Pasquale Galluppi
Prima del programma federalista di Carlo Cattaneo, del progetto socialista di Giuseppe Ferrari e del Risorgimento repubblicano di Giuseppe Mazzini, la filosofia italiana della prima metà dell’Ottocento attraversa una fase estremamente significativa proprio in riferimento agli ideali e ai fondamenti teorici di quel sentimento nazionale che ispirerà la nascita dello Stato unitario. Insieme al pensiero cattolico di Antonio Rosmini e a quello neoguelfo di Vincenzo Gioberti, «la filosofia dell’esperienza» di Pasquale Galluppi, pur elaborata in un contesto culturale come quello meridionale dell’epoca in parte compromesso da un diffuso conformismo, emerge come una delle voci di quel Risorgimento filosofico-liberale che, per quanto interessato quasi sempre più a tematiche teoriche che a immediate declinazioni politiche, ha di fatto posto le basi della stagione storica e culturale decisiva per la formazione dell’identità italiana.
Pasquale Galluppi nacque a Tropea il 2 aprile del 1770 da un’antica casata nobiliare e possidente terriera. Formato al cattolicesimo, dopo i primi studi incentrati soprattutto sulla filosofia e sulla matematica, nel 1788 fu mandato a Napoli a studiare giurisprudenza. Egli tuttavia disattese il volere paterno: apprese il greco con Pasquale Baffi, seguì le lezioni di teologia (passione nata già ai tempi di Tropea grazie alla Teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz e alle opere di Christian Wolff) di Francesco Conforti e si dedicò a una lettura attenta dei testi biblici e dei Padri della Chiesa, dalla quale fin da subito emerse un interesse peculiare per gli scritti e la figura di sant’Agostino. Dopo il suo ritorno nella città natale, nel 1794, egli proseguì gli studi filosofici, approfondendo in particolare testi appartenenti alla scuola cartesiana.
Al 1795 risale il deferimento da parte del Sant’Uffizio di Roma a causa di una dissertazione di teologia tenuta presso la Regia accademia degli Affaticati di Tropea circa l’idea che le «supposte virtù dei pagani […] mancanti della vera carità debbono dirsi vizi» (L. Meligrana, prefazione a P. Galluppi, Memoria apologetica, a cura di L. Meligrana, 2004, p. XXIX). Per difendersi dall’accusa di eresia egli compose una Memoria apologetica ispirata a sant’Agostino, il cui pensiero ritenne essere la difesa più efficace della propria innocenza. L’introduzione a tale scritto fu redatta da monsignor Carlo Santacolomba, le cui teorie gianseniste, cariche di ferrea intransigenza morale e caratterizzate da salde «tendenze anticurialiste e antitemporaliste» (Meligrana, in Gli “Elementi di filosofia” di Pasquale Galluppi. Fra ragione teoretica e metodologia storica, a cura di S. Venezia, 2007, p. 51), sono ben riconoscibili.
Al 1799 è datato invece il coinvolgimento nei fatti della Repubblica partenopea (per i quali, v. oltre). Alcuni anni più tardi ricoprì la carica di «Controllore delle contribuzioni dirette […] per lo spazio di anni diciassette» (P. Galluppi, Lettere filosofiche, 1827, a cura di G. Bonafede, 1974, p. 391), dunque sia sotto i Napoleonidi che sotto il governo dei Borboni.
Intorno al 1800 scoprì Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), un autore che egli non solo ritenne importante, ma addirittura un punto di svolta di tutto il suo percorso di studio e di pensiero. Il sensismo dell’abate francese, insieme all’empirismo dell’Essay concerning human understanding di John Locke (1632-1704), fu infatti il viatico per uno scandaglio filosofico di tipo analitico-fondativo precedente ogni ricerca metafisica su Dio e sull’universo.
Con i primi due volumi del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, dati alle stampe nel 1819, iniziò una fase molto feconda di lavorio editoriale che lo vide impegnato fino alla morte nella pubblicazione delle sue opere.
Il 1820 è l’anno dei moti carbonari in Piemonte e nel Regno di Napoli: questo nuovo fervore gli ispirò, tra l’altro, la composizione degli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà.
Nel 1831 si insediò con successo presso la cattedra di logica e metafisica dell’Università di Napoli. Intanto la sua fama di studioso si diffondeva non solo in Italia (dove fu insignito di molte onorificenze), ma anche all’estero. Una testimonianza di siffatta considerazione proviene dal privilegiato rapporto con l’ambiente culturale francese, che fu suggellato nel 1838 con la nomina a socio corrispondente estero dell’Académie des sciences de l’Institut de France e nel 1841 con il conferimento della Legion d’onore.
Galluppi morì a Napoli, al suo tavolo di lavoro, il 13 dicembre 1846.
