Partiti politici
di Gaetano Quagliariello
Partiti politici
sommario: 1. Origini e sviluppi del moderno partito politico. 2. Il partito politico e i prodromi della 'terza ondata'. 3. Gli anni ottanta: la rivoluzione dei mass media. 4. La svolta del 1989 a Ovest. 5. La svolta del 1989 a Est. 6. Conclusioni. ▭ Bibliografia.
1. Origini e sviluppi del moderno partito politico
Nella riflessione che Alexis de Tocqueville svolse sui moderni partiti politici nel corso del suo viaggio in America, si rintraccia una significativa distinzione tra 'grandi' e 'piccoli' partiti. Questi aggettivi non si riferivano alle dimensioni. I grandi partiti, per Tocqueville, erano aggregazioni costruite intorno a principî politici condivisi; presupponevano, dunque, un'ideologia forte e strutturata, disprezzavano i particolarismi, anteponevano le ragioni della fede comune agli interessi dei singoli. I piccoli partiti, di contro, gli apparivano come formazioni a scarso contenuto ideologico, influenzate dalle personalità più che dalle idee, sensibili ai bisogni - anche e soprattutto materiali - dei loro membri (v. Tocqueville, 1831-1832; v. Matteucci, 1990).
Questa analisi contiene in sé gli elementi per fissare alcune distinzioni fondamentali nell'evoluzione storica dei partiti. Essa evidenzia, in particolare, il diverso sviluppo che i partiti ebbero nel mondo anglosassone e nell'Europa continentale, richiamando l'attenzione sul rapporto tra partiti e istituzioni. Tali elementi, però, furono ampiamente trascurati dagli scienziati politici che per primi analizzarono l'affermarsi dei partiti moderni e i loro effetti sullo svolgimento della vita politica, nonché sul funzionamento dei sistemi. Moisei Ostrogorski accomunò partiti inglesi e statunitensi in un'unica condanna, fondata sulla convinzione che lo sviluppo della 'macchina politica' sarebbe inevitabilmente entrato in conflitto con i principî e le istituzioni delle democrazie liberali. Per Ostrogorski (v., 1903) il rappresentante del popolo, un tempo libero e disinteressato nelle sue decisioni, era destinato ad assoggettarsi a un sistema dispotico e, a seguito di tale processo, alla politica come scontro di ideali sarebbe succeduto il primato della corruzione materiale e morale. Roberto Michels, dal canto suo, concentrò la propria attenzione sul Partito Socialdemocratico Tedesco. Egli ignorò il consiglio del suo maestro Max Weber di guardare anche, in chiave comparativa, ai partiti americani. Nei suoi scritti analizzò, così, la delusione del militante tradito dall'evoluzione dell'organizzazione alla quale aveva affidato le proprie speranze di cambiamento palingenetico. Il suo discorso risulta speculare a quello di Ostrogorski, anche se le conclusioni non sono molto diverse. Michels sottolineò i rischi ai quali sarebbero andati incontro i partiti rivoluzionari, che si sarebbero adattati a vivere all'interno di sistemi di tipo liberal-democratico e quindi si sarebbero inevitabilmente corrotti in senso oligarchico, rendendo fittizia la consistenza democratica del sistema (v. Michels, 1911).
Tra i grandi interpreti dei moderni partiti politici nella fase della loro affermazione, solo lo statunitense Abbot Lawrence Lowell mise l'accento sulle differenze tra 'modello anglosassone' e 'modello continentale', evidenziando come l'analisi della forma-partito fosse improponibile senza prendere in considerazione il nesso tra partiti e istituzioni. Secondo la sua ricostruzione (v. Lowell, 1889), i partiti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna - seppure con tempi diversi e differenziandosi sotto l'aspetto strutturale - erano divenuti funzioni dei rispettivi sistemi politici in quanto si erano sottomessi a istituzioni condivise, animando una contesa per il governo del paese che presupponeva la regola dell'alternanza al potere. Sul continente, invece, il forte tasso di ideologia aveva spinto i partiti a ricercare l'affermazione dei propri ideali anche al prezzo di destabilizzare le istituzioni: l'origine dei moderni partiti politici europei fu, anzi, spesso legata all'obiettivo di rovesciare un equilibrio istituzionale non gradito. In ogni caso, i membri dei partiti continentali avvertivano quasi sempre l'appartenenza alla propria formazione come prevalente rispetto all'appartenenza a un sistema e ai valori sul quale esso si fondava (v. Lowell, 1896).
Questa distinzione tra i due modelli emerse chiaramente quando nell'Europa continentale si inaugurò la grande stagione del partito politico. Essa fu una conseguenza della prima guerra mondiale (1914-1918), in quanto rappresentò una risposta sia alla massificazione della vita politica, sia alla radicalizzazione dello scontro politico che seguirono a quell'evento. Il partito di massa si affermò, allora, in quanto ritenuto il portato obbligato del processo di modernizzazione della vita politica (v. Maier, 1975). All'interno di realtà nelle quali i compiti della politica e le risposte che si attendevano da essa andavano dilatandosi, il partito divenne l'elemento centrale della costruzione sia di sistemi politici che rimasero nell'alveo delle regole democratiche - pur ricercando una revisione degli originari schemi liberal-parlamentari -, sia di sistemi di tipo autoritario o totalitario (v. Quagliariello, 1996). Il partito ebbe un ruolo imprescindibile nella costruzione istituzionale del comunismo sovietico e del nazismo tedesco, e una funzione di formazione, mobilitazione e inquadramento nel fascismo italiano.
La diffusa convinzione evoluzionistica secondo la quale il partito di massa europeo, ritenuto più adeguato ai bisogni della modernità, era destinato ad affermarsi in ogni contesto politico, agevolò la conferma della sua centralità anche dopo la seconda guerra mondiale. Nell'immediato dopoguerra, il partito si presentò come il centro della vita politica nei grandi paesi continentali usciti sconfitti dal conflitto e investiti dalla transizione alla democrazia (come Germania e Italia), o comunque caratterizzati da una profonda crisi politico-istituzionale (come la Francia). Si ritenne che l'affermazione del partito di massa rappresentasse una garanzia di stabilità per i sistemi politici e che, per questo, dovesse essere tenuta nel debito conto nella fase di elaborazione delle nuove carte costituzionali. La rottura della coalizione bellica, l'alba della guerra fredda e la conseguente necessità di convivere con consistenti forze antisistema - che regolavano i loro comportamenti sulla base della considerazione prioritaria degli interessi internazionali dell'Unione Sovietica - giunsero tuttavia a smentire queste convinzioni. Se si presta attenzione ai tempi della ricostruzione istituzionale nei tre paesi citati, si deve, inoltre, notare che la nuova consapevolezza indotta dalla realtà della divisione dei blocchi li investì in momenti differenti della loro fase costituente. In Francia essa si presentò quando la Costituzione della IV Repubblica era già stata approvata. In Italia, invece, attraversò il periodo costituente cominciato prima dello scoppio della guerra fredda e conclusosi quando questa era, ormai, una realtà. In Germania, infine, la divisione del paese in zone di occupazione consentì nella parte occidentale di scrivere una carta costituzionale che tenesse conto del nuovo quadro internazionale e che, anche per questo, non affidò la stabilizzazione delle istituzioni esclusivamente alla centralità del partito politico di massa e all'accordo necessario tra i grandi partiti.
2. Il partito politico e i prodromi della 'terza ondata'
La nuova situazione europea fece sì che, dove la presenza di forti e radicati partiti antisistema non era stata neutralizzata a livello costituzionale, si cercasse di intervenire attraverso la modifica delle regole elettorali. L'obiettivo era quello di assicurare a coalizioni centriste la possibilità di governare, evitando così il ripresentarsi del 'male oscuro' proprio dei sistemi costruiti sulla centralità del partito, che si era già manifestato a Weimar dopo la prima guerra mondiale. Da quest'esigenza nacquero sia la legge elettorale degli 'apparentamenti', varata in vista delle elezioni francesi del 1951, sia la legge italiana che, nel 1953, prevedeva un forte premio per la coalizione che avesse superato la soglia del 50%. Queste nuove leggi elettorali sancirono la fine dell'illusione che un accordo permanente tra grandi partiti di massa potesse garantire la stabilità politica, e furono varate in una fase nella quale la forte mobilitazione che aveva fatto seguito alla guerra andava riassorbendosi. L'interazione tra questi due fenomeni segnò l'inizio di una lunga fase di declino del partito di massa, che fu più impetuoso ed evidente in Francia, dove la modifica del sistema elettorale aveva raggiunto il suo scopo immediato, più lento e nascosto in Italia, dove la riforma delle norme elettorali, a causa del mancato raggiungimento del quorum da parte della coalizione centrista, non determinò gli effetti auspicati dai suoi promotori.
