Partiti politici
(App. IV, ii, p. 745; V, iv, p. 74; v. partito, XXVI, p. 423)
Italia
Negli anni Novanta radicali trasformazioni rivoluzionarono l'aspetto e la struttura del sistema italiano dei partiti. Dei raggruppamenti che avevano dominato la scena politica dopo il 1945 diversi scomparvero o si ridussero a un'esistenza solo nominale (il Partito liberale, il Partito repubblicano, il Partito socialdemocratico). Altri subirono processi di scomposizione che vennero a determinare la nascita di nuove formazioni (dal Partito comunista derivarono il Partito democratico della sinistra, PDS, e il Partito della rifondazione comunista, PRC, e poi da questi, rispettivamente, i Democratici di sinistra, DS, e il Partito dei comunisti italiani, PdCI; dalla Democrazia cristiana nacquero il Partito popolare italiano, PPI, il Centro cristiano democratico, CCD, e i Cristiani democratici uniti, CDU, e più tardi l'Unione democratica per la Repubblica, UDR, e l'Unione dei democratici per l'Europa, UDE; il Partito socialista si dissolse in svariati piccoli gruppi). Altri ancora assunsero nuove denominazioni, indicative della ricerca di nuove identità ideali e politiche (il Movimento sociale italiano, MSI, trasformatosi in Alleanza nazionale, AN). Nel frattempo si costituivano partiti del tutto nuovi, alcuni dei quali senza precedenti nella storia politica italiana (Forza Italia, FI, Rinnovamento italiano, RI, e i Democratici), mentre altri (la Lega Nord, LN) coagulavano, amplificandoli, fermenti manifestatisi in maniera ancora disorganica sul finire del decennio precedente. Delle formazioni presenti sulla scena politica degli anni Ottanta due soltanto conservarono una posizione di rilievo nel panorama degli inizi del nuovo millennio: non a caso quella di più recente origine (la Federazione dei Verdi) e quella che già in precedenza si presentava come 'antipartito' in alternativa alle forze tradizionali (il Partito radicale). Una caratteristica del vecchio assetto si era però mantenuta attraverso queste modificazioni: il sistema politico italiano rimase caratterizzato da un multipartitismo estremo, con una dozzina e anche più di partiti che pesavano sul piano nazionale e una proliferazione di organizzazioni minori addirittura superiore al passato.
D'altra parte la legge elettorale politica maggioritaria introdotta nel 1993 aveva costituito un incentivo alla formazione di coalizioni o almeno alla stipulazione di accordi elettorali. Si era così disegnato un quadro dai tratti eterogenei. Da un lato, la coazione del sistema elettorale aveva messo in moto processi di associazione tra forze diverse e di semplificazione del quadro complessivo, che andavano nella direzione di un assetto bipolare del sistema politico. Da un altro lato, la tendenza dei partiti ad affermare le proprie distinte individualità era spesso andata a scapito del rapporto con la coalizione di appartenenza o con le forze a diverso titolo alleate. Inoltre, le differenze tra i partiti coalizzati o alleati avevano conferito caratteri di instabilità e di precarietà a tali associazioni o avevano quanto meno suscitato al loro interno tensioni tali da esporle ripetutamente a pericoli di rottura. In contrasto con la tendenza all'organizzazione dualistica del sistema politico agirono altri due fattori: la refrattarietà di alcuni partiti, con caratteristiche distintive fortemente marcate (la LN e il PRC), a piegarsi a una logica di coalizione, e l'aspirazione periodicamente riemersa in taluni ambienti alla ricostituzione di un'autonoma posizione di 'centro' nello schieramento politico.
Il primo governo della 12ª legislatura, presieduto dal leader di FI S. Berlusconi, rimase vittima - nel dicembre 1994, sette mesi soltanto dopo il suo insediamento - proprio della labilità della coalizione di centro-destra che ne aveva determinato l'ascesa e che era in realtà la giunzione di due distinte alleanze, formatesi in occasione delle elezioni politiche del 27 marzo 1994: il Polo delle libertà, che nei collegi dell'Italia settentrionale aveva unito FI e la LN, e il Polo del buon governo, in cui nell'Italia centro-meridionale erano confluite FI e AN, presentatasi nel resto del paese con candidature autonome. Non era stata possibile, infatti, un'intesa diretta tra la LN e AN, divise dal contrasto di carattere ideologico sul tema dell'unità dello Stato e dalla diversità delle radici sociali e territoriali. A determinare la frattura della maggioranza di governo non furono però tanto le nature discordi di AN e della LN, quanto il rapporto competitivo stabilitosi dopo il successo elettorale tra FI e LN. Il voto del marzo 1994 e quello successivo di giugno per le elezioni europee avevano fatto registrare un sensibile spostamento di consensi dalla LN a FI, soprattutto nelle grandi aree urbane del Settentrione, dimostrando che FI, raccogliendo alcuni motivi leghisti (la polemica liberista contro l'intervento pubblico, la rivalsa dei ceti produttivi contro la politica tradizionale, la valorizzazione dei meriti sociali dell'imprenditorialità pura, la protesta fiscale), riusciva a interpretarli in forme più rassicuranti per fasce di elettorato centrista e moderato. Mentre FI erodeva lo spazio politico della Lega, stentava invece ad affermarsi un contributo specifico di quest'ultima all'opera del governo dopo l'accantonamento di fatto dei progetti federalistici. L'attrazione nell'orbita di Berlusconi rischiava così di ridurre la Lega a forza residuale e di complemento, ed essa affidò sempre più la difesa della propria identità a un'azione di interdizione nei confronti degli alleati e alla polemica, in particolare, verso il presidente del Consiglio, attaccato per i suoi legami con il vecchio mondo politico e per la possibile interferenza dei suoi interessi imprenditoriali nell'attività di governo. Nell'abbandono della maggioranza U. Bossi, leader della LN, vide alla fine un'uscita di sicurezza per garantire al proprio movimento autonomia politica e sopravvivenza.