La grande storia irruppe nella vita del filosofo nel 1799 durante i fatti della rivoluzione napoletana, destinati a riverberarsi anche nella provinciale Tropea, dove l’8 febbraio dello stesso anno fu issato l’albero della libertà, poi abbattuto appena quindici giorni dopo. Fin da subito, i grandi mutamenti storici che si trovò ad attraversare posero Galluppi in una situazione nella quale si ritroverà spesso nel corso della sua esistenza: emergere da un cieco e asfissiante conformismo significava nell’Italia meridionale dei tempi già una forma di opposizione, che talora verrà addirittura confusa con uno spirito rivoluzionario. È per questo che Galluppi sarà costretto non poche volte a fare marcia indietro, non solo per il carattere mite, non radicale e di certo non temerario, ma anche per un’incomunicabilità di fondo con il contesto al quale apparteneva.
Pur essendo per indole lontano da ogni estremismo, dunque, tra i due schieramenti – dei giacobini e dei sanfedisti – il pensatore tropeano non solo fu vicino per formazione intellettuale alla causa giacobina, ma si adoperò anche, tramite la traduzione di fogli propagandistici in favore delle truppe del generale francese Championnet, perché questa potesse diffondersi. L’episodio fu causa del suo imprigionamento nella fortezza di Pizzo quando la città di Tropea si assoggettò alle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, contro il quale il nostro si scagliò duramente nel primo scritto politico intitolato Pensieri filosofici sulla libertà individuale compatibile con qualunque forma di governo, risalente al 1805, che tuttavia, forse per prudenza, non diede alle stampe e che rimase inedito fino alla pubblicazione nel 1865. Tale scelta di comodo non deve tuttavia far dimenticare il valore delle parole, queste sì non ambigue, rivolte contro un clero che svilisce «il vero spirito del Cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo» e che ha permesso a «un Cardinale [di] comandare delle masse di ribaldi e di fanatici» e di «innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e di ogni sorta d’iniquità» (Tulelli 1865, pp. 111-12).
Al momento della Restaurazione Galluppi cercò probabilmente di far dimenticare i suoi trascorsi, e di questo tentativo sono testimoni un sonetto e un discorso letti nel 1818 presso la Regia accademia degli Affaticati e dedicati a re Ferdinando I delle Due Sicilie, già Ferdinando IV di Napoli (Gentile 1930, p. 31; Fulci 2003, pp. 20 e segg.).
Il dibattito sul presunto giacobinismo del filosofo, iniziato con una polemica tra Nicola Arnone e Giovanni Gentile (Arnone 1912; Gentile 1914), è stato negli ultimi anni opportunamente sostituito da una contestualizzazione dei suoi scritti nel variegato quadro storico per il quale nel Regno di Napoli si passò in pochi anni dalla rivoluzione al murattismo. In questo contesto particolarmente problematico Galluppi non fu né un rivoluzionario, né un estremista; ciò non toglie tuttavia che il suo coinvolgimento già negli eventi del 1799 dimostri le sue profonde convinzioni liberali: «è in questo momento che nasce il liberale cattolico, ed in lui sorge quella coesistenza di laicismo e di cattolicesimo nel rispetto della libertà, che caratterizzerà tutto il suo pensiero» (Sofia 1988, p. 13). Fin da subito è la categoria del liberalismo cattolico moderato quella alla quale si può ascrivere la posizione galluppiana in ambito politico-civile, che si nutre anche dei riferimenti teorici forniti dai grandi pensatori politici napoletani della seconda metà del Settecento, in particolare Gaetano Filangieri (punto di riferimento imprescindibile degli Opuscoli politico-filosofici), Antonio Genovesi, Pietro Giannone e Vincenzo Cuoco.
Tale impostazione inserisce Galluppi in quel movimento dello spiritualismo italiano che ha di fatto anticipato il Risorgimento, fondato sulla centralità delle istanze di libertà individuali, considerate come non negoziabili. Oltre che «filosofo del Risorgimento» (Calogero 1967) ante litteram, assieme a Rosmini e Gioberti, egli è poi la figura più rappresentativa e indicativa del pensiero e in generale della cultura meridionali del suo tempo. Questo aspetto va sottolineato con decisione: i cedimenti, che possono a ragione apparire incoerenti di fronte alle prese di posizioni ideologiche, rientrano in realtà, come già accennato, in una resistenza costante contro il conformismo allora soffocante della società e cultura meridionali. È questo il vero radicalismo di Galluppi, che si potrebbe definire più che altro una radicalità civile di stampo liberale, pur se non sempre conseguentemente onorata.
