PARTITI POLITICI (v. partito, XXVI, p. 423)
Fondamenti giuridici. - La Costituzione italiana afferma all'art. 49 il diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in p. per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. I p. sono, quindi, libere associazioni utilizzate dai cittadini come strumento di esercizio della sovranità popolare. L'art. 49 si collega, così, da un lato, all'art. 1, secondo comma, e, dall'altro, agli articoli 2 e 18. Con riferimento all'art. 1 il p. è strumento di esercizio della sovranità popolare, e persegue una finalità - quella di determinare la politica nazionale - la quale è strettamente connessa a una funzione pubblica, anzi costituzionale. Con riferimento all'art. 2, il p. è invece una libera associazione che viene garantita come una delle "formazioni sociali" in cui si esprime il pluralismo garantito dalla Costituzione e che trova una sua enunciazione generale nel diritto di associazione previsto dall'art. 18. Anzi, l'analogia delle due espressioni usate dalla Costituzione, all'art. 18 e all'art. 49, fa ritenere che esistano due diritti di libertà di associazione della stessa natura spettanti al cittadino, di cui il primo, di carattere più generale e senza specificazione di fine, sancisce, all'art. 18, il diritto di associarsi liberamente per fini non vietati; il secondo, all'art. 49, sancisce il diritto ad associarsi, sempre liberamente, ma per il perseguimento di un fine specifico di carattere politico e attraverso uno strumento tipico, il partito. Come ha posto in rilievo V. Sica, i p. sono, "prima che associazioni rilevanti e attive, organizzazioni, istituzioni e pertanto ordinamenti particolari ed indipendenti".
L'art. 49 Cost. ha riconosciuto, dunque, la posizione e la funzione del p. quale strumento generale al grado più elevato di dignità costituzionale: l'esercizio della sovranità popolare e, in concreto, la determinazione della politica nazionale. Ma, nello stesso tempo, non ha subordinato l'esistenza dei p. ad alcun condizionamento o limite ideologico, programmativo o strutturale e, pertanto, non ha modificato il carattere del p. che è, e continua a essere, al pari delle associazioni previste dall'art. 18, espressione di autonomia privata. Questo vuol dire che il p. è di per sé un fenomeno della realtà sociale, ora emerso anche a livello del sistema giuridico. Ancorché dotato di una funzione pubblica, il p. ha, nel nostro sistema costituzionale, la struttura propria di un ordinamento giuridico privato e, come qualunque associazione, non ha altri limiti fuori da quelli costituiti dalla legge civile comune e dai divieti posti dalla legge penale. L'unico limite specifico esterno posto al p. - oltre a quelli comuni a tutte le associazioni private - è previsto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto p. fascista.
Emerge così una certa bivalenza del p. o, come la definisce A. Negri, "ambiguità" perchè il p. è espressione da un lato della libertà associativa, fuori da ogni condizionamento di organi pubblici, ed è impegnato, dall'altro, a svolgere una funzione squisitamente pubblica, qual è quella della presentazione delle liste di candidati per le strutture istituzionali pubbliche a ogni livello. Per questo non mancano coloro i quali ritengono che dovrebbe essere disposta per legge una disciplina interna all'organizzazione dei p. e sostengono che la necessità di questa disciplina discenda dagli stessi princìpi costituzionali (G.D. Ferri). Si è auspicato così da alcuni l'emanazione di una legge sulla registrazione dei p. o di riconoscimento della personalità giuridica e si è affermato che la funzione costituzionale che essi sono chiamati a svolgere giustifica il sacrificio, almeno parziale, della loro autonomia (si vedano su questo le posizioni più sfumate di C. Esposito e quelle più radicali di M. D'Antonio e di L. Sturzo nella proposta di legge sulla regolamentazione dei partiti).
Questa opinione ha suscitato, tuttavia, in altri forti perplessità. Esse sono alimentate soprattutto da quegli scrittori i quali - come G. Maranini, G. Miglio e G. Perticone - hanno sviluppato una critica serrata ai mali della partitocrazia o - come S. Galeotti - ritengono che i p. riescano a essere vitali solo se la loro autonomia non venga compromessa attraverso uno specifico intervento legislativo. In realtà la Costituzione, quando ha previsto che una libera struttura associativa potesse assumere personalità giuridica ed essere soggetta alla registrazione e al controllo pubblico della organizzazione, lo ha detto espressamente.
I sostenitori della prima di queste posizioni hanno addotto a favore della loro tesi l'espressione dell'art. 49, là dove esso dice che i cittadini si associano liberamente in p. "per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Secondo questa interpretazione "il metodo democratico" rappresenterebbe il limite interno dell'autonomia dei p., e cioè la via attraverso cui sarebbe giustificata una legislazione di controllo interno per verificare la rispondenza al metodo democratico della potestà dei p. di darsi un ordinamento in sede statutaria, di richiamarsi a un'ideologia o di fissarsi un programma. Per questo si chiede non solo che l'attività dei p. si svolga nell'osservanza delle leggi penali o di polizia o in conformità ai principi istituzionali dello stato (cosiddetta istituzionalità esterna), ma anche che l'organizzazione interna di p. sia improntata a quegli stessi princìpi generali che vigono per l'ordinamento giuridico statale.
Una tale interpretazione dell'art. 49 non trova però conferma nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente. Dai resoconti sommari della prima sottocommissione - sedute svoltesi tra il 14 e 20 novembre 1946 (n. 37-40) - e dal resoconto sommario n. 129 dell'Assemblea del 22 maggio 1947 si ricava che il sistema dell'istituzionalità programmatica dei p. fu proposta nei progetti di articoli A. Merlin e P. Mancini: "i cittadini - diceva questa proposta - hanno diritto di organizzarsi in partiti politici che si formino con metodo democratico e rispettino la dignità e la personalità umana, secondo i principi di libertà e di eguaglianza. Le norme per tale organizzazione saranno dettate con legge particolare". Un emendamento dell'on. G. Bellavista diceva: "le leggi della Repubblica vietano la costituzione di partiti che abbiano come mira la instaurazione della dittatura di un uomo, di una classe o di un gruppo sociale o che organizzino formazioni militari o paramilitari". Un altro emendamento dell'on. V. Colitto diceva: "sono proibite le organizzazioni politiche il cui scopo sia quello di privare il popolo dei suoi diritti democratici". Ma queste proposte o emendamenti venivano o ritirati o battuti sulla base degli argomenti sostenuti soprattutto dagli onorevoli A. Moro e R. Laconi i quali dissero che un tale sistema, consentendo allo stato il controllo sugli scopi dei p., avrebbe potuto dar luogo a gravi abusi e sarebbe stato di difficile applicazione per l'impossibilità di accertare le reali intenzioni dei partiti. Fu anche presentata una proposta C. Mortati-C. Ruggiero che diceva: "tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti ordinati in forma democratica allo scopo di assicurare con l'organica espressione delle varie correnti della pubblica opinione ed il concorso di esse alla determinazione della politica nazionale, il regolare funzionamento delle istituzioni rappresentative". Ma essa era poi ritirata.
Si giungeva, così, all'attuale testo dove il "metodo democratico" non è più inteso come limite interno all'autonomia di ogni singolo p., ma come il risultato che deriva dal concorso dei p. a determinare la politica nazionale. L'art. 49 non prevede dunque un sindacato dello stato sul grado di democraticità interna dei singoli p. - come è invece nella Costituzione tedesca - ma costituzionalizza, se così si può dire, il sistema dei p. visto nel suo complesso; afferma cioè il pluralismo dei p., fissa il principio costituzionale che i cittadini concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale solo se essi dànno vita a più partiti. S'identifica in sostanza il metodo democratico con il pluralismo partitico.