L'inizio della lunga crisi del partito di massa europeo non fu, però, registrato con tempestività dagli studi dei politologi. Paradossalmente, il libro di Maurice Duverger (v., 1951), che nell'analisi della forma-partito accredita un paradigma evoluzionistico fondato sulla convinzione che il partito di massa risponda meglio ai problemi posti dalla modernità, risale proprio al 1951. In questo stesso torno di tempo, d'altro canto, persino la politologia statunitense fu attraversata da un'evidente propensione per il partito di massa. Il modello di riferimento prevalente dei politologi americani divenne quello dei più strutturati partiti inglesi e, nella letteratura scientifica, non era raro imbattersi in critiche al presunto carattere amorfo dei partiti statunitensi (v. Pizzorno, 1969).
Solo con gli anni sessanta si avviò una riflessione critica, nell'ambito politologico, sulla centralità del partito di massa. Le analisi di Stein Rokkan (v., 1970) sullo sviluppo politico, di Seymour Martin Lipset (v., 1960) e Daniel Bell (v., 1960), di Gabriel Almond sulla civic culture (v. Almond e Verba, 1963) e di David Easton (v., 1965) sull'approccio sistemico convergevano nell'allargare il quadro e nel suggerire di inserire lo studio sulla forma-partito in contesti più ampi che, utilizzando approcci comparativi, sapessero prendere in considerazione le istituzioni, le ideologie e le culture diffuse. Su questa linea, il saggio di Otto Kirchheimer (v., 1966) sul 'partito pigliatutto' (catch-all party) decretò la definitiva crisi del partito di massa come modello di riferimento. Poco dopo, persino in Italia - dove la maggiore centralità dei partiti aveva reso meno visibile la loro crisi - si iniziò a prescindere dallo schema duvergeriano, sia attraverso studi che auspicavano nuove forme di democrazia in grado di relativizzare il ruolo dei partiti (v. Farneti, 1971), sia tramite analisi che prendevano in considerazione i soggetti politici 'inferiori' al partito (le correnti, i notabili, le reti di rapporti interpersonali). Per un'interpretazione compiuta e coerente dei partiti differente da quella di Duverger, si è dovuti arrivare ai primi anni ottanta, con lo studio di Angelo Panebianco (v., 1982).
In questa fase, d'altro canto, in Europa si erano già verificate modifiche fondamentali dei sistemi politici, che gli analisti dei partiti non potevano fare a meno di considerare. In particolare, la transizione francese dalla IV alla V Repubblica (1958) era avvenuta, almeno apparentemente, contro i partiti e con l'intento di spostare il potere verso l'esecutivo, ricercando, per quest'ultimo, forme di legittimazione che non passassero obbligatoriamente attraverso i partiti. L'evoluzione di quel nuovo sistema politico mise però in evidenza che dei partiti non era possibile fare a meno. La previsione dell'elezione diretta del presidente della Repubblica nel 1962 e, ancor più, l'esito della prima sperimentazione di quell'ipotesi nel 1965 misero in luce che persino sistemi presidenziali o semipresidenziali non avrebbero potuto evitare di assegnare un ruolo importante ai partiti politici. Nel 1965, infatti, il tentativo del fondatore della V Repubblica, Charles de Gaulle, di trasformare l'elezione presidenziale in un dialogo esclusivo e privo di mediatori tra i candidati e gli elettori fallì (il fallimento fu sancito dal fatto che de Gaulle venne costretto al secondo turno dal candidato delle sinistre, François Mitterrand). Si comprese allora che anche nel nuovo sistema istituzionale, fondamentalmente diverso da quelli sorti in altri paesi europei all'indomani della guerra, vi sarebbe stato bisogno dei partiti, sebbene non si trattasse più dei vecchi partiti di massa, ma di organizzazioni al servizio del candidato-presidente. Prese allora avvio in Francia una profonda ristrutturazione della forma-partito, che portò alla nascita di una nuova forza a sinistra, dove il partito socialista di Mitterrand successe alla SFIO (Section Française de l'International Ouvrière), e all'edificazione di un vero e proprio partito gollista, che cercò di ovviare alla fragilità delle strutture preesistenti (v. Charlot, 1971). Da allora, il controllo di un'efficiente macchina partitica divenne un requisito quasi obbligatorio per prevalere in una competizione presidenziale. Si spiegano in tal modo sia le vittorie di uomini quali Georges Pompidou, Mitterrand e Jacques Chirac, sia le sconfitte di Valéry Giscard d'Estaing (nelle elezioni per ottenere un secondo mandato), Raymond Barre ed Edouard Balladur.
Nel decennio successivo, nel corso degli anni settanta, questa trasformazione dei partiti si rafforzò a seguito di un'evoluzione sociale che, per l'affermarsi delle logiche dell'età postindustriale, vide l'emergere di contesti sociali più frammentati e, anche per questo, maggiormente autonomi rispetto alla politica, caratterizzati da un minor grado di partecipazione e, infine, da una relativizzazione dell'importanza delle fratture che aveva segnato l'era dei partiti di massa.
Su un altro piano, però, la rilevanza del partito è stata rilanciata dall'avvio di quel ciclo di transizioni nelle quali Samuel Huntington (v., 1991) ha identificato l'esordio della cosiddetta 'terza ondata', che ha visto i regimi autoritari dell'Europa meridionale lasciare il posto all'edificazione di sistemi democratici. In Spagna, Grecia e Portogallo questa trasformazione si presentò con caratteri politici simili, anche in virtù delle analogie socio-economiche fra i tre contesti. Lo sviluppo economico di tali paesi, infatti, era stato caratterizzato da un lento processo di industrializzazione, che determinò un successivo, repentino passaggio da società agrarie a società in prevalenza terziarie. Il passaggio diretto, senza una fase di decantazione, dal primario al terziario favorì, così, l'emergere di tratti comuni nelle strutture sociali dei tre paesi. Essi mantennero una continuità di relazioni tipica delle società rurali, fondate sulla preminenza di legami parentali e rapporti individualistici di natura gerarchica, piuttosto che su collegamenti di tipo collettivo e orizzontale, portato della sedimentazione dei processi di industrializzazione. Le esperienze dittatoriali, inoltre, contribuirono ulteriormente a saldare l'intreccio e la sovrapposizione tra modernità sociale e tradizionalismo politico (v. Sapelli, 1996).
Queste caratteristiche sociali concorsero a far sì che, nel processo di transizione dai regimi autoritari a quelli democratici, il passato giocasse in ognuno di questi paesi un ruolo fondamentale: sia sotto forma di eredità storica della quale tenere comunque conto, sia per quanto concerne il recupero di uomini e strutture del periodo dittatoriale e predittatoriale. Esse aiutano anche a comprendere perché le prime transizioni della 'terza ondata' fossero caratterizzate da una precaria legittimità delle nuove istituzioni, dall'edificazione di fragili strutture amministrative, infine dall'incapacità delle classi politiche di dar vita a nuclei dirigenti autonomi da pressioni di tipo clientelare e, ancor di più, da quelle dell'esercito che, seppure con obiettivi antitetici, in tutti e tre i casi giocò un ruolo assolutamente centrale.
In contesti di questo tipo, si può comprendere perché la funzione dei partiti politici fosse fondamentale. Questi si strutturarono in sistemi partitici tra loro non omogenei: in Portogallo e in Grecia prevalse la tradizionale frattura destra/sinistra, che segnò in modo persistente lo spazio politico (anche se in Portogallo il successo del partito socialista di Mario Soares garantì la spinta centripeta, isolando a sinistra le tendenze più radicali); in Spagna, invece, la prima fase della transizione si compì sotto il segno dell'UCD (Unión de Centro Democrático), una coalizione di partiti formatasi per impulso del presidente del Consiglio in carica, Adolfo Suárez, che legò il suo ruolo al passaggio tra i regimi, declinando poi velocemente e irreversibilmente (v. Cotta, 1995; v. Pridham, 1996).
