CICOGNA, Pasquale
Nacque a Venezia il 27 maggio 1509, da Gabriele di Francesco e da Marina Manolesso fu Marco.
La sua famiglia faceva parte del gruppo entrato nel Maggior Consiglio nel 1381, al tempo della guerra di Chioggia e fu illustrata nel corso dei XV secolo particolarmente da Francesco di Marco nonno delC., che ricoprì importanti cariche in Oriente; e il costante gravitare nei possessi veneziani di oltremare, particolarmente a Candia, rimarrà caratteristico della famiglia Cicogna per tutto il XVI secolo. Il ramo della famiglia cui appartenne il C. fu detto da Retimo e da Santa Ternita, Marina Manolesso, che sposò Gabriele Cicogna nel 1504, apparteneva invece a una famiglia di antichissima nobiltà. Il C. ebbe quattro fratelli e due sorelle. Dei fratelli, Francesco morì ancora bambino; Marco percorse una brillante carriera navale e si comportò da eroe a Lepanto; Antonio arrivò ad essere procuratore di S. Marco; di Giovanni alcune fonti affermano essere morto a Lepanto, ma nel Segretario alle Voci risulta eletto governatore di galea nel 1572.
Il C. percorse una straordinaria carriera nello Stato veneziano e contribuì, insieme allo zio Girolamo, a inserire la sua famiglia nel novero delle famiglie dell'oligarchia senatoria.
Ciò è dimostrato non solo dal fatto che ricoprì con regolarità quelle massime cariche che venivano assegnate a un ristretto gruppo di persone (il che potrebbe significare soltanto una raggiunta posizione di riconosciuto prestigio personale negli anni della maturità e della vecchiaia), ma anche dal fatto che a partire dal settimo decennio del secolo, da quando cioè Girolamo e Pasquale cominciarono a ricoprire le massime cariche della Repubblica, membri sempre più numerosi della famiglia Cicogna vennero eletti ad importanti magistrature, il che, specie per quelle di elezione senatoria, si era verificato in misura molto minore nella prima metà del secolo.
La prima magistratura ricoperta dal C. fu quella di tesoriere della Patria del Friuli, dall'aprile 1534 al luglio 1536; dal giugno 1539 al giugno 1541 fu castellano di Corfù, la prima delle numerose cariche che ricoprì nei possedimenti del Levante e il primo dei suoi numerosi rettorati, nei quali si mostrò sempre molto valido, ottenendo vivo apprezzamento da parte della Repubblica; dal marzo 1542 al marzo 1544 fu castellano a Lesina; dall'ottobre 1544 all'ottobre '46 fu provveditore di Rocca d'Anfo. Nel 1548 Sposò Laura di Marcantonio Morosini del ramo di S. Polo e di Cristina Tiepolo. Dal settembre 1549 al settembre dell'anno successivo fá provveditore sopra i Banchi; dal marzo 1550 al luglio 1551 fu giudice alla curia di petizion; dall'ottobre 1553 al febbraio 1555 fu sopraconsole dei Mercanti; dal giugno 556 al giugno 1557 fu dei dieci savi sopra le Decime di Rialto. Dal gennaio 1558 fu rettore di Retimo, dove si segnalò respingendo gli attacchi dei predoni e dove rimase fino al settembre 1560. Nell'ottobre 1563 fu eletto provveditore sopra i Beni inculti, che era carica di elezione senatoria ed è proprio negli anni 1562-63 che troviamo lo zio del C., Girolamo, eletto al Minor Consiglio (vi qra stato eletto per la prima volta nel 1560): la famiglia Cicogna comincia ad installarsi quindi nei massimi uffici della Repubblica ed i suoi membri - è il caso in questi stessi anni anche di alcuni figli di Girolamo - prendono a ricoprire molte cariche, anche di elezione senatoria. Dal giugno dél 1564 all'ottobre del 1565 il C. ricoprì l'importante ufficio di podestà e capitano di Treviso; dall'ottobre 1565 all'ottobre 1567 fu nuovamente provveditore sopra i Beni inculti e contemporaneamente, nel marzo 1566, fece parte del Collegio dei XII nobili sopra le acque del Chiampo; nel febbraio 1567 fu eletto provveditore sopra gli Atti dei sopragastaldi e nel luglio 1567 censore; parimenti nel 1567 fu dei quarantuno per l'elezione del doge Pietro Loredan. Nel prosieguo del 1567 fu eletto duca di Candia e in quell'isola doveva trascorrere molti anni, lasciando dietro di sé un ricorda estremamente positivo ed autenticamente sentito dagli isolani.