Intorno al 1820, con l’appressarsi da un lato dei moti carbonari e dall’altro del cosiddetto ‘nonimestre costituzionale’, durante il quale nel Regno di Napoli sembrò profilarsi la possibilità di sperimentare un liberalismo monarchico-costituzionale, Galluppi riprese a sperare e a lavorare per un cambiamento. Qualche studioso ha addirittura avanzato l’ipotesi di una sua affiliazione alla carboneria, della quale però non sono state reperite fonti certe (Sofia 1988, p. 23) e che non appare probabile. Di sicuro tali eventi risvegliarono l’entusiasmo politico-civile del filosofo, tanto che un suo allievo riferisce che egli fosse convinto di avere «a sua disposizione 20.000 Calabresi pronti» alla mobilitazione (A. Catara Lettieri, Ricordi storici intorno al movimento filosofico nella prima metà del secolo XIX in Sicilia, 1881, p. 21). In realtà egli non partecipò attivamente ai moti del 1820, tuttavia seguì in maniera partecipe il loro corso e, nel nascente Risorgimento, sostenne una prospettiva di cambiamento non rivoluzionaria, ma ancorata alla monarchia e, secondo alcuni (Sofia 1988, p. 31), anche a una forma di federalismo italiano che ancora una volta però mutasse l’esistente senza stravolgerlo. Della sua convinzione liberale-monarchica è testimone anche il sonetto del 1831 dedicato a Ferdinando II di Borbone per la sua ascesa al trono (Fulci 2003, p. 29), scritto secondo gli studiosi «di ammonimento anzi che […] [di] panegirico» (G. Gentile, Pasquale Galluppi giacobino?, in Albori della nuova Italia, 1969, p. 129), composto dunque non per interessi personali o mera piaggeria, considerato che allo stesso monarca furono indirizzati elogi «anche molti di parte liberale» da tutta Europa (Di Carlo 1943, p. 59).
Nel 1820, dunque, la rinascita della speranza in un progresso e in un miglioramento della situazione spirituale e civile dell’Italia in generale e dell’Italia meridionale in particolare spinsero il pensatore a riprendere il filo delle proprie convinzioni liberali, e a redigere e poi pubblicare gli Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, che di tale fede liberale sono la testimonianza più diretta. In questi libelli troviamo infatti interventi a favore della
eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, la libertà del pensiero, quella della coscienza, quella della persona, quella de’ propri beni e della propria industria (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, a cura di G. Oldrini, 1976, p. 86)
oltre che della libertà di stampa e di culto, interventi stimolati tra l’altro da avvenimenti come la promulgazione della legge sulla libertà di stampa nel Regno di Napoli, risalente al 26 luglio 1820, e dalle discussioni sui principi costituzionali e sulle libertà civili che avevano luogo all’interno del Parlamento del Regno. In generale si può affermare che
nel 1820 la parentesi costituzionale […] consente [a Galluppi] di concretizzare molto meglio quel liberalismo e giusnaturalismo astratto (G. Oldrini, introduzione a P. Galluppi, Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., pp. 20-21)
che aveva delineato nei Pensieri filosofici. La difesa di un liberalismo monarchico-costituzionale può spiegare anche la presa di posizione a favore del re Ferdinando I, contenuta nello scritto intitolato Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che appare a tutti gli effetti non solo una valutazione storica errata, ma anche una triste contraddizione rispetto alla memoria dei martiri del 1799, considerato che il re aveva fatto massacrare buona parte dell’avanzata intellighenzia illuminista napoletana, tra cui anche i maestri del filosofo Conforti e Baffi. Essa, infatti, potrebbe rientrare in un orizzonte più ampio, finalizzato a salvaguardare in ogni modo l’identità di uno Stato, che egli chiama già «nazione» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 85), delineando una posizione netta contro l’ingerenza straniera nel territorio italiano. Il cambiamento di prospettiva sarebbe dovuto quindi proprio alla necessità di perseguire con la maggiore efficacia possibile un progetto nazionale di autonomia per gli Stati italiani. È per questo che «nel nome del filosofo di Tropea» si è inteso evocare
la rinascita speculativa della Nazione Italiana, quale simbolo e auspicio di quello che sarebbe stato, più tardi, l’agognato risorgimento politico della nostra terra (Calogero 1967, p. 5).
Anche se ciò significa in Galluppi prima di tutto la difesa dell’indipendenza del Regno di Napoli e della sua monarchia da possibili invasori stranieri più che una vera e propria trasformazione radicale in senso unitario del quadro politico italiano.
Alla luce dei nuovi avvenimenti, Galluppi trovò la forza e l’opportunità di riprendere i già citati Pensieri filosofici, che quindici anni prima non aveva pubblicato, e di farli in gran parte confluire nel nuovo opuscolo intitolato Della libertà di stampa, che a lungo era stato considerato perduto. Muovendo dalla distinzione concettuale tra la libertà in «senso metafisico ed assoluto», che consiste nel «potere che ha l’uomo di volere e di non volere una cosa» (Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, cit., p. 31), la «libertà morale» che «si estende a tutto ciò che non è contrario alla legge», e infine la «libertà morale civile» propria del cittadino «considerato nello stato di civile società» (pp. 31-33), egli pone al centro di questo testo quella che ritiene essere la questione politico-civile fondamentale:
quale è quella libertà civile, di cui dee godere il cittadino, in rapporto al potere politico in generale, prescindendo da qualunque forma di governo? (p. 35).