Il problema se il pluralismo partitico sia carattere distintivo della democrazia è stato di recente oggetto di un acceso dibattito tra esponenti della nostra cultura. A prescindere dagli argomenti che hanno sorretto le varie opinioni, tra cui spicca il pensiero di N. Bobbio, è da notare che il fatto stesso che da una norma costituzionale venga indicato come "diritto" che la politica nazionale debba essere determinata dal concorso dei p., cui si associano liberamente i cittadini, sta a dimostrare inequivocabilmente la correlazione che esiste tra democrazia e pluralismo dei p., nel senso che la repubblica, se. vuole qualificarsi come democratica, deve strutturarsi pluralisticamente; e la Costituzione, se vuole esistere materialmente, oltre che formalmente, deve esprimersi in una normativa che consenta l'effettiva esistenza di una pluralità dei p. attraverso i quali si realizzi il gioco democratico. Affinché questo possa realmente avvenire, è necessaria da un lato l'autonomia dei p. dallo stato e quindi la loro configurazione come libere associazioni private; e, dall'altro, la finalizzazione tipica di queste associazioni al perseguimento d'interessi pubblici comuni, con tutto ciò che può esservi connesso.
Nell'ordinamento italiano, quindi, sembra di potersi affermare la completa autonomia dei p. dallo stato, secondo un principio non derogabile dal legislatore ordinario per cui la struttura e la vita interna del p. sono regolate solo dalle sue norme, cioè dalla potestà di darsi un ordinamento.
Una parte della dottrina giuridica privatista, specialmente attorno agli anni Cinquanta (P. Rescigno, G. Astuti) e anche più di recente (G. Oppo, F. Galgano), ha esaminato il p., sotto il profilo dell'autonomia e lo ha parificato a ogni altra associazione privata o ente intermedio senza personalità giuridica, non riconosciuto o di fatto. Il p. tuttavia non può essere parificato all'associazione privata sotto l'aspetto della funzione. Per quanto riguarda la funzione il p. si diversifica dall'associazione privata proprio perché ha una funzione tipica, rilevante costituzionalmente, di natura politica. E la funzione non può, in una certa misura, non incidere sulla struttura. È stato merito della dottrina giuridica pubblicista (P. Virga, C. Mortati, G. D. Ferri, A. Predieri) l'aver messo in rilievo il preciso collegamento tra i p. e l'organizzazione dello stato e averlo definito, a volta a volta, come "organo dello stato", come "istituzione", come "potere", cogliendone in ogni caso l'inserimento nell'organizzazione dello stato attraverso forme proprie di attività che costituiscono modi di concorso alla determinazione della politica nazionale (presentazione delle candidature elettorali, rapporti con i gruppi parlamentari, ecc.). Il p., come già agl'inizi del secolo le analisi sociologiche di M. Ostrogorski e di R. Michels avevano messo in rilievo, nasce come fatto associativo sulla base di un libero consenso, ma si esprime in un'organizzazione qualificata che richiede la partecipazione attiva degli associati in vista di un fine tipico. E non la semplice associazione, ma anche l'organizzazione e l'attività sono essenziali per esercitare la funzione. Il rilievo costituzionale della funzione implica dunque anche un rilievo costituzionale dell'organizzazione.
È quindi interesse pubblico generale costituzionalmente protetto: 1) che esista un pluralismo partitico. Lo stato non può intervenire per disciplinare quali p. vi debbano essere. Non può né promuoverli, né riconoscerli, né ostacolarli, con la sola eccezione del divieto della ricostituzione del p. fascista. Esso si deve limitare a garantire che possa esistere più di un p. assicurando la libertà di associazione; 2) che i p. esistenti concorrano a determinare la politica nazionale. Lo stato non può intervenire per indicare come i p. debbano determinare la politica nazionale. Esso tuttavia deve garantire che i p. vi concorrano, consentendo ad essi, mediante le leggi elettorali, di presentare liste senza discriminazioni; 3) che i p., i quali concorrono a determinare la politica nazionale, possano avere il minimo di organizzazione necessaria per espletare la loro funzione. Lo stato non può intervenire, per quel che si è visto, per disciplinare l'organizzazione interna, non può stabilire come il p. deve ordinarsi nel suo interno. Esso invece deve garantire che tutti i p. possano avere i mezzi necessari per svolgere la loro funzione.
L'autonomia del p. è quindi sì un'autonomia privata, ma è anche nello stesso tempo un'autonomia funzionale, che necessita di un'organizzazione qualificata con la partecipazione attiva dei suoi aderenti: quindi, come oggi si dice, è un'autonomia collettiva perché essa non riflette solo un interesse individuale di natura economica, culturale, religiosa, sportiva del singolo associato, come avviene nelle associazioni libere private di tipo negoziale, ma riflette invece un interesse sempre superiore al singolo associato e orientato direttamente verso il bene comune della società e dello stato.
Di qui discende anche la natura del "diritto" che la Costituzione riconosce ai cittadini di organizzarsi in partiti. Dalla facoltà spettante ai cittadini di associarsi liberamente nei p. non nasce un diritto soggettivo di cui lo stato debba garantire l'esercizio. Perché, se questo fosse il significato della norma, il cittadino potrebbe chiedere e ottenere l'iscrizione a un p., anche in deroga alla norma statutaria. D'altra parte, non si può negare che il cittadino, associandosi a un p., ha anche dei diritti soggettivi o poteri giuridici da far valere nei confronti del p. stesso come la giurisprudenza ha più volte messo in rilievo. Ma questi diritti soggettivi, o comunque posizioni di vantaggio, nascono dall'interesse legalmente protetto al rispetto della norma statutaria nell'ambito dei princìpi generali del diritto comune, mentre d'altra parte il socio del p., come appartenente ad un ordinamento, si trova in uno stato di soggezione rispetto alla volontà comune.
Il "diritto i del cittadino ad associarsi liberamente nei p. ha invece altra natura: alla pari del diritto all'istruzione, al lavoro, alla salute, alla libertà di stampa non si esercita con l'assoggettamento di una controparte tenuta a fornire una prestazione, ma si esprime e si esercita invece attraverso l'esercizio di un potere-dovere dello stato a emanare norme di organizzazione che garantiscano al cittadino l'esercizio del diritto riconosciutogli dalla Costituzione. Così anche il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente nei p. comporta che lo stato garantisca un sistema politico dove più p. possano convivere senza essere condizionati dal potere pubblico; che essi possano liberamente presentare liste e svolgere la campagna elettorale; che essi possano avere i mezzi necessari per organizzarsi.
Il finanziamento dei partiti politici. - Da queste premesse nascono le condizioni per affrontare un altro tema largamente dibattuto: se cioè sia ammissibile un contributo dello stato al finanziamento dei p. politici e se questo contributo richieda necessariamente una disciplina legislativa rigida sulla democraticità e quindi sull'organizzazione interna dei partiti. Se i p. sono associazioni-organizzazioni private con funzioni d'interesse generale non è necessario che, per il finanziamento pubblico, la legge ponga come condizione al finanziamento stesso la registrazione, il riconoscimento di personalità giuridica, il controllo organizzativo interno, in una parola la limitazione interna dell'autonomia. Il problema del finanziamento pubblico dei p. si è posto quando si è valutata l'incapacità dei p. a far fronte ai loro compiti istituzionali con i mezzi di autofinanziamento lecito di cui essi dispongono. Da questa constatazione sono discese le critiche ai processi di burocratizzazione e alle tendenze oligarchiche in atto nei p. e ha tratto nuovi elementi la polemica alla partitocrazia (S. Valitutti).
Le fonti lecite tradizionali di autofinanziamento del p. sono tre: 1) il contributo dei soci; 2) il contributo di privati anche non soci e che tuttavia non si propongono di condizionare le linee generali della politica del p. o di determinare scelte del p. o dei suoi membri su questioni specifiche; 3) i proventi di attività economiche a loro volta lecite secondo le leggi della repubblica. L'insufficienza delle fonti, indicate come lecite, di finanziamento induce i p. al ricorso a fonti diverse, che, anche quando non diano luogo a fatti penalmente perseguibili come reato, suscitano allarme o preoccupazione. Sono sicuramente finanziamenti illeciti, a prescindere dalla loro rilevanza di obiettiva anti-giuridicità penale, quelli che derivano: a) da contributi di privati che richiedano in modo diretto o indiretto contropartite generali d'indirizzo politico o speciali di specifici atti politici; b) da sottrazioni allo stato o a enti pubblici o comunque finanziati dallo stato di denaro o di altra utilità. Il finanziamento illecito viola il principio costituzionale contenuto nell'art. 49 perché altera il libero concorso dei cittadini a determinare la politica nazionale. Infatti, se non solo i cittadini iscritti, ma anche i gruppi di pressione divengono in qualche modo determinanti, o comunque concorrono a determinare le scelte dei p. sulla politica nazionale, si turba inevitabilmente il libero gioco delle istituzioni democratiche. In modo particolare viene messo in discussione il principio fondamentale democratico del pluralismo dei partiti.
