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GALLUPPI, Pasquale

di Augusto Guzzo - Enciclopedia Italiana (1932)
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GALLUPPI, Pasquale

Augusto Guzzo

Filosofo, nato a Tropea il 2 aprile 1770 dal barone Vincenzo, studiò prima nel Seminario arcivescovile di S. Lucia del Mela (Messina), poi in Tropea con G.A. Ruffa e I. Barone, che gl'insegnarono filosofia e matematica.

I primi libri filosofici che studiò attentamente furono della scuola di Leibniz; anzi le opere leibniziane lo indussero prestissimo ad aggiungere agli studî della filosofia quelli della teologia. È del 1795 una Memoria apologetica, in cui difese e giustificò la tesi da lui sostenuta in una dissertazione accademica, che le virtù dei pagani siano da ritenere peccati perché mancanti della vera carità. Intorno al 1800 passò dalla lettura delle opere dei leibniziani e dei cartesiani a quella delle opere del Condillac. Cominciò allora - com'ebbe a scrivere più tardi - la seconda epoca della sua vita filosofica; e vedendo che il Condillac non conosceva altro metodo legittimo se non quello dell'analisi, volle attentamente meditare sulle leggi seguite dai due metodi, analitico e sintetico (Sull'analisi e la sintesi, 1807). Non è però da credere che, letto il Condillac, il G. divenisse sensista: riconobbe, al contrario, che lo spirito umano è sensitivo, ma è anche intelligente e ragionatore, e che l'intelletto è distinto dal senso. Dopo il Condillac, il G. lesse Kant, e da allora si può dire che il G. abbia dedicato il più e il meglio del suo ingegno a dare alla filosofia di Kant una risposta sua propria. Questa risposta è già nel Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, i cui primi due volumi uscirono nel 1819. Eguale l'intento di affermare un ordine intelligibile, assoluto: ma Kant lo fondava sulla semplice fede morale, mentre il G. riteneva di poterlo e doverlo fondare su una dimostrazione teoretica. Accettando specialmente dal De Gérando l'interpretazione che nell'agnosticismo kantiano vedeva un aperto scetticismo, il G. credette di non poter pervenire a nessuna affermazione obiettivamente valida se avesse ammesso con Kant che l'esperienza è sintesi a priori, dove il dato sensibile è recato in forme soggettive, ideali. Negò quindi i giudizî sintetici a priori conoscitivi; ritenne l'esperienza primitiva tutta costituita di giudizî sintetici a posteriori, oggettivi; e affermò che riflettendo sul dato dell'esperienza interna - il "me" - l'intelletto si forma l'idea di sostanza, mentre riflettendo sul dato dell'esperienza esterna - il "fuor di me" - si forma l'idea di causa. Così queste idee, soggettive perché lo spirito le ha presenti sol perché se le forma, hanno valore oggettivo, perché lo spirito le ricava per analisi dagli stessi dati d'esperienza. Sono invece soggettive di valore, oltre che d'origine, le idee d' identità e diversità, che esprimono relazioni ideali che lo spirito pone tra le cose quando con esse, oltre che con le relazioni reali, si forma la sua esperienza secondaria o comparata.