La crisi precoce dello schieramento di centro-destra e la possibilità di nuove elezioni, dopo la parentesi del governo tecnico di L. Dini, spinsero le forze di sinistra e di centro a portare a conclusione l'opera di rettifica intrapresa dopo la sconfitta subita alle elezioni del marzo 1994, che esse avevano affrontato separatamente sotto le insegne dei Progressisti (PDS, PRC, Verdi e altri) e del Patto per l'Italia (PPI, movimento di M. Segni, Repubblicani e altri). L'esperienza del 1994 aveva dimostrato, da un lato, che la sinistra non era in grado di conquistare la maggioranza con le sole sue forze; dall'altro, che assai difficilmente si sarebbero create condizioni tali da consentire a un polo di centro di porsi autorevolmente come ago della bilancia tra la sinistra e il centro-destra. Per la sinistra si trattava allora di procurarsi nuovi alleati, mentre il centro, uscendo dall'ordine di idee di una competizione tripolare, doveva risolversi a scegliere la propria collocazione in un sistema politico avviato verso una configurazione dualistica. Prese così consistenza l'ipotesi della formazione di un'alleanza di centro-sinistra alla cui leadership si candidò, nel febbraio 1995, R. Prodi, professore di economia e politica industriale all'università di Bologna, di ascendenza politica democristiana, ma qualificatosi in passato più come manager dell'industria di Stato (era stato presidente dell'IRI dal 1982 al 1989) che come uomo di partito.
La decisione di Prodi incontrò il favore del PDS, mentre portò al punto di rottura il contrasto strategico latente nel PPI dacché, dopo l'insuccesso elettorale, il partito si era profondamente diviso all'atto della designazione del nuovo segretario politico (luglio 1994). Era allora prevalso, con poco più della metà dei consensi, R. Buttiglione, già esponente del movimento cattolico Comunione e Liberazione, personalità estranea al tradizionale establishment democristiano e lontana per ispirazione culturale non solo dagli eredi della sinistra democristiana ben rappresentati nel PPI, ma anche da quel filone cattolico-liberale cui una parte della vecchia dirigenza della DC aveva inteso espressamente ricollegarsi con la costituzione del nuovo partito. Nei propositi di Buttiglione, anziché l'accordo con il PDS, rientrava l'avvicinamento a FI, che avrebbe consentito al PPI di tornare in contatto con l'elettorato ex democristiano già orientatosi verso quel partito e di dar vita a una coalizione che, senza più la LN e con l'apporto di AN ridotto a quello di una componente sussidiaria, avrebbe assunto una più marcata impronta centrista e moderata. Quando però nel marzo 1995 Buttiglione, rifiutando la prospettiva di centro-sinistra delineata dalla candidatura di Prodi, annunciò che alle imminenti elezioni regionali il PPI avrebbe presentato liste comuni con FI, fu messo in minoranza negli organi dirigenti del partito, sia pure di misura, e con i suoi sostenitori diede vita a un proprio raggruppamento - i Cristiani democratici uniti - che s'integrò nel Polo di centro-destra, in cui già figurava l'altra formazione di origine democristiana, il Centro cristiano democratico (CCD) di P.F. Casini, rimasta estranea alla costituzione del PPI. Il PPI, dal canto suo, con il nuovo segretario G. Bianco, aderì alla coalizione di Prodi.
La scissione del PPI suggellò la definitiva scomparsa di quell'elemento tipico della vicenda politica italiana rappresentato dal 'partito cattolico', inteso come punto di riferimento della Chiesa nella vita pubblica del paese e strumento dell'azione unitaria dei cattolici in ambito politico. La divisione lasciò il segno nella stessa gerarchia ecclesiastica. Sebbene nel corso delle lotte interne al PPI la linea di Buttiglione avesse ricevuto autorevoli avalli dai vertici dell'episcopato italiano - alcune componenti del quale avevano però manifestato preoccupazioni per il retroterra ideale e morale della politica del centro-destra -, dopo la scissione, dinanzi alla diaspora dell'elettorato cattolico e alla pluralità delle formazioni traenti origine dall'ispirazione cristiana, si affermò la volontà di non impegnare direttamente la Chiesa in scelte di schieramento e di qualificarne da allora in avanti il rapporto con la politica e la società, privilegiando l'affermazione dei principi etici e culturali preliminari e superiori alle opzioni di partito.
La confluenza in uno schieramento di centro-sinistra non creò invece problemi al PDS, sebbene anche questo partito fosse reduce da una travagliata esperienza di ricambio della leadership, conclusasi con l'ascesa alla segreteria di M. D'Alema (luglio 1994). Il PDS era sostanzialmente unito nel perseguire una strategia che lo portasse a conquistare consensi al centro dello schieramento politico: di questo indirizzo era parte integrante la prova di responsabilità istituzionale offerta con l'appoggio al governo Dini (cui AN e FI avevano voltato le spalle) e alla sua politica di risanamento finanziario. Problemi pose, però, l'evidente squilibrio in seno alla progettata alleanza tra la consistenza del PDS e quella degli altri partecipanti, dai Popolari ai Verdi, dalle espressioni del cattolicesimo di sinistra alle molteplici sigle della diaspora socialista e dei partiti laici (12 furono i raggruppamenti che sostennero inizialmente la candidatura di Prodi). Una prima ipotesi, secondo la quale l'Ulivo - così Prodi volle denominare la coalizione che si apprestava a costituire - sarebbe stato un'aggregazione delle formazioni minori del centro-sinistra distinta dal PDS, con il quale avrebbe contratto solo un'alleanza elettorale, venne a cadere dopo un accordo tra Prodi e D'Alema che stabilì l'appartenenza a pieno titolo del PDS all'Ulivo.