Nonostante queste differenze, si può affermare che in tutti e tre i casi i partiti furono le strutture in grado di mediare tra passato e presente, di assicurare rappresentatività alle opposizioni sorte nel corso dei regimi autoritari e, contemporaneamente, a quei segmenti di classe dirigente che abbandonarono gradatamente il vecchio regime, descrivendo così una parabola dalla dittatura alla democrazia che non conobbe soluzione di continuità. Essi furono anche gli organismi che, seppure con modalità diverse, si confrontarono con gli eserciti e che - prima che si compisse la fase del consolidamento - supplirono all'insufficiente legittimazione delle istituzioni e assorbirono le tensioni derivanti da tale situazione, rafforzando con ciò la convinzione che l'avvento del regime democratico non possa fare a meno dei partiti politici (v. Morlino, 1995).
3. Gli anni ottanta: la rivoluzione dei mass media
A partire dagli anni ottanta, per comprendere l'evoluzione organizzativa e programmatica dei partiti politici non è possibile fare a meno di considerare il rapporto triangolare che si è instaurato tra il sistema politico, quello dei media e l'opinione pubblica. La radio prima e poi la televisione, come è noto, cominciarono a influire sulla politica e sulle sue forme di organizzazione sin dagli anni trenta. Negli anni ottanta, però, la 'mediatizzazione' della politica e l'assunzione da parte del sistema politico di formati comunicativi massmediali - che inevitabilmente hanno trovato riflesso nel rapporto tra partiti ed elettori - sono divenuti elementi strutturali della storia dei partiti (v. Mazzoleni, 1999). In questa fase tre processi paralleli, originatisi in epoche diverse, hanno raggiunto un punto di connessione, finendo per rafforzarsi a vicenda. Innanzitutto, la televisione si è affermata definitivamente come il mezzo principale della comunicazione politica per la sua capacità di consentire il contatto visivo diretto degli uomini politici con milioni di cittadini-elettori. Inoltre, si sono avviate dinamiche di privatizzazione e deregulation dei sistemi radiotelevisivi che, dopo essere state una peculiarità del sistema politico americano (non a caso caratterizzato da partiti poco strutturati e con un debole profilo ideologico), sono divenute una caratteristica comune a tutti i paesi occidentali. Infine, si è affermato nella prassi giornalistica un atteggiamento critico e polemico rispetto alla politica ufficiale, riscontrabile nell'analisi così come nel modo di concepire le notizie, anch'esso ampiamente debitore dell'esempio americano.
L'avvento dell"era televisiva' ha determinato, come fenomeno complementare, la spettacolarizzazione e la personalizzazione del conflitto politico. David Altheide e Robert Snow (v., 1979) hanno evidenziato l'imporsi di una 'logica mediale' nella copertura dei fatti politici, che comporta il ricorso a forme di linguaggio imperniate sul sensazionalismo, l'utilizzo di tecniche di informazione frammentata al posto di analisi consequenziali e la preminenza degli aspetti 'coreografici', nonché di dettagli personalistici e spettacolari (v. Norris, 2000). Alcuni studiosi sono giunti a contrapporre la media logic alla party logic come forme conflittuali di costruzione della 'agenda politica' e di narrazione degli eventi (v. Mazzoleni, 1987). Nella realtà dei fatti, invece, la logica dei media e quella dei partiti hanno finito con l'interagire. I partiti politici europei - seppure con tempi differenti a causa di fattori legati sia alla struttura del sistema mediale (e dei rapporti tra soggetti politici e soggetti mediali), sia alle caratteristiche del sistema politico (presidenzialismo o parlamentarismo, legge elettorale proporzionale o maggioritaria, e così via) - hanno reagito alla 'terza era' della comunicazione politica in modo analogo (v. Norris, 2000). Fino agli anni settanta il mezzo televisivo è stato da loro considerato una sorta di 'vetrina' adatta a iniziative non primarie, specialmente nel campo della propaganda. A partire dagli anni ottanta, invece, e con più forza verso la fine del decennio, i leaders di partito hanno cominciato a considerare la televisione non più come uno strumento da tenere sotto controllo ed eventualmente sfruttare per iniziative secondarie, ma come l'arena principale nella quale sono chiamati a operare coloro i quali hanno come fine l'acquisizione del consenso. Contemporaneamente, e non certo casualmente, si è gradualmente sviluppato anche in Europa quel modello di 'campagna permanente', il cui effetto è di estendere e radicalizzare il conflitto per tutto il corso del ciclo politico-elettorale (v. Blumenthal, 1980). In tal modo, l'arte di governare ha finito con l'inglobare la promozione e la propaganda politica permanente; per l'opposizione, la spettacolarità dei motivi di contestazione dell'esecutivo in carica è divenuta più importante della loro ineccepibilità tecnica.
Come si è detto, anche il fenomeno della personalizzazione della politica risulta strettamente connesso con l'emergere della televisione come mezzo principale di comunicazione politica. La televisione, infatti, premia le performances dei singoli rispetto alle strutture politiche e conferisce significato anche a elementi accessori della personalità, come il bell'aspetto, l'eloquio semplice, il carisma mediatico (v. Cavalli, 1992; v. Calise, 1994). In tal modo, l'affermazione di personalità mediatiche, per molto tempo legata a particolari caratteristiche di personaggi storici come Charles de Gaulle (un vero precursore per l'utilizzo che seppe fare della radio e, a partire dagli anni sessanta, anche della televisione), è divenuta una costante della vita politica occidentale.
Va considerato, infine, che la mediatizzazione della politica ha favorito la diffusione nell'opinione pubblica di sentimenti antipartitici e persino antipolitici (v. Dalton e Wattenberg, 2000). L'affermazione negli anni ottanta dei movimenti della 'nuova politica', come i partiti verdi (v. Poguntke, 2000) e, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, di movimenti e partiti neopopulisti (v. Mény e Surel, 2000), è stata anche la conseguenza della semplificazione del messaggio politico imposta dai mass media, che ha inevitabilmente premiato le formazioni in grado di reagire al diffuso sentimento di distacco nei confronti della politics as usual e di incarnare nuove esigenze presenti nell'elettorato (v. Mair, 1997).
Questo insieme di fenomeni non poteva che ripercuotersi in modo significativo sui partiti: sui loro profili programmatico-culturali così come sulle logiche organizzative. Per quanto concerne il primo aspetto, il 'partito pigliatutto' - che, come si è detto, era stato preso in considerazione da Kirchheimer già negli anni sessanta - è divenuto, seppure con alcune varianti nazionali, il modello di partito 'convergente al centro' tipico di tutte le democrazie occidentali, assumendo la forma di un partito di professionisti della politica, costruito sull'obiettivo predominante di vincere le elezioni (v. Panebianco, 1982). Infatti, la necessità mediatica di dover comunicare all'intera opinione pubblica, e non più a fasce mirate di elettori, ha accelerato il processo di dismissione dei contenuti ideologici dei partiti, portandoli ad assumere profili programmatici sempre più generali e comprensivi (v. Wolinetz, 2002). Inoltre, i sondaggi, le analisi di mercato e in generale il marketing politico sono divenuti fattori in grado di condizionare i partiti non soltanto nel tempo limitato delle campagne elettorali, portando gli obiettivi e le affermazioni dei leaders ad adattarsi il più possibile e in forma permanente agli umori e ai desideri dell'opinione pubblica (v. Newman, 1999).