I problemi da affrontare a Candia erano molti; su tutti spiccava quello dei rapporti con i Turchi e nei dispacci del C. (il duca di Candia è in doppia corrispondenza: con Venezia e col bailo di Costanfinopoli) si coglie una continua tensione per i movimenti dell'armata turca, quasi un presentimento di qualcosa di grave. Altri problemi dell'amministrazione dell'isola che emergono dai dispacci del C. sono: la lotta contro lo spionaggio a favore dei Turchi; i problemi agricolo-economici legati alla scarsezza del raccolto con la conseguente richiesta di grano ai rettori di Cipro; la cronica mancanza di denaro, a causa della quale non è possibile eseguire tutti gli ordini provenienti da Venezia; la repressione delle turbolenze interne, liberar l'isola, insomma, "dalla oppressione di detti scelerati banditi... tra li quali vi sono alcuni capi di molta consideratione". A proposito del problema dei banditi, è interessante notare che le istruzioni del Consiglio dei dieci contenevano una vera e propria autorizzazione all'appalto privato della giustizia ed il C. si lamenta appunto col Consiglio di non avere il denaro per pagare le taglie promesse ai privati mercenari, cui era stato affidato il compito di combattere i banditi.
Scaduto il biennio del ducato, il C. rimase ancora a Candia, prima come "vice capitano et consigliere", quindi come prefetto di Cidone, poi, nel 1573, come provveditore alla Canea. Nel firattempo, il 30 nov. 1572. era stato eletto consigliere al Minor Consiglio ma, essendo assente, gli fu "riservato il loco"; da notare che nello stesso 1572 anche il fratello Marco, a conferma della nuova posizione raggiunta dalla famiglia, era stato eletto al Minor Consiglio.
Questi anni trascorsi dal C. a Candia non furono tranquilli: si ebbe un assalto turco a Suda, un gravissirno attacco del pirata Ucciali a Retimo e una sedizione "rusticorum" che trucidarono alcuni nobili e mandarono messi ai Turchi. L'avvenimento principale fu, ovviamente, la guerra di Cipro e il C. si occupò intensamente dell'approvvigionamento delle truppe ed anche di raccogliere quanti più soldati gli fu possibile per mandarli in aiuto all'armata cristiana; in occasione della vittoria di Lepanto radunò in chiesa i suoi amministrati per dar loro la notizia. Come provveditore alla Canea si adoperò per preservare gli abitanti dalla fame e dalle violenze dei soldati e dei banditi, sicché per il suo buon governo i Candioti gli eressero una statua equestre. A Candia morì, ancora giovane, la moglie del C., Laura.
Accanto a questi avvenimenti di carattere amministrativo e politico è da rilevare che in questi anni comincia a formarsi la fama del C. come uomo assai pio, fama che lo accompagnò fino alla morte che avvenne, a detta dei contemporanei, "in qualche odore di santità".
Riguardo a ciò si formarono anche delle leggende di pietà: si narrò che, mentre il C. si trovava a Corfù, durante la messa l'ostia consacrata, sfuggita di mano al sacerdote per una folata di vento, si fosse posata proprio nelle sue mani e anche che una volta una colomba bianca fosse andata a posarglisi sulla spalla, il che fu interpretato come presagio del dogado. Questa religiosità del C. deve essere giudicata di tipo abbastanza tradizionale e conservatore, propria di quei membri del gruppo oligarchico ai quali il C. appare sempre più spesso affiancato nelle massime cariche della Repubblica. È una religiosità legata appunto agli schemi della "pietà" e delle "opere", che sottende in molti patrizi un atteggiamento favorevole a Roma ed alle sue direttive politico-culturali e che si contrappone certamente a quella di Sarpi e di Leonardo Donà, ma probabilmente anche a quella di Nicolò Da Ponte, il qualle, non dimentichiamo, fu doge prima del C. probabilmente come espressione dei gruppi di "giovani", avendo quali correttori della provvisione ducale, come contraltare politico, uomini come Iacopo Soranzo, Marco Grimani e Paolo Tiepolo.
Tornato a Venezia, il C. fu eletto altre due volte al Minor Consiglio, nel 1574 e nel 1575; dal gennaio 1576 all'aprile 1577 fu ppdostà di Padova, insieme ad Alvise Zorzi capitano, dove dovette affrontare da solo, essendosi ammalato lo Zorzi ed essendo fuggiti i provveditori alla Sanità, la grave pestilenza di quei mesi, e della sua azione in tal senso scrisse orgogliosamente al Senato nella sua relazione. Nel febbraio 1578 fu aùcora una volta consigliere al Minor. Consiglio e la sua vicenda, di essere cioè eletto ripetutamente a questa altissima magistratura dopo brevissimi periodi di contumacia. è comune anche ad altri nomi, quali Antonio Bragadin, Giacomo Foscarini, i Michiel, i Soranzo; questo restringersi degli eletti a un piccolissimo gruppo di persone si va intensificando a mano a mano che ci avviciniamo al periodo di gravi tensioni politiche della prima metà degli anni '80.