Sul versante del centro-destra la maggiore novità dopo la fine del governo Berlusconi fu la trasformazione del Movimento sociale italiano (MSI) in Alleanza nazionale, sancita dal congresso di Fiuggi del gennaio 1995. Quella che nel 1994 era stata una sigla elettorale divenne insegna di un partito che, se nuovo non era sotto il profilo dell'intelaiatura organizzativa e della composizione dell'élite dirigente (che restavano sostanzialmente quelle del MSI), intendeva però, attraverso una rielaborazione ideologica e programmatica, porsi come una forza di destra di tipo europeo che potesse contendere a FI la rappresentanza dell'elettorato conservatore, rimasto privo dei precedenti punti di riferimento politici. La svolta, fortemente voluta e condotta con marcata impronta personale da G. Fini, che la presentò come un adattamento a nuove circostanze più che come una soluzione di continuità con il passato, comportò un abbandono delle suggestioni neofasciste e si espresse tra l'altro nel riconoscimento che l'antifascismo era stato in Italia "storicamente essenziale" per il ristabilimento dei valori democratici, con l'avvertenza però che non lo si considerava "un valore a sé stante e fondante". Una pattuglia di dissidenti, guidata da P. Rauti, rifiutò di adeguarsi a queste trasformazioni e mantenne in vita un'organizzazione denominata Movimento sociale-Fiamma tricolore.
Le elezioni amministrative dell'aprile-maggio 1995 risultarono favorevoli al centro-sinistra, che, alleato in alcuni casi con il PRC, conquistò la maggioranza dei comuni e delle province e 9 delle 15 regioni a statuto ordinario (nelle quali si applicò il nuovo sistema elettorale introdotto con la l. 43 del 23 febbr. 1995, prevalentemente proporzionale, ma con premio di maggioranza e indicazione del presidente della giunta). Il conteggio complessivo dei voti di tutte le regioni rivelò però un sostanziale equilibrio tra i due principali schieramenti (attorno al 41%), con una minima prevalenza anzi del centro-destra nell'espressione del voto maggioritario (e del resto il centro-destra vinse, tranne che nel Lazio, nelle regioni più popolose del paese). Le tesi sostenute dal centro-destra si affermarono poi in una serie di referendum tenutisi in giugno, dei quali i più importanti, riguardando l'assetto del sistema televisivo, avevano immediata attinenza con il problema del conflitto di interessi insito nella posizione di Berlusconi, dirigente politico e imprenditore delle televisioni commerciali: pertanto il loro esito segnò un successo personale del leader di FI. Restava così incerto l'esito di eventuali nuove elezioni politiche, e forte era il timore che potessero anche non designare chiaramente un vincitore, lasciando la LN o il PRC arbitri della situazione. Sul finire dell'anno, a opera soprattutto del PDS e di FI, venne concepito il progetto di una grande coalizione, che, sospendendo l'evoluzione bipolare del sistema politico, assegnasse la priorità alla riforma dell'ordinamento dello Stato e della legge elettorale. Il tentativo di formare un governo 'di larghe intese' per la revisione di alcune parti della Costituzione, in cui si impegnò nel febbraio 1996 A. Maccanico, fallì però per le resistenze incontrate in entrambi gli schieramenti: da parte di AN in primo luogo, che temeva di restare emarginata da un accordo fra i due maggiori partiti; del PPI, contrario all'ipotesi che si andava delineando di un'introduzione in Italia del semipresidenzialismo; e dello stesso Prodi, la cui candidatura alla guida del governo rischiava di cadere con il rinvio delle elezioni, vanificando il progetto dell'Ulivo.
Dopo lo scioglimento anticipato delle Camere, le elezioni politiche del 21 aprile, anziché il pareggio pronosticato da molti, videro l'affermazione dello schieramento di centro-sinistra, che nella fase pre-elettorale si era ulteriormente esteso sia verso il centro moderato, attraverso l'accordo tra l'Ulivo e Rinnovamento italiano (il raggruppamento creato da Dini alla vigilia del voto per capitalizzare i consensi ottenuti in un anno di guida del governo) sia verso l'estrema sinistra, mediante un patto di desistenza con il PRC, in forza del quale nei collegi uninominali si evitò una contrapposizione tra candidati dell'Ulivo e del PRC. Questo schieramento, a cui in Alto Adige si collegò anche la Südtiroler Volkspartei, conquistò 323 seggi alla Camera e 169 al Senato. I seggi ottenuti rispettivamente dal Polo per le libertà e dalla LN, che non aveva aderito ad alcuna coalizione, furono alla Camera 246 e 59, al Senato 117 e 27. Nel voto proporzionale per la Camera il PDS si affermò al primo posto (21,1%), seguito da FI (20,6%), AN (15,7%), LN (10,1%), PRC (8,6%) e PPI (6,8%). Una singolare difformità emerse dal voto per la Camera tra il risultato dei collegi uninominali e quello della quota proporzionale: il centro-sinistra raccolse il 45,3% nei collegi, ma solo il 43,4% nel proporzionale, mentre il centro-destra ebbe il 40,5% nei collegi e il 44%, più del centro-sinistra quindi, nel proporzionale. Notevole anche il fatto che la perdita di svariati collegi uninominali da parte del Polo delle libertà (36 alla Camera, 26 al Senato) potesse essere imputata alla dispersione dei voti causata dalla presentazione di candidature autonome del Movimento sociale-Fiamma tricolore, che ottenne solo un seggio senatoriale.
