ambito di una crisi parlamentare. Il graduale ricompattamento degli schieramenti intorno a un centro con aperture di moderato progressismo caratterizzò − salvo brevi momenti − tutta la storia parlamentare successiva. In nessun momento della storia d'Italia fino a oggi fu riconosciuto alle ali estreme di potersi proporre come autonome forze di governo, come parte tendenzialmente maggioritaria del paese.
Dopo il 1948 il ruolo di elemento centrale del sistema toccò alla DC, un ruolo mantenuto ininterrottamente fino alla crisi dei primi anni Novanta. Una posizione centrale inattaccabile dalle opposizioni, ma soprattutto sostenuta da un largo e variegato consenso nel paese. La DC infatti non solo godeva dell'appoggio della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche, ma disponeva di un radicamento interclassista (nella borghesia, nei ceti medi, nei ceti rurali e nella classe operaia) che era fra le ragioni della sua stabilità e della sua capacità di durata. La centralità della DC era dunque duplice, in Parlamento e nel paese. Questa posizione e questo ruolo non fu solo un portato delle dinamiche politiche fra i partiti, ma anche il risultato di una politica, quella di De Gasperi, che mirò a consolidare intorno al suo partito un sistema di alleanze (centrismo) che proteggeva la DC dai potenziali attriti con il moderatismo di destra e di sinistra. La partecipazione all'alleanza di PLI, PRI e PSDI arricchiva il centro con l'apporto di tradizioni estranee alla storia dei cattolici democratici: quella liberale-conservatrice, quella repubblicana, quella social-democratica.
L'elettorato interclassista della DC − e la sua larga base popolare − assicurarono alle forze di governo la possibilità di superare abbastanza agevolmente i momenti di tensione di classe dei primi anni Cinquanta. L'egemonia comunista su questi movimenti ne spostava di fatto la valenza dal terreno delle lotte di lavoro a quello antisistema giustificandone la repressione e limitandone l'efficacia. Questa prima caratteristica di lunga durata del sistema politico italiano, ossia la salda presenza di un polo di centro, era assicurata da un altro elemento derivante direttamente dal sistema elettorale proporzionale. Questo sistema, varato già nel 1945 e 1946, riprendeva quello del 1919, ed era stato esplicitamente scelto vuoi come recupero dei meccanismi elettorali cancellati dal fascismo, vuoi perché, in una fase costituente, poteva garantire una rappresentanza anche minima a tutti i partiti. Il sistema così strutturato consentì quindi una presenza alle tradizioni politiche prefasciste e le mantenne in vita anche in presenza di esigui risultati elettorali.
Quando dalla fine degli anni Settanta il dibattito sui caratteri del sistema politico si riaccese, fra le proposte di correzione fu avanzata anche quella di intervenire sulla legge elettorale introducendo uno sbarramento simile a quello esistente in Germania: una soglia minima dell'ordine del 3-5% (in Germania è del 5%) avrebbe semplificato il quadro politico e costretto i partiti più piccoli ad accorparsi. La proposta tuttavia non piacque a nessuno dei protagonisti e dei destinatari. In primo luogo perché il partito proponente, il PSI, ne sembrava il principale beneficiario; in secondo luogo perché i destinatari, ossia i partiti laici minori, avrebbero perso il loro ruolo di supporto e la loro capacità di contrattazione: fatto che si sarebbe tradotto immediatamente in una riduzione d'importanza del loro ceto politico. Inoltre questa operazione appariva, ai partiti maggiori, come una limitazione delle ipotesi di alleanza. Infine perché tutte le fusioni o le alleanze realizzate negli anni precedenti erano state penalizzate dall'elettorato che riservava ai nuovi raggruppamenti una percentuale di voti sempre inferiore a quella di cui disponevano i partiti di origine. L'unica semplificazione fu quella derivante dall'estinzione di alcuni partiti. E questo percorso si era compiuto solo sul fronte di destra, con la scomparsa dei monarchici. A sinistra invece il quadro si arricchì con gli anni di altre presenze: radicali, PSIUP, PDUP, Democrazia proletaria, ecc.
La frammentazione favorita dal sistema elettorale diveniva così un dato permanente i cui apparenti vantaggi si distribuivano su tutti i partiti. Non a caso è stata impiegata la formula "repubblica dei partiti" (Scoppola 1991) per indicare il carattere dominante del sistema politico italiano e insieme individuare una chiave di lettura della storia del secondo dopoguerra.
Il riconoscimento, nella Costituzione scritta e in quella materiale, di una investitura definitiva ai partiti era dunque uno degli elementi d'irrigidimento del sistema. In più nei partiti come universi ideologici e modelli di vita −in quello comunista innanzitutto − si poteva consumare tutta l'esperienza politica indipendentemente dall'esclusione dal potere. Un'esclusione che riguardava tuttavia solo il governo centrale, perché invece in periferia − grazie anche alla legge maggioritaria in vigore fra il 1951 e il 1956 − il PCI consolidò la sua presenza nei comuni e nelle province ''rosse'' creando in esse una diversa, ma anche qui inattaccabile ''centralità''.
Il ruolo centrale dei partiti conserva tutta la sua validità anche nelle fasi di cambiamento politico. Queste non sono indotte direttamente da trasformazioni sociali in grado di innescare un rapido mutamento. Sono invece accompagnate da un periodo di aggiustamento nella collocazione dei partiti tanto da perdere, al momento della realizzazione, gran parte della loro iniziale forza innovativa. Fu così per l'avvio del centrosinistra fra il 1958 e il 1960-61, e per la partecipazione del PCI alla maggioranza di governo nel 1978-79.
Questo predominio dei partiti nel controllo della dinamica politica può essere agevolmente ritrovato esaminando il ruolo giocato a più riprese dal PSI dai tardi anni Cinquanta ai primi anni Novanta. Il PSI è l'elemento di maggiore mobilità, ma rimane − forse al di là delle intenzioni − il maggior freno alla trasformazione del sistema. Il suo compito infatti si limita ad allargare verso sinistra l'area di governo estendendo quella delle forze legittimate. Impedito dalla sua intrinseca debolezza − e dalla povertà strategica dei suoi leader - conserva una posizione subordinata tanto alla DC che al PCI, incapace di rafforzarsi a spese dei partiti laici minori e di sottrarre consensi ai due partiti maggiori. Quando, alla fine degli anni Settanta, il PSI cercò di imporre − questa volta riuscendoci − una sua strategia, poté al massimo impedire il definitivo consolidamento del bipolarismo DC-PCI. Una strategia fondata sull'accentuazione del ruolo del PSI come garante ineliminabile della governabilità, una governabilità basata sull'esclusione del PCI dalle ipotesi di maggioranza. Una strategia che prevedeva l'alleanza con una parte della DC e un sistematico attacco al PCI sul versante ideologico e programmatico. Una scelta che comportava la garanzia del definitivo abbandono della politica di compromesso storico incentrata sull'incontro DC-PCI. Il massimo sfruttamento di questo potere di interdizione mirava a correggere la sproporzione di forze che separava il PSI dai due partiti maggiori. In questo ambito in realtà i risultati furono modesti, mentre è indubbio che la strategia socialista riuscì a far fallire l'unica ipotesi di sblocco del sistema che, attraverso la legittimazione del PCI, avrebbe potuto avviare una politica dell'alternanza.
Anche le scelte del PCI si mossero paradossalmente nella stessa direzione. Se la gravità della crisi attraversata dal paese alla metà degli anni Settanta sotto la spinta delle difficoltà economiche e del terrorismo giustificava la politica del compromesso storico, il rapidissimo ripiegamento del PCI dal sostegno al governo all'opposizione avvenne prima di aver ottenuto una legittimazione definitiva, diversamente da quanto era accaduto, per es., in Germania dove la SPD negli anni Sessanta attraverso la partecipazione alla grande coalizione aveva posto le premesse per la sua andata al governo. Ma a ostacolare una soluzione analoga in Italia stava la permanente connotazione del PCI e la sua autorappresentazione come forza orgogliosamente diversa, in quanto potenziale interprete di un modello politico radicalmente alternativo. Non un'opposizione nel sistema dunque, ma un'opposizione al sistema. Non è possibile, allo stato attuale degli studi, valutare adeguatamente in che misura fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta la dirigenza del PCI abbia esaminato la possibilità di tagliare definitivamente i legami con l'URSS e procedere anche a una revisione del proprio passato, in una fase in cui i comunisti disponevano di un largo consenso nell'elettorato e, con E. Berlinguer, di una leadership prestigiosa. Infatti se c'era un leader in grado di operare una svolta che andasse al di là degli strappi progressivi (compiuti fra il 1976 e il 1981) questi era Berlinguer (v. in questa Appendice). Prevalse invece nella sostanza una difesa della tradizione del comunismo italiano con la sua specificità nazionale e con i suoi marginali dissensi (espressi in epoche diverse anche da A. Gramsci, P. Togliatti e L. Longo) e insieme l'ossessione, di stampo in qualche misura ancora terzinternazionalista, nei confronti delle socialdemocrazie e dell'estremismo di sinistra.
Il bipolarismo italiano aveva dunque in sé una radicale anomalia: escludendo di fatto la possibilità di alternanza contribuiva a mantenere bloccato il sistema.
