Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’opera di Pasolini poeta e intellettuale, forse il più grande del Novecento italiano, il cinema assume un ruolo essenziale, benché assai sofferto e conflittuale, anche a causa di come la sua opera verrà accettata, attaccata e censurata. Quello che Pasolini sperimenta in modo del tutto originale è un cinema di poesia, in grado di elaborare grazie e attraverso le immagini, il tesoro simbolico e culturale di una civiltà, una specie di antropologia poetica del presente sempre attenta al linguaggio, densa e stratificata e attratta tanto dalla messa in scena come dalla capacità quasi documentaria che il mezzo cinematografico dimostra nel rivelare il "sordo caos delle cose".
Verso la fine degli anni Cinquanta, Pier Paolo Pasolini, già noto nel mondo culturale italiano come poeta – sia in italiano che in dialetto friulano –, saggista e autore di romanzi, già al centro di uno scandalo che lo costringe a fuggire dalla materna Casarsa a Roma in quanto omosessuale, decide di dedicarsi al cinema con un coinvolgimento sempre crescente che lo porterà a realizzare in 15 anni circa una ventina di film fra lungometraggi di finzione, cortometraggi, documentari e reportage.
Dopo avere iniziato come sceneggiatore per ragioni puramente economiche, collabora alla scrittura de La notte brava di Mauro Bolognini e alla Dolce vita (1960) di Federico Fellini, esordisce nella regia nel 1960, realizzando un’opera che racconta le avventure di uno dei tanti sottoproletari che abitavano all’epoca le periferie romane in via di espansione, già al centro dei romanzi scritti alcuni anni prima, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Al centro di quest’opera e delle due successive sono figure dai nomi indicativi, Accattone, Mamma Roma e Stracci, protagonisti, i primi due, dei film omonimi usciti rispettivamente nel 1961 e nel 1962, mentre il terzo è al centro di La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G. (1963), acronimo dei registi che dirigono gli episodi di cui si compone, Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti.
Pasolini è sostanzialmente estraneo al mondo del cinema, ma il fatto di non conoscerne le convenzioni cristallizzate lo porta a elaborare uno stile particolarissimo, che prende le mosse da una comune matrice neorealista per poi superarla in una sorta di manierismo composito, nel quale confluiscono ardite soluzioni linguistiche e squisite citazioni pittoriche, specie dagli autori del Cinquecento italiano, studiato alla scuola del critico d’arte Roberto Longhi o musicali.
Dopo La ricotta si radicalizza il suo scontro con le istituzioni politiche e giudiziarie: il film è attaccato – anche in tribunale – dagli ambienti cattolici e accusato di blasfemia, laddove il successivo Vangelo secondo Matteo (1964) è invece accusato da sinistra di ricercare un riavvicinamento con le aree più progressiste della Chiesa, tradendo i presupposti marxisti delle prime opere. Pasolini, invece, pare soprattutto interessato a una riflessione generale sul presente, come attestano il poema cinematografico realizzato a partire da materiali d’archivio La rabbia (1963) e il reportage Comizi d’amore (1964) ma soprattutto Uccellacci e uccellini (1966) dove in chiave satirica vengono messi in discussione i facili ottimismi suscitati dal boom economico, le piccole e grandi miserie della società e della cultura italiana contemporanea, i sinistri scenari verso i quali paiono avviarsi le nazioni industrializzate, pronte a sacrificare ogni idea di sacro al potere totalizzante del capitale, tematiche al centro anche di due opere successive come Teorema (1968) e Porcile (1969). Parallelamente, egli sviluppa anche una trilogia sul mito classico che accetta la sfida della tragedia classica mettendo in scena opere di Sofocle, Euripide ed Eschilo (Edipo Re, 1967; Medea, 1969; e Appunti per un’Orestiade africana, 1969-1973), nel tentativo di indagare in termini psico-antropologici i mutamenti epocali che starebbero trasformando radicalmente la percezione stessa che gli uomini hanno del mondo e di se stessi, cancellando un patrimonio culturale prezioso, accumulato nei secoli (il genocidio culturale che verrà analizzato anche in innumerevoli saggi e articoli).
Nell’ultimo periodo della sua carriera egli segue il filo di una sua personale utopia, utilizzando il cinema per riproporre in chiave popolare alcuni capolavori della letteratura universale, nei quali si troverebbero i presupposti di una possibile riscoperta del corpo e della sua spontanea vitalità, unico spiraglio di ottimismo rispetto ai tempi futuri. Ma la cosiddetta Trilogia della Vita (Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il fiore delle mille e una notte, 1974) viene presto abiurata e lascia il posto al pessimismo atroce di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), dove i nuovi tempi vengono raccontati attraverso il filtro di de Sade e ideologicamente collocati nel quadro di un nuovo e ben più totalitario fascismo.
Il rapporto fra Pasolini e il cinema, tuttavia, non ha prodotto solo alcune delle opere più originali e sofferte del cinema europeo del dopoguerra, ma anche una delle più lucide e appassionate riflessioni sul mezzo filmico. Come di consuetudine, infatti, Pasolini si è anche interrogato a lungo sulle ragioni della propria passione per questa nuova arte e sui presupposti delle sue scelte stilistiche. In alcuni saggi di straordinaria influenza, egli riprende le riflessioni dei formalisti russi sulla differenza strutturale fra poeticità e poesia e le fa interagire con alcuni assunti di Kracauer e Bazin sull’ontologia realistica del mezzo audiovisivo e con i nuovi strumenti offerti dalla semiologia, utilizzata con consapevole disinvoltura. In un celebre intervento del 1965, esposto presso la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, intitolato Il cinema di poesia, egli inizia a elaborare una sua idea di cinema come lingua scritta della realtà (ripreso e sviluppato un paio d’anni più tardi), e a proporre alcune ipotesi sulla possibilità di realizzare un cinema concretamente poetico. Da un lato, quindi, si chiarisce come l’utilizzo del cinema sia per lui, in quanto artista, il naturale approdo di una ricerca di autenticità che lo portava a immergersi "nel sordo caos delle cose" per esprimersi direttamente attraverso i corpi e gli oggetti, allo stesso livello della realtà. Dall’altro lato, egli cerca di individuare l’equivalente cinematografico del verso letterario, trovandolo in una figura stilistica da lui denominata "soggettiva libera indiretta (pretestuale)". In pratica, il regista raggiungerebbe lo stesso grado di apertura di senso e di lirismo del poeta ogni volta che – indipendentemente dalla poeticità intrinseca alle immagini che sceglie di riprodurre – adotta un tipo di inquadratura che, mimetizzata come punto di vista del personaggio corrisponde in realtà alla sua personalissima maniera di percepire il mondo. In altri due saggi del 1967, intitolati rispettivamente Osservazioni sul piano-sequenza e Essere è naturale?, Pasolini adotta il cinema come elemento privilegiato per porre le basi di una nuova filosofia di impostazione fenomenologica ma profondamente esistenzialista, adatta a cogliere l’essenza del presente, anticipando così le riflessioni di alcuni dei maggiori filosofi contemporanei, primo fra tutti Gilles Deleuze.