Le elezioni del 1996, ribaltando l'esito di quelle del 1994 e aprendo la via alla costituzione di un governo dell'Ulivo presieduto da Prodi (comprendente anche esponenti di Rinnovamento italiano, mentre il PRC si limitò a un appoggio esterno), consentirono un'alternanza al potere del tipo di quelle proprie dei sistemi politici dualistici. Malgrado ciò non si poteva dire che il sistema italiano dei partiti si fosse assestato entro uno schema bipolare. Innanzitutto lo schieramento vincitore, estesosi oltre i confini dell'Ulivo, era una coalizione nata in funzione delle elezioni, allo scopo di sfruttare al massimo le opportunità offerte dal sistema elettorale, e restava da provare la sua tenuta come coalizione politica e di governo. Il punto critico era costituito dai rapporti tra l'Ulivo e il PRC, i cui voti erano essenziali, per lo meno alla Camera, alla costituzione di una maggioranza di governo. L'eterogeneità del PRC rispetto al nucleo originario dell'Ulivo suscitò, com'era logico attendersi, forti tensioni politiche; sotto il profilo della durata nel tempo, tuttavia, la coesione del centro-sinistra risultò superiore a quella dell'alleanza prevalsa nel 1994. Il PRC da un lato intese utilizzare il suo peso politico per mantenere aperto un contraddittorio all'interno della maggioranza parlamentare e influire sull'indirizzo del governo, volendo apparire come la sola, vera sinistra dello schieramento; dall'altro fu condizionato nei suoi comportamenti dal timore dell'isolamento politico in cui sarebbe venuto a trovarsi nel caso di una rottura con l'Ulivo. Ne scaturì un equilibrio fragile tra assunzione di responsabilità e contestazione aperta. Benché difficile da mantenere, e destinato alla lunga a infrangersi, quell'equilibrio comunque consentì al governo Prodi di operare per due anni e mezzo, costringendolo sì a negoziare compromessi con il suo indispensabile alleato, ma permettendogli anche di compiere scelte politiche, innanzitutto quelle relative al risanamento delle finanze statali, la cui attuazione, in forza delle caratteristiche ideologiche e culturali del PRC, era tutt'altro che scontata.
Nel quadro emerso dalle elezioni del 1996 il principale ostacolo all'affermazione di un bipolarismo compiuto fu però rappresentato inizialmente dalla LN, che aveva scelto di muoversi da sola sullo scacchiere politico, accentuando la propria diversità da entrambi gli schieramenti principali e configurandosi come un terzo polo della dialettica politica. L'isolamento non le aveva nuociuto sul piano elettorale: era stata anzi il partito più votato nelle circoscrizioni del Nord per l'attribuzione della quota proporzionale (20,5%). La distribuzione dei suoi consensi tra le varie aree del Settentrione era risultata però diseguale, mettendo in luce significative corrispondenze tra le sue prestazioni elettorali e i caratteri economici e socioculturali del territorio. I maggiori successi la LN li aveva infatti colti in alcune province del Nord-Est a cavallo tra Veneto e Friuli, nell'alta Lombardia e nel cuneese: ai margini quindi delle aree metropolitane e in genere dei grandi centri urbani (dove i suoi risultati erano stati di norma meno lusinghieri), in zone di elevata industrializzazione, caratterizzate da una forte presenza della piccola impresa e da stretti vincoli comunitari, nelle quali fino agli anni Ottanta la DC aveva ottenuto le sue più elevate percentuali di voto e dove ora la LN era andata incontro a una richiesta di rappresentanza non più soddisfatta dalla tradizionale mediazione 'bianca'. La carica antagonistica della LN, manifestatasi con rinnovato vigore dopo la chiusura della parentesi governativa, trovò espressione nell'abbandono dei progetti di riorganizzazione federale dello Stato e nell'indicazione all'Italia del Nord di una prospettiva secessionista, annunciata da una serie di gesti simbolici come la proclamazione dell'indipendenza della Padania (settembre 1996), l'indizione di un plebiscito indipendentista (maggio 1997) e l'elezione di un cosiddetto parlamento padano (ottobre 1997). Concepite come atti di delegittimazione dell'autorità dello Stato nazionale, queste dimostrazioni furono accompagnate da clamore propagandistico più che da vere adesioni popolari al di là della base militante del movimento, nella quale contribuivano però a rafforzare il senso di un'identità separata e dell'appartenenza a una realtà statuale in fieri.
Il consolidamento dell'assetto bipolare del sistema italiano dei partiti dipendeva comunque soprattutto dall'evoluzione interna dell'Ulivo e del Polo per le libertà e dalla sintesi politica che le due coalizioni avrebbero espresso oltre le occasioni elettorali. Dopo il successo del 1996 nell'Ulivo si aprì un dibattito sul rapporto tra la funzione dei partiti e l'identità della coalizione. In alcuni settori del PDS, rappresentati dal vicepresidente del Consiglio W. Veltroni, si concepì l'ipotesi che l'incontro tra diverse tradizioni politiche realizzatosi sotto la leadership di Prodi offrisse l'opportunità di fondare su un nucleo di valori comuni una nuova cultura di sinistra democratica, oltre l'orizzonte delle componenti storiche del movimento operaio, tale da aprire la via, in prospettiva, anche al superamento delle distinzioni organizzative tra le varie anime della coalizione attraverso una sorta di 'costituente dell'Ulivo'. Il segretario del partito D'Alema seguì però un indirizzo differente, inteso in primo luogo a ribadire e a potenziare la specifica funzione ideale e politica, nell'ambito della coalizione, di un partito di sinistra, depositario del legato storico delle tradizioni del movimento operaio e parte integrante della socialdemocrazia europea. Il disegno di D'Alema prevedeva la riunificazione tra il PDS e le organizzazioni che si erano suddivise l'eredità del socialismo italiano dopo lo scioglimento del PSI nel dicembre 1994, ma da questo proposito scaturì un risultato inferiore alle aspettative, perché solo i laburisti di V. Spini accettarono di concorrere con il PDS, i cristiano-sociali di P. Carniti, la sinistra repubblicana di G. Bogi e L. Gualtieri e altre forze minori, alla nascita, nel febbraio 1998, di una nuova formazione a carattere inizialmente federativo, denominata Democratici di sinistra, mentre altri gruppi della diaspora socialista (E. Boselli, U. Intini) davano vita ai Socialisti democratici italiani.