Per comprendere compiutamente la storia dei partiti di quegli anni va tuttavia ricordato che le considerazioni sul carattere rigido e privo di alternative della democrazia italiana appartenevano a un numero ristretto di pubblicisti e di politologi. Nelle analisi e nelle indicazioni dei politici il modello dominante era piuttosto quello dell'allargamento progressivo verso sinistra della maggioranza, secondo il meccanismo collaudato delle graduali e successive cooptazioni, avviato con il PSI nei primi anni Sessanta. Ciò rispondeva a una strategia di una larga parte del partito cattolico volta a consolidare il consenso sociale nel paese, a ridurre il rischio di potenziali fratture, ad assicurare maggiori possibilità di azione in un quadro politico di cui anche il PCI fosse forza integrante. Le discussioni su alternative e alternanze erano più esercitazioni e abbellimenti teorici che prospettive concrete.
Oltre ai vincoli derivanti dal meccanismo elettorale e dalle scelte strategiche dei partiti, a impedire una trasformazione verso un sistema di alternanza fra maggioranza e opposizione con tutti i potenziali vantaggi derivanti da una più chiara assunzione di ruoli definiti di responsabilità e di controllo, ostava la prassi ormai consolidata del consociativismo. Con questo termine non si indica soltanto la gestione spartitoria delle cariche o la convergenza di maggioranza e opposizione su molte leggi di spesa, con pericolosi accrescimenti del debito pubblico. Si indica più in generale una politica diffusa − divenuta una sorta di costituzione materiale − in base alla quale il conflitto da elemento fisiologico diviene rischio patologico da evitare ricercando e negoziando il consenso dell'opposizione di sinistra. Corrispondeva a una scelta di fondo dei due maggiori partiti, DC e PCI, derivante dal comune radicamento interclassista, dalla propensione per la delega al sindacato, dall'analoga vocazione per la protezione di gruppi sociali e corporazioni. Era infine garanzia di pace sociale che non metteva in gioco le reciproche diversità. Era una politica di compromesso nata nel 1975-76 dopo i successi elettorali del PCI e destinata a durare ben oltre la fine dei governi di solidarietà nazionale. Pur avendo realizzato alcune riforme significative, questa non fu mai una sistematica politica riformatrice perché non era sorretta da un progetto complessivo. Allargò e intensificò gli interventi in campo sociale espandendo tuttavia senza controlli la spesa pubblica.
In questo contesto il consociativismo si rivelò un ulteriore elemento di conservazione del sistema. E la conservazione del sistema divenne un obiettivo prioritario del ceto politico. Negli anni Ottanta giunse infatti a compimento un lungo processo di mutazione genetica del personale politico. La politica non era più solo una professione, ma era scelta, sentita e vissuta come una via di ascesa economica e sociale. Non riguardava solo il numero relativamente ristretto dei rappresentanti in Parlamento o dei funzionari del partito, ma la miriade di membri delle amministrazioni locali (regionali, provinciali, comunali), degli organi di gestione della sanità, dei consigli di amministrazione degli enti, ecc. Gli addetti alla politica, nell'accezione più ampia, sono ormai in questa fase, secondo alcuni calcoli, centinaia di migliaia. La natura dei partiti cambia radicalmente. Si riduce progressivamente la presenza capillare nel territorio, anche per il PCI che pure mantiene in vita questa struttura. Il partito diviene prevalentemente luogo di formazione e sostegno delle candidature, di reclutamento del personale, di distribuzione degli incarichi. Il tutto secondo criteri di cooptazione e di fedeltà più che come delega dal basso. Il meccanismo di partecipazione e spartizione segue solo in parte quello della competenza secondo un'applicazione assai estesa − e radicata nella tradizione italiana − del ''primato della politica''. La stessa militanza, nei partiti al governo, è in funzione prevalente dell'attribuzione degli incarichi. Il fenomeno coinvolge, seppure in gradi diversi, tutte le forze politiche, anche se − da regione a regione, da partito a partito − varia il livello di competenza richiesto e accertato.
Si realizza una capillare fusione fra società civile e ceto politico che sembra smentire quanti sottolineano la distanza fra il paese reale e i partiti. La distanza c'è, invece, e anzi si accresce in rapporto alla coscienza critica dell'opinione pubblica, ma intanto prospera il clientelismo che come meccanismo principe delle relazioni sociali invade tutta la sfera politica e prende rinnovato slancio da questa. Tutti i partiti, dove gestiscono anche una quota minima del potere, operano secondo procedure clientelari. Le lotte e i contrasti riguardano le dimensioni delle aree riservate a ogni partito (e in subordine a ogni corrente), ma in esse poi ogni gruppo è sovrano. Dipende dalla ''moralità'' di ogni singolo partito, non dall'efficacia dei controlli, far prevalere la competenza, la professionalità o privilegiare solo l'appartenenza.
Il carattere sostanzialmente interclassista dei partiti e l'appiattimento della lotta sociale (dagli anni Settanta) aveva svuotato di valori, di motivazioni ideologiche e programmatiche le forze politiche, privandole della loro originaria connotazione (e ruolo) di rappresentanza di interessi sociali, di ceti, di gruppi, ecc. La crisi delle istituzioni e del sistema politico può essere compresa anche alla luce di una vittoria della società clientelare sulla società politica, se per società politica intendiamo un sistema caratterizzato dai meccanismi di una rappresentanza tendenzialmente equilibrata di ideali e di interessi, di tradizioni e di programmi, volta soprattutto − in virtù della mediazione operata dai partiti − al bene pubblico, rispettosa delle esigenze collettive nell'esercizio del potere, in grado di trasformare un'indicazione quantitativa − ossia un determinato numero di voti − in una scelta di qualità. La società clientelare è invece regolata da principi diversi: in essa la rete dei favoritismi fa premio non solo sugli ideali, ma soprattutto sugli interessi collettivi; il potere si presenta come titolarità e esercizio del privilegio; sul ''progetto'' incarnato in un partito prevale una costellazione di vantaggi − anche molto estesi −che fanno capo a individui o a gruppi; in essa l'influenza, la funzione protettiva attribuita al singolo sono contenuti ineliminabilli della delega.
Negli anni Ottanta e all'inizio degli anni Novanta la partitocrazia e il suo universo clientelare raggiungono la massima espansione. I partiti infatti non solo sono la chiave di volta del sistema politico, in quanto organismi per la raccolta delle opinioni e la tutela degli interessi dei cittadini, ma hanno pervaso ormai l'intero spazio pubblico del paese, dalle istituzioni alle banche, ai giornali, alla televisione di stato. Anche l'opposizione di sinistra ha le sue aree riservate, certamente non proporzionali alle dimensioni del suo consenso elettorale e quindi relativamente esigue, ma significative, al centro del potere, abbastanza estese invece localmente e tutte saldamente tutelate. Sostanzialmente esclusa è l'opposizione di destra, il MSI, che per i suoi espliciti legami con il passato fascista è fuori dall'arco costituzionale. La dimensione consociativa corrisponde in questa fase ai soli partiti dell'originario patto antifascista. Ne sono fuori quindi anche i piccoli partiti di più recente formazione, i radicali innanzitutto, e la nuova sinistra uscita dai movimenti del 1968-69.
La partitocrazia aveva tuttavia un costo: non solo quello politico imposto al paese in termini di chiusura delle prospettive di rinnovamento, ma anche un costo finanziario in senso proprio, un costo palese e uno occulto. Quello palese derivava dal finanziamento pubblico dei partiti, una disposizione largamente contestata, istituita nel 1974 dopo il primo grave scandalo sui finanziamenti illegali. Il costo occulto presentava almeno due aspetti: il primo era quello relativo alle innumerevoli assunzioni superflue e di favore con cui la partitocrazia beneficiava i suoi clienti a spese del pubblico erario. Ma la parte forse più rilevante era quella proveniente dai finanziamenti illeciti pretesi e raccolti con il sistema delle ''tangenti'' dalle imprese pubbliche e private. Le inchieste giudiziarie avviate a partire dal 1992 hanno messo in luce le dimensioni gigantesche delle spese per gli apparati e per le campagne elettorali dei partiti. Salvo qualche caso è rimasta invece nell'ombra l'entità dei contributi distribuiti ai singoli e le forme di finanziamento personale. È emerso con tutta chiarezza che non si trattava di contributi volontari, ma di un'esazione sistematica a danno delle attività economiche: un costo che ricadeva comunque sulla collettività, a cui in ultima analisi erano imputate le maggiori spese derivanti dal sistema delle tangenti.
Il sistema era noto e tollerato anche se non ne erano conosciute la diffusione capillare e l'entità complessiva. Le inchieste giudiziarie e le innumerevoli ammissioni di politici e imprenditori hanno dimostrato l'esistenza di un'endemica corruzione politica e insieme la sistematica violazione delle regole che gli stessi partiti si erano dati. Una violazione che certamente alterava la correttezza delle campagne elettorali a vantaggio di chi più agevolmente aveva accesso ai finanziamenti illeciti. Lo stesso PCI non se ne era mai fatto soverchio carico attingendo per parte sua a finanziamenti irregolari provenienti in origine prevalentemente dai paesi comunisti, in seguito anche dalle attività economiche di cooperative e imprese legate al partito.