Per quanto concerne gli aspetti organizzativi, a questo punto non è difficile comprendere perché l'interazione tra media e politica abbia istituzionalizzato l'ascesa di partiti 'presidenziali', all'interno dei quali il leader deve anzitutto risultare un soggetto politico in grado di rappresentare efficacemente la propria immagine e quella della sua organizzazione attraverso i mezzi di informazione, subordinando a quest'esigenza le pratiche partecipative, di diffusione delle subculture e di approfondimento ideologico proprie dei vecchi partiti di massa. La politica mediatizzata, inoltre, accanto all'esplosione personalistica dei leaders a discapito della base dei militanti, ha favorito l'accentramento delle risorse economiche e dei processi decisionali nelle mani dei leaders di partito e del loro staff. Il capo del partito e, accanto a lui, la sua squadra di consulenti (in parte esterni allo stesso partito) esercitano un controllo pressoché totale sulla vita dell'organizzazione, definendone i tratti programmatici, l'immagine pubblica, i temi di campagna e le issues di governo; essi detengono in tal modo un vasto potere di indirizzo su una base militante priva di reali possibilità di controllo nella piramide organizzativa del partito. L'esempio di Tony Blair e del suo rapporto con il New Labour assume, a tal proposito, un significato paradigmatico (v. Farrell e Webb, 2000). Esso porterebbe a sostenere che l'antica legge ferrea dell'oligarchia, proposta da Michels nel lontano 1911 con riferimento ai partiti di massa, valga ancora oggi per i partiti dell'era della comunicazione. Con la differenza che le nuove oligarchie interne, in luogo di controllare la risorsa dell'ideologia per controllare la base militante, fondano oggi il loro potere sulla capacità di sfruttare i mass media e, in tal modo, di identificare l'immagine del leader con quella del partito. L'utilizzo politico dei nuovi media come Internet, pur avendo suscitato speranze riguardo a una possibile inversione di questa tendenza oligarchica a favore di un più ampio controllo interno, non sembra finora aver prodotto risultati apprezzabili sulle logiche di funzionamento interno dei partiti, poiché le potenzialità interattive di questi media sono state fino a oggi sfruttate molto più per scopi promozionali che non per implementare forme di democrazia e di controllo interno.
4. La svolta del 1989 a Ovest
L'evoluzione della società civile, prodottasi in Europa occidentale sin dalla fine degli anni sessanta, non ha potuto ricevere - sino agli anni ottanta - una piena traduzione a livello della politica, anche a causa della contrapposizione dei blocchi che caratterizzava lo scenario internazionale. La caduta del muro di Berlino, in tal senso, ha determinato lo sviluppo di processi già presenti allo stato embrionale, ma sino ad allora frenati dal persistere della guerra fredda con i suoi corollari di natura politico-ideologica.
Sul piano socio-economico, il crollo dell'Unione Sovietica ha reso possibile il pieno sviluppo di quelle dinamiche del sistema internazionale semplicisticamente riassunte nella categoria della globalizzazione: ovvero un grado di integrazione fino ad allora sconosciuto tra diversi sistemi economici, determinato dalla correlazione tra l'apertura dei mercati e la diffusione di tecnologie in grado di velocizzare gli scambi economici e di informazioni. Per quanto concerne la presente analisi, va sottolineato che quest'evoluzione ha una grande importanza nel restringere i confini delle scelte praticabili nell'ambito nazionale. Il ruolo crescente dell'economia finanziaria, in particolare, ha ridotto drasticamente le possibilità che paesi diversi compiano scelte e perseguano strategie differenti. Infatti, la sempre maggiore integrazione dei sistemi economici fa sì che le politiche non condivise dai mercati internazionali provochino l'immediata reazione dei medesimi, la quale determina conseguenze nei sistemi politici dei singoli Stati, mettendo in allarme l'opinione pubblica e generando una situazione di difficoltà per i governi (v. Reinicke, 1998).
In Europa tali dinamiche sono state ulteriormente rafforzate dall'avvio del processo di unificazione monetaria. A partire dal Trattato di Maastricht, i vincoli generali posti alle politiche finanziarie nazionali dal mercato internazionale si sono trasformati in vincoli specifici, fissati in sede negoziale e collegati a precisi meccanismi sanzionatori, il più efficace dei quali è rappresentato dall'esclusione dal processo di unificazione.
Le conseguenze di queste dinamiche economiche sulla politica e sui partiti sono state di grande momento. Abbiamo assistito a una graduale ma persistente riduzione dell'afflato ideologico della vita politica che, come si è detto, era già significativamente diminuito nel decennio che aveva preceduto la caduta del muro di Berlino. Subito dopo il 1989 i partiti, e in particolar modo quelli più connotati ideologicamente, cercarono di adattare, per quanto possibile, la loro identità tradizionale all'accettazione dei vincoli esterni imposti dai nuovi livelli di integrazione internazionale. In un secondo tempo, però, la difficoltà crescente di mantenere inalterata l'identità politica, soprattutto dove sono state effettuate scelte governative non coerenti con essa, ha costretto i partiti tradizionali a mettere in discussione una parte consistente del loro patrimonio identitario. Nei casi in cui questo processo si è compiuto, il partito si è ritrovato a dover privilegiare sempre più l'etica della responsabilità rispetto all'etica della convinzione. Tale dinamica ha favorito da un lato la nascita di movimenti 'globali', che si sottraggono alla dimensione politica nazionale e ai suoi vincoli, dall'altro lo sviluppo di movimenti etnici e locali, che rispondono al forte bisogno di recupero di identità secondo un criterio non più ideologico.
Il nesso tra la fine della guerra fredda e l'ulteriore assottigliamento dell'elemento identitario ha trovato immediatamente riflesso anche nel rapporto tra partiti e finanziamento della politica. Il controllo delle risorse, infatti, storicamente aveva rappresentato uno dei compiti più importanti del moderno partito di massa, rimanendo a lungo un motivo della sua forza. Il partito, sin dalla fase del progressivo ampliamento del suffragio, assunse i compiti propri del fornitore di mezzi materiali e di servizi per i suoi candidati, che si trovavano costretti ad affrontare campagne elettorali sempre più complesse e dispendiose, rivolte verso un numero crescente di potenziali elettori. Esso, inoltre, prima che fosse introdotta l'indennità parlamentare, in alcuni casi interveniva anche al termine del periodo elettorale, per sovvenzionare i propri rappresentanti e le loro famiglie. La circostanza aveva una giustificazione materiale di immediata comprensione, ma assumeva, al contempo, anche un significato ideale, in quanto realizzava forme di compensazione verso i meno abbienti, contribuendo così a rendere la politica un'attività alla quale avrebbe potuto accedere un numero crescente di individui. Con il trascorrere del tempo, i compiti di collettore di risorse del partito si sono dilatati e complicati. La politica è divenuta un'attività sempre più dispendiosa. Anche per questo, alle contribuzioni degli iscritti e dei simpatizzanti si sono aggiunti i proventi derivanti da pratiche di intermediazione lecite e illecite, il finanziamento pubblico e, nel corso della guerra fredda, anche le contribuzioni erogate da potenze straniere, che in alcuni contesti, tra i quali quello italiano, rivestivano un'importanza particolare (v. della Porta e Vannucci, 1999).
Ognuna di queste diverse forme di finanziamento presenta problematiche storiche, sociologiche e giuridiche peculiari. Esse, però, hanno anche un aspetto unificante. Per un partito di massa dotato di un profondo radicamento sociale e di una coerente ideologia è evidentemente più facile divenire canale di risorse lecite, in quanto può contare su una base ampia e motivata (v. della Porta e Vannucci, 1994). Esso, quantomeno in taluni contesti storici, si è trovato agevolato anche nell'intraprendere pratiche illecite, in quanto il perseguimento più efficace dei suoi fini ultimi, sostenuti da robusti substrati ideologici, rappresentava una potenziale giustificazione all'utilizzo di mezzi formalmente proibiti (v. Pizzorno, 1992). Ciò aiuta a comprendere perché, in particolare dopo il 1989 e la fine del grande scontro ideologico, il rapporto tra finanziamento della politica e corruzione dei partiti sia divenuto un problema che investe l'ordinamento democratico. Quando i 'grandi fini' hanno cominciato a risultare meno percepibili, l'opinione pubblica ha cessato di ritenere legittimo ogni mezzo di finanziamento e, anche per questo, in alcuni contesti - come l'Italia, il Giappone, la Francia, la Spagna e la Germania - sono scoppiati veri e propri scandali. I partiti, privi di giustificazioni ideologiche adeguate e di basi ampie di sostenitori, si sono trovati costretti ad alleggerire i propri compiti e funzioni e, con essi, le loro strutture organizzative. Quest'esigenza è stata ulteriormente accresciuta dalle nuove politiche di rigore finanziario caratteristiche degli anni novanta, che hanno imposto l'adozione di misure di finanza pubblica contraddistinte da maggiore responsabilità. Anche per questo, in diverse realtà nazionali la dipendenza dei partiti dal finanziamento pubblico - sia diretto, sia indiretto - è aumentata. Le legislazioni in materia sono state meglio definite, enfatizzando il rilievo pubblicistico proprio dei partiti e rendendo sempre più anacronistica una loro regolamentazione sotto il solo profilo privatistico (v. Lanchester, 2000).