La concezione dell'Ulivo come unione di individualità politiche distinte prevalse anche nel PPI, trovando espressione nella nomina a segretario di F. Marini (gennaio 1997), che si diede l'obiettivo di potenziare la componente più propriamente di centro dell'alleanza esercitando pressioni su Prodi per indurlo ad abbandonare una collocazione super partes e ad assumere la leadership del centro dell'Ulivo. Il presidente del Consiglio resistette però a queste sollecitazioni, preoccupato di affermare, accanto a quella dei partiti, la specifica individualità della coalizione, finendo per impersonare la visione stessa dell'Ulivo come entità politica organica e 'sovrana', legittimata dal successo elettorale e non riducibile alla somma dei partiti aderenti all'alleanza. Da qui un crescente divario tra la sua visione strategica e le direttrici dei due maggiori partiti della coalizione, e in particolare un sordo contrasto tra Prodi e il leader del PDS D'Alema.
Difficoltà sue proprie nella definizione dell'assetto interno della coalizione incontrò il Polo per le libertà, fortemente condizionato dall'indeterminatezza dei propositi della sua principale componente. FI, che conservava i caratteri atipici originari di partito culturalmente composito, formatosi attorno a un leader e ai suoi interessi imprenditoriali, con un'articolazione organizzativa e regole interne poco definite (tanto che il suo 1° congresso, più volte rinviato, si tenne solo nell'aprile 1998, a oltre quattro anni dalla nascita del movimento, senza peraltro nulla mutare alla sua natura di partito-azienda, dai tratti sostanzialmente monocratici), oscillava tra atteggiamenti di rigida contrapposizione al governo Prodi e non dimesse speranze di accordo con una parte almeno della maggioranza, in vista o di qualche forma di 'grande coalizione', nel caso di una rottura tra l'Ulivo e il PRC, o almeno di un'intesa sulle riforme istituzionali. In questa prospettiva Berlusconi, accantonando la richiesta di un'assemblea costituente, assecondò la scelta dell'Ulivo di affidare a una commissione parlamentare la preparazione di un progetto di revisione della seconda parte della Costituzione del 1948, quella relativa alla forma di governo, favorendo la nomina a presidente della commissione stessa di D'Alema (gennaio-febbraio 1997). L'obiettivo era quello di concordare, soprattutto con il PDS, nel quadro di un'intesa sul terreno istituzionale, una soluzione dei problemi che più premevano al leader di FI, nella sua qualità di imprenditore prima e più che di statista: quello del sistema delle comunicazioni e quello dell'ordinamento della giustizia.
Sull'efficacia di una leadership sovente influenzata da preoccupazioni estranee al piano proprio della politica, aumentarono col tempo i dubbi nelle altre formazioni del Polo, in particolare dopo l'esito assai critico per il centro-destra delle elezioni amministrative del novembre-dicembre 1997 in città come Roma, Napoli, Venezia, Genova e Palermo. Su questo disagio, avvertito soprattutto nei due partiti di matrice cattolica, il CCD e il CDU, da tempo alla ricerca di soluzioni organizzative per conquistare maggior peso negli equilibri del Polo, fece leva l'ex presidente della Repubblica F. Cossiga per lanciare la proposta di una nuova aggregazione di tipo federativo, l'Unione democratica per la Repubblica (febbraio 1998). Tuttavia la scelta di Cossiga di collocare questa formazione non già nel Polo per le libertà per predisporvi una leadership sostitutiva di quella di Berlusconi, come era parso durante la gestazione della proposta, ma al di fuori di entrambe le coalizioni esistenti, determinò fratture sia nel CCD sia tra i CDU. Entrambi i partiti si divisero tra sostenitori dell'ex presidente (Buttiglione tra i CDU, C. Mastella nel CCD) e fautori di una permanenza nel Polo (R. Formigoni tra i CDU, Casini nel CCD). Ne derivarono nuove scissioni: Mastella, separatosi dal CCD, raggiunse l'UDR assieme a una nutrita pattuglia di parlamentari, e alla nuova formazione si collegarono anche i CDU, abbandonati però dal gruppo di Formigoni.
Differenze emersero successivamente tra FI e AN, principalmente riguardo alla possibilità di un'intesa con l'Ulivo sul progetto di riforma costituzionale elaborato dall'apposita commissione parlamentare presieduta da D'Alema, i cui lavori erano terminati nell'ottobre 1997. Dopo che il centro-destra, grazie al sostegno decisivo della LN, era riuscito a far prevalere la tesi dell'elezione del presidente della Repubblica a suffragio universale, AN assunse atteggiamenti più aperti e possibilisti, anche in considerazione del vantaggio, in vista della sua definitiva legittimazione storico-politica, che si sarebbe procurata figurando tra le parti contraenti di un nuovo patto istituzionale. FI invece, insoddisfatta dei risultati ottenuti nella sua ricerca di accordi con il PDS sul nodo dei rapporti tra magistratura e politica, revocò il suo appoggio alle proposte della commissione, e la Camera dovette sospenderne l'esame (giugno 1998). FI si risolse a questo passo con l'aperto incoraggiamento di Cossiga, la cui neonata formazione paventava un riassetto istituzionale sancito dalla comune adesione dell'Ulivo e del Polo per le libertà, che avrebbe ribadito il ruolo di queste due coalizioni come naturali soggetti di quella dialettica bipolare che l'UDR si proponeva di mettere in discussione, volendo valorizzare la funzione del centro dello schieramento politico.