In un ambito di prima ricostruzione storica si è sostenuto che il finanziamento dei partiti, nella forma assunta in Italia, sia stato innescato dall'ampiezza dell'apparato e delle risorse di cui disponeva il PCI fin dall'immediato dopoguerra: risorse derivanti dal contributo dei numerosi iscritti, ma soprattutto dagli aiuti dell'URSS. La DC avrebbe risposto cercando all'estero il sostegno degli USA e all'interno quello delle organizzazioni industriali, per poi raggiungere una propria ''autonomia'' finanziaria avviando quel legame con gli enti statali e parastatali (in primo luogo l'ENI di E. Mattei) destinato a continuare anche in seguito. Questo attingere ai settori pubblici dell'economia divenne gradatamente un sistema esteso ai più diversi ambiti di intervento dello stato, per spingersi fino al punto in cui gli investimenti, sia diretti che in forma di incentivi, appaiono funzione dei finanziamenti illeciti. È questo un monento decisivo che instaura un rapporto destinato a divenire indissolubile fra spesa pubblica e finanziamento ai partiti.
Nonostante gli scandali emersi a più riprese , l'illusione di una sostanziale impunità ampliava indefinitamente l'ambito della corruzione. E mentre l'opinione comune, che da sempre condivideva lo stereotipo un po' cinico del ''politico ladro'', era disposta a giustificare gli illeciti compiuti in nome del partito o a tollerare un certo tasso di disonestà in cambio di favori e protezioni, rimaneva tuttavia sopraffatta dalle dimensioni di un fenomeno ormai fuori controllo, in cui l'arricchimento personale era divenuto una componente fondamentale. Se i padri della repubblica non sembravano personalmente imputabili, i loro tardi eredi davano un'immagine radicalmente diversa: l'ostentazione del potere e dei benefici connessi costituiva una conferma di quella mutazione del ceto politico cui s'è accennato.
Simmetricamente maturava nell'opinione comune una radicale diffidenza nei confronti dei partiti e dei loro esponenti. Ma proprio i partiti, che per loro natura dovevano essere gli interpreti di quanto si muoveva nel paese, sembravano i più restii a recepire il dissenso diffuso, convinti di poter riassorbire i segnali di crisi procedendo gradualmente alle riforme istituzionali. In realtà i partiti non erano in grado di riformare il sistema politico e istituzionale. Si trattava per gran parte infatti di un'autoriforma per la quale non erano preparati. Il dibattito era aperto da tempo, le ipotesi erano varie − repubblica presidenziale, riforma elettorale maggioritaria, cancellierato, elezione diretta del premier, ecc. − ma su nessuna vi era una qualche convergenza di consensi.
L'accelerazione della crisi fu così indotta, alla fine degli anni Ottanta, da alcuni elementi esogeni. In realtà le avvisaglie della crisi erano presenti da tempo. Già in un referendum del 1978 il 43,7% degli Italiani aveva votato per l'abrogazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Negli anni successivi il ricorso ai referendum si era intensificato testimoniando l'inefficienza dei partiti e del Parlamento su alcune questioni cruciali. Nelle amministrative del 1988 si era registrato il primo successo di una forza antisistema come la Lega lombarda (v. italia: Storia, in questa Appendice). Alla fine del 1989 il crollo del comunismo in Europa orientale e la caduta del muro di Berlino, simbolo visibile della fine di un'epoca, avevano indotto il segretario del PCI A. Occhetto ad annunciare la trasformazione del suo partito, il cambiamento del nome e del simbolo, la rinuncia al comunismo. L'iniziativa di Occhetto rovesciava uno dei pilastri su cui si reggeva il sistema bloccato italiano, mirava a conferire legittimità alla nuova formazione post-comunista, sembrava impostare finalmente i presupposti di un sistema corretto di alternanza, cancellando una delle ragioni del bipartitismo imperfetto. Ma l'eredità del passato apparve ben presto più forte delle propensioni al cambiamento. Del resto aver compiuto la svolta quando anche l'ultimo baluardo visibile del comunismo era caduto, dopo che da tempo ne erano crollati tutti i baluardi ideologici, riduceva il significato e l'efficacia politica dell'operazione. Nella lunga e faticosa gestazione della nuova forza politica nata dal PCI, il Partito Democratico della Sinistra (PDS, fondato nel febbraio 1991), il peso della tradizione impedirà l'aggregarsi intorno a essa di altre forze e provocherà la scissione dell'opposizione di sinistra. Sull'altro fronte il crollo del comunismo provocò una crisi di strategia nella DC, sgretolando le ragioni del ciclico ricompattamento intorno alle parole d'ordine dell'anticomunismo e insieme mettendo improvvisamente alla luce tutte le ambiguità proprie di un partito al tempo stesso popolare e moderato.
Contemporaneamente a questo difficile adattamento delle vecchie forze a un quadro politico in trasformazione, gli elementi di rottura innescati dai referendum continuavano a operare. Il 9 giugno 1991, infatti, oltre il 95% dei votanti aveva espresso il suo consenso alla proposta di abrogazione che consentiva di introdurre la preferenza unica nelle elezioni per la Camera dei deputati. Veniva così ridotto il potere degli apparati dei partiti nell'imporre le candidature in un sistema di voto di lista. Sull'onda del successo in questo referendum, per il quale aveva votato oltre il 60% degli aventi diritto, i gruppi referendari e il loro leader di maggiore spicco, il democristiano M. Segni, puntavano a modificare la legge elettorale per via referendaria aggredendo il sistema istituzionale nei punti di minor resistenza e apparentemente di minore importanza. C'era stato tuttavia chi, come il leader socialista B. Craxi, aveva avvertito tutta la pericolosità di queste procedure per il sistema dei partiti e aveva di conseguenza invitato apertamente gli elettori a disertare il referendum.
Il nuovo Parlamento insediato dopo le elezioni del 1992 non riusciva ad avviare le riforme istituzionali né a trovare un accordo sulla nuova legge elettorale. Fu così ancora una volta un referendum a imprimere un'accelerazione agli eventi e a indicare una soluzione. Il 18 aprile 1993 con l'abrogazione di alcune formulazioni della legge elettorale veniva introdotto il sistema uninominale maggioritario al Senato. Al di là dei tecnicismi, tutt'altro che evidenti alla maggioranza dei votanti, il significato della proposta era chiarissimo: testimoniare la sfiducia nei confronti dei partiti e della partitocrazia messi a nudo dallo scandalo di ''tangentopoli''. Nell'illusione di poter controllare il cambiamento quasi tutti i partiti, e tutti i principali, si erano schierati − con un'operazione trasformistica − a favore del Sì. Ma i veri vincitori erano i promotori del referendum (il cui movimento sembrava configurare una nuova formazione politica guidata da Segni) e i grandi organi d'informazione che ne avevano sostenuto la battaglia e che ora celebravano la nascita della seconda repubblica. La data del 18 aprile richiamava quella analoga del 1948 quando aveva preso avvio l'egemonia democristiana. Ma per quanto tutti fossero consapevoli della svolta, nessuno poteva immaginare quanto fatidica per il sistema dei partiti e per la classe politica sarebbe stata quella del 1993.
Le elezioni del 1994. − Il passaggio al sistema uninominale maggioritario era tutt'altro che agevole per partiti cresciuti all'interno di quello proporzionale di lista. E nelle discussioni intorno alle nuove leggi elettorali imposte dal referendum fu subito evidente il tentativo di arginare i rischi e le incognite del maggioritario. La migliore garanzia per i partiti e per i loro apparati fu quella di mantenere una quota di seggi, pari al 25%, da assegnare con la proporzionale. Fu invece scartato, per il maggioritario, il doppio turno con ballottaggio − suggerito da molti commentatori e politologi in analogia con il modello francese − per il timore dei maggiori partiti di veder coalizzati contro di sé nel secondo turno tutte le altre forze proprio nelle zone di più forte radicamento territoriale (il Nord per la Lega, le regioni ''rosse'' per il PDS, il Sud per la DC), dove cioè sembrava scontato ottenere la maggioranza al primo turno.
Contemporaneamente i risultati delle votazioni comunali del giugno e del novembre-dicembre 1993 (dove si votava con il nuovo sistema che prevedeva l'elezione diretta del sindaco e un premio di maggioranza per la coalizione vincente) davano segnali apparentemente non equivoci sulle tendenze dell'elettorato: confermavano la forza, ma anche l'isolamento della Lega al Nord, dimostravano la capacità del PDS di guidare un sistema di alleanze di sinistra vincente in molte grandi città (Torino, Venezia, Trieste, Roma, Napoli, Catania, ecc.), segnalavano un vistoso successo del MSI in molti comuni centro-meridionali. In gravissima crisi era la DC, quasi scomparsi il PSI e gli altri partiti laici della vecchia maggioranza pentapartito. Il rilancio delle ali estreme − del PDS come partito leader a sinistra, anche se sostanzialmente fermo in termini di voti, e del MSI invece in netta ascesa −, la conferma di una forza nuova come la Lega e la crisi dei partiti di centro-sinistra erano tutti indicatori se non di nuovi e consolidati comportamenti politici, certamente di una fase di mobilità elettorale.
A tutti questi elementi si aggiungeva il fatto che quasi tutti i leader e molte figure di spicco del vecchio pentapartito erano o sotto inchiesta per le tangenti o pesantemente coinvolti dai sospetti. Lo svuotamento del centro segnalava infine una vistosa anomalia nella tradizione politica italiana e poneva l'interrogativo sulle future dislocazioni dell'elettorato moderato soprattutto in previsione delle nuove consultazioni politiche previste per la primavera 1994. Non pareva possibile che il nucleo centrale del sistema politico italiano potesse rimanere troppo a lungo allo sbando.