Per questo si è invocato, ancor prima dell'entrata in vigore della legge sul finanziamento dei p., un rigoroso divieto di ogni finanziamento illecito, ma si è anche detto che l'intervento dello stato in termini di puro divieto è del tutto insufficiente e si è posto il problema dell'intervento del finanziamento pubblico.
Su queste tesi si è sviluppato nell'ultimo trentennio un vasto movimento di opinione che ha discusso, in sede culturale e politica, il tema del rilievo del p. politico all'interno del nostro ordinamento, della sua natura giuridica, della sua funzione politico-costituzionale e dell'ammissibilità del finanziamento pubblico. Già in epoca anteriore alla Costituzione, C. Mortati nel 1945 elaborava un progetto di legge che, senza entrare nel merito del finanziamento dei p., proponeva una disciplina dei requisiti dei "raggruppamenti politici" i legittimati a presentare liste di candidati per l'elezione dei deputati all'Assemblea costituente e delle procedure che dovevano essere seguite per dare carattere di democraticità a tali designazioni. Era già implicita in questo progetto una tendenza alla disciplina interna del p. che ne garantisse - in vista della sua funzione pubblicistica - un metodo democratico interno. Questa tendenza riemerse durante i lavori dell'Assemblea costituente, ma - come abbiamo visto - non trovò spazio nella stesura definitiva del testo dell'art. 49 della Costituzione. Maggiore rilievo e significato, come precedente specifico, ha il disegno di legge presentato al Senato nella terza legislatura dal sen. Sturzo il 16 settembre 1958 (n. 124). Questo disegno risponde a un'esigenza di moralizzazione della vita pubblica e propone il riconoscimento della personalità giuridica ai p. politici, nonché il controllo pubblico dei loro finanziamenti. Al Congresso socialista di Milano del 1961 P. Nenni, segretario del PSI, affermava che "i partiti sono ormai strutturalmente un organo della vita pubblica e burocratica del paese, si può dire che il paese intero è interessato al loro retto funzionamento". Faceva eco nel 1963 l'on. P.E. Taviani, relatore ufficiale al Convegno di San Pellegrino della DC, con la proposta esplicita del finanziamento dei p. allo scopo di "moralizzare la vita pubblica e, al tempo stesso, rendere i partiti autonomi, anche sotto il profilo economico, dai condizionamenti esterni". In tutto il decennio 1960-70 questo tema ritorna a più riprese nei dibattiti culturali. Fu affrontato nel convegno del Movimento Salvemini, nel dibattito dell'ISLE, nel convegno del Club Turati, formò oggetto di una proposta dell'on. A. Curti (1966) rimasta allo stato di progetto, e di una proposta dell'on. A. Greggi presentata il 21 maggio 1970, n. 2546. Nel 1965 la Commissione di studi costituzionali del PRI rendeva noto uno schema normativo che prevedeva il riconoscimento della personalità giuridica dei p. politici, una disciplina di garanzia democratica comune a tutti i p. (tutela delle minoranze, pubblicità degli atti interni, candidature, organi probivirali, modificazioni statutarie) nonché una disciplina della gestione finanziaria le cui forme di controllo avrebbero dovuto essere più penetranti nell'ipotesi di finanziamento pubblico. Nel 1968 uno schema normativo per il finanziamento pubblico dei p. redatto dal Club Turati prevedeva la registrazione, il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato, il finanziamento pubblico dei p., la pubblicità e il controllo dei loro bilanci. Infine nel 1971 lo schema normativo sul contributo dello stato al finanziamento dei p. redatto dal "Movimento di opinione pubblica" introduceva la distinzione del contributo per le spese delle campagne elettorali e per l'attività permanente dei partiti. Si giungeva così alle proposte di legge conclusive: quella L. Bertoldi, presentata il 24 maggio 1972, n. 39, e quella F. Piccoli, presentata il 20 marzo 1974, n. 2860 col consenso di tutti i capigruppo della maggioranza parlamentare, da cui dopo un breve ma intenso dibattito parlamentare traeva origine la l. 2 maggio 1974, n. 195, dal titolo "Norme sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici".
Oltre che di questo vasto movimento di opinione formatosi nel paese la citata legge si è avvalsa anche dell'esperienza legislativa in atto in molti paesi a regime di pluralità di partiti. In questi paesi l'esigenza di una disciplina del riconoscimento e del finanziamento pubblico dei p. e della presentazione delle candidature si è fatta ovunque sentire e il problema è stato risolto secondo modelli che rispondono alla differente natura dei problemi politico-sociali emergenti dall'esperienza particolare di ciascun paese e al diverso quadro costituzionale nel quale le soluzioni devono armonicamente inserirsi. Norme sulla regolamentazione e sul finanziamento dei p. politici sono state emanate in Venezuela (1964), in Svezia (1972), in Finlandia (1969). In Inghilterra la disciplina legislativa del 1949 (House of Commons Act e Electoral Registers Act) regola nei dettagli le spese elettorali per tutelare la concorrenza. Norme per la disciplina e il finanziamento delle "primarie di partito" sono vigenti negli SUA (Massachussets, Utah). Una forma di finanziamento pubblico "indiretto" dei p. è vigente anche in Francia e si articola in una serie di misure volte da un lato a ridurre le spese elettorali e, dall'altro, a rimborsare le spese della propaganda elettorale ai candidati i quali abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti espressi (art. 167 del Codice elettorale) e a mettere a disposizione dei p. i mezzi statali d'informazione di massa (cosiddetto "diritto di antenna").
Un cenno particolare merita la disciplina legislativa della Rep. Fed. di Germania proprio perché la legge fondamentale di questa repubblica all'art. 21, dove regola i p., ha alcune analogie - ma come vedremo non un'identità - con l'art. 49 della Costituzione italiana. Il primo comma dell'art. 21 della Costituzione della Rep. Fed. di Germania dice infatti: "i partiti collaborano alla formazione politica della volontà del popolo. La loro fondazione è libera. Il loro ordinamento interno deve essere conforme ai principi democratici. Essi devono rendere conto pubblicamente della provenienza dei loro mezzi". Una parte della dottrina giuridica italiana ha voluto vedere questa norma come del tutto parallela all'art. 49 della nostra Costituzione. Indubbiamente in tutte e due le Costituzioni si parla di concorso o collaborazione tramite i p. a formare la volontà politica e si afferma il principio della libertà dei p. e del metodo democratico. Ma balzano anche subito agli occhi le profonde differenze. In primo luogo perché, nella Costituzione tedesca, oggetto della disciplina sono i p., mentre nella nostra sono i diritti dei cittadini ad associarsi nei p.; in secondo luogo perché nella Costituzione tedesca la libertà è riferita alla fondazione dei p., mentre nella nostra è riferita alla libera scelta compiuta dai cittadini; in terzo luogo perché nella Costituzione tedesca la conformità ai principi democratici è riferita espressamente all'ordinamento interno dei p., nella nostra il metodo democratico è riferito solo al modo con cui i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale.
Per questo, nella Rep. Fed. di Germania l'attuazione della norma costituzionale ha portato con la l. 24 luglio 1967, modificata dalla l. 22 luglio 1969, a una disciplina di dettaglio sull'ordinamento interno dei p. per chiarire che cosa significhi ordinamento interno "conforme ai princìpi democratici" anche ai fini di consentire (ai sensi del secondo comma dell'art. 21) alla Corte costituzionale federale di valutare quando un p. possa definirsi democratico e quando debba essere dichiarato incostituzionale. Questo problema invece non esiste nel nostro ordinamento costituzionale, se non limitatamente al giudizio sulla "riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista (Disposizione XIIa della Costituzione).