In primo luogo vi è per Galluppi la libertà di pensare, che nessun errore o eccesso può limitare, e di seguito la libertà di stampa, di cui tuttavia sono ammessi alcuni vincoli rispetto alla religione (p. 65). Infatti, nell’opuscolo coevo intitolato Della libertà di coscienza, egli sostiene la possibilità per ciascuno di non uniformarsi alla religione di Stato e l’illegittimità di azioni da parte dello Stato stesso che forzino in qualche modo scelte e libertà dell’individuo in questo campo: si tratta però appunto di libertà di coscienza, e non di libertà di culto, rispetto alla quale la decisione è invece rimessa allo Stato (cfr. p. 76). Questa limitazione è connaturata a un concetto stesso di libertà di ispirazione essenzialmente giusnaturalistica, intesa come un diritto naturale precedente ogni ordinamento positivo. Sulla liceità e giustizia dei particolari dispositivi legislativi, però, su cosa il cittadino possa effettivamente fare per contrastare un sopruso governativo, su concrete modalità di convivenza civile, Galluppi non si esprime in maniera sistematica né convincente, mostrando quelli che sono gli indubbi limiti della sua posizione in ambito politico-civile, legati all’esigenza storicamente motivata di mantenere a tutti i costi un compromesso fra il principio monarchico e quello delle libertà costituzionali.
La pressione delle circostanze storiche aumentò enormemente al termine del nonimestre costituzionale e Galluppi, come tanti altri filosofi che lo avevano preceduto e altri che lo seguiranno, rimase prigioniero nello scarto che sempre separa l’ideologia politica dalla realtà. È questo verosimilmente il motivo per cui dopo il 1820 il nostro non redasse più alcuno scritto di carattere politico-civile, e neanche nelle sue opere maggiori si trovano riferimenti a tali tematiche, che pure sono strettamente collegate ad ambiti come quelli della morale e della teologia, al contrario ampiamente approfonditi.
Lungimirante e all’avanguardia per i tempi resta tuttavia la sua posizione a favore del matrimonio civile, il cui significato di principio in termini legislativi e sociali è evidente quanto innegabile:
in forza della libertà di coscienza già riconosciuta, la legislazione non può più riguardare il matrimonio se non come un contratto civile; altrimenti il cittadino non avrebbe la libertà di essere non conformista (p. 81).
«La libertà di essere non conformista»: in questa espressione si racchiude l’essenza del Galluppi teorico e filosofo della libertà. Le sue istanze e spinte liberali, pur se mediate sovente da una distanza di comodo, indicano tuttavia un elemento centrale della sua dimensione politico-civile destinato a riversarsi in maniera coerente e sentita nell’opera filosofica, ovvero il primato della coscienza.
Nel fondare e stabilire le condizioni di tale primato concorrono sia le analisi teoretiche che le considerazioni morali, che appunto le tensioni politiche e civili. Il primato della coscienza che agisce moralmente, ma che viene fondato gnoseologicamente e che deve attuarsi politicamente, rappresenta dunque il vero e proprio caposaldo della filosofia dell’esperienza galluppiana, che può essere ritenuta a tutti gli effetti una filosofia della coscienza, nella quale, non a caso, non pochi studiosi hanno intravisto, oltre che palesi influenze cartesiane e kantiane, anche suggestivi prodromi della fenomenologia husserliana (Lo Cane, in Gli “Elementi di filosofia” di Pasquale Galluppi, cit.).
Il primato della coscienza non è soltanto la necessaria auspicata conseguenza del liberalismo civile e politico di Galluppi, ma anche e soprattutto il fondamento di quella che egli stesso ha definito «filosofia dell’esperienza», il cui progetto precipuo consiste nell’orientarsi programmaticamente verso una riformulazione delle istanze più profonde che innervano il tessuto del pensiero moderno. La filosofia dell’esperienza galluppiana è a tutti gli effetti un tentativo di riscrittura e di oltrepassamento del criticismo gnoseologico kantiano. Una gnoseologia elaborata per superare sia gli eccessi dogmatico-soggettivi del razionalismo sia quelli scettico-oggettivi dell’empirismo in una conciliazione teorica che neanche nelle tre Critiche sarebbe stata raggiunta.
Nell’ambito della filosofia moderna europea, Immanuel Kant infatti rappresenta sicuramente uno dei filosofi che più hanno impegnato e influenzato il pensiero di Galluppi, anche se l’accesso alle sue opere fu per certi versi problematico. È noto che egli non leggesse il tedesco e che per molto tempo avesse dovuto consultare soltanto ricostruzioni incomplete e imprecise (Gentile 1930, p. 32); nonostante tali limiti oggettivi, che di fatto hanno ostacolato una comprensione realmente completa, però, il criticismo gnoseologico kantiano emerge come la vera svolta della modernità.