In risposta a queste incertezze tutti i partiti avevano dato avvio a una fase più o meno accelerata, più o meno convinta di trasformazione. Per alcuni la disgregazione appariva inevitabile: era il caso soprattutto del PSI che dopo le dimissioni di Craxi aveva successivamente affidato la segreteria a due ex sindacalisti, prima G. Benvenuto poi O. Del Turco, senza riuscire a riaccreditare un'immagine e ricostruire una credibilità. Anche nel PSDI, nel PRI e nel PLI la soluzione della crisi che aveva colpito i vertici si traduceva nel tentativo di sopravvivenza di singoli esponenti politici meno compromessi, ma minacciati dall'avvento del sistema maggioritario. La DC, sotto la guida di M. Martinazzoli, aveva imboccato la strada del rinnovamento puntando anche sul cambiamento del nome in Partito popolare italiano inteso come un significativo ritorno alle origini del popolarismo cattolico. Rimanevano però, al suo interno, insuperabili divisioni fra le posizioni moderate e quelle di sinistra più vicine al segretario. Il 22 gennaio 1994, quando l'Assemblea costituente diede vita al Partito popolare italiano (PPI), non vi aderì un gruppo di dirigenti, guidato da P.F. Casini, F. D'Onofrio e C. Mastella, che diedero vita al Centro cristiano democratico. Nello stesso giorno era stata formalizzata la trasformazione, preannunciata nel novembre precedente, del MSI in Alleanza nazionale nella quale confluivano anche alcuni esponenti democristiani. Il segretario G. Fini, sull'onda del suo personale successo nel confronto per la carica di sindaco di Roma nel 1993 (dove era stato sconfitto di misura dal verde F. Rutelli), aveva cercato di definire i rapporti con la tradizione fascista con l'obiettivo di consolidare una legittimazione conferita per ora solo dai risultati elettorali. Ribadita la scelta democratica del suo partito, Fini dichiarò a più riprese, superando anche alcune resistenze interne, che il fascismo era finito nel 1945, ma sottolineò la positività di un personaggio come Mussolini e di un'epoca fino agli errori della politica antisemita e della guerra.
A modificare ulteriormente un quadro politico in radicale evoluzione era intervenuta, dall'autunno 1993, una variabile imprevista e imprevedibile. L'industriale televisivo S. Berlusconi aveva cominciato infatti a rendere pubblica l'intenzione di volersi impegnare direttamente in politica con l'obiettivo di ricucire e riaggregare un fronte moderato come esplicita risposta alla minaccia di un successo elettorale del PDS e delle sinistre in genere. Berlusconi come proprietario, con il Gruppo Fininvest, delle tre maggiori reti televisive private a diffusione nazionale in aperta e spesso vincente concorrenza con le reti pubbliche, della più forte squadra di calcio italiana ed europea (il Milan), con fortissime attività nei settori della grande distribuzione, della pubblicità, della stampa e dell'editoria, dell'edilizia e delle assicurazioni godeva di una larghissima notorietà. Una notorietà costruita intorno all'immagine dell'imprenditore fattosi da sé, spesso in contrasto con gli ambienti finanziari e industriali tradizionali, del ''comunicatore'' di successo sia per capacità personali che per le sue specifiche attività. L'ipotesi Berlusconi creò una forte aspettativa nell'opinione pubblica e rimescolò le carte negli schieramenti di centro e di destra, dove tutti temevano di lasciarsi assorbire dalla sua iniziativa, ma pochi erano disposti a contrastarla fino in fondo. A sinistra, ma anche al centro e sui maggiori organi di stampa venne discussa anche la legittimità, che appariva non formale ma sostanziale, dell'ingresso in politica del proprietario del maggiore sistema di comunicazioni italiano e l'alterazione inevitabile degli equilibri che ne sarebbe derivata.
Giustificando la sua decisione con la permanente divisione delle forze moderate e liberal-democratiche, Berlusconi annunciò il 26 gennaio 1994 la sua definitiva ''discesa in campo''. Nei giorni successivi vennero messi a punto gli schieramenti e le alleanze rese inevitabili dal sistema maggioritario. Il movimento di Berlusconi, denominato Forza Italia, che si stava organizzando in clubs appoggiati alla rete di servizi pubblicitari Publitalia e a quella di investimenti Programma Italia, si sarebbe presentato nel Settentrione alleato alla Lega Nord (nel cosiddetto Polo delle libertà), nel Centro-Sud ad Alleanza nazionale (nel Polo del buongoverno). Entravano nell'alleanza anche il Centro cristiano democratico, i radicali della Lista Pannella e il piccolo raggruppamento dell'Unione di centro legato al liberale R. Costa. L'ampiezza dell'arco delle forze coinvolte rispondeva alla duplice esigenza di evitare opposizioni dai settori di centro-destra e di reclutare rapidamente personale politico in tutta Italia.
Con l'obiettivo di ricuperare il centro si schierava l'alleanza (Patto per l'Italia) fra il movimento di Segni (Patto Segni, nel quale erano confluiti esponenti repubblicani e socialisti) e il Partito popolare italiano; i due raggruppamenti avevano respinto le proposte di Berlusconi, così come erano rapidamente cadute le ipotesi di un accordo fra Segni e la Lega. Dall'aprile 1993, quando era apparso come il leader vincente dello schieramento referendario, Segni aveva consumato tutte le possibili alleanze, prima uscendo da Alleanza democratica (la nuova formazione ''trasversale'' che raccoglieva esponenti politici e intellettuali di varia provenienza, dal PLI al PDS), poi rompendo con il PDS, alla fine puntando sull'unica possibilità rimastagli, quella di accordarsi con il PPI, proprio con quell'ex DC con cui era stato nell'ultimo anno in aspro conflitto.
A sinistra nasceva, con la denominazione di Progressisti, l'accordo elettorale fra il PDS e Rifondazione comunista, Verdi, Cristiano-sociali (P. Scoppola, E. Gorrieri), PSI, Alleanza democratica, Rinascita socialista (Benvenuto) e Rete. Le alleanze valevano esclusivamente per il maggioritario uninominale mentre per la quota proporzionale tutti i partiti e i movimenti si presentavano separati.
La campagna elettorale ebbe un andamento insolito perché i partiti erano privi ormai delle grandi risorse degli anni precedenti; fu meno visibile nei luoghi tradizionali, ma più presente alla televisione divenuta la sede principale dei confronti. A ciò si aggiunse la marcata personalizzazione resa inevitabile dal sistema uninominale e culminata nel dibattito televisivo fra il segretario del PDS Occhetto e Berlusconi. La presenza diretta o indiretta di quest'ultimo in molti programmi delle reti di sua proprietà (anche se non in tutti quelli di maggiore ascolto) venne giustificata dall'assenza di regole certe e dall'accusa alla RAI di essere schierata a favore delle sinistre. Tuttavia l'autorità garante intervenne, seppure solo alla fine della campagna elettorale, per sospendere due programmi presentati come sondaggi, ma che apparivano di chiara propaganda. La principale stampa d'informazione manifestò invece molte perplessità e in qualche caso una netta ostilità nei confronti di Berlusconi.
I risultati elettorali, pur anticipati dai sondaggi che davano vincente lo schieramento di centro-destra, non furono meno sorprendenti. Berlusconi aveva vinto numericamente, ma soprattutto politicamente. Nei collegi uninominali della Camera l'alleanza raccolta intorno a Berlusconi ottenne 302 su 475 seggi, pari al 63,6%. Solo la quota proporzionale e il meccanismo dello scorporo, consentì un recupero di seggi da parte delle sinistre e del PPI. Per il gioco delle alleanze i candidati eletti della Lega Nord furono più numerosi di quelli di Forza Italia, nonostante il movimento di Berlusconi avesse ottenuto percentualmente il maggior numero di voti in tutta Italia e superato la Lega persino in Lombardia (con il 25,9% rispetto al 22,1%).
La distribuzione geografica del voto vedeva il predominio dei progressisti in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, ma anche in Abruzzo, Campania e Calabria. Nelle regioni meridionali il successo delle sinistre fu dovuto soprattutto alle divisioni del centro-destra. In particolare in Campania, a testimonianza della frammentazione delle liste, furono sufficienti percentuali piuttosto basse (anche del 24-25%) per ottenere la maggioranza relativa.
Dall'esame dei dati della quota proporzionale emergeva inoltre che Forza Italia con il 21% era il primo partito a livello nazionale, seguito dal PDS (20,3), da Alleanza nazionale (13,5) e dal PPI (11,1). Confrontando questi dati con quelli delle elezioni del 1992 risultava che i partiti della vecchia maggioranza (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) erano passati dal 53,3% a poco più del 18% (sommando PPI, Patto Segni, PSI e tenendo conto di una parte dei voti di Alleanza democratica). Oltre un terzo dell'elettorato (il 35%) si era spostato confluendo per un 5% a sinistra dove il PDS era aumentato di oltre il 4% e Rifondazione comunista dello 0,6%, ma soprattutto riorientandosi sul polo opposto a beneficio di Forza Italia e di Alleanza nazionale che cresceva del 9% rispetto al MSI. La Lega Nord manteneva, con una modesta erosione, la percentuale del 1992 ottenendo nella circoscrizione Lombardia 2 con il 28,2% il suo miglior risultato. Ma nella stessa area Forza Italia la tallonava con il 28,1. Il movimento di Berlusconi raccoglieva un numero di voti nettamente superiore alla percentuale nazionale nell'Italia settentrionale (esclusa l'Emilia-Romagna), ma anche in Sicilia (dove superava largamente il 30%) e in Sardegna.