Dopo aver conseguito il suo maggiore successo con l'inclusione dell'Italia nel primo gruppo di Stati ammessi all'unione monetaria europea (marzo 1998), l'Ulivo falliva dunque nel proposito di guidare il paese verso una riforma dei suoi meccanismi istituzionali che fosse suffragata dai larghi consensi necessari alla riuscita dell'operazione. Veniva così anche posto termine a quella divisione dei ruoli tra le due maggiori personalità della coalizione (l'azione di governo a Prodi, l'iniziativa di riforma a D'Alema) che era servita ad ammortizzare i contrasti fra i loro progetti politici. Non a caso dalla metà dell'anno s'iniziava un periodo di crescenti difficoltà per l'opera del governo e per la coesione della sua maggioranza. Paradossalmente, proprio quella secessione dell'UDR dal Polo per le libertà, che aveva rappresentato il punto di crisi più acuta dello schieramento berlusconiano e che era parsa poterne anche compromettere la tenuta, esercitando su FI il magnetismo del centro e inducendola a sacrificare le esigenze di AN, si sarebbe ritorta come un boomerang sul centro-sinistra, ingenerando confusione nelle sue prospettive politiche.
Si profilò infatti la possibilità di una surroga dell'UDR al PRC quale complemento della maggioranza di governo. Le componenti moderate dell'Ulivo si mostrarono allora meno inclini al compromesso con il PRC e quest'ultimo, da parte sua, sentendo venire meno quella condizione di insostituibilità che aveva fin lì sfruttato, fu incoraggiato a radicalizzare le proprie posizioni, fino alla decisione di togliere l'appoggio al governo, lamentando il persistente rigore finanziario e la chiusura alle proposte di impiego di risorse pubbliche per la creazione di lavoro. Sebbene questa decisone spingesse verso la rottura il conflitto da tempo latente nel PRC fra la maggioranza legata al segretario F. Bertinotti e la minoranza di A. Cossutta, favorevole a un rapporto di collaborazione contrattata con l'Ulivo, la secessione dei parlamentari seguaci di Cossutta, che confermarono fedeltà a Prodi, contrariamente alle aspettative del presidente del Consiglio non bastò a salvare la vita del governo, cui la Camera il 9 ottobre rifiutò la fiducia, sia pure per un solo voto. Puntualmente l'UDR offrì allora il suo appoggio sostitutivo al centro-sinistra, non però a un governo che fosse ancora presieduto da Prodi (il quale del resto fino all'ultimo si era proposto di fare a meno di quell'aiuto), ma a una compagine nuova, alla cui guida figurasse il segretario dei DS D'Alema, che formò un governo con ministri provenienti, oltre che dalle aree politiche già rappresentate nel precedente esecutivo, dalla stessa UDR e dal neonato Partito dei comunisti italiani (PdCI), fondato dai transfughi del PRC.
L'antagonismo tra Prodi e Cossiga esprimeva due modi contrastanti di interpretare nella nuova realtà italiana l'eredità intellettuale e politica della sinistra democristiana, a cui entrambi avevano in passato fatto riferimento. Mentre per Cossiga l'incontro tra il cattolicesimo democratico e la sinistra uscita dalla tradizione comunista, destinato a liberare la democrazia italiana dalle ipoteche della guerra fredda, si configurava come un rapporto tra filoni politici e culturali che nel mutato scenario storico dovevano conservare il senso delle loro distinzioni, Prodi aveva considerato la caduta degli steccati ideologici e la crisi dei partiti tradizionali come la premessa alla ricerca in comune di una 'nuova via' al riformismo, adeguata alle nuove esigenze della società. Per Prodi, attratto dal New Labour britannico e dagli sviluppi in atto tra i New Democrats statunitensi (un simposio con la partecipazione di Prodi, T. Blair e B. Clinton si era tenuto nel settembre 1998 a New York), il centro-sinistra rappresentava simbolicamente la direttrice di un progetto riformatore originale e unitario, il luogo dello spazio politico in cui il riformismo cattolico e quello socialista s'incontravano e si fondevano nel superamento delle rispettive tradizioni; per Cossiga restava invece quel che era già stato nell'Italia degli anni Sessanta e Settanta, cioè una coalizione tra due parti dello schieramento politico, come tale reversibile. Con qualche fondamento l'ex presidente della Repubblica poteva ritenere che la posizione di D'Alema, il quale aveva sempre sostenuto nell'ambito dell'Ulivo il primato dell'identità di partito su quella della coalizione e si era mostrato diffidente degli sperimentalismi ideologici prodiani, meglio si accordasse con le sue concezioni.
Con l'avvento alla Presidenza del Consiglio di D'Alema, sostituito al vertice dei DS da Veltroni, per la prima volta nella storia d'Italia la guida del governo passava al maggiore partito della sinistra. A questa novità corrispose però un arresto nell'evoluzione del sistema politico verso un compiuto assetto bipolare: non solo e non tanto perché la nuova maggioranza comprendeva parlamentari eletti nelle file del Polo, quanto perché il governo D'Alema, diversamente dal precedente, che era stato l'espressione unitaria di una coalizione politica sottopostasi come tale al giudizio degli elettori, si presentava con caratteri che lo riavvicinavano al modello della coalizione tra una pluralità di partiti distinti, consueto in Italia fino al 1993. Da un lato infatti due nuovi partiti (UDR e PdCI) si affiancavano a quelli che avevano costituito lo schieramento elettorale vittorioso nel 1996, dall'altro si era chiaramente allentato il legame fra gli stessi partiti dell'Ulivo, che nella nuova maggioranza avrebbero operato in modo sempre più disorganico anziché in forza di uno spirito di coalizione.