Scaturendo dall’urgenza di stabilire in maniera incontrovertibile limiti e possibilità del sapere umano, la gnoseologia kantiana si fonda sulla struttura aprioristica trascendentale sia della realtà fenomenica che di quella intellettuale. È esattamente questo il punto contestato dal filosofo tropeano, secondo il quale, a causa di tale struttura, l’istanza di «determinare ciò che vi ha di oggettivo, e ciò che vi ha di soggettivo nella nostra conoscenza» (P. Galluppi, Lettere filosofiche, cit., p. 279) non può essere realizzata da Kant. La geniale scoperta del criticismo verrebbe dunque disattesa dal suo stesso fautore, eppure essa rappresenta il punto di partenza necessario della filosofia dell’esperienza, che però deve cercare di non farsi irretire né dai vincoli del soggettivismo razionalistico, né da quelli dell’oggettivismo empiristico.
La critica al trascendentalismo kantiano evidenzia che la polarità di fenomenismo e noumenismo non garantirebbe una legittima delimitazione da un lato e un’equilibrata valorizzazione dall’altro delle possibilità conoscitive umane, ma condurrebbe a un appiattimento della conoscenza al puro ambito scientifico-naturale dei fenomeni, ergo a un indistinto scetticismo destinato a negare la realtà di tutto ciò che non è apparenza sancendo «l’incomprensibilità delle cose tutte, e l’assoluta ignoranza dello spirito umano su tutti gli oggetti in sé» (p. 259). Per tale motivo, riprendendo in maniera esplicita la critica di Joseph Marie Degérando (pp. 260-61), Galluppi argomenta che «Kant ha principiato dal dommatismo e terminato allo scetticismo» (p. 275): da un lato pretende di conoscere in maniera totale la genesi, la configurazione e i vincoli della conoscenza umana, ma dall’altro delegittima fatti fondamentali della vita dell’uomo quali la morale, le passioni, la volontà ecc., che rischiano di perdere la propria validità oggettiva da un punto di vista conoscitivo, spalancando un «baratro sterminato» (I. Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, 1° vol., 20075, p. 85) tra il sensibile e il soprasensibile, tra il campo fenomenico-teoretico della natura fornitore di leggi scientifiche e quello noumenico-pratico della libertà fornitore di leggi morali.
Dal Saggio filosofico sulla critica della conoscenza in poi si impone la necessità di fondare la filosofia dell’esperienza su una critica della conoscenza, intesa come la messa in discussione radicale dei «limiti prescritti al mio spirito» (Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, 1° vol., 1846, p. 3). Tale critica della conoscenza rende possibile al pensiero di rintracciare un fondamento senza scalfire il rigore e l’intransigenza concettuale della filosofia critica. Questo fondamento non può essere il soggetto così come è stato concepito dalla tradizione, non perché esso sia un’astrazione del pensiero non certificabile, ma perché viene pensato sempre e soltanto come una realtà contrapposta a quella di un oggetto. Secondo Galluppi, il discorso kantiano è messo in crisi in maniera decisiva proprio dalla constatazione che
un fenomeno suppone necessariamente due realtà; quella del soggetto, a cui qualche cosa apparisce; quella della cosa che al soggetto si mostra (4° vol., p. 350).
L’accesso al fenomeno dunque non è solo mera espressione o proiezione di un soggetto, ma è sempre interazione di soggetto e oggetto; ciò induce a individuare una dimensione che garantisca proprio tale interazione: la coscienza.
È questo uno dei pregi effettivi della gnoseologia fenomenologica galluppiana: aver tentato di introdurre la questione della coscienza in luogo della problematica del soggetto. Secondo un’impostazione tradizionale, infatti, il soggetto non è pensabile senza un oggetto, ma in realtà soggettivismo e oggettivismo sono le due facce della stessa medaglia, entrambi esasperazioni unilaterali di un mancato fondato coscienzialismo. Solo la centralità della coscienza permette di approfondire la commistione che all’atto della conoscenza sempre intreccia le istanze oggettivo-passive derivanti dalla sfera sensibile con quelle soggettivo-attive derivanti dalla sfera ideale, proprie dello spirito umano e delle sue potenzialità gnoseologiche. Qui si radica il fondamento del pensiero, che individua una verità primitiva, ovvero una verità intuitiva e immediata, inderivata e inderivabile, nel me conoscitore, l’attività percettiva che fa tutt’uno con l’esistenza della soggettività, che tuttavia non rimane monadicamente chiusa in se stessa, ma fornisce in maniera diretta la prova inconfutabile dell’esistenza di ciò che è a essa esterno: «io percepisco il me, il quale percepisce un fuor di me» (P. Galluppi, Elementi di filosofia, 1820-1827, a cura di G. Lo Cane, 1° vol., 2001, p. 253). Nell’ambito dell’esperienza il senso interno non può esistere senza un senso esterno, la «sensibilità interna» non può che rispecchiarsi e confluire in una «sensibilità esterna», dalla quale riceve continuamente impulsi e che essa stessa concorre a costituire. In questo contesto teorico si inserisce la relazione intrinseca, seppur differenziale, tra percezione e sensazione, che risente anche dello studio e della volontà da parte di Galluppi di un superamento dei risultati raggiunti dalla scuola scozzese; ogni sensazione difatti
in quanto sensazione è la percezione d’una esistenza esterna […]: la sensazione è distinta nella coscienza dalla cosa sentita, dalla cosa che sente, ed è legata a tutte e due (1° vol., pp. 131-32).