Le ragioni del trionfo di Forza Italia stavano non solo nella capacità di riempire un vuoto politico, ma soprattutto nell'efficacia di un'operazione di marketing politico mai tentata prima di allora nel nostro paese. Un'operazione che, avvalendosi di tutte le procedure impiegate in questi casi per individuare obiettivi, contenuti e messaggi, riusciva a coinvolgere un elettorato reso improvvisamente 'orfano' dal crollo dei partiti tradizionali e ansioso di cambiamento, ma già largamente influenzato dai modelli culturali coltivati dalle reti Fininvest intorno all'immagine del loro creatore, presentato come garanzia di successo e simbolo di un nuovo sistema di aspettative. Questa costruzione si articolava nella speranza di un nuovo miracolo economico, nella tutela dei valori familiari − fra i quali il lavoro e il benessere − da mantenere e riconquistare, nel linguaggio elementare, popolare e populistico con frequenti richiami al gergo sportivo, in un appello ricorrente (segnato da toni anticomunisti) ai principi del liberismo e della liberal-democrazia tradotti in slogan e contrapposti allo ''statalismo'' delle sinistre, nella sottolineatura delle doti di buona volontà, professionalità e competenza necessarie per superare la crisi e le divisioni del paese, tutte caratteristiche che la pubblicità diretta e indiretta ritrovava rappresentate in modo eminente dal leader di Forza Italia. La formazione di Berlusconi si presentava in questa fase come un partito-movimento dalla struttura 'leggera', radicalmente diverso dai partiti di apparato tradizionali anche per l'assorbente identificazione con il fondatore che aveva schierato al suo fianco oltre alla struttura aziendale un gruppo di intellettuali e giornalisti di grande capacità nella comunicazione televisiva.
Tre risultati di grande rilievo per il sistema dei partiti discendevano dalle elezioni del marzo 1994: la concreta possibilità dell'instaurarsi di un meccanismo di alternanza fra maggioranza e opposizione, lo sgretolamento del centro e del partito cattolico, la definitiva legittimazione dell'estrema destra del MSI-Alleanza nazionale. Il partito di Fini, grazie anche alla collocazione nell'alleanza di centro-destra, otteneva risultati molto brillanti soprattutto nelle zone del suo insediamento tradizionale: l'Italia centro-meridionale e come sempre a Bolzano. Diveniva così il primo partito nel Lazio, in Abruzzo, Molise, Campania 2 e in Puglia (dove tuttavia Forza Italia non era riuscita a presentarsi). I modesti risultati del PPI (la migliore percentuale fu quella ottenuta nel Veneto 2 con il 16,2%) testimoniavano l'incapacità dell'ex-DC di continuare a raccogliere la maggioranza del voto cattolico, nonostante l'appoggio di una parte rilevante delle strutture ecclesiastiche.
Più positivi per i progressisti e per il centro, rispetto alla Camera, furono i risultati del Senato, dovuti a un elettorato più tradizionale e meno giovane, nonché ai diversi criteri dello ''scorporo''. L'alleanza di centro-destra aveva così una solida maggioranza alla Camera, ma era − seppure di poco − in minoranza al Senato. Berlusconi riuscì tuttavia a formare il nuovo governo superando i molti attriti fra Lega e Alleanza nazionale e a ottenere la fiducia del Parlamento (il 18 maggio al Senato e il 20 alla Camera).
Le elezioni europee del 12 giugno 1994 premiarono il leader di Forza Italia con un forte incremento percentuale (30,6% a livello nazionale, con punte del 34,5% nel Nord-Ovest e del 36,1% nelle Isole), mentre penalizzarono, rispetto alle politiche, quasi tutti gli altri partiti, alleati o avversari.
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Ordinamento costituzionale e dibattito sulla configurazione giuridico-istituzionale dei partiti politici in Italia. - La posizione dei p.p. nell'ordinamento costituzionale italiano è caratterizzata da una sostanziale ambivalenza. Da un lato, le scelte di fondo della Costituzione sull'organizzazione dei pubblici poteri hanno rispecchiato l'esigenza di costruire una democrazia fondata sui partiti, e l'assetto complessivo della forma di governo fu disegnato in funzione della mediatizzazione dei p.p. nella formazione dell'indirizzo politico (Elia 1964). D'altra parte, il riconoscimento costituzionale dei p.p. (art. 49) è inserito nella cornice dei diritti di libertà: ciò vuol dire che i p.p. sono configurati come libere associazioni, espressione della società civile e non articolazioni dello stato apparato (Crisafulli 1969; Barile 1984). Occorre aggiungere che la posizione costituzionale dei p.p. s'inscrive nell'ampio risalto del principio pluralistico fra i valori fondanti dell'assetto costituzionale complessivo. Tale principio, così come esso risulta configurato dagli artt. 2 e 3, secondo comma, ha carattere non organicistico, ma dinamico, orientato cioè allo sviluppo di una società aperta, a favorire il ricambio nella società civile e la concorrenza fra i soggetti del pluralismo (Ridola 1982). Per quanto riguarda i p.p., ciò ha comportato: il rifiuto d'istituzionalizzare una posizione monopolistica dei p.p. nel processo politico; l'assenza di clausole costituzionali di legittimazione di un ''privilegio'' legislativo a favore di essi; la mancata previsione di limiti della libertà dei p.p. di natura ideologico-programmatica; la coesistenza, infine, della mediazione partitica nel processo politico con l'azione di altre espressioni della società civile (come altri gruppi sociali, i sindacati, i referendum, gli istituti di democrazia diretta; Martines 1979; Bettinelli 1985).
Tale ambivalenza della collocazione costituzionale dei p.p. è profondamente radicata nei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e altresì nella situazione storico-politica degli anni dell'Assemblea costituente (Farneti 1983; Scoppola 1991). In primo luogo, pluralità e ''non statualità'' dei p.p. esprimevano una decisa contrapposizione all'assetto dei rapporti fra partito e stato che si era instaurato durante il periodo fascista. Il partito unico era stato configurato come elemento di collegamento fra lo stato e le corporazioni, espressione di un'esigenza di mobilitazione collettiva, connaturata al sorgere dei p.p. di massa, ma anche di un assetto statale fondato su basi organicistiche e fortemente centralizzato. Con il crollo della dittatura e l'avvento della democrazia, l'idea che il p.p. rappresenti la struttura portante del regime politico e della "costituzione in senso materiale" (Mortati 1972), idea che la dottrina costituzionalistica italiana degli anni Trenta aveva sviluppato dalla teoria delle élites di Mosca e Pareto (Bonfiglio 1993), non scomparve del tutto. Si ebbe piuttosto una traslazione di tale idea dal partito unico al ''sistema'' di una pluralità di partiti. Questo esito fu in larga misura condizionato dagli assetti dell'ordinamento costituzionale provvisorio, che s'instaurò di fatto in Italia fra la caduta del fascismo (1943) e l'elezione dell'Assemblea costituente (1946), assetti nei quali appare centrale il ruolo dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), cui fu riconosciuto il diritto di designare propri rappresentanti negli organi di governo a livello centrale e locale in base a un criterio rigidamente paritario. Negli anni della repubblica, questa vicenda storica ha significativamente influenzato l'interpretazione della collocazione costituzionale dei p.p., secondo indirizzi che, specie nell'ultimo quindicennio, sono apparsi particolarmente attenti al modo in cui il quadro costituzionale si è concretizzato negli sviluppi della forma di governo e nelle dinamiche del pluralismo.
Poiché i partiti antifascisti avevano assunto il ruolo di organi costituzionali del periodo transitorio, e avevano gestito la transizione all'ordinamento repubblicano, avevano perciò stesso conquistato una propria legittimazione come fattori decisivi del processo politico e come elementi costitutivi del nuovo assetto costituzionale. Secondo questo indirizzo interpretativo (Ferrara 1974), l'esperienza delle coalizioni dei partiti del CLN ha impresso alla Costituzione alcuni tratti fondamentali. In primo luogo, la tutela costituzionale dell'eguaglianza delle chances includerebbe non soltanto un diritto paritario di partecipare alla formazione della politica nazionale, ma altresì la partecipazione al governo di più p.p. (cosiddetta costituzionalizzazione del governo di coalizione). In secondo luogo, poiché i p.p. avevano rinvenuto nella comune ispirazione antifascista anche il nucleo essenziale del sistema costituzionale dei valori, i partiti medesimi sono stati configurati come i principali fattori del processo di ''integrazione politica'' (Baldassarre 1978). Questo secondo aspetto è apparso peraltro problematico. I p.p. che avevano partecipato alla formazione della Costituzione riflettevano una società percorsa da divisioni ideologiche profonde e da marcate linee di conflittualità sul terreno economico e su quello delle scelte di politica internazionale. La nuova Costituzione, con un'impronta garantistica delle regole del processo politico, si presentava come la tavola di valori destinata a sorreggere il compromesso fra unità e pluralismo.