Lo strutturarsi di una crescente dimensione sovranazionale, oltre a rappresentare un indiscutibile aspetto problematico per una forma-partito che si era consolidata nel tempo secondo un paradigma prettamente nazionale, apre anche un'opportunità da cogliere. Non va dimenticato, infatti, che la dimensione istituzionale nazionale riveste ancora un ruolo centrale nello sviluppo della politica e che, pertanto, i partiti nazionali esercitano un'essenziale funzione di presidio nella complessa attività di integrazione comunitaria europea. Al tempo stesso, lo sviluppo delle istituzioni europee e internazionali ha creato nuove arene politiche, che richiedono la crescita di soggetti in grado di operarvi. E tali soggetti possono essere i partiti stessi, in quanto sono in grado di adeguare la dimensione politica nazionale alle esigenze derivanti dallo sviluppo delle istituzioni sovranazionali. Questa peculiare collocazione, alla confluenza tra passato e futuro, prefigura un'ulteriore evoluzione dei partiti, i quali da un lato saranno chiamati a raccogliere le istanze presenti nelle società civili nazionali per trasferirle in sede sovranazionale, e dall'altro potranno compiere un'opera di orientamento dell'opinione pubblica del loro paese sulla base delle dinamiche presenti ai livelli superiori. In tal senso, l'attività di coordinamento transnazionale, che rappresenta un elemento tradizionale nella storia dei partiti, appare oggi qualcosa di qualitativamente diverso, come si evince agevolmente considerando l'interazione fra l'evoluzione delle istituzioni europee e quella dei soggetti politici che hanno dato loro corpo.
L'esistenza in seno alla Comunità Europea di partiti transnazionali (ovvero di strutture che federano formazioni nazionali differenti), infatti, non è una novità legata a quest'ultima fase dell'integrazione europea. Sin dalla nascita della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio), tra le cui istituzioni vi era l'Assemblea parlamentare composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, si era delineata una chiara tendenza a unire gli esponenti dei diversi partiti degli Stati membri in gruppi politicamente omogenei. Tutte le principali correnti politiche - prima cristiano-democratici, socialisti e liberali; successivamente nazionalisti, comunisti, ecologisti e autonomisti - ritennero opportuno sviluppare forme di raccordo transnazionali in seno alle istituzioni europee, nella consapevolezza che un'attività concepita solo a livello nazionale non fosse adeguata per rappresentare nell'arena europea le istanze delle loro famiglie politiche (v. Delwit e altri, 2001).
Nel 1979, l'elezione diretta a suffragio universale dei membri del Parlamento europeo ebbe un forte impatto su queste forme di accordo. Non a caso, infatti, proprio in previsione di quell'evento, i liberali diedero vita nel 1976 all'ELD (European Liberal Democrats - Liberaldemocratici Europei; con l'adesione del Partito Socialdemocratico Portoghese, sancita dal congresso di Catania del 10 e 11 aprile 1986, il nome del partito cambiò in ELDR, European Liberal, Democrat and Reform Party - Liberaldemocratici e Riformisti Europei), un vero e proprio partito politico di dimensioni continentali; egualmente i cristiano-democratici rafforzarono i legami tra i partiti nazionali in seno al gruppo parlamentare popolare e costituirono nel 1976 il PPE (Partito Popolare Europeo); e anche i socialisti, già dal 1973, si erano organizzati in una confederazione di partiti, la cui struttura appariva indubbiamente più solida e articolata rispetto a quella del vecchio gruppo parlamentare. In tal modo, le tre principali famiglie politiche europee si adeguarono alla mutata situazione dotandosi di strumenti politico-organizzativi che, da un lato, fungevano da veicolo del consenso in consultazioni elettorali le quali, pur essendo continentali, mantenevano una notevole rilevanza nazionale e, dall'altro, permettevano di interpretare una linea il più possibile comune a differenti partiti nazionali ideologicamente simili, nel seno di un organo che cominciava a disporre, seppur in misura limitata, di poteri legislativi.
La realtà dei primi nuclei di queste federazioni transnazionali interagì, negli anni successivi, con i mutamenti profondi che investirono sia i sistemi politici degli Stati membri, sia il quadro istituzionale comunitario. Tutte le preesistenti famiglie politiche hanno preso atto della mutazione del tessuto connettivo dei partiti continentali intervenuta a seguito delle trasformazioni storiche e istituzionali del quadriennio 1989-1992. In particolare, la caduta del muro di Berlino, la successiva dissoluzione dell'Unione Sovietica e la firma del trattato istitutivo dell'Unione Europea hanno completamente alterato gli equilibri politici preesistenti. In quasi tutte le formazioni si è verificato un sorprendente fenomeno di ibridazione tra culture politiche differenti. I principali partiti e gruppi parlamentari europei, infatti, per acquisire la consistenza numerica necessaria a esercitare una più forte influenza nel Parlamento europeo, hanno modificato la propria composizione accogliendo nuove componenti e, di conseguenza, mettendo in discussione programmi e orientamenti. Le ideologie tradizionali hanno cessato di designare confini invalicabili, mentre hanno assunto maggiore importanza gli accordi specifici su programmi contingenti. È accaduto così che il partito dei liberaldemocratici europei, l'ELDR, ha visto più volte cambiare i propri membri, accogliendo in diverse occasioni formazioni che poco avevano a che vedere con la cultura politica che da sempre contraddistingueva la famiglia liberale o perdendo intere delegazioni nazionali, migrate verso altri movimenti europei. I mutamenti più radicali, però, si sono verificati all'interno del Partito Popolare Europeo e del suo gruppo parlamentare. A guidare la trasformazione nel dopo-Maastricht è stato soprattutto l'allora cancelliere tedesco della CDU (Christlich-Demokratische Union) Helmut Kohl, convinto che il partito avrebbe dovuto aprirsi verso altre culture politiche, se voleva conservare la leadership numerica nel Parlamento europeo ed esercitare così la supremazia in un'Assemblea che, dopo l'entrata in vigore del trattato istitutivo dell'Unione Europea, poteva intervenire in maniera più efficace nel processo decisionale. L'elemento democratico cristiano non era più sufficiente e per questo, gradualmente, i cristiano-democratici europei si sono allontanati dalle proprie radici tradizionali di partito di centro riformista sul piano sociale e legato alla dottrina sociale della Chiesa sul piano economico, per diventare una formazione più eclettica, protesa verso il conservatorismo in campo politico e il liberalismo sul piano economico. Così si spiega l'apertura del PPE a movimenti distanti dalle tradizioni cristiane dell'Europa carolingia - quali i gollisti dell'RPR (Rassemblement pour la République, oggi UMP, Union pour un Mouvement Populaire) e i conservatori britannici (i quali, per il momento, hanno aderito solo al gruppo parlamentare e non anche al partito) - e a partiti di ispirazione prettamente liberale come Forza Italia o preminentemente conservatrice come il Partido Popular spagnolo. In tal modo il PPE si è trasformato in una forza moderata di centro-destra, nella quale sempre meno spazio trovano i singoli deputati e i partiti che invocano un ritorno alle origini e nella quale, al contrario, sempre più forti diventano le ragioni empiriche del bipolarismo, in ambito tanto europeo quanto nazionale.
Questo stesso processo di trasformazione ha interessato, seppure con modalità differenti, anche i socialisti europei. Essi, a partire dalla nascita effettiva del PSE (Partito dei Socialisti Europei) avvenuta nel 1992 per la necessità di rafforzare la struttura della confederazione, hanno progressivamente moderato la loro caratterizzazione ideologica di tipo socialdemocratico per sperimentare contaminazioni con altre culture politiche. Negli ultimi anni, in particolare, la convivenza nel PSE del New Labour di Blair, dei tradizionali partiti socialisti continentali guidati da quello francese, delle forze della socialdemocrazia scandinava e di un'esperienza come quella dei Democratici di Sinistra italiani, sorta dalle ceneri del più forte partito comunista occidentale, dimostra quanto l'omogeneità di valori e programmi non rappresenti più una preoccupazione rilevante nelle file del socialismo europeo. Non è un caso, d'altro canto, che, seppur per ragioni diverse, alcuni dei partiti membri del PSE ricerchino un confronto programmatico con i liberali dell'ELDR.