Non può esistere una sensazione senza che qualcuno la avverta e senza che qualcosa venga sentito: la percezione delle modificazioni che scandiscono la vita dell’anima è sempre relazionata all’oggetto che provoca tali modificazioni. Emergono dunque suggestioni fenomenologiche relative alla coappartenenza di intenzionalità e oggetto intenzionato, coappartenenza che nelle analisi husserliane costituisce l’apprensione dei dati esterni da parte della soggettività trascendentale.
Secondo una tale prospettiva di interdipendenza tra percezione e sensazione e di continua osmosi tra me e fuori di me, l’io penso kantiano si configurerebbe come una dimensione chiusa nel suo trascendentalismo e non comunicante con la realtà esterna, mentre il me conoscitore verrebbe pensato come una dimensione essenzialmente aperta. È per questo che Galluppi ritiene di essere riuscito a recuperare la centralità dell’oggettività che è sempre insita nell’approccio conoscitivo umano, temperando gli eccessi del soggettivismo (anche se proprio di soggettivismo verranno tacciate alcune parti del suo pensiero da Rosmini e da Bertrando Spaventa).
Non solo, punctum dolens del sistema kantiano sarebbe inoltre il fatto che esso «esplicitamente non ammette l’aliquid inconcussum» (P. Galluppi, Lettere filosofiche, cit., p. 275), mentre per il nostro «l’aliquid inconcussum è nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano» (p. 282). Il superamento dell’apriorismo trascendentale passerebbe necessariamente dunque per la capacità di ancorare la meditazione filosofica a un fondamento solido e incontrovertibile, che non può che essere la coscienza. Nella ricerca di un tale principio inoppugnabile, le analisi galluppiane muovono dalla necessità di «intendere il senso di questo problema principale della filosofia: come si passa dal pensiere all’esistenza» (Elementi di filosofia, cit., 1° vol., p. 24). Un nodo gordiano del genere si può risolvere solo comprendendo dove il pensiero e l’esistenza trovano il loro punto di incontro, dove pensare ed esistere sono lo stesso, ovvero proprio nella coscienza.
In questo complesso contesto teorico si innesta una ‘correzione’ essenziale che Galluppi intende apportare al pensiero di Kant, una correzione che si potrebbe definire ‘cartesiana’, e che di fatto rende la sua riflessione una «rivoluzione incompiuta» (Tortora, in Gli “Elementi di filosofia” di Pasquale Galluppi, cit., pp. 40-41). È René Descartes infatti, e non Kant, il vero «padre della filosofia sperimentale dello spirito umano» (P. Galluppi, Lezioni di logica e metafisica, 1° vol., 1845, Lezione V, p. 38): coscienza di sé, percezione della propria esistenza, sensazione dell’esistenza di ciò che è fuori da sé ed esistenza stessa formano un’identità pienamente evidente immune da ogni possibile dubbio. In virtù di una tale fondazione soggettivistica il trascendentalismo kantiano viene convogliato in una prospettiva assolutistica di stampo cartesiano. Questo conduce la filosofia a imperniarsi interamente sull’esperienza certificabile dalla coscienza; mentre, però, in Kant ciò significa rendere oggetto di conoscenza scientifica solo quel che può essere esperito dai sensi, in Galluppi significa aprire alla conoscenza oggettiva tutto il sapere umano, anche quello non internamente collegato all’esperienza, quello che è collocato nel fuori di me.
Il coscienzialismo si basa dunque sulla certezza che lo scibile umano è di natura sperimentale, ovvero è vincolato all’individuazione di fatti incontrovertibili, che sono sia i fatti oggetto dell’esperienza interna, quelli presenti contestualmente all’indagine di noi stessi, le idee, i giudizi, e ancora la volontà, i desideri e in generale tutte le espressioni del pensiero e del sentire umano, sia i fatti che sono oggetto dell’esperienza esterna, ovvero l’esistenza dei corpi e del moto, e in generale tutte le modificazioni di ciò che è altro dal me. In questo modo Galluppi ritiene di riuscire a salvare lo statuto identitario sia del fenomeno che del noumeno, sottraendo a quest’ultimo quel potenziale di ignoto che in Kant era pur fondamentale. Qui si compie il programma speculativo galluppiano, secondo il quale
è da sperarsi, che col progresso delle discussioni eseguite con calma, si ottengano de’ perfezionamenti nella filosofia dell’esperienza, ponendo in armonia la parte razionale colla parte empirica (Lettere filosofiche, cit., p. 352).