Questo retroterra spiega le scelte di fondo dell'Assemblea costituente riguardo ai p.p. e l'ispirazione garantista dell'art. 49. La disomogeneità politico-culturale poteva consentire di coniugare la funzione d'integrazione dei p.p. solo con una democrazia pluralistica caratterizzata da un ampio raggio di legittimazione dei gruppi sociali nel processo politico. Sotto questo aspetto, la disciplina costituzionale dei partiti si colloca in sintonia con altri indirizzi prevalsi in Assemblea costituente, quali il rifiuto della forma di governo presidenziale e l'indicazione in favore del sistema elettorale proporzionale, i quali esprimevano la contrarietà a introdurre congegni di tipo ''plebiscitario'' di aggregazione della volontà politica del popolo e l'intento di modellare la forma di governo sulla centralità della mediazione politico-partitica. In questa cornice, l'art. 49 ha superato il tradizionale atteggiamento d'indifferenza delle costituzioni di tipo liberale nei confronti dei partiti, ma, diversamente da altre costituzioni europee coeve (v. per es. l'art. 21 della Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania), ha evitato di formalizzare uno status privilegiato di essi, e ne ha circoscritto il riconoscimento entro limiti che presidiano la misura più ampia di libertà nel confronto fra i p.p., in funzione di garanzia reciproca nei rapporti all'interno di un sistema politico polarizzato. Discendono da questa premessa l'imposizione ai p.p. di un mero limite di rispetto di regole di democrazia procedurale (il cosiddetto ''metodo democratico'') e la mancanza di controlli sull'ideologia e sui programmi dei partiti, con la sola eccezione, radicata nella genesi del patto costituente, del divieto di ricostituzione del Partito fascista (xii disp. trans. Cost.; l. 20 giugno 1952 n. 645 e succ. modif.; Petta 1973; De Siervo 1975), come anche il rilievo che, nella struttura dell'art. 49, assume, piuttosto che la definizione dello status del p.p., la garanzia della ''pluralità'' come principio informatore dell'assetto costituzionale della ''comunità'' dei partiti (Predieri 1950).
Negli ultimi anni, per effetto delle pesanti interferenze del sistema dei p.p. in tutti i settori della vita pubblica, e della connessa crisi del raccordo fra i p.p. e la società civile, è stato molto diffuso, anche nel dibattito costituzionalistico, un giudizio critico sul rendimento del quadro costituzionale (Manzella 1990; Amato 1991). È stato osservato che questo, anziché sviluppare le virtualità in senso pluralistico della sua ispirazione garantista, ha permesso ai p.p. di sacrificare le spinte di rinnovamento che provenivano dalla società civile dall'inizio degli anni Settanta. In una differente prospettiva si è invece sottolineato, in primo luogo, il ruolo d'integrazione delle masse nel nuovo stato democratico che i p.p. svolsero almeno nei primi vent'anni della repubblica, e in secondo luogo che la cornice costituzionale ha peraltro largamente garantito ampie sfere di libertà al dibattito politico: ciò avrebbe contribuito non solo alla crescita democratica della società civile, ma anche ad alleggerire la conflittualità sociale negli anni della guerra fredda, e a consolidare un clima diffuso di lealtà verso il nuovo ordinamento costituzionale (Scoppola 1991). Nondimeno, la preferenza per una sorta di "laissez-faire intrapartitico" (Elia 1965) ha avuto costi elevati: sono mancati accorgimenti per arginare la stratificazione dei rapporti di forza all'interno del sistema partitico ed efficaci strumenti di controllo e di responsabilità dei reali protagonisti del processo politico.
Questi profili generali del dibattito sul ruolo dei p.p. hanno trovato conferma nella discussione di particolari questioni interpretative dell'art. 49. Un punto controverso concerne il rapporto fra il riconoscimento costituzionale dei p.p. e la tutela della libertà di associazione in generale (art. 18). L'art. 49 non fornisce alcuna definizione del p.p., ancorata, per es., a particolari requisiti, quali la partecipazione a competizioni elettorali o la presenza in Parlamento attraverso corrispondenti gruppi politici. Poiché la struttura testuale della disposizione costituzionale è quella di un diritto individuale dei cittadini, e i p.p. vi sono configurati soltanto come lo strumento attraverso il quale questi esercitano il diritto di concorrere a determinare la politica nazionale, l'art. 49 è per lo più ritenuto una specificazione del diritto generale di associazione. Se poi si considera che, secondo l'interpretazione prevalente anche del legislatore, i divieti contenuti nell'art. 18, secondo comma, della Costituzione (associazioni segrete e associazioni paramilitari) debbono intendersi come riferiti alle sole associazioni con finalità politiche (Pace 1990-92), se ne deve trarre la conseguenza che l'art. 49 non copre neppure tutta l'area della disciplina dell'associazionismo politico. Né è decisivo, al fine di delimitare il concetto di p.p., il riferimento testuale dell'art. 49 alla "determinazione della politica nazionale". Anzitutto, la crisi delle ideologie tradizionali e la complessità delle società pluralistiche contemporanee hanno progressivamente trasformato i p.p. da sedi di elaborazione di visioni politiche generali (il partito come ''parte totale'') a sedi di mediazione fra una molteplicità di interessi (il cosiddetto catch all party). Inoltre, a causa della concorrenza crescente delle organizzazioni degli interessi, dei movimenti e dei nuovi soggetti sociali, appare ridimensionata la capacità dei p.p. di esercitare in posizione quasi monopolistica la funzione di stabile cerniera fra opinione pubblica, Parlamento e governo (Pizzorno 1993): ciò ha reso meno lineare il collegamento fra la nozione di p.p. e la partecipazione al circuito di formazione dell'indirizzo politico, e più arduo tracciare una netta linea di confine fra la disciplina dei p.p. e quella delle associazioni con finalità lato sensu politiche.
Negli ultimi anni, la tendenza su ricordata è stata rafforzata da una trasformazione della stessa forma-partito, determinata dall'allentarsi di quei caratteri di permanenza e stabilità a essa ritenuti essenziali, per dar luogo ad aggregazioni di tipo federativo, unioni, alleanze anche funzionalmente diversificate, perché sorte in ragione di occasioni e luoghi differenti di organizzazione politica dell'opinione pubblica. In questa cornice, non possono trascurarsi gli effetti che dispiegheranno su tale trasformazione della forma-partito, da un lato, l'elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia (l. 81 del 1993), dall'altro l'introduzione del voto uninominale maggioritario per l'elezione della Camera e del Senato (l. 276 e 277 del 1993). La personalizzazione della competizione elettorale e la necessità di raggiungere intese fra più forze politiche per il sostegno ai candidati di schieramento, imposta dalle dinamiche del sistema maggioritario, tendono a valorizzare la centralità del gruppo elettorale, conferendo a questo la duplice funzione di aggregare la società civile e di prefigurare possibili future alleanze di governo.
È ancora prematuro stabilire se ciò indirizzerà in futuro verso la definitiva affermazione di un differente modello, più fluido, di organizzazione politica dell'opinione pubblica, imperniato su intese o cartelli elettorali che sono più diretta espressione del pluralismo sociale, piuttosto che su partiti-apparato con una presenza capillare nelle istituzioni. Va rilevato fra l'altro che il nuovo sistema elettorale, con la previsione di liste bloccate (senza possibilità di esprimere preferenze) per l'elezione della quota proporzionale della Camera dei deputati, rafforza meccanismi di selezione delle candidature interni agli apparati di partito, preservando pertanto spazi significativi a favore del tradizionale modello del p.p. stabilmente organizzato.
La correlazione fra posizione costituzionale dei p.p. e libertà associative è stata sviluppata dalla dottrina giusprivatistica e dalla giurisprudenza, nel senso che, quanto alla loro natura giuridica, i p.p. sono da qualificare come mere associazioni non riconosciute, regolate dal diritto privato comune, e che, dal punto di vista del diritto statale, deve prevalere una posizione d'indifferenza nei confronti del p.p. come istituzione (Galgano 1976; P. Rescigno 1987-88). Questa prospettiva, che aveva ravvisato nel regime del diritto privato comune la massima garanzia dell'autonomia dei p.p., è stata sottoposta a critica soprattutto nell'ultimo decennio, in quanto essa trascura l'aspetto istituzionale del p. politico. Si è osservato che, se indubbiamente la Costituzione configura i p.p. come soggetti esterni allo stato-apparato, e pertanto colloca la determinazione della politica nazionale nell'ambito societario della formazione dell'opinione pubblica e della ''preformazione'' dell'indirizzo politico statale (Cheli 1968), nondimeno nelle democrazie pluralistiche contemporanee la sfera pubblica (ciò che i Tedeschi definiscono Öffentlichkeit) si è allargata, non coincidendo più con la sola organizzazione dello stato come apparato (Habermas 1974; Häberle 1978). In tale contesto, l'egida del diritto privato come garanzia di libertà può risultare non solo parziale, ma anche insufficiente, e ha assunto crescente rilievo il richiamo alla complessità dello status del p.p., del quale libertà, responsabilità e pubblicità risulterebbero componenti inscindibili (Nocilla 1989; Ridola 1993).