Nel 1577 e poi nel 1578 il C. fu per due volte dei quarantuno elettori per le elezioni dei dogi Sebaàtiano Venier e Nicolò Da Ponte. Dal 1580 al 1585 fu eletto per cinque volte savio del Consiglio, intervallando ogni volta la carica con i sei mesi di contumacia minima; in questa carica l'alternarsi sistematico di pochi nomi è addirittura clamoroso: col C. vengono regolarmente rieletti Marcantonio Barbaro, Francesco Duodo e Paolo Tiepolo, mentre altri nomi che compaiono una sola volta affiancati a lui, li ritroviamo poi presenti in altre terne di eletti.
Alla luce di ciò (e anche considerando la sua religiosità e la crescita politica della sua fgmiglia) l'elezione del C. al dogado appare meno l'elezione di un homo novus, quanto piuttosto quella di chi si è saputo installare nel gruppo dei monopolizzatori del potere. Comunque le testinionianze contemporanee sono concordi nel sottolineare il carattere di umanità, integrità, rettitudine e religiosità del C., il quale sembra mantenere sempre una sorta di intima superiorità nei confronti delle lotte che turbano il patriziato veneziano in quegli anni.
Dallo scontro dei gruppi per la questione della "zonta" del Consiglio dei dieci la posizione politica del C. non sembra scossa; lo troviamo infatti eletto nel 1582 provveditore sopra le Fortezze, nel 1583 procuratore di San Marco, a testimonianza del suo ormai indiscusso prestigio e nel 1584 provveditore all'Arsenale; oltre al già accennato rinnovo della carica di savio del Consiglio fino al 1585.
Alla morte del doge Da Ponte nel 1585 la situazione nell'ambito del patriziato veneziano era ancora tesa e fluida e l'elezione del nuovo doge, particolarmente laboriosa, fu turbata anche da tumulti armati in palazzo ducale. Si creò uno schieramento di "vecchi" attorno a Vincenzo Morosini, cui si opponeva principalmente il procuratore Giacomo Emo (ma vi erano anche molti altri concorrenti); quando fu chiaro che l'elezione del Morosini non sarebbe passata, la sua fazione, che aveva in precedenza vivacemente osteggiato il doge Da Ponte, ripiegò sul C., avendo lo stesso Morosini rinunciato.
L'elezione del C., avvenuta il 18 ag. 1585, fu quindi senz'altro frutto di un compromesso; ma probabilmente non si trattò della scelta di un uomo decisamente minore e neutrale, anziano e che non rappresentava alcun programma (secondo l'opinione di R. Cessi), né di un riuscito tentativo dei "vecchi", battuti, di squalificare il dogado facendo eleggere un membro delle famiglie di più recente nobiltà (secondo alcune testimonianze contemporanee e secondo quanto ritengono sia il Ranke sia il Cozzi), quanto piuttosto della soluzione di ripiego della parte che si riconosceva nel Morosini, parte alla quale il C. sembra essere stato legato sia dal punto di vista politico sia da quello religioso, pur non essendone un chiaro partigiano o uno dei maggiori esponenti. Si racconta che il C. sapesse dell'elezione mentre si trovava in preghiera nella chiesa dei crociferi e che si recasse quindi in palazzo dove pronunciò "cinquanta parole benissimo"; il popolo, che si aspettava una munifica distribuzione di denaro da parte del più ricco Morosini., lo accolse con poco entusiasmo.
Con l'elezione al dogado l'azione politica del C. si va sfumando, si spersonalizza e gli avvenimenti della sua vita si con fondono con quelli ufficiali della Repubblica; tuttavia, oltre che alle obbiettive condizioni politiche, si può far risalire anche alla personalità del doge il carattere di periodo pacifico, dedito a costruzioni civili e religiose, al raccoglimento ed organizzazione di materiale giuridico e ad altre attività simili, che il decennio del suo dogado ebbe.