Per raggiungere tale risultato Galluppi ha concepito il suo contributo al pensiero come un apporto teoretico originale mai disgiunto però da un serrato confronto con la tradizione della filosofia moderna, una proposta proiettata nel futuro, ma che allo stesso tempo deve sempre fare i conti con il passato che pure vuole superare. E non a caso, considerato che proprio questo è un aspetto decisivo di tutta la sua opera.
Nonostante taluni limiti di scandaglio interpretativo, il pensiero di Galluppi vanta il merito di aver riportato la filosofia nel suo originario alveo pedagogico-socratico, in quell’ambito dialogico essenziale per la formazione delle nuove generazioni. È alla luce di siffatta impostazione che va infatti collocato il successo editoriale dei suoi scritti, dovuto a una sistematizzazione scientifica che mostra indubbi pregi in prospettiva divulgativa, nonché alla capacità di soddisfare la necessità di conoscenza e di comprensione della grande filosofia moderna europea che si avvertiva in Italia (e non solo, basti pensare alla risonanza che la sua opera conobbe in Francia e in Inghilterra). Anche in considerazione di ciò gli studiosi hanno sempre convenuto nell’individuare nel pensiero del filosofo due linee speculative fondamentali: la matrice teoretica e la matrice storico-filosofica. Da un lato vi è il confronto con la tradizione, sia con l’introspezione agostiniana che con la teodicea metafisica di Leibniz e Wolff, sia con il razionalismo cartesiano che con l’empirismo inglese, sia con il sensismo di Condillac che con l’eclettismo di Victor Cousin, sia con la Common sense philosophy della scuola scozzese che con il criticismo kantiano; dall’altro tutta questa congerie filosofica viene filtrata in un innovativo spiritualismo oggettivistico che mira a delineare una visione realistica dell’esistenza umana, inserita in una metafisica gnoseologica e in una gnoseologia metafisica che, anche se non dogmatiche, in alcuni punti ricadono ineluttabilmente in un certo spirito dottrinario.
Galluppi intende elaborare una rigorosa struttura filosofica tramite un coerente assetto logico coniugando istanze retrospettive con forti spinte prospettiche, in modo da illuminare i passi più oscuri della tradizione e accompagnare il lettore nei percorsi originali proposti. La trama organica del sistema si dipana con una forte ispirazione didattica attraverso una classificazione delle nozioni, un loro scandaglio teoretico e una ricostruzione delle tematiche portanti, in cui sembra che volutamente i concetti filosofici non vengano fissati una volta per tutte in modo da poter essere poi ripresi e riformulati. Non solo, l’esposizione è continuamente arricchita da riferimenti a fenomeni, attività umane ed esperienze della vita di tutti i giorni che rendono il discorso accessibile grazie ad associazioni e contestualizzazioni concrete.
Tale impostazione raggiunge un culmine nella sua opera più conosciuta, gli Elementi di filosofia (1820-1827), in cui si esprime in maniera decisa la volontà pedagogica non solo di ispirare nei giovani un anelito nei confronti del sapere speculativo, ma anche di formarli concettualmente alla ricezione di tale sapere e di fornire loro gli strumenti critici indispensabili per poter poi mettere in discussione una simile ricezione. La celebre dedica ai «giovanetti amanti del vero sapere» (Elementi di filosofia, cit., 1° vol., p. 3) è indicativa proprio di questo proposito, così come le efficaci ripetizioni finalizzate a corroborare a mano a mano quanto discusso e i riassunti in forma dialogica «per domande e risposte» posti alla fine di ogni sezione, per condensare in maniera tempestiva i risultati raggiunti, ma anche per mantenere alta la tensione sia dell’esposizione che dell’apprendimento.
Filosoficamente essenziale in questa prospettiva è la questione della metodologia che un approccio teoretico-storico alle grandi problematiche del pensiero deve adottare. Il tentativo galluppiano di ‘dominare’ il confronto con la filosofia moderna si concretizza nello scritto Sull’analisi e la sintesi (1807) appunto nel metodo dell’analisi:
siccome non iscrivo pe’ dotti, ma per la gioventù studiosa, così non mi contenterò di semplici proposizioni generali, ma spiegherò tutto con degli esempj, e farò conoscere l’analisi analizzando (Sull’analisi e la sintesi, in La filosofia della matematica, a cura di G. Lo Cane, 1995, p. 327).