Questo sfondo teorico ha condizionato la discussione sull'ampiezza e sui limiti dell'intervento legislativo in materia di p.p., con particolare riferimento ai profili della democraticità interna e del finanziamento. La dottrina prevalente nei primi vent'anni dell'esperienza repubblicana ha manifestato forti perplessità sull'ipotesi di una regolamentazione legislativa dell'istituzionalità interna dei p.p., che sovrapponesse all'autonomia di questi un modello legislativo di organizzazione interna: considerando il forte livello di polarizzazione del sistema politico, e la conseguente divaricazione fra modelli di partito corrispondenti a differenti retroterra ideologico-politici (si pensi, per es., alla distinzione fra i cosiddetti ''partiti di lotta'' e ''partiti d'integrazione''; Panebianco 1982), si era paventato il rischio che l'imposizione di un modello assorbente di organizzazione interna (secondo l'indirizzo seguito in Germania federale nel 1967 col Parteiengesetz) reintroducesse indirettamente un limite ideologico-programmatico, decisamente escluso dall'art. 49 (G. U. Rescigno 1978). Se dunque la concezione ''privatistica'' del p.p. corrispondeva alle esigenze e agli assetti del sistema politico italiano, occorre aggiungere che con essa si coniugò, a partire dagli anni Settanta, la formazione di un complesso legislativo frastagliato, ma frutto di larghissimo consenso nel sistema partitico (legislazione sul finanziamento, sgravi fiscali, regime di favore in materia di locazione di immobili, agevolazioni finanziarie, ecc.).
Tale complesso legislativo ha di fatto stabilizzato una condizione di privilegio a favore del sistema partitico, e ha realizzato altresì la traduzione dell'originaria caratterizzazione ''convenzionale'' del diritto dei p.p. in un quadro politico che, a partire dalla metà degli anni Settanta, appariva solcato da divisioni meno radicali. La legislazione sul finanziamento ai p.p. e i numerosi interventi legislativi a pioggia che a essa hanno fatto da contorno hanno pertanto sviluppato l'originaria ispirazione garantistica del diritto dei p.p. nella genesi consensuale di un'area legislativa privilegiata. Si è osservato pertanto che il postulato dell'indifferenza del diritto statale nei confronti dell'istituzione-partito non ha arginato una legislazione di sostegno fortemente riduttiva dell'eguaglianza delle chances nella competizione politica (Bettinelli 1985; Ridola 1993). Ciò spiega perché, a partire dagli anni Ottanta, l'accento del dibattito si sia spostato progressivamente sul profilo del contenuto e dei limiti di un intervento legislativo sull'istituzionalità interna dei partiti, consentendo l'individuazione di alcuni passaggi cruciali di tale intervento: la democraticità dei procedimenti interni di selezione delle candidature; la regolarità delle procedure d'iscrizione e di accesso; i congegni di tutela delle minoranze nei processi decisionali; limitazioni di spesa e vincoli di semplificazione degli apparati, come passaggio obbligato per ridurre il fabbisogno finanziario e il condizionamento da parte di finanziatori esterni (Galeotti 1983; G. U. Rescigno 1984; Lanchester 1988; Pasquino 1993).
La sopra accennata differenziazione interna alla forma-partito rende tuttavia arduo delimitare i margini di un intervento legislativo che sia volto ad assicurare democrazia e trasparenza all'interno dei partiti. Se, da un lato, la comparsa di aggregazioni temporanee, alleanze elettorali, spesso in forma federativa, può dar luogo alla presenza di una maggiore vischiosità dei livelli decisionali, e può dunque suggerire l'introduzione di congegni di responsabilità e di trasparenza all'interno di soggetti politici a strutturazione più fluida dei p.p. tradizionali, dall'altro lato la diversificazione funzionale dei modelli di partito rende difficile immaginare un quadro legislativo che sia idoneo a fissare regole comuni ai diversi soggetti della competizione politica, tenuto conto del rischio che le scelte discrezionali del legislatore in materia risultino lesive del precetto costituzionale dell'eguaglianza delle chances.
L'interpretazione di questo fatto ha rappresentato il passaggio obbligato nella valutazione della disciplina del finanziamento pubblico dei partiti, introdotta dalla l. 195 del 1974. Tale legge aveva optato per un tipo di finanziamento diretto, cioè consistente in erogazioni in danaro, anziché in franchigie ed agevolazioni sull'uso di beni o di servizi, e aggiuntivo, destinato cioè a coesistere con le altre forme di autofinanziamento e di finanziamento da parte di privati; il contributo statale si articolava inoltre in due tranches, l'una a titolo di rimborso per le spese elettorali, l'altra, erogata per il tramite dei gruppi parlamentari, a titolo di sostegno alla funzione permanente dei p.p., entrambe distribuite secondo un criterio proporzionale alla consistenza elettorale e parlamentare del partito.
Le scelte del legislatore erano andate incontro a pesanti rilievi di costituzionalità. Complessivamente considerato, il sistema prescelto stabilizzava una condizione di privilegio dei p.p. che avessero conseguito una rappresentanza parlamentare, rispetto a nuovi soggetti della competizione politica e ad altre espressioni e articolazioni della partecipazione politica del popolo. Sotto questo profilo, la disciplina del contributo statale era apparsa lesiva del principio dell'eguaglianza delle chances, soprattutto ove si fosse ritenuto, con la prevalente dottrina, che la garanzia costituzionale del concorso nella determinazione della politica nazionale debba essere interpretata in senso dinamico, come presidio delle condizioni che favoriscono la mobilità e la formazione di nuove aggregazioni nel sistema politico, anziché come protezione dei rapporti di forza consolidatisi all'interno di esso (Elia 1965; Ferrara 1974; Ridola 1982). Le innovazioni apportate alla normativa del 1974 dalle l. 659 del 1981 e 22 del 1982 si erano sforzate d'introdurre, come contropartita del finanziamento pubblico, regole di responsabilità e di trasparenza finanziaria, anche penalmente sanzionate, che si sono tuttavia rivelate in gran parte incapaci di arginare il dilagare del fenomeno dei finanziamenti occulti.
Due le linee direttrici essenziali delle modifiche degli anni Ottanta: in primo luogo, si sono introdotte regole più severe per la compilazione dei bilanci, e soprattutto si sono assoggettate le elargizioni di una certa entità da parte di privati all'obbligo di una dichiarazione congiunta. In secondo luogo, la legge, con l'estensione dei divieti e degli obblighi di pubblicità relativi alle finanze del p.p. alle articolazioni interne, ai gruppi parlamentari e alle cosiddette correnti, ha aperto una breccia in direzione della configurazione del partito come istituzione unitaria. Le articolazioni interne sono state configurate invero dal legislatore come organi o come emanazioni dell'istituzione-partito, alla quale sono comunque imputabili i proventi su di esse, spesso solo strumentalmente, dirottati: ciò ha rappresentato una decisa inversione di tendenza rispetto a un indirizzo consolidato della giurisprudenza della Cassazione e dei giudici di merito, che aveva qualificato le articolazioni interne come livelli associativi autonomi e distinti rispetto al partito (D'Atena 1973; P. Rescigno 1987-88).
Il tema del finanziamento dei p.p. conserva tuttavia un rilievo centrale. Da un lato, recenti inchieste giudiziarie hanno evidenziato l'insufficienza dei congegni di trasparenza finanziaria predisposti dal legislatore. Dall'altro, uno dei referendum abrogativi svoltisi il 18 aprile 1993 ha cancellato il contributo annuale per l'attività globale dei p.p., conservando il solo contributo a titolo di rimborso delle spese elettorali, mutilando così della sua parte più significativa una disciplina che già nel 1978 era stata sottoposta al giudizio del corpo elettorale, e da questo era stata salvata solo di strettissima misura. Queste vicende hanno riproposto con forza il problema di riformare la disciplina della materia. La l. 515 del 10 dicembre 1993, che detta nuove norme per lo svolgimento delle campagne elettorali, rappresenta peraltro una risposta solo parziale all'esigenza di una regolamentazione organica. Essa ha introdotto un sistema misto di sostegno pubblico per le competizioni elettorali, che lascia coesistere col vecchio sistema del contributo a titolo di rimborso un finanziamento indiretto, consistente in franchigie e agevolazioni sull'uso di locali e servizi (artt. 9 e 16-18). Inoltre, la legge prevede alcuni divieti e tetti di spesa per le campagne elettorali, accompagnati da sole sanzioni amministrative pecuniarie e dalla sanzione della decadenza dal mandato per gli eletti che abbiano sfondato oltre il limite del doppio il tetto prefissato (artt. 7, 10, 11 e 15).
Questo limitato intervento legislativo lascia pertanto ancora aperto il nodo cruciale del rapporto fra finanziamento privato e finanziamento pubblico. Da un lato, le esigenze di apertura del processo politico a nuovi soggetti del pluralismo e a una più accentuata concorrenzialità della società civile con il sistema dei p.p. dovrebbero spingere il legislatore a privilegiare in avvenire l'autofinanziamento da parte di aderenti e sostenitori, poiché il far dipendere i flussi di finanziamento in misura prevalente dalla collaborazione attiva di costoro può favorire la democrazia interna e ridurre il peso degli apparati. Dall'altro, l'esperienza dei costi crescenti della politica nelle società complesse mette a nudo anche l'insufficienza dell'autofinanziamento, ponendo il legislatore dinanzi all'alternativa fra il finanziamento pubblico e la ricerca da parte dei partiti di più generosi, ma spesso compromettenti condizionamenti esterni della propria linea politica (Cheli 1985; Schefold 1990; Landfried 1990).