Il G. chiamò la soluzione da lui escogitata "filosofia dell'esperienza" insistendo molto sulla garanzia di obiettività che dalla base puramente empirica, tutta a posteriori, dovrebbe derivare alla costruzione razionale, meramente analitica, che da quella stessa esperienza ricava la dimostrazione della realtà del mondo esterno, della sostanzialità ed eternità dell'io e dell'esistenza di Dio. Questa filosofia dell'esperienza fu criticamente svolta, con ampie discussioni dei maggiori filosofi moderni e contemporanei, nei sei tomi del Saggio, negli Elementi di filosofia, presto divenuti un testo diffusissimo per l'insegnamento della filosofia ai giovinetti, nelle Lezioni di logica e metafisica ad uso della R. Università degli studi di Napoli (dove il G. era stato nominato professore nel 1831) e in articoli pubblicati in giornali e riviste di Napoli e di Sicilia, oltreché nelle memorie inviate o soltanto preparate e abbozzate per l'Accademia di Francia, della quale era stato nominato corrispondente per l'Italia, su proposta del Cousin, nel 1838. La medesima soluzione fu anche presentata dal G. come la più adatta a soddisfare le molteplici esigenze e ad evitare i molteplici inconvenienti dei sistemi moderni, analizzati con limpidissimo acume nelle Lettere filosofiche su le vicende della filosofia, relativamente a' principi delle conoscenze umane da Cartesio sino a Kant inclusivamente, del 1827, meritamente giudicato dal Gentile "il primo degno saggio di storia della filosofia in Italia". Un fondamentale consenso con la filosofia pratica di Kant esprimono i quattro tomi della Filosofia della volontà (1832-40). Negli ultimi anni il pensiero del G. mostra più evidenti le preoccupazioni teologiche, del resto non mai abbandonate. Egli scrive contro il panteismo tanto dello Schelling e del Hegel quanto del Lamennais; e alla teologia e alle cosmogonie degli antichi è dedicato il primo volume di quell'Archeologia filosofica che nel disegno dell'autore avrebbe dovuto aprire la sua grande Storia della filosofia e rimase invece senza continuazione perché il 13 dicembre del 1846 il vecchio filosofo morì. La sua vita fu tutta raccolta negli studî. Durante il dominio francese fu nominato "controloro finanziario delle imposte dirette", e tale rimase molti anni. Ma, più che ai Francesi, egli fu intimamente favorevole a un regime di libertà, e lo ritenne compatibile "con qualunque forma di governo". Nel 1820, concessa a Napoli la costituzione, stampò due Opuscoli filosofici sulla libertà individuale del cittadino, in difesa di un'assoluta libertà di pensiero, d'una temperata libertà di stampa, e della libertà per i cittadini areligiosi di unirsi in matrimonio puramente civile. Ritirata la costituzione, riprese a tacere. Inneggiò nel 1831, e non fu il solo, al nuovo e giovane re Ferdinando II. Poi tacque di nuovo su ogni argomento che non fosse di stretta filosofia.

Conobbe, e assaporò, la gloria letteraria. "Il più lieto ed il più bello momento della sua vita" fu quello in cui apprese dal Cousin d'essere stato nominato corrispondente dell'Accademia di Francia per la sezione di filosofia "all'unanimità meno una voce", a preferenza del Rosmini. Né ci fu chi, per quanto dissenziente nelle conclusioni, negasse al G. il merito d'avere sbaragliato la filosofia dei sensi. Ma né il Rosmini né il Gioberti rimasero nell'indirizzo dato dal G. alla filosofia; e anche dei giovani, il Colecchi rivendicò Kant contro il G.; il Cusani chiamò "ristretta" la concezione galluppiana a paragone di quella di Hegel; e anche un discepolo, che poi succedette al G. sulla cattedra di Napoli il Palmieri, avvicinatosi al giobertismo, trovò insoddisfacente il tentativo galluppiano di riuscire col pensiero all'ordine intelligibile (all'esistenza oggettiva di Dio) movendo da una base soggettiva come la testimonianza della coscienza. L'aver voluto tutta empirica la base e tutto razionale l'edifizio non soddisfaceva già i contemporanei; e indusse più tardi lo Spaventa e il Gentile a pregiare nel G. quello che di kantiano pur accettò e difese - cioè, insieme con la filosofia pratica, il riconoscimento che almeno a costituir l'esperienza secondaria operino forme a priori, che lo spirito cava dal proprio fondo - lasciando cadere la debole se pur tenacissima resistenza opposta dal G. all'idealismo trascendentale per tentar di assicurare validità "oggettiva" all'esperienza e quindi a ogni illazione logica da essa ricavata per analisi.

Ediz.: Le opere del G. non si ristampano integralmente dal secolo scorso, tranne le Lettere filosofiche (a cura di A. Guzzo, Firenze 1925). Scritti inediti o rari vengono via via scoperti da E. Di Carlo, che ha raccolto importanti materiali per una più compiuta biografia e bibl. del G.

Bibl.: F. Palhoriès, G., Parigi 1909; G. Gentile, La filosofia italiana dal Genovesi al G., II, Milano 1931; i mss. galuppiani depositati alla Bibliot. nazionale di Napoli furono studiati dal Guzzo nella nota bibliografica premessa alla ed. cit. delle Lettere filosofiche.

Vedi anche
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