Un episodio importante della disarticolazione dell'Ulivo fu la decisione di Prodi (gennaio 1999) di promuovere un proprio raggruppamento politico, i Democratici, in cui confluirono, oltre ai sostenitori più diretti dell'ex presidente del Consiglio, due movimenti nati per contrastare la subordinazione del centro-sinistra allo spirito di partito: quello di Centocittà, costituito nel novembre 1998 da alcuni sindaci (E. Bianco di Catania, M. Cacciari di Venezia, F. Rutelli di Roma), e l'Italia dei valori, fondato nel marzo 1998 dall'ex magistrato A. Di Pietro, simbolo delle inchieste giudiziarie sulla corruzione politica e dal novembre 1997 senatore dell'Ulivo dopo un'elezione suppletiva. La tesi della sovranità della coalizione e la ricerca di una nuova sintesi ideologico-programmatica venivano così a incardinarsi su un'ennesima formazione di partito, subito entrata in competizione, anche per il reclutamento di parlamentari e quadri, con i DS e il PPI, imputati di avere assecondato il diktat antiulivista di Cossiga. Sotto pressione si trovò soprattutto il PPI, oscurato nel governo D'Alema dal rilievo dei DS, messo in imbarazzo dai rimproveri della gerarchia ecclesiastica alla 'sudditanza dei cattolici' e stretto tra il richiamo neo-centrista dell'UDR e la sfida a mettersi in causa come partito separato lanciatagli da Prodi (il travaglio del PPI avrebbe poi condotto nell'ottobre 1999 alla sostituzione del segretario Marini con P.L. Castagnetti, considerato più attento alle posizioni dei Democratici).
Sullo sfondo di questa frammentazione dell'area di governo (ulteriormente accresciuta dai contrasti interni all'UDR, spezzatasi dal marzo 1999 in tre tronconi: l'Unione popolare per la repubblica con Cossiga e i parlamentari a lui più vicini, i CDU, che ripresero la loro autonomia, e l'Unione dei democratici per l'Europa di Mastella), la maggiore compattezza del Polo per le Libertà, ormai consolidatosi nel suo assetto tripartitico (FI, AN, CCD), agevolò la ripresa dello schieramento di centro-destra dalla crisi del 1998. Eppure proprio sul nodo della configurazione bipolare del sistema politico FI e AN dimostrarono in più occasioni di seguire prospettive non collimanti. La polverizzazione dell'area politico-culturale un tempo rappresentata dalla DC e le modeste dimensioni di tutte le formazioni provenienti da quell'esperienza spinsero FI a presentarsi sempre più come erede del ruolo centrale svolto per decenni dal partito cattolico in qualità di catalizzatore delle forze moderate della società italiana. Questa aspirazione ottenne importanti avalli internazionali prima (giugno 1998) con l'ammissione di FI nel gruppo popolare del Parlamento europeo e poi (ottobre 1999) con il suo ingresso nel Partito popolare europeo, per volontà soprattutto dei cristiano-democratici tedeschi e dei popolari spagnoli, a dispetto dell'opposizione del PPI. La proiezione di FI verso il centro dello schieramento politico, sia che le consentisse di assorbire l'elettorato dei piccoli partiti ex democristiani, sia che si manifestasse attraverso accordi con posizioni moderate esterne al Polo per le libertà, era però obiettivamente destinata a ridurre il peso politico di AN, che perciò ripose al dinamismo di Berlusconi con una strategia intesa a ridurre i margini di azione delle formazioni centriste minori, a vincolare FI all'alleanza con la destra e a imprimere al Polo un più deciso carattere di innovazione politico-istituzionale.
Così, in occasione di un referendum promosso nel 1998 per cancellare dalla legge elettorale della Camera la norma relativa alla ripartizione proporzionale del 25% dei seggi, giudicata un incentivo alla frammentazione partitica e un ostacolo sulla via del bipolarismo, AN appoggiò con decisione l'iniziativa, accolta invece da Berlusconi con fastidio. Si crearono allora schieramenti inediti. Come AN favorevoli al referendum furono i Democratici, i Radicali, tornati nell'occasione a un ruolo di attivo protagonismo, e i DS (questi ultimi almeno ufficialmente, ché alcuni settori del partito si dissociarono, non condividendo il tono accentuatamente polemico nei confronti delle forme tradizionali della mediazione politica e le propensioni plebiscitarie di una parte della propaganda referendaria, e lo stesso D'Alema si mostrò freddo e distaccato). Contrari, invece, il PPI, il PRC, il PdCI, i Verdi, le organizzazioni derivate dall'UDR e la LN, cioè le forze esterne alle coalizioni politiche esistenti o più preoccupate di sottolineare, anche nel quadro di più vaste alleanze, la propria identità. Il referendum, svoltosi nell'aprile 1999, ebbe esito nullo, non essendosi raggiunta, sia pure per un soffio, la partecipazione al voto prescritta (votò infatti il 49,6% degli elettori), ma valse a segnalare come la principale linea di frattura che attraversa il sistema dei partiti, dividendolo in un centro-destra e in un centro-sinistra, fosse intersecata con una divisione trasversale tra quanti nei due schieramenti tendevano a un bipolarismo compiuto e forze che intendevano conservarsi spazi di manovra, anche in vista di possibili alleanze di ricambio o quanto meno di convergenze tra le ali centrali dei due poli. Questa divisione trasversale si profilò ancora al momento dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica (maggio 1999). L'ipotesi della candidatura di un esponente del PPI, vista con favore da FI per i suoi risvolti 'centristi', naufragò di fronte a un'alleanza non dichiarata tra i DS e AN, poco propensi a una soluzione che desse risalto al centro dello schieramento politico: si creò così spazio per l'elezione di C.A. Ciampi, che per questo aspetto risultò funzionale alla prospettiva del bipolarismo.