La legge tedesca riconosce così un rimborso delle spese per la campagna elettorale ripartito proporzionalmente fra i p., che abbiano partecipato alle elezioni politiche federali con proprie liste di candidati, e che abbiano ottenuto almeno un risultato minimo, e inoltre con una legge quadro autorizza i Länder all'emanazione di leggi di finanziamento dei p. per le elezioni regionali. Il controllo per questi finanziamenti viene esercitato attraverso l'obbligo imposto ai p. di redigere un rendiconto dettagliato di tutte le entrate, che dev'essere fatto pervenire al presidente della Dieta federale tedesca, il quale ne cura la pubblicazione sul Bollettino ufficiale.
Il punto di partenza logico della legge italiana sul finanziamento pubblico dei p. è costituito dall'art. 7 che prevede appunto quali siano i finanziamenti che devono essere dichiarati illeciti e pertanto vietati. Essi sono in primo luogo le sovvenzioni, comunque erogate dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici, da società private con rilevante partecipazione di capitale pubblico (superiore al 20%) o da società private controllate dalle società a rilevante partecipazione di capitale pubblico. Sono considerati ugualmente illeciti i finanziamenti che provengono da società private, con partecipazione del capitale pubblico inferiore al 20% o non controllate da società a rilevante partecipazione statale, quando tali finanziamenti non siano deliberati dall'organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio.
Al divieto delle sovvenzioni illecite fa da contrappeso il finanziamento pubblico. I beneficiari del provvedimento sono stati individuati nei p. e nelle formazioni politiche che concorrono alla vita politica nazionale in modo continuativo e pertanto partecipano alle elezioni politiche nazionali con proprie liste e con proprio contrassegno e ottengono o un suffragio consistente o comunque una rappresentanza alla Camera dei Deputati. La legge prevede che il p. politico possa avere un finanziamento pubblico per due ragioni fondamentali. La prima come concorso per le spese delle campagne elettorali politiche (artt. 1 e 2), la seconda come concorso nelle spese di organizzazione permanente (art. 3). Il concorso alle spese elettorali per il rinnovo delle due Camere è fissato nella misura di 15 miliardi (art. 1 primo comma). I contributi per le spese elettorali sono corrisposti entro 30 giorni dalla proclamazione dei risultati elettorali per la quota di un terzo in misura uguale fra tutti i p. e per i rimanenti due terzi in quote annuali per la durata della legislatura. La seconda ragione del finanziamento è la garanzia di assicurare una vita organizzativa ai p. i quali abbiano rappresentanze in Parlamento (art. 3).
I contributi vengono erogati attraverso i gruppi parlamentari perché tale tipo di finanziamento compete solo ai p. i quali abbiano rappresentanza parlamentare. La somma complessiva disposta a questo titolo, che è di 45 miliardi annui, va ripartita in due terzi attraverso la Camera dei Deputati (30 miliardi) e per un terzo attraverso il Senato (15 miliardi). Il finanziamento, pur essendo erogato attraverso i gruppi parlamentari, ha come destinatari sia i gruppi stessi sia i partiti. In sostanza, la legge opera in modo che il finanziamento pubblico dei p. non costituisca strumento di promozione artificiosa di nuovi p. e neppure strumento di sollecitazione di scissioni di p. esistenti. Il controllo pubblico del finanziamento dei p. avviene attraverso organi di controllo contabile interni alle Camere e una forma di pubblicità che consente di portare alla conoscenza di tutti i cittadini i bilanci dei p. attraverso gli organi di stampa a diffusione nazionale.
L'introduzione nell'ordinamento italiano della legge sul finanziamento pubblico ai p. ha dato luogo nella dottrina e nell'opinione pubblica a un vasto dibattito, che è culminato con la richiesta di un referendum abrogativo. Questo referendum, svoltosi nei giorni 11 e 12 giugno 1978, ha confermato la legge sul finanziamento dei p., ma ha messo in rilievo l'alto numero dei consensi (oltre il 40%) espressi dal corpo elettorale per l'abrogazione, nonostante il massiccio schieramento dei maggiori partiti. Comunque, dalla stessa legge sul finanziamento pubblico dei p., dalle vicende che l'hanno preceduta, accompagnata e confermata, il p. politico nell'ordinamento italiano risulta definito come una struttura che ha, al tempo stesso, caratteri di associazione privata e di organo. Esso assume una singolare e insostituibile funzione mediatrice tra lo stato-società e lo stato-apparato. Da un lato infatti, attraverso la sua organizzazione autonoma, canalizza interessi e aggrega la domanda politica esistente all'interno dello stato-società: dall'altro trasmette questa volontà politica nel Parlamento e nelle istituzioni pubbliche e appare, come dice Mortati, "mezzo necessario della società che si fa Stato". Ma allora risulta evidente che è proprio il pluralismo dei p. e non più il diretto rapporto tra cittadini e istituzioni che garantisce il sistema democratico proprio delle democrazie occidentali. In sostanza l'attenzione si sposta dalle garanzie generiche delle libertà di manifestazione del pensiero e della volontà politica dei cittadini alla garanzia specifica che il pensiero e la volontà dei cittadini, per essere efficace nel determinare la politica nazionale, possa usufruire degli strumenti idonei di aggregazione, di canalizzazione e di trasmissione della volontà politica.
Nasce a questo punto il problema del superamento dell'apparente contraddizione tra il principio del diritto dei cittadini a concorrere, attraverso i p., alla determinazione della politica nazionale (art. 49) e il principio secondo cui gli eletti del popolo rappresentano la nazione senza vincoli di mandato (art. 67). Questa contraddizione si risolve e si supera attraverso la garanzia di un reale pluralismo competitivo dei p., e nel quale ogni p. si afferma come strumento di mediazione tra lo stato-società e lo stato-apparato attraverso la libera aggregazione degl'interessi e dei valori di cui è portatore in funzione dell'interesse generale della nazione.
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Storia. - Il quadro politico italiano ha registrato negli ultimi vent'anni due innovazioni fondamentali: l'inserimento del PSI tra le forze di governo, avvenuto nel 1963, e poi l'entrata del PCI nell'area della maggioranza (16 marzo 1978). Entrambe sono maturate attraverso una lunga preparazione, a seguito di mutati rapporti interni (il tramonto del centrismo nella seconda metà degli anni Cinquanta, il logoramento del centro-sinistra e la crisi generale a partire dal biennio 1968-69), ma anche a seguito di una nuova funzione dei fattori esterni, quali le due potenze mondiali e la Chiesa, ormai indirizzati in senso coesistenziale. Precedute da tentativi estremi di contenere il mutamento (monocolore Tambroni nel 1960, bicolore Andreotti nel 1972), le due svolte hanno provocato sensibili ripercussioni soprattutto a sinistra, come la vicenda delle scissioni e unificazioni socialiste e la proliferazione di gruppi extraparlamentari intorno al PCI. Confermata la consistenza della DC e aumentata quella del PCI, i due maggiori p. hanno mantenuto il distacco dalle altre forze; tuttavia il bipolarismo, che sembrava un carattere permanente del sistema politico italiano, s'è attenuato a vantaggio di un movimento di convergenza (si è parlato, a questo proposito, di "grande coalizione imperfetta").