Questo generale processo di 'integrazione partitica europea' può essere interpretato solo come frutto della confluenza di due fenomeni distinti: da un lato, la radicale trasformazione (avvenuta dopo la fine della guerra fredda) del quadro politico dei diversi Stati che partecipano alla costruzione comunitaria, dall'altro la lenta ma progressiva acquisizione di nuovi poteri da parte del Parlamento europeo (in campo legislativo e, in special modo, in materia di bilancio; in altri e diversi settori, a causa dell'estensione della procedura di codecisione; e, infine, in campo istituzionale con l'approvazione della nomina, operata dal Consiglio europeo, del presidente della Commissione).
Qualora i risultati dei lavori della Convenzione e della successiva Conferenza intergovernativa dovessero conferire ulteriori poteri legislativi e di controllo al Parlamento europeo, non è difficile ipotizzare un rafforzamento del ruolo dei partiti politici e dei gruppi parlamentari nell'Unione e un graduale avvicinamento a una forma di bipolarismo europeo. Non mancano segnali in tal senso. Sotto il profilo politico vanno considerati i tentativi dei Verdi, dei conservatori nazionalisti e, addirittura, di alcune forze antieuropeiste di dare vita ad aggregazioni in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 2004, per non restare esclusi da un processo che appare irreversibile. Dal punto di vista giuridico-costituzionale, va rilevato che già l'articolo 191 del trattato istitutivo della Comunità Europea assegnava ai partiti politici il compito di contribuire a esprimere la volontà politica dei cittadini. Questa formula è stata di recente rafforzata dal contenuto dell'articolo 12 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione e, ancor più, da un comma che il Trattato di Nizza (2001) ha aggiunto all'articolo 191, secondo il quale spetterà al Consiglio deliberare, a maggioranza, sullo statuto pubblico dei partiti e sulle fonti del loro finanziamento.
5. La svolta del 1989 a Est
Il XX secolo, che aveva visto i partiti di massa assurgere a elementi indispensabili della democrazia, si è chiuso, anche per quanto concerne i processi di democratizzazione, con un ridimensionamento del ruolo del partito politico. Il contributo dei partiti alla prima fase dei processi di transizione postcomunista può considerarsi non fondamentale, e solo in alcuni e ben individuabili casi comparabile a quello che essi ebbero nelle transizioni dall'autoritarismo alla democrazia caratteristiche degli anni settanta.
Nelle fasi iniziali delle transizioni di fine secolo, il termine 'partito' è stato per lo più evitato, per il riflesso negativo proveniente dai partiti comunisti, che avevano rappresentato le strutture portanti dei regimi appena sconfitti. Per le nuove aggregazioni sono state preferite denominazioni come 'movimento', 'alleanza', 'unione'. Ben oltre le questioni terminologiche, l'idealtipo dei primi partiti dell'era postcomunista può descriversi come una struttura organizzativa complementare a una o più personalità politiche di spicco, piuttosto che come un'istituzione indipendente. Questa struttura si caratterizza per la precaria adesione dei deputati e degli stessi dirigenti, e per un grado di obbligazione politica molto debole e intermittente. Il numero delle iscrizioni si è mantenuto poco elevato, e bassa è stata la percentuale dei cittadini che hanno visto nei partiti 'istituzioni di fatto' degne di una qualche fiducia. Molte formazioni hanno vissuto lo spazio di una legislatura e, per questo, pochi cittadini hanno potuto votare per una stessa forza politica in due elezioni successive.
La causa principale di questo sottosviluppo partitico va rintracciata nel carattere monistico dei regimi di tipo sovietico, al potere per un periodo compreso tra i quaranta e i settanta anni. Nella maggior parte dei paesi dell'area di influenza sovietica, fino al crollo dei regimi, mancarono spazi per l'espressione di una società civile autonoma e ancor più per lo sviluppo di forze di opposizione significative. Tale situazione ha determinato, nel corso delle transizioni, due fenomeni in apparenza opposti, ma riconducibili, in realtà, a cause largamente omogenee: un'estrema frammentazione partitica ovvero una prevalenza iniziale di formazioni che erano eredi dirette degli ex partiti comunisti.
Questo quadro generale presenta tuttavia alcune eccezioni. Una realtà sin dalle origini più favorevole a una trasformazione democratica fondata sui partiti è rintracciabile in quei paesi nei quali la società civile aveva avuto un certo grado di sviluppo della propria autonomia prima dell'avvento del comunismo, e che, proprio per questo, hanno conosciuto fenomeni di opposizione anche durante gli anni del regime comunista: Polonia, Ungheria e, in misura minore, Cecoslovacchia.
In Ungheria, in particolare, già le elezioni del 1990 produssero un governo stabile, restato in carica per l'intera legislatura (quattro anni), anche grazie a criteri rigorosi per l'accettazione delle candidature (v. Lewis, 2000). Solo in questo caso, tra tutti i paesi dell'area mitteleuropea, già le prime elezioni competitive sono state caratterizzate dalla presenza di partiti indipendenti con identità distinte. Molto più spesso, invece, anche in quest'area (Polonia e Cecoslovacchia), così come in molti altri paesi interessati dalla transizione (Lettonia, Slovenia, Croazia, Estonia, Moldavia), i primi scontri elettorali sono avvenuti tra forze comuniste e ampie ed eterogenee coalizioni anticomuniste. Si è trattato di uno scontro sul sistema, piuttosto che fra forze rappresentanti interessi definiti all'interno di un medesimo sistema condiviso. E, conseguentemente, le larghe coalizioni anticomuniste, una volta sconfitto il nemico comune, sono state investite da una profonda crisi di identità, che ha portato alla loro dispersione. Va rilevato, però, che, specialmente in quest'area centroeuropea, il succedersi delle competizioni elettorali ha portato a un certo consolidamento dei sistemi partitici, caratterizzato dal rafforzamento di formazioni regolarmente rappresentate in parlamento e dall'uscita di scena dei partiti marginali. Si è così osservata una riduzione della volatilità partitica, e l'affermarsi di dinamiche di alternanza stabili e riconoscibili. Dopo una fase iniziale nella quale, oltre che il nome, anche il modello tradizionale del partito è stato coscientemente respinto a favore di strutture più aperte e decentralizzate - strutture che avrebbero dovuto rendere possibile l'accostamento di forze eterogenee sotto un'unica etichetta - è prevalso a poco a poco un formato organizzativo più classico. Con la pratica politica ci si è resi conto della necessità della gerarchia e dell'organizzazione, per ottenere maggiore efficienza in campagna elettorale e maggiore coerenza in parlamento. In Cecoslovacchia, già nelle elezioni del 1992 cinque dei sei partiti principali apparivano "partiti sia di nome che per struttura interna e organizzazione" (v. Kostelecky, 2002, pp. 154-155). Anche in Slovacchia, verso il 1994 e a seguito delle ripetute vittorie elettorali di Vladimir Mečiar e del suo Movimento per la Slovacchia Democratica, il formato del partito organizzato è divenuto dominante. I partiti, inoltre, una volta conquistato un ruolo primario in parlamento, hanno avuto l'opportunità di definire le regole del gioco democratico in modo da rafforzare la loro centralità a svantaggio di movimenti, associazioni della società civile e gruppi locali di origine etnica. Ciò è stato fatto, innanzitutto, intervenendo nell'ambito della legislazione elettorale: si pensi, a tal proposito, alla progressiva modifica della legislazione relativa alle elezioni locali nella Repubblica Ceca, che ha imposto la raccolta di un numero sempre maggiore di firme per la registrazione delle liste in distretti sempre più ampi; oppure alla legge dell'inizio del 2000 sull'elezione dei parlamenti regionali dello stesso paese, che consente la partecipazione ai soli partiti nazionali (v. Agh, 1998, p. 105).