Tra le intraprese diquegli anni ricordiamo il rifacimento del palazzo ducale, dove il C. compare nei dipinti religioso-politici della sala dei Pregadi; la costruzione del ponte di Rialto, della chiesa del Redentore ad opera del Palladio e della fortezza di Palmanova; tutti avvenimenti vicordati da iscrizioni, da panegirici e dalla coniazione di monete. Non mancarono ovviamente i problemi, come la peste di Candia, la grande carestia che colpì tutta l'Italia o i problemi della politica estera. Tra questi ultimi ricordiamo i rapporti col Papato: furono buoni durante il pontificato di Sisto V (e nell'impostazione e nello "stile" delle relazioni veneto-romane di questo periodo certamente si può cogliere l'influenza personale del doge, che era a Roma in fama di ortodossia e santità), in quanto entrambi gli Stati si mossero in senso non eccessivamente filospagnolo, né il papa pretese troppo da Venezia sul fronte turco; ma si alterarono un po' col pontificato di Clemente VIII per questioni giurisdizionali (Ceneda) e politiche (la rinnovata influenza spagnola in Curia, il problema delle guerre civili in Francia e del riconoscimento papale di Enrico IV). Sempre assillante era il controllo della situazione sul mare, resa preèaria dagli Uscocchi e dalle manovre turche.
Morì a Venezia il 2 apr. 1595.
Lasciò un figlio naturale, Pasquale, che fu monaco e poi vescovo di Arbe; nei suoi testamenti - ne scrisse ben dieci - ricorda anche una donna di nome Alba che aveva preso con sé dopo la morte della moglie. Le sue volontà per la sepoltura sono segnate dalla religiosità controriformistica ed un po' formale propria dell'epoca; volle essere sepolto nella chiesa dei crociferi, ora dei gesuiti, dove aveva appreso l'elezione a doge e nell'oratorio dei crociferi appare in tre quadri di Iacopo Palma il Giovane. Orazioni funebri ed iscrizioni ne celebrano la rettitudine, la pietà, il grande fervore per la pace e le grandi capacità nell'affrontare problemi di comando e di organizzazione.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Libro d'oro e Balla d'oro, Nascite e matrimoni, sub voce Cicogna; Ibid., Avogaria di Comun, Nascite Patrizi, reg. 51/1; Cronaca matrimoni, reg. 107; Ibid., Testamenti, b. 659, n. 710; b. 1192, n. 527; b. 1194, reg. IV, c. 121; b. 1266, n. 49; Ibid., Segretario alle Voci, Regg. elezioni Maggior Consiglio dal 1529 al 1578; Regg. elezioni Senato dal 1531 al 1585;Ibid., Capi Cons. dei Dieci, Lettere di rettori, b. 285, ff. 134-142, 143, 144, 147, 148, 150, 151, 162; b. 83, ff. 1, 3, 4, 7, 13, 18, 197b; b. 135, ff. 235, 237, 238; b. 286, ff. 255-256; Ibid., Senato, Relazioni rettori, b 33; Venezia, Bibl. naz. Marciana, cod. Ital., cl. VII, 925 (= 8594): M. Barbaro, Arbori dei Patrizi veneti, c. 245r; Ibid., cod. Ital., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, c. 263r; Scelta delle orationi fatte nella creazione del serenissimo Principe di Venezia, P. C., Venezia 1587; E. Piccolomini, Oratio in funere Paschalis Ciconiae, Venetiis 1595; F. Sansovino-G. Martinioni, Venetia città nobiliss. et singolare, Venezia 1663, pp. 170, 171, 623; A. Morosini, Istorie venez., II, Venezia 1719, p. 582; III, ibid. 1720, pp. 50, 181, 188; F. Corner, Creta sacra, II, Venezia 1755, pp. 427 ss.; A. Zeno, Compendio della storia veneta, Venezia 1847, pp. 136 ss.; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, V, Venezia 1842, ad Indicem;Id., Saggio di bibliogr. venez., Venezia 1847, ad Indicem; Storia dei dogi di Venezia, II, Venezia 1857, pp. n.n.; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, Venezia 1857, pp. 396419; G. Soranzo, Bibliografia venez., Venezia 1885, pp. 280, 298; L. von Pastor, Storia dei papi, X, Roma 1928, p. 386; H. Kretschmayr, Gesch. von Venedig, Stuttgart 1934, III, p. 104; R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, II, Milano-Messina 1946, p. 146; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia-Roma 1958, , pp. 4, 31, 35; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita Pubblica e privata, Milano 1960, pp. 305, 311; G. De Luca, Letterat. di pietà a Venezia dal '300 al '600, a C. di V. Branca, Firenze 1963, p. 86; W. J. Bouwsma, Venice and the Defence of Republican Liberty, Berkeley-Los Angeles 1968, pp. 267 s.; L. von Ranke, Venezia nel Cinquecento, Roma 1974, pp. 173-77.