Un aspetto centrale del dibattito sui partiti nella dottrina costituzionalistica è quello dei rapporti fra caratteristiche del sistema partitico e assetti della forma di governo (Dogliani 1973; Calise 1989; Chimenti 1992). È oggi comunemente accettato che il numero dei p.p. in competizione, il loro grado di polarizzazione, la loro capacità di esercitare in modo fortemente aggregante o quasi plebiscitario la funzione d'integrazione politica del popolo sono elementi in grado d'influenzare in misura rilevante il funzionamento della forma di governo, e di quella parlamentare in particolare (Duverger 1970; Leibholz 1989; Fränkel 1991). Secondo un primo indirizzo, tuttavia, poiché nelle democrazie pluralistiche né i p.p. né le altre forme di organizzazione del tessuto pluralistico s'identificano con l'apparato governante o s'immedesimano in esso, istituzionalizzandosi, tali corpi intermedi debbono considerarsi come meri elementi condizionanti della forma di governo, che, come tale, resta distinta dal sistema politico, nel quale invece confluiscono organi costituzionali e organizzazioni sociali (Amato 1984). Secondo una diversa prospettiva teorica, i p.p., aggregando e canalizzando il consenso, sono, negli stati democratici, i potenziali titolari degli organi d'indirizzo politico, non solo determinandone il concreto funzionamento, ovvero delineando la condizione di fatto in cui vive il quadro normativo, ma apparendo altresì come elementi costitutivi della forma di governo: da questa premessa scaturisce il suggerimento di classificare le forme di governo in ragione della funzionalità di un determinato modello organizzativo rispetto al ''tipo'' di democrazia tratteggiato dalla Costituzione, quale risulta appunto dalla cornice pluralistica, di cui i partiti sono parte integrante (Elia 1985).
Per quanto riguarda, in particolare, l'esperienza costituzionale italiana, occorre richiamare le caratteristiche peculiari con cui si è realizzato in essa l'intreccio fra p.p. e forma di governo: il rifiuto d'inserire in questa commistioni fra componenti rappresentative e plebiscitarie, con la conseguente duplicazione della funzione di direzione politica fra organi di derivazione partitico-rappresentativa e organi dotati di legittimazione plebiscitaria trasversale rispetto alle divisioni del sistema partitico; un bicameralismo non fondato sulla differente derivazione rappresentativa delle assemblee parlamentari, ciò che ha fatto sì che le spinte sul Parlamento degli interessi organizzati, delle autonomie territoriali e delle altre espressioni del pluralismo siano pressoché integralmente filtrate, per il tramite dei gruppi parlamentari, dal ''partito in Parlamento''; le modalità di funzionamento dei governi di coalizione, caratterizzate da una crescita, all'interno di essi, del potere di coalizione dei p.p. minori, da un difficile equilibrio fra unità e collegialità del governo, dal diffuso ricorso a prassi consociative con i p.p. di opposizione, allo scopo di aggirare le difficoltà nascenti dai rapporti interni alla coalizione medesima.
Il basso livello di strutturazione del rapporto fra maggioranza e opposizione, evidenziato dall'esperienza dei governi di coalizione in Italia, ha reso problematica, anche sul terreno teorico, l'identificazione fra il programma di governo dei p.p. della maggioranza e i contenuti di volta in volta assunti dall'indirizzo politico. Il programma dei p.p. della coalizione fissa soltanto le condizioni-limite dell'attività del governo, spesso individuate in modo generico, mentre la concreta determinazione dell'indirizzo politico è apparsa condizionata anche dagli esiti del confronto in Parlamento con un quadro più ampio di forze politiche e sociali (Mannino 1973; Lavagna 1974; Manzella 1990). Gli aspetti illustrati sono stati in parte ricondotti alla Costituzione, in parte, come nel caso dell'impronta proporzionalista, a indirizzi dell'Assemblea costituente, più spesso a conventions of the constitution, la cui formazione ha corrisposto peraltro a necessità strutturali del sistema politico (Zagrebelsky 1988). L'intreccio fra sistema dei p.p. e forma di governo ha consentito di annoverare quella italiana fra le cosiddette démocraties mediatisées, poiché il corpo elettorale non è riuscito a esprimere direttamente scelte d'indirizzo politico, ma si è limitato a distribuire i rapporti di forza fra i partiti. La presenza incisiva di questi nella formazione della politica nazionale non ha finora trovato svolgimento in un parlamentarismo di tipo maggioritario, ma in un modello di tipo consensuale (Lijphart 1988). La configurazione del riconoscimento costituzionale dei p.p. ha giocato, in questi sviluppi, un ruolo centrale, come fattore determinante della tenuta di un sistema molto garantito nella sua connotazione pluralistica, ma anche sufficientemente protetto da congegni di unificazione plebiscitaria della volontà popolare. È difficile prevedere l'impatto che la recente trasformazione in senso maggioritario del sistema per l'elezione delle Camere potrà avere sulla tenuta del quadro costituzionale del pluralismo politico, e se il mutamento di uno sfondo che si è identificato con la "necessità storica" della repubblica (Scoppola 1991) abbia lasciato inalterate le virtualità racchiuse nell'art. 49 della Costituzione. Non può tacersi peraltro la considerazione che, qualora alla semplificazione del sistema partitico indotta dal sistema maggioritario dovesse accompagnarsi una maggiore strutturazione dei congegni della forma di governo, i termini della discussione sul ruolo dei p.p. nella Costituzione italiana risulterebbero sensibilmente modificati. La crisi dell'idea che un'estesa legittimazione nel conflitto politico facesse aggio sull'attitudine della forma di governo a produrre un tasso più elevato di democrazia plebiscitaria tende infatti a determinare uno spostamento di accento dalla garanzia della sopravvivenza di molteplici identità partitiche alla garanzia della scelta fra alternative d'indirizzo politico.
Prescindendo per ora dalla valutazione di questi sviluppi, il modello di democrazia di partiti realizzatosi nell'esperienza repubblicana ha sino a oggi presentato caratteri che ne hanno reso problematico l'accostamento allo schema teorico dello stato di partiti, elaborato dalla dottrina tedesca, e da G. Leibholz in particolare, negli anni Cinquanta. Lo stato di partiti di tipo plebiscitario come forma di democrazia semidiretta presuppone invero un sistema partitico a forte coesione interna e capace di esprimere direttamente sbocchi nella sfera dell'indirizzo politico. Paragonato a questo schema, che ritiene le democrazie fondate sui p.p. non più riconducibili agli assetti di tipo rappresentativo, il modello italiano ha assicurato invece una spiccata caratterizzazione partitica delle Camere, ma ha lasciato il p.p. nella sfera prestatuale, in cui esso deve misurarsi con le altre espressioni della società civile. Tale contesto ha in qualche misura indotto a valorizzare il gruppo parlamentare, che, in forza della legittimazione politica tratta dalla competizione elettorale, ha assunto una peculiare funzione di cerniera fra i programmi partitici, da una parte, e le forze, i gruppi e gli interessi organizzati, che cercano d'inserirsi nei processi di decisione delle assemblee parlamentari, dall'altra. Si è osservato infatti (Böckenförde 1985) che, quando le democrazie pluralistiche presentano un maggior livello di segmentazione, la formazione della volontà politica si realizza prevalentemente attraverso processi di mediazione, i quali s'inquadrano entro gli schemi della rappresentanza.
In questa cornice si colloca la discussione sul tema dei rapporti fra riconoscimento costituzionale dei p.p. e il principio del divieto di mandato imperativo dei parlamentari (art. 67 Cost.). Secondo un primo indirizzo, tale principio svolge una funzione di garanzia dello status individuale del parlamentare, precludendo soltanto che le vicende relative al suo rapporto con il p.p. o il gruppo di appartenenza possano determinare mutamenti nella posizione di membro delle Camere (Crisafulli 1958; Barile 1984; Corte cost., sent. 14 del 1964). Seguendo invece una più recente linea interpretativa, il principio in questione sviluppa inoltre una clausola di garanzia del pluralismo politico: se la libertà del deputato contribuisce a tenere aperti i canali di comunicazione fra i p.p. e il pluralismo sociale, il divieto di mandato imperativo può dispiegare le sue potenzialità a un tempo come garanzia di libertà del processo politico e come fattore di rafforzamento della democrazia interna dei partiti (Ridola 1985; Zanon 1991). Ma occorre aggiungere che la concreta operatività di questa più lata interpretazione dei rapporti fra l'art. 49 e l'art. 67 dipende dalla concomitanza di altri fattori (fra cui, per es., la trasparenza delle attività politiche delle associazioni: v. l. 17 del 1982), che dovrebbero assicurare il carattere aperto del processo politico, e in mancanza dei quali il principio del divieto di mandato imperativo può difficilmente operare come elemento idoneo a favorire il ricambio nel sistema politico. Alcuni di questi fattori si sono peraltro rivelati, nell'esperienza italiana, di segno particolarmente incerto: si pensi alle modifiche del 1988 ai regolamenti delle Camere, che hanno introdotto il principio del voto palese come regola nelle deliberazioni delle assemblee parlamentari (art. 49 reg. Camera, 113 reg. Senato), le quali hanno, da un lato, accresciuto la pubblicità e la responsività del processo politico, dall'altro rafforzato i vincoli di disciplina di gruppo all'interno delle assemblee parlamentari.
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