In molti paesi ex comunisti dell'area balcanica (Albania, Romania, Bulgaria ed ex Iugoslavia, a eccezione della Slovenia) e anche in alcuni paesi ex sovietici (Ucraina, Bielorussia, Moldavia), l'adozione di sistemi elettorali formalmente competitivi non ha impedito l'iniziale affermazione di situazioni semiautoritarie, caratterizzate da uno scarso pluralismo, nelle quali la scena politica è dominata da partiti legati al precedente regime comunista o da loro reincarnazioni di tipo nazionalista e populista. In Serbia, ad esempio, nel 1990 i comunisti ottennero il 78% dei voti, per essere poi confermati al potere nel 1992. E ancora nel 1997, il boicottaggio delle elezioni contro il regime di Slobodan Milošević da parte dell'opposizione democratica ha avuto un successo solo parziale. In Bulgaria un cambio di governo, con la conseguente vittoria elettorale delle forze anticomuniste, è avvenuto solo nel 1991, e in Albania non prima del 1992. Per Croazia e Slovenia, invece, le prime elezioni in condizioni di indipendenza, svoltesi nel 1992, hanno confermato la forza dei sentimenti nazionalistici (cosa che, in quello stesso anno, avvenne anche in Lettonia). Gli ex comunisti sono stati confermati al potere anche in Montenegro, e in Romania con l'FSN (Fronte di Salvezza Nazionale) di Ion Iliescu.
In Slovenia e nei paesi baltici i progressi sulla via della democratizzazione e della riforma economica sono stati più rapidi, ma non privi di difficoltà, legati come erano a fattori etnici che hanno giocato un ruolo importante specialmente in Estonia e Lettonia. In ogni caso, la Lituania è stata, nel dicembre del 1990, il primo paese ex sovietico a legalizzare il sistema pluripartitico e quello in cui, nelle elezioni del 1992, si è realizzata la prima alternanza democratica, con il ritorno al potere degli ex comunisti riformati (il Partito Laburista Lituano): dinamica, questa, poi ripetutasi anche in Ungheria, in Polonia e in molti altri paesi dell'area di influenza ex sovietica.
A parte va considerata, infine, la realtà della Russia postcomunista, dove lo sviluppo democratico - e soprattutto quello partitico - presentano delle peculiarità. La Russia, pur differenziandosi rispetto ad altri paesi ex sovietici (Kazachstan, Azerbaigian, Uzbekistan, Georgia, Armenia) che debbono considerarsi regimi puramente autoritari - e anche rispetto ai semiautoritarismi affermatisi in Ucraina, Bielorussia, Serbia e Albania - non ha seguito la stessa progressione dei paesi postcomunisti dell'Europa centro-orientale. In Russia non può ancora registrarsi una chiara tendenza verso il consolidamento del sistema partitico. Le elezioni della Duma del 1999 e gli sviluppi successivi hanno riaffermato alcuni tratti tipici del sottosviluppo partitico, caratteristico, come si è detto, della prima fase delle transizioni. In particolare, è stata confermata la propensione a un'elevata volatilità elettorale del sistema dal lato dell'offerta, con la creazione di nuove formazioni di considerevole successo - il partito filogovernativo Unità (Edinstvo), lo 'sfidante' Patria-Tutta la Russia (OVR, Otecestvo Vsya Rossija) del sindaco di Mosca, Yurij Lužkov, e l'Unione delle Forze di Destra (SPS, Sojuz Pravikh Sil) - cui è andata in totale oltre la metà dei voti. Il numero dei candidati indipendenti, dopo la riduzione prodottasi in occasione delle consultazioni del 1995, è tornato ai livelli del 1993, quando oltre il 50% degli eletti nei distretti uninominali non era formalmente collegato ad alcun partito. Si è confermata la schiacciante superiorità organizzativa del Partito Comunista della Federazione Russa (KPRF, Kommunisticeskaya Partija Rossijskoi Federatsii) rispetto a ogni altra formazione politica. Infine, a questa scarsa formalizzazione del partito è corrisposta una ancor più esigua rilevanza istituzionale. Il presidenzialismo russo ha infatti assunto un carattere marcatamente carismatico e 'al di sopra delle parti', la Duma ha un'influenza molto relativa sulla formazione del governo, con una tendenza a sottomettersi a quello che è stato definito il 'superpresidenzialismo' di Vladimir Putin (v. Fish, 2000).
Non per questo si può escludere che la situazione russa evolverà in futuro nello stesso senso dei paesi dell'Europa centro-orientale. In tale direzione è persino possibile rilevare alcuni sia pur flebili segnali. Una recente legislazione, in particolare, ha introdotto requisiti più rigorosi per la registrazione dei partiti, ai quali si richiede un maggiore sforzo di presenza in ambito regionale - ambito che, però, conserva una forte dose di indipendenza dall'arena politica principale. Il secondo presidente russo, inoltre, nonostante abbia rafforzato i caratteri carismatici del suo ruolo, sembra più incline del suo predecessore a considerare la funzione politica dei partiti, non celando le proprie simpatie per Edinstvo e per la recente unione di questo con l'OVR. Tali dinamiche potrebbero approdare a un sistema partitico stabile con una larga coalizione centrista e filogovernativa, che verrebbe sfidata da un'opposizione di sinistra formata sostanzialmente dai comunisti, e da un'ala di centro-destra costituita dall'unione, per ora in fieri, fra i liberali di SPS e di Yabloko.
In definitiva, il ruolo dei partiti nei nuovi processi democratici postcomunisti ha assunto caratteristiche eterogenee per diversi gruppi di paesi. Generalizzando, si può però affermare che i partiti e i sistemi di partito appaiono meno strutturati di quelli operanti nelle democrazie avanzate. Al modello classico del partito di massa si approssimano, e in modo parziale, i soli partiti ex comunisti, mentre la maggior parte degli altri ha pochi membri e fa affidamento su finanziamenti pubblici (e, se al governo, sul clientelismo) per sostenere le spese richieste dalla loro attività. Alcuni osservatori parlano, per questo, di diffusione in Europa centro-orientale del modello del 'partito di cartello' (v. Agh, 1998, p. 109; per il concetto di 'partito di cartello', v. Mair, 1997). L'affidamento ai fondi pubblici sembra, però, dovuto più alla debolezza della società civile e alla difficoltà dei partiti postcomunisti di identificare con precisione gruppi sociali di riferimento, che non al desiderio di indipendenza dalla società e alla volontà di sottrarsi a una genuina competizione elettorale escludendo 'nuovi ingressi', implicita nell'idea di cartello. L'analisi del rapporto tra processo di democratizzazione e sviluppo partitico spinge, dunque, a una riconsiderazione della sintesi storica proposta da Huntington con la formula 'terza ondata verso la democrazia'. Solo in alcuni paesi dell'ex blocco sovietico - in quelli dell'area centro-orientale e in alcune repubbliche baltiche - si è infatti realizzata una transizione di tipo pattizio, che lo stesso Huntington individua come caratteristica dell'ondata avviatasi negli anni settanta: in queste realtà il partito ha rappresentato il principale luogo dello 'scambio politico' e della 'contaminazione' tra vecchie e nuove élites, e, non certo casualmente, proprio in tali contesti ha finito con l'assumere un ruolo comparabile a quello che i partiti ebbero in Spagna, Portogallo e Grecia. In altre realtà, invece, in particolare nei paesi ex sovietici, la mancanza di partiti consolidati ha contribuito a uno sviluppo incerto del processo di transizione, che in molti casi risulta ancora sospeso tra democrazia e semiautoritarismo (v. McFaul, 2002).
6. Conclusioni
Il partito di massa come versione moderna del 'grande partito' tocquevilliano, protagonista della vita politica e delle transizioni democratiche nell'immediato dopoguerra, cominciò la sua trasformazione e il suo declino in Europa già negli anni cinquanta, quando si iniziò ad avvertire il problema delle forze antisistema, connesso alla rottura della coalizione internazionale prevalsa nella seconda guerra mondiale. Il partito, in questo nuovo scenario, non fu più in grado di rappresentare un elemento di stabilizzazione del complessivo equilibrio istituzionale e a tale sua incapacità si aggiunse, a partire dal decennio successivo, una crescente inadeguatezza a offrire risposte ai processi di autonomizzazione e secolarizzazione che stavano investendo le società civili dei paesi più avanzati.
Il caso dell'Italia, dove il partito mantenne una sua centralità fino alla fine degli anni settanta, va considerato in questo scenario un'eccezione, conseguenza della mancata modernizzazione del sistema istituzionale e della perdurante presenza di un forte e radicato Partito Comunista, al quale era interdetto, per il peso che i vincoli internazionali esercitavano sulle scelte degli elettori, l'accesso all'area del governo (v. Ignazi, 2002).