Le successive elezioni europee di giugno riportarono in primo piano il tema del dualismo maggioranza/opposizione, misurando la forza elettorale dei due schieramenti e mettendone alla prova i rispettivi assetti interni. I partiti dell'area di governo, della quale facevano parte allora anche i CDU, ottennero complessivamente il 41,2% dei voti, quelli del centro-destra il 38,1%. Mentre però il risultato del centro-destra scaturiva dalla somma dei voti di tre soli partiti, la maggioranza di governo si presentò divisa in più di dieci liste, delle quali due soltanto (DS e Democratici) ottennero più del 5% dei voti, sicché del centro-sinistra, che aveva anche lasciato cadere ogni riferimento simbolico all'Ulivo, erano la disorganicità e la competitività tra le diverse componenti a prevalere sulla tenuta elettorale (oscurata inoltre dalla prevalenza di FI sui DS come partito di maggioranza relativa e, subito dopo il voto europeo, dall'esito delle elezioni comunali a Bologna, vinte dal Polo dopo decenni in cui la città era stata simbolo del potere locale della sinistra). Di significativo nel risultato delle elezioni europee vi fu anche la flessione di AN, che perse oltre un quarto dei voti ottenuti nel 1996 sebbene avesse aperto le sue liste al movimento referendario di Segni e a dissidenti di FI, volendo sottolineare, in contrappunto alla tiepidezza di Berlusconi, la sua propensione per una dialettica bipolare e per la semplificazione del sistema dei partiti: l'insuccesso di questa mossa dimostrò la difficoltà del tentativo di AN di assumere un profilo più netto nell'ambito del Polo e rafforzò notevolmente la leadership di Berlusconi. La nota della 'antipolitica' e della polemica contro il sistema dei partiti giovò invece a una notevole affermazione dei Radicali, che ottennero l'8,5% presentandosi sotto la denominazione di Lista Bonino, sulla scia di una vivace campagna d'opinione condotta nei mesi precedenti a sostegno della candidatura alla Presidenza della Repubblica di E. Bonino, membro uscente della Commissione europea.
Oltre al dato dei Radicali era quello sulla partecipazione dei cittadini al voto, in calo costante dal 1996, a testimoniare una disposizione critica di settori dell'opinione pubblica nei confronti dei partiti e delle modalità con cui essi intervengono nella formazione delle decisioni politiche: una critica spesso motivata con la tendenza dei partiti a riproporsi come soggetti principali della dialettica politica, soverchiando le coalizioni invece di riconoscerle come principali depositarie del consenso elettorale, ma dietro la quale s'intravedeva a volte un giudizio negativo sulla natura stessa del partito politico, visto come un'istituzione modellata sull'interesse di un ceto di professionisti della politica, che fa schermo all'espressione della volontà popolare più che offrirle le strutture in cui organizzarsi. L'ondata di discredito che al principio degli anni Novanta aveva travolto i partiti fino allora protagonisti della politica italiana si era riversata anche sui partiti che ne avevano preso il posto, fino ad alimentare una vena di nostalgica rivalutazione dell'assetto precedente. A ciò avevano contribuito alcuni evidenti sintomi di disfunzione del quadro attuale, tra cui, oltre alla moltiplicazione delle sigle e alla frammentazione della rappresentanza parlamentare (nella 13ª legislatura il finanziamento pubblico ai partiti era stato suddiviso tra 44 formazioni), va segnalata la labilità del sentimento di appartenenza degli eletti, documentato da circa 160 casi di passaggio da un gruppo parlamentare all'altro dall'inizio della 13ª legislatura. Al di là dei mutevoli atteggiamenti dell'opinione pubblica vi erano comunque sostanziali trasformazioni nella struttura e nella funzione dei partiti, che andavano decisamente configurandosi come aggregazioni attorno alla personalità dei leader e sempre meno riuscivano a rappresentare collettività cementate da passioni e valori condivisi, in grado di suscitare tra i cittadini una volontà di partecipazione attiva alla politica.
Stimolato dal voto europeo, un processo di ristrutturazione della maggioranza di governo caratterizzò la seconda metà del 1999. L'esigenza di arrestare la frammentazione del centro-sinistra indusse i DS a delineare la prospettiva di un 'nuovo Ulivo', di una coalizione cioè non meramente tributaria dei partiti alleati. Questa correzione di rotta, che comportò un parziale riavvicinamento con i Democratici (guidati da A. Parisi dopo la designazione di Prodi, nel maggio 1999, a presidente della Commissione europea) fu giudicata da Cossiga incompatibile con la sua visione di un centro-sinistra come coalizione tra filoni politico-ideali distinti, e suscitò le riserve dei Socialisti democratici, interpreti di un sentimento di fastidio per la posizione preminente dei DS nella coalizione, diffuso nel centro-sinistra anche oltre le loro file. Da qui nel dicembre 1999 la formazione di un secondo ministero D'Alema, appoggiato da sette partiti (DS, PPI, PdCI, UDEUR - Unione democratica per l'Europa -, RI, Verdi, Democratici), senza i Socialisti (la cui astensione consentì però al governo di ottenere il voto di fiducia del Parlamento), mentre Cossiga passava all'opposizione (dove da luglio si erano già schierati i CDU). La fine dell'intesa tra D'Alema e Cossiga spinse Berlusconi a rilanciare il progetto di un allargamento del Polo per le libertà in direzione del centro e a dichiararsi favorevole a un sistema elettorale proporzionale con clausola di sbarramento, destinato a favorire quella plasticità e mobilità delle alleanze politiche che più del bipolarismo si addicevano al suo disegno, volto, in ultima analisi, a ristabilire una continuità con il sistema dei partiti quale si presentava prima delle rotture degli anni Novanta. Nello stesso tempo FI poneva le basi di un nuovo accordo con la LN che, ridimensionata dal voto europeo e avendo subito diverse scissioni tra il 1998 e il 1999, aveva accantonato i programmi secessionisti ed era alla ricerca di una collocazione che le restituisse un ruolo nella politica nazionale. Emergeva nuovamente la distinzione di prospettiva tra FI e AN, portata quest'ultima a cercare occasioni di contatto con le politiche 'antisistema' del Partito radicale e mobilitata (come i DS e i Democratici sul fronte opposto) in vista di un nuovo referendum, fissato per il 2000, per la modificazione in senso più rigorosamente maggioritario del sistema elettorale in vigore. All'esito di questo referendum e delle elezioni regionali dell'aprile 2000, regolate dalla l. cost. nr. 1 del 22 nov. 1999 (che prevede l'elezione diretta del Presidente della giunta), si legavano gli sviluppi del sistema italiano dei partiti.
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