Il metodo dell’analisi non si riferisce dunque a un sistema chiuso in un’autoreferenzialità accademica, ma è una pratica costante, rivolta direttamente alla «gioventù studiosa», basata su un procedimento scandito per gradi ben concatenati concettualmente e dispiegato attraverso esempi didatticamente efficaci.
Al contrario di quanto avrebbero fatto filosofi se pur di calibro (come Descartes, Thomas Reid, Kant e Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy; cfr. P. Galluppi, Lezioni di logica e metafisica, cit., 3° vol., Lezione CIV, p. 331), il metodo dell’analisi non deve essere confuso con quello della sintesi: in quanto «metodo di risoluzione» o «metodo d’invenzione», l’analisi, infatti, si oppone alla sintesi che indica invece essenzialmente un «metodo di composizione» o «metodo di dottrina» (Sull’analisi e la sintesi, cit., p. 329). Essa consente la strutturazione di serie fondamenta teoretiche perché capace di schivare una certa ambiguità insita nel metodo sintetico, ritenuto non saldo nella sua formulazione compositiva di proposizioni generali e colpevole di aver «portato la mania delle definizioni», in quanto «metodo tenebroso che comincia sempre da ciò ove bisogna finire» (Lezioni di logica e metafisica, cit., 2° vol., Lezione LVII, p. 4).
Ciò non toglie che – iniziando la conoscenza dalla sfera del sensibile, ma solo per poter essere convogliata dall’intelletto in una scomposizione analitica e in una ricomposizione sintetica – la sintesi venga recuperata come procedimento imprescindibile per monitorare le attività dell’intelletto, ovvero la percezione, il giudizio e il raziocinio.
In realtà è proprio la caratterizzazione principale del pensiero di Galluppi, il tentativo riuscito di coniugare storia della filosofia e filosofia teoretica, che impone in fondo una sorta di ‘collaborazione’ tra i due metodi, considerato anche che il primato dell’analisi viene stemperato sia nella filosofia morale che nella teologia, in cui sono tematizzate in una prospettiva necessariamente ‘sintetica’ concettualità, come il principio di dovere e l’idea di Dio, non riconducibili al solo orizzonte empirico dell’esperienza.
Il fondamento dell’esperienza, che garantisce un saldo punto di partenza al coscienzialismo galluppiano, non risulta valido nel campo della filosofia morale né in quello della teologia se non a certe condizioni. La prima e più importante è costituita dal presupposto che l’idea del dovere sia già presente nella coscienza, addirittura prima della stessa idea di Dio: «la nozione di dovere è una nozione soggettiva: ella deriva dalla stessa nostra natura» (Elementi di filosofia, cit., 2° vol., p. 496). L’elemento soggettivo consente a Galluppi di connettere il principio morale in maniera indissolubile alla coscienza, ma questa connessione non esaurisce la complessità della questione, considerato che è la ragione a indirizzare il dovere. La ragione, dunque, non pone i principi morali, eppure li impone alla coscienza nella quale si costituiscono: la filosofia morale si fonda sul principio del dovere inteso come contenuto e forma della legge morale, capace di guidare l’uomo nella sua attività pratica.
Giungiamo così al cuore della filosofia morale del filosofo tropeano: i precetti morali non sono né massime né imperativi, ma verità primitive che si fondano sull’esperienza, pur se prescritti dalla ragione: «l’esistenza de’ doveri, e perciò del bene e del male morale è una verità primitiva, che la Coscienza ci manifesta» (p. 496). In questo modo Galluppi ritiene possibile dimostrare che le verità morali sono immediatamente evidenti, necessarie e non contingenti, e preservare sia l’ambito dell’esperienza proprio della sensibilità ricettivo-produttiva che l’ambito della ragione proprio della ragione pratico-legislativa, pur ricadendo in questo modo in un’ovvia contraddittorietà.
I principi della morale sono difatti considerati dei veri e propri ‘giudizi sintetici a priori’, che dimostrano la necessarietà dell’eticità nell’attività pratica dell’uomo. La loro validità era stata precedentemente negata nel campo della ragione teoretica:
i giudizi sintetici a priori teoretici, mi sembrano assurdi; ma dall’esame della nostra facoltà di volere sono stato forzato di ammettere i giudizj sintetici a priori pratici, i quali sono le leggi morali della nostra natura (P. Galluppi, Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, cit., 4° vol., p. 204).
Per comprendere fino in fondo la portata etica di una filosofia morale così concepita manca però un ultimo passaggio, quello che può essere definito il punto di arrivo, per certi versi un po’ forzato, non solo della speculazione del filosofo, ma anche delle sue tensioni esistenziali. L’obbligatorietà della legge morale, infatti, non deriva soltanto da una ragione legislatrice garante, ma rivela anche una provenienza diretta dalla volontà