Nel quadro internazionale del disgelo dopo la morte di Stalin e la conclusione della guerra in Corea, si erano manifestate nel PSI esigenze di autonomia dal p. comunista e di apertura verso i socialdemocratici e i cattolici; la destalinizzazione proclamata dal XX congresso del PCUS e poi i contrasti suscitati nella sinistra dall'intervento sovietico in Ungheria avevano favorito la formazione di una maggioranza autonoma nenniana. Al tempo stesso, fra i p. della maggioranza si era manifestata nettamente una crisi di solidarietà. La sostituzione di A. De Gasperi e B. Villabruna rispettivamente con A. Fanfani e G. Malagodi aveva accentuato la distanza fra le due segreterie: mentre nella DC era stata riaperta la questione del ruolo sociale del p., fra i liberali si era affermata l'egemonia di una corrente legata al mondo imprenditoriale. Le elezioni del 1958 sottolinearono il movimento centrifugo in atto fra i p. della maggioranza, con il PRI alleato dei radicali nella battaglia laica e con il PLI impegnato a sottrarre al centro cattolico il più possibile del suo elettorato conservatore; i risultati, poi, confermarono il fatto che i p. laici uscivano diminuiti, sul piano elettorale, dalla collaborazione governativa col p. di maggioranza. In questa situazione il Consiglio nazionale democristiano, nel novembre 1958, prese atto dell'esigenza, avanzata da Fanfani, di "allargare nel paese e nel Parlarnento la base democratica del governo", riconoscendo il valore dell'indirizzo autonomistico delineatosi in seno al p. socialista. Così il centro-destra di F. Tambroni nacque in un momento politico definito, invece, dalla tendenza di larghe correnti democristiane a stabilire un rapporto con i socialisti. Di fronte all'eventualità di una coalizione di centro-sinistra, il segretario liberale Malagodi aveva aperto la crisi di governo; ma, in luogo del ritorno al centrismo da lui auspicato, si era verificata la costituzione di un monocolore appoggiato dall'esterno con i voti del MSI; nell'ondata di proteste popolari, occasionata dal congresso del MSI convocato a Genova, il centro-destra fu travolto dalla forza delle molteplici opposizioni (tutto un arco che andava dai monarchici del PDIUM fino al PCI, includendo le correnti democristiane di sinistra). Il governo di "convergenze parallele", attuato da Fanfani nell'agosto 1960, fu così il primo confortato dall'astensione dei socialisti.
L'ipotesi di un centro-sinistra organico maturò, in campo socialista, fra il XXXIV e il XXXV congresso (rispettivamente nel marzo 1961 e nell'ottobre 1963). Mentre i democristiani parlavano di allargamento dell'area democratica, i socialisti proponevano la convergenza intorno a un programma che costituisse "un atto d'irrevocabile rottura con le destre"; emerse, comunque, ai due congressi socialisti, una profonda differenza di valutazioni sul ruolo della DC nella politica italiana, sulla situazione mondiale e sulle prospettive di sviluppo del modello sovietico; per di più, la maggioranza autonomista appariva divisa al suo interno, delineandosi una posizione differenziata che mirava in prospettiva, oltre la convergenza temporanea con la DC, a proporre l'alternativa socialista. Parallelamente, l'VIII congresso della DC (gennaio 1962) approvò la politica "sperimentale" di centro-sinistra. La lunga relazione del segretario A. Moro, richiamando le fonti d'ispirazione ideale della DC, valutò anche quelle esigenze di opportunità politica che potevano consigliare l'incontro con forze animate da princìpi diversi; riaffermando la validità della scelta occidentalistica, sostenne che una fedeltà intelligente alla linea atlantica non precludeva, e anzi postulava, la distensione fra i blocchi. In conclusione, Moro diede atto ai liberali della lealtà usata nella trascorsa collaborazione col p. cattolico e mise in particolare evidenza il fermento autonomistico in atto nelle file socialiste. Al dialogo ormai allacciato fra i due p. protagonisti della svolta si associarono i socialdemocratici, spostandosi con lo stesso G. Saragat sul piano della nuova formula di governo, e i repubblicani, che posero allora in minoranza la corrente di R. Pacciardi e affidarono a U. La Malfa il controllo del partito.
Ma il PSI aveva attuato la sua svolta in un arco di tempo piuttosto ampio: l'autonomismo, infatti, s'era affermato in un momento in cui tutta la socialdemocrazia europea sembrava rinunciare all'attacco dei sistemi borghesi e ripiegare su posizioni riformiste (così i laburisti di H. Gaitskell e la SPD di Bad Godesberg); l'inserimento nella coalizione di governo corrispose, invece, a un momento successivo, contrassegnato dai primi avvisi di disagio economico e da un rinnovato dinamismo dei p. socialisti in Europa. La formazione del primo governo organico di centro-sinistra (dicembre 1963) provocò, dunque, una serie di ripercussioni nell'ambito della sinistra e in tutto il quadro politico italiano. Subito la sinistra socialista ricusò la fiducia al governo e si costituì, sotto la guida di T. Vecchietti, in Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP, stessa sigla assunta nell'immediato dopoguerra, fino alla scissione di Palazzo Barberini). Più tardi, la costituzione di un Partito Socialista Unitario risultante dalla fusione del PSI e del PSDI (ottobre 1966) provocò un ulteriore indebolimento con l'uscita di alcune frange che diedero vita a un movimento socialista autonomo. Sul fianco opposto dello schieramento politico, l'ex segretario Pacciardi, espulso dal PRI, fondava il Movimento per la Nuova Repubblica; mentre i liberali di Malagodi, ormai all'opposizione, vedevano crescere momentaneamente la propria consistenza numerica.
A partire dalle prime coalizioni di centro-sinistra furono proposti, a livello scientifico, diversi modelli di esplicazione e previsione. Essi denunciavano aspetti negativi del sistema politico italiano (la scarsa funzionalità, cioè la lentezza delle decisioni legislative, e l'eccessiva distanza delle sue componenti, ciascuna ancorata a una particolare ideologia e tradizione), spingendosi però a conclusioni opposte. Secondo G. Sartori, caratteri essenziali del sistema erano la frammentazione esasperata delle forze politiche e la divisione, il cleavage, tra le subculture cattolica e marxista ("pluralismo polarizzato"). Il pluralismo impedisce la formazione di maggioranze sufficientemente omogenee; la polarizzazione - determinata dalla presenza di culture politiche antagonistiche, che si esprimono in p. "altri", comunisti o fascisti - rimane inalterata anche nei momenti in cui si attenua la tensione tra le forze sociali. Più tardi, portando avanti la sua diagnosi, Sartori evidenziava ulteriormente il carattere di "competizione centrifuga" insito nella vita politica nazionale. L'unità operativa non è più, ormai, il p., bensì la frazione: il sistema del pluralismo polarizzato, infatti, si è riprodotto all'interno delle sue componenti, degenerando in un sistema di sottopartiti. Nel periodo d'intenso travaglio ideologico e organizzativo che ha visto maturare la convergenza DC-PSI sono emerse vere e proprie frazioni organizzate, che conducono il loro gioco non soltanto per linee interne al loro p., ma anche per linee esterne, cioè in alleanza con frazioni di altri partiti. Le disfunzioni del sistema, dunque, vanno imputate al "processo degenerativo che ha ridotto la DC e il PSI allo stato di coacervo di fazioni". A sua volta, G. Galli partiva dalla convinzione che il bipartitismo fosse proprio delle democrazie più avanzate ed efficienti, garantendo la presenza dinamica di un'opposizione e assicurando la concreta possibilità di un ricambio. Come in tutte le democrazie rappresentative, anche in Italia l'elettorato si orienta verso due grandi schieramenti; ma in Italia vige un "bipartitismo imperfetto", poiché il PCI rimane un partito grosso e immobile che non riesce a integrarsi nel sistema", rappresentando in teoria la negazione di esso. Esistono, però, i segni di un mutamento: i p. d'ispirazione marxista, infatti, tendono gradualmente all'integrazione e i comunisti italiani sono già di fatto, se non a livello cosciente, "uno stimolo e una componente dell'evoluzione riformistica della società italiana". A questo punto, Galli avanzava una sua ipotesi di sviluppo: cioè la maturazione di un governo alternativo di sinistra, reso possibile da un'evoluzione del PCI in senso socialdemocratico oppure dal sorgere di uno schieramento riformatore, capace di attirare parte delle energie sociali attualmente agganciate al comunismo dogmatico.