La nuova ondata di democratizzazione che ebbe inizio negli anni settanta sembrò rilanciare il ruolo dei partiti, i quali si trovarono a svolgere un'importante funzione di mediazione nell'ambito delle transizioni dell'Europa meridionale, avvenute, per lo più, attraverso degli accordi. Essi, anche per questo, ricevettero una disciplina costituzionale nell'articolo 51 della Costituzione portoghese del 1976 (poi modificata nel 1997) e nell'articolo 6 della Costituzione spagnola del 1978.
Questo nuovo protagonismo non deve far ritenere che in Occidente il processo di trasformazione della forma-partito e il declino della sua funzione sociale si arrestassero. Negli anni settanta, infatti, in Europa il processo di autonomizzazione della società civile dalla politica si fece più impetuoso e, inoltre, si accelerò il processo di 'mediatizzazione' della vita politica, che produsse le sue maggiori conseguenze nei decenni successivi, investendo appieno la realtà dei partiti. In Occidente, e segnatamente in Europa, negli anni ottanta si compì quella metamorfosi dei partiti, che poi la svolta storica del 1989 ha consentito di ultimare e consolidare. Il ruolo del leader si è affermato come preminente, è crollata la partecipazione dei militanti, i contenuti ideologici si sono affievoliti, i processi di centralizzazione dei meccanismi decisionali si sono perfezionati e pratiche fino ad allora sconosciute nell'orizzonte partitico - quali i sondaggi e il marketing - hanno assunto un'importanza crescente.
Tutto ciò è stato a più riprese e sotto diversi aspetti considerato come un pericolo per i regimi democratici occidentali. E la presunta minaccia del 'partito mediatico' nei riguardi della democrazia è stata avvertita come ancora più pericolosa quando, nel 1992, si è verificata negli Stati Uniti l'ascesa del movimento United We Stand America del magnate televisivo Ross Perot e, due anni più tardi, in Italia, seppure in un contesto completamente diverso, di Forza Italia, partito strettamente legato alla figura di Silvio Berlusconi, imprenditore di primo piano nel settore dei media. La sedimentazione di queste esperienze induce, però, a trarre conclusioni meno allarmanti. Innanzitutto, il fallimento dell'esperienza di Perot e, soprattutto, l'evoluzione organizzativa di Forza Italia mostrano che, se i mass media possono offrire una formidabile 'finestra di opportunità' per l'ascesa di un partito politico, il passaggio dallo 'stato nascente' dell'organizzazione alla sua istituzionalizzazione richiede a qualsiasi attore politico forme di radicamento più tradizionali (v. Poli, 2001). Inoltre, l'accrescersi delle opportunità di successo per nuove formazioni, come conseguenza di una maggiore influenza della comunicazione nelle dinamiche sociali, induce ad applicare all'analisi dei partiti la categoria della 'contendibilità', che la scienza economica da Schumpeter in poi ha utilizzato per spiegare alcuni meccanismi del mercato economico (v. Baumol e altri, 1982). La velocizzazione delle sfide politiche assicurate da strumenti che garantiscono un'ampia e immediata diffusione del messaggio politico (v. Rosanvallon, 1995) aumenta la 'contendibilità' della posizione preminente dei partiti consolidati, che in passato non poteva essere insidiata a causa di una necessaria sedimentazione di complessi processi organizzativi. Questa dinamica rende più difficile il consolidarsi di rendite di posizione e spinge, perciò, i partiti a prestare una maggiore attenzione alle volontà e alle intenzioni dell'opinione pubblica, con la conseguenza di accrescere il tasso di democrazia reale dei sistemi (v. Manin, 1995).
Quanto detto induce a ritenere che la svolta epocale del 1989 si inserisca a Ovest in un processo già in atto, amplificandone gli effetti. La novità di questa fase, piuttosto, è che l'analisi complessiva delle trasformazioni politico-istituzionali dei paesi ex comunisti ha ridimensionato l'importanza del partito nel passaggio alla democrazia. Mentre la considerazione delle transizioni del dopoguerra e di quelle degli anni settanta nell'Europa centromeridionale portava a pensare che il partito avesse un ruolo assolutamente centrale e difficilmente sostituibile (v. Morlino, 1995), nei paesi post-comunisti più avanzati le nuove regole del gioco democratiche hanno acquisito visibilità e legittimità prima (e quindi senza il bisogno) dell'emergere di partiti istituzionalizzati (v. Tóka, 1997).
Il contemporaneo ridimensionamento delle funzioni del partito a Ovest e a Est fa nascere il rischio che i due processi possano essere confusi e troppo frettolosamente sovrapposti. È senz'altro vero che sia in Occidente, sia nel mondo postcomunista i partiti tendono a essere più leggeri, a non avere un elettorato stabile di riferimento e, anche per questo, a subire forti sbalzi della propria forza elettorale. In Occidente, però, si è pervenuti a questo stato di cose per gli effetti del crescente benessere sociale portato dall'affermarsi della società postindustriale, per il conseguente allargamento della classe media e la correlativa erosione delle differenze di classe, per la crisi delle fratture politiche tradizionali e l'emergere di istanze postmateriali legate a condizioni o problemi specifici (come, solo per fare degli esempi, ecologismo o femminismo). Il sottosviluppo dei partiti dell'Europa postcomunista, invece, risulta piuttosto connesso all'ancora accentuata debolezza della società civile e alla sua limitata autonomia, alla scarsa differenziazione dei gruppi e degli interessi sociali, alla povertà di massa. Esso, in altri termini, va considerato come l'effetto paradossale di un 'residuo' del sistema di tipo sovietico che, per quanto concerne il partito politico, si risolve in una sorta di contrappasso. Tutto ciò non toglie che, nel processo di consolidamento delle forme della democrazia a Est, i partiti assai difficilmente passeranno per lo stadio del partito ideologico di massa. Essi, probabilmente, saranno portati a saltare una fase della loro evoluzione storica (circostanza che certamente renderà più complesso il definitivo affermarsi della democrazia) sia per l'influenza dei processi di integrazione europea in atto, che coinvolgono alcuni di quei paesi, sia per il rilievo che, anche in quei contesti, avranno le nuove sfide politiche globali.
La frammentazione della società civile da un lato, la globalizzazione dei conflitti dall'altro inducono a ritenere che i partiti tradizionali saranno sempre più surrogati da altre istituzioni di fatto, quali gruppi di interesse e associazioni di categoria (v. Schmitter, 1992), ovvero da movimenti che, per loro stessa natura, sono più portati a rappresentare istanze complessive. Sarebbe però un errore pensare per questo che il ruolo dei partiti si vada estinguendo (v. Antiseri, 1999): il passato recente dovrebbe rappresentare, in tal senso, una lezione.
Dopo il 1989 vi fu chi ritenne, seppure per poco, che il conflitto politico potesse estinguersi (v. Fukuyama, 1992). Dopo l'11 settembre 2001, invece, sono state rivalutate quelle analisi che prevedevano una generalizzazione del conflitto, a livello di scontro di civiltà (v. Huntington, 1996). Il partito, nell'uno e nell'altro caso, verrebbe a trovarsi in difficoltà al cospetto di una conflittualità eccessivamente indebolita o esasperata. In realtà, nella società globalizzata il conflitto, rispetto al passato, non si annulla né si generalizza, si articola solo in modo differente; e questa nuova articolazione passa anche attraverso istituzioni di diversi livelli (locale, nazionale, sovranazionale), dei quali i partiti restano funzione essenziale per rendere possibile, in un contesto divenuto più complesso, l'accountability e la responsiveness dei governanti verso i governati (v. Mainwaring, 1999; v. Kitschelt e altri, 1999).
Si può, dunque, concludere che ciò che i partiti stanno perdendo in termini di rappresentatività per la concorrenza di altri soggetti politici, lo guadagnano in termini di funzionalità istituzionale per la loro capacità di puntellare e mettere in contatto tra di loro differenti arene. All'alba del XXI secolo, i partiti sembrano sempre più somigliare ai 'piccoli partiti' intesi come mere funzioni delle istituzioni - dei quali Tocqueville, con malcelata preoccupazione, descriveva l'affermarsi nell'America dei primi decenni dell'Ottocento - che non ai 'grandi partiti' al servizio degli ideali che, seppure in forme diverse, dominarono a lungo la vita politica dell'Europa.
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