Contemporaneamente, l'indagine poneva in rilievo differenze fondamentali tra i p. italiani. Stando ai risultati emersi, il PCI era favorito dall'industrializzazione, particolarmente nei casi in cui questa era accompagnata da fenomeni d'immigrazione; la DC, invece, si presentava come essenzialmente rurale e vulnerabile dal mutamento economico e sociale. Il PCI disponeva di un ordinamento unitario ed efficiente, con una precisa distribuzione di poteri decisionali; mentre la DC, toccando un modesto livello di centralizzazione, solo durante la segreteria di Fanfani (1954-58) aveva iniziato un lavoro sistematico per liberarsi del suo carattere originario di p. di notabili. Sotto il profilo organizzativo, dunque, il PCI aveva la preminenza sulla DC. Ancora più rilevante, tuttavia, era il divario che separava questi due p., da un lato, e i restanti p. italiani, dall'altro: nel confronto con i p. minori, rimasti a un livello modesto d'organizzazione, la DC e il PCI emergevano nello schieramento politico nazionale non solo per quantità di aderenti, ma anche per qualità di strutture. Ma l'attenzione principale si volgeva alle tendenze di sviluppo del PCI e ai suoi aspetti distintivi nel quadro del comunismo internazionale: il giudizio di G. Galli, per questo rispetto, era seguìto e confermato da alcuni studiosi liberali americani. Secondo S. G. Tarrow, il PCI non è più da considerare come un "partito di fedeli e di combattimento". In esso, infatti, si è verificato un fenomeno di "istituzionalizzazione della strategia": una volta privilegiata l'espansione elettorale come obiettivo primario, hanno avuto legittimazione ruoli e comportamenti fondati su interessi personali o di gruppo, che il p. non potrebbe ormai sconfessare senza essere abbandonato da una parte della sua base. La cellula di fabbrica, tipica del p. rivoluzionario di classe, ha ceduto il primato alla sezione, che è invece funzionale alla battaglia elettorale; l'organizzazione si è centralizzata e burocratizzata e gli stessi dirigenti figurano in più sedi decisionali, come pure in Parlamento; i membri comunisti delle commissioni parlamentari votano con il governo in molte occasioni, mentre la varietà delle correnti riproduce il pluralismo del paese. Ma soprattutto la penetrazione nel Sud ha creato nuovi quadri di formazione borghese, tendenti a stabilire legami con le élites locali e ad assumere atteggiamenti paternalistici verso le masse dei contadini poveri. Secondo altri osservatori, la ventennale esperienza di amministrazione nel comune di Bologna aveva alimentato la tendenza a stringere vaste alleanze, nel tacito riconoscimento di certe differenze sociali e di certi costumi tradizionali. Infine, si sottolineavano gli aspetti di novità nei rapporti internazionali del PCI: la proposta policentrica avanzata da Togliatti nell'"intervista" a Nuovi Argomenti (1956) e nel "memoriale" di Jalta (1964), l'insistenza sulla via italiana al socialismo, l'opposizione al progetto di conferenza internazionale agitato dal P. comunista dell'Unione Sovietica.
La prospettiva di un accostamento del PCI, insieme con altre forze, alla compagine della maggioranza rimase a lungo nella fase preliminare del "dialogo" fra cattolici e comunisti. Il X congresso del PCI riconobbe che l'aspirazione a una società socialista "può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo" (dicembre 1962); e P. Togliatti riprese testualmente quest'affermazione in una sua conferenza del marzo 1963. Contemporaneamente Giovanni XXIII dissociava la Chiesa dalla conservazione di qualsiasi ordinamento sociale e sottolineava la sua neutralità nella competizione degli stati, abbracciando con spirito ecumenico, insieme ai fedeli, anche i noncredenti (proprio allora il Vaticano II proponeva il superamento "dell'età costantiniana" e il recupero della piena libertà della Chiesa). A livello politico, entro la DC la tesi di una collaborazione restava monopolio di alcune correnti minoritarie; mentre, nella formulazione del PCI, essa implicava la liberazione delle forze autenticamente democratiche imprigionate nel p. cattolico e, quindi, sollecitava un'improbabile frattura di quest'ultimo. Gli eventi del 1968-69 (logoramento del centro-sinistra, crisi cecoslovacca, rivolta studentesca e operaia in Europa) spostarono i termini del problema: accentuando il suo autonomismo sul piano internazionale e la sua cautela sul piano interno, il PCI guadagnò interlocutori sempre più attenti. Le elezioni del maggio 1968 (v. Italia: Storia, in questa App.) segnarono per i socialisti un insuccesso inatteso, dopo cinque anni di collaborazione governativa. L'inquietudine nelle file socialiste fu un fattore essenziale nel tramonto del centro-sinistra, mentre la secessione della minoranza già socialdemocratica, nel luglio 1969, rendeva ancor più difficili le trattative fra i p. della maggioranza. D'altra parte, l'insorgere dalla contestazione giovanile e le lotte sindacali culminate nello sciopero generale del novembre 1969, la crisi dell'ordine pubblico e l'apparizione del terrorismo a sfondo politico aggravarono il disorientamento nella DC e nel PSI, che già per loro natura erano p. di correnti, scarsi di coesione e incerti nella proiezione esterna. All'XI congresso della DC (giugno-luglio 1969) il leader di "Forze nuove" C. Donat Cattin segnalò il mutamento verificatosi nel p. comunista e sollecitò "un nuovo e attento tipo di rapporti fra maggioranza e opposizione"; mentre i seguaci di A. Moro, giudicando di operare nel quadro generale della distensione in Europa, proposero una diversa maggioranza senza limiti a sinistra. Dall'altra parte, L. Longo portava avanti il discorso sul "nuovo patto costituzionale" e G. Amendola teorizzava (settembre 1970) una via italiana al socialismo, caratterizzata dall'incontro fra il movimento cattolico e quello socialista.
Il pericolo di uno spostamento a destra, affiorato con le elezioni del 1971-72, accelerò il processo in corso nel PCI. La possibilità di un ritorno a esperimenti di centro o centro-destra era anche avallata dal recente dinamismo dell'estrema destra: con la segreteria di G. Almirante, infatti, il MSI giocava contemporaneamente la carta moderata, in vista di un inserimento nel sistema di potere, e quella eversiva, facendo leva sul disagio di ceti emarginati, soprattutto meridionali. Così, nel febbraio 1972, il PDIUM decise a larga maggioranza di sciogliersi e confluire nelle liste del MSI; questo, dal canto suo, fece posto ai nuovi aderenti moderati, modificando la propria denominazione in quella di MSI-DN (Destra Nazionale), ma presentò anche per il Senato il sindacalista F. Franco, che era stato fra i principali animatori della rivolta cittadina di Reggio Calabria. Il successo della destra alle amministrative del 1971 e alle politiche dell'anno successivo dimostrò come l'elettorato italiano, che fino a quel momento aveva mantenuto una considerevole stabilità, potesse reagire in un modo imprevisto alla crisi politica e sociale. Posti di fronte al pericolo di una svolta a destra, confermata dalla formazione di un governo DC-PLI con la presidenza di G. Andreotti, i comunisti accentuarono con la segreteria di E. Berlinguer il loro indirizzo riformista. Nel novembre 1971 un convengo su I comunisti italiani e l'Europa (cui parteciparono rappresentanti dei p. comunisti del continente, ma anche del PSI, PSIUP, PRI e delle ACLI, insieme con esponenti dell'ENI, IRI, ENEL, Banca d'Italia e con osservatori della socialdemocrazia tedesca) rivelò una significativa apertura nei confronti del Mercato comune. Nel gennaio 1972 Longo e Amendola presentarono il PCI come elemento potenziale di governo, in collaborazione con un ampio fronte democratico. Al tempo stesso i comunisti s'impegnarono a evitare il referendum sul divorzio, che avrebbe accentuato il divario con la DC: riprendendo il linguaggio dell'immediato dopoguerra, nello spirito della politica di democrazia popolare, G. Pajetta indicò una strategia di larga unità antifascista, a livello sindacale e politico. Dall'altra parte, un nuovo atteggiamento verso il comunismo italiano maturava in seno a una parte del mondo imprenditoriale: infatti commentando i risultati del XIII congresso del PCI, il Corriere della sera, sotto la direzione di P. Ottone, notava come Berlinguer rivendicasse al suo p. il diritto alla cogestione del paese, nel quadro di un "riformismo ragionevole e pragmatico". I comunisti dichiaravano di respingere l'imitazione pedissequa di modelli stranieri, di condividere le concezioni del pluralismo politico ed economico (rispetto a incremento dell'iniziativa privata), di valutare appieno il criterio del profitto: per tale via Amendola, sul principio del 1973, annunciò una "opposizione di tipo diverso" verso un governo dove i socialisti e i laici figurassero in vece dei liberali. Il clima internazionale seguìto alla repressione cilena fu determinante per la completa enunciazione, da parte dal PCI, della strategia del "compromesso storico"; la DC - si disse allora - è un p. a grande componente popolare; un blocco delle sinistre non sarebbe sufficiente a risolvere i problemi italiani, ma provocherebbe una frattura nel paese; è necessario, dunque, evitare il rischio d'involuzioni reazionarie (articoli di Berlinguer su Rinascita, ottobre 1973; dibattito PCI-PCF sull'Espresso, dicembre dello stesso anno). La linea del compromesso storico escludeva l'alternativa di sinistra avanzata dal PSI, che intendeva piuttosto "corresponsabilizzare" i comunisti evitandone per il momento l'accesso al governo; e, inoltre, essa suscitò nelle file socialiste il timore di un'intesa diretta DC-PCI con l'emarginazione di altre componenti, introducendo ancora un motivo di instabilità nella coalizione di governo. Frattanto, sul piano dei rapporti internazionali, sempre il segretario del PCI si pronunciò per un'Europa "indipendente e pacifica, né antisovietica né antiamericana" (prima conferenza dei p. comunisti dell'Europa occidentale, Bruxelles, gennaio 1974); e questa linea di superamento dei blocchi giungeva ad accettare il Patto atlantico per rispetto all'equilibrio mondiale.
L'incontro fra cattolici e comunisti fu tuttavia ritardato dal referendum sul divorzio, che trovò la DC schierata con Fanfani nel rifiuto di ogni compromesso e nella contrapposizione al comunismo, ma creando anche margini di dissenso nel mondo cattolico di sinistra. La consultazione del maggio 1974 vide il p. di maggioranza relativa, affiancato solo dal MSI-DN, battersi per l'abrogazione della legge sul divorzio; ma il vasto schieramento divorzista, che comprendeva comunisti, socialisti e laici e aveva l'appoggio dei principali organi di stampa indipendenti, riportò una chiara affermazione dovuta in parte a moventi politici, in parte anche al processo avanzato di laicizzazione ideologica. Le regionali del 1975 e le politiche del 1976 ruppero di nuovo la stabilità dell'elettorato italiano. Ma questa volta i risultati del 1971-72 furono rovesciati: ridimensionata l'estrema destra, confermato il declino del PLI e del PSDI, anche il PSI ottenne un risultato insoddisfacente rispetto alle attese (è da notare solo, in campo governativo, l'incremento percentuale del PRI). La DC, che si era mantenuta sostanzialmente stabile dal principio degli anni Sessanta, subì un calo alle regionali, dimostrando però notevole capacità di recupero alle successive consultazioni politiche. Il PCI, infine, non solo confermò la costante espansione registrata nel dopoguerra, ma raggiunse nel 1976 il 34,4% dei voti validi, con un incremento di oltre il 7% rispetto al 1972 e dell'1% rispetto al 1975 (v. italia: Storia, in questa App.).
Furono, dunque, le vicende elettorali degli anni 1974-76 e la crisi economica a piegare i leaders centristi della DC. Nel luglio 1974, al Consiglio nazionale, Fanfani auspicò un dialogo aperto con l'opposizione, ma definì improbabile la collaborazione con i comunisti per l'inconciliabilità della DC col totalitarismo collettivista; altri, invece, riconobbero la novità della posizione assunta nel corso dell'ultimo anno dal PCI, che aveva evitato di aggravare la crisi e anzi aveva contribuito a superare le difficoltà per il varo di provvedimenti legislativi. Dopo la sostituzione di Fanfani con B. Zaccagnini (luglio 1975), il nuovo segretario, escludendo sia l'incontro di potere tra cattolici e comunisti che avrebbe emarginato le forze di democrazia laica, sia la contrapposizione frontale che avrebbe portato alla spaccatura del paese, propose per il momento la via del "necessario, serio ed utile confronto". Poi, al XIII congresso (marzo 1976), egli stesso parlò della DC come "partito aperto", disposto a confrontarsi con le altre componenti del mondo politico e della società nazionale, nell'intento dì coinvolgere l'opposizione comunista nella ricerca di soluzioni per i grandi problemi d'interesse comune. Commentando i risultati delle politiche, sempre Zaccagnini riscontrò nel programma comunista ampie possibilità di convergenza, confidando di realizzare un governo di solidarietà democratica cui il PCI, pur dall'opposizione, potesse fornire un contributo utile e costruttivo. Si giunse così al monocolore Andreotti del luglio 1976, fondato sull'intesa di sei p., dal comunista al liberale, e giustificato con la situazione di emergenza del paese. Per la prima volta, un governo italiano trovava sostegno nell'astensione del PCI. Posto in crisi a seguito di polemiche con i repubblicani, il monocolore Andreotti è stato ricostituito il 16 marzo 1978 su basi diverse: questa volta i liberali hanno preferito passare all'opposizione, mentre il governo è stato votato da cinque p., compreso naturalmente il PCI. Lo spostamento a sinistra dell'asse politico italiano ha provocato assestamenti e ripercussioni in ogni settore, che hanno avuto l'effetto di indebolire le opposizioni parlamentari: la scissione di Democrazia Nazionale (che nel marzo 1978 ha dato il voto al governo Andreotti, lasciandosi scavalcare a destra dal PLI) ha sottratto un numero considerevole di rappresentanti al MSI-DN; il PSDI e il PLI hanno effettuato significativi mutamenti di vertice (da M. Tanassi a P.L. Romita e infine a P. Longo, da G. Malagodi a V. Zanone), cercando di adeguarsi al nuovo equilibrio politico. Con l'avvento alla segreteria di B. Craxi, della corrente autonomista, il PSI ha assunto una nuova funzione nel sistema politico italiano: quella di garantire, contro l'eventualità del compromesso storico, uno spazio vitale a forze laiche intermedie, nel quadro di più vaste convergenze (in questa prospettiva assume significato la polemica ideologica aperta nell'agosto 1978 dai socialisti, che hanno ribadito il loro distacco da Lenin e da Marx, ripudiando collettivismo e statalismo). La formula del quarto governo Andreotti è entrata in crisi (genn. 1979), soprattutto in conseguenza del piano triennale di sviluppo economico presentato dal governo nel dicembre 1978, e di divergenze di valutazione sui modi della lotta al terrorismo. Battuto il quinto governo Andreotti, il presidente Pertini ha sciolto la legislatura e indetto nuove elezioni; le quali, tenutesi il 3 e 4 giugno, hanno registrato una sostanziale tenuta della DC (dal 38,7 del 1976 al 38,3), una sensibile flessione del PCI (dal 34,4 al 30,4 alla Camera), una ripresa del PSI (dal 9,6 al 9,8), del PSDI (dal 3,4 al 3,8) e del PLI (dal 1,3 all'1,9), la tenuta del PRI e un balzo in avanti dei radicali (dall'1,1 al 3,4).
Sotto la denominazione comune di sinistra extraparlamentare viene indicata una serie di raggruppamenti diversi per struttura e ideologia, sorti nel clima internazionale del confronto cino-sovietico e animati dalla volontà di spianare una via rivoluzionaria sulla sinistra del PCI. L'indirizzo marxista-leninista è caratterizzato da elementi psicologico-politici quali l'intransigenza ispirata all'esempio e al pensiero di Mao Tse-tung, la fedeltà al culto di Stalin, la concezione del partito-chiesa esasperata da lacerazioni e scissioni. In quest'ambito, il P. comunista d'Italia (m.-l.) si costituì nell'ottobre 1966 a Livorno, stringendo un legame diretto con la Cina di Mao; fu poi gradualmente scalzato dall'Unione dei comunisti italiani (m.-l.), fondata nell'ottobre 1968, che concorse alle elezioni del 1972 con la sigla di P. comunista (m.-l.) italiano. Diverso aspetto hanno i gruppi derivati dalle esperienze del biennio 1968-69, quali filiazioni del movimento studentesco: questi, infatti, si fanno assertori dell'"autonomia operaia", per cui la direzione non può essere esterna al movimento, ma deve sorgere nell'atto stesso della lotta del proletariato, indipendentemente da qualsiasi centrale politica o sindacale. In tale contesto, solo il Movimento politico dei lavoratori dell'ex-presidente delle ACLI L. Labor, impegnato a indicare ai lavoratori cattolici una scelta di campo socialista, individua nella DC e nella CISL i propri obiettivi polemici; mentre gli altri gruppi si confrontano con le organizzazioni del PCI, operando ai loro margini. Potere operaio nacque nel fermento delle battaglie sindacali del 1969. Insisteva originariamente sul "rifiuto del lavoro", sul "salario politico" e sulla "violenza operaia"; in una seconda fase, alla vigilia delle politiche nel 1972, si riaccostò al PCI. Nel novembre 1969 uscì il primo numero di Lotta continua, un quindicinale (poi quotidiano) che servì di riferimento a un'organizzazione mista di operai e di studenti, impegnata a smascherare il ruolo controrivoluzionario dei sindacati e poi, dopo la strage della Banca dell'Agricoltura di Milano, a denunciare il "delitto di stato". Essa guadagnò un seguito fra gli operai della FIAT e della Pirelli, allarmando la CGIL e la Federazione dei metalmeccanici. Al suo I convegno nazionale (estate 1970) A. Sofri sostenne che il capitalismo imperialistico italiano puntava sull'alleanza con i sindacati e col PCI, ormai integrati nel sistema, e che la lotta autonoma della classe operaia poneva come obiettivi politici il rifiuto del lavoro e la crisi della produzione. Pur combattendo la convergenza con i cattolici, LC si accostò nel 1972 al PCI; alle politiche del 1976, invece, entrò nelle liste di Democrazia Proletaria. A Milano, ancora nel 1968, era nata Avanguardia operaia, impegnata costantemente nella polemica contro il riformismo del PCI, per un'alternativa di sinistra. AO rifiutò la competizione elettorale del 1972, ma scese in campo in occasione del referendum sul divorzio; colpita dall'accusa di associazione sovversiva, partecipò alle elezioni del 1975-76 nelle liste di Democrazia proletaria. L'impulso libertario risulta ancora potenziato in Autonomia operaia, che trae origine dal radicalismo di settori giovanili emarginati e che nel corso del 1977 è stato protagonista di violenti scontri, anche con i gruppi giovanili organizzati dalla sinistra. Su posizioni ancora diverse, spostando categoricamente la lotta al sistema sul piano militare, si trovano le Brigate Rosse. Impegnate dapprima in azioni dimostrative e nello scontro di classe sui posti di lavoro, le BR trassero ispirazione dai teorici sudamericani della guerriglia, definendosi quale "avanguardia proletaria armata" con obiettivi d'immediata eversione ("portare l'attacco al cuore dello stato"). Non prive di riferimenti culturali (alcuni capi, come R. Curcio e M. Cagol, avevano compiuto gli studi presso la Libera Università di Trento), di fatto esse hanno trovato un terreno propizio nelle aree periferiche dei grandi centri urbani, reclutando aderenti nelle fabbriche e nelle prigioni. Dopo una serie di rapine e rapimenti (con inquisizioni nelle "carceri del popolo", come quella clamorosa al sostituto procuratore di Genova M. Sossi), un processo ai suoi capi presunti venne aperto e subito rinviato nel maggio 1976, quando fu ucciso il procuratore generale di Genova F. Coco; la ripresa, nel marzo 1978, ha coinciso col sequestro di A. Moro.
Strettamente legato alle correnti culturali di nuova sinistra, il gruppo del Manifesto si costituì nel novembre 1969 con la radiazione dal PCI di cinque parlamentari vicini alle posizioni di P. Ingrao, tre dei quali anche membri del Comitato centrale (A. Natoli, L. Pintor, R. Rossanda): essi avevano avviato la pubblicazione dell'omonima rivista (poi quotidiano, dall'aprile 1972), i cui temi principali furono l'apprezzamento della rivoluzione culturale cinese, la critica alla degenerazione del sistema sovietico, l'attacco contro la strategia del PCI in nome di un'alternativa di sinistra. Superato l'astensionismo di principio, il gruppo affrontò le politiche del 1972 (dove fu presentata la candidatura di P. Valpreda, indiziato della strage di Milano ma scagionato da larghi settori di stampa e d'opinione). L'insuccesso elettorale cancellò la pattuglia parlamentare del Manifesto: miglior risultato ottenne allora il PSIUP, mentre i marxisti-leninisti avevano presentato liste proprie e gli altri extraparlamentari, come Lotta continua e Potere operaio, avevano preferito dare appoggio al PCI. Il lavoro di unificazione sembrò dare i primi risultati quando, nel settembre 1974, una corrente dell'ormai dissolto PSIUP confluì con gli esponenti del Manifesto nel nuovo Partito Democratico di Unità Proletaria-Manifesto, che alle regionali del 1975, insieme con Avanguardia Operaia, riuscì ad assicurarsi otto seggi. Il I congresso nazionale del PDUP (gennaio-febbraio 1976) portò una critica serrata alla linea del compromesso storico, svalutando la proposta, attribuita al PCI, di uscire dalla crisi attuale grazie al compromesso con i ceti produttivi e a una razionale amministrazione. Nonostante le divisioni interne riguardo ai rapporti col PCI, fu ugualmente presentato un cartello elettorale con la partecipazione di Lotta continua, oltre che di Avanguardia operaia. Nel maggio 1976 il Comitato centrale del PDUP approvò il programma elettorale di Democrazia proletaria ed elesse i nuovi dirigenti (segretario del partito L. Magri); nel giugno, le liste presentate ottennero sei eletti alla Camera.
Il Partito radicale era nato nel dicembre 1955 ad opera della corrente di sinistra del PLI (L. Cattani), cui s'erano affiancati elementi di origine azionista (L. Valiani) e gli intellettuali del Mondo (M. Panunzio, N. Carandini). Dopo una vivace campagna laicista, i radicali andarono incontro a un insuccesso nelle elezioni del 1958, affrontate nelle liste del PSI, che diedero al p. un certo numero di consiglieri comunali. Ma già il II congresso (maggio 1961) rivelò crescenti fratture: la corrente maggioritaria autonomista era interessata alla costituzione di un grande schieramento di sinistra democratica dal PRI al PSI, concepito come asse di una maggioranza di centro-sinistra che avrebbe incluso anche elementi cattolici; altri, invece (L. Piccardi, E. Scalfari), puntavano in prospettiva sulla confluenza nel PSI, escludendo ogni diverso tipo di alleanza. In quell'occasione, M. Pannella si qualificò come leader di una corrente che prendeva in considerazione il PCI come "grande forza democratica, essenziale per la rottura dell'equilibrio conservatore". In breve tempo le controversie fra i notabili del p. provocarono una serie di dimissioni, finché il PR rimase in vita solo formalmente, ridotto alla corrente di Pannella. La rinascita del p., su basi essenzialmente nuove, può datarsi al III congresso (maggio 1967). Lanciando la battaglia per i diritti civili, i dirigenti radicali seppero inserirsi nella battaglia laica sempre più fortemente sentita dalla società italiana (appoggio alla legge sul divorzio del socialista L. Fortuna, campagne per l'obiezione di coscienza e per l'aborto, denuncia del Concordato). Innovazioni statutarie caratterizzarono i radicali in senso federativo e libertario; la rappresentanza di varie minoranze emarginate e la sicura connotazione pacifista ne individuarono la fisionomia nel quadro delle formazioni di nuova sinistra. Nel luglio 1973, il XII congresso nazionale decideva il lancio di una campagna per i referendum abrogativi di tutte le leggi "anticostituzionali": sebbene libero da pregiudiziali antiparlamentari, con la sua fiducia nella consultazione popolare diretta e nell'iniziativa di base il PR si poneva a fianco dei movimenti sorti fuori delle istituzioni riconosciute, nel contesto della crisi italiana. Con le elezioni del 1976 il PR ha portato quattro rappresentanti alla Camera, e nel 1979 diciotto alla Camera e due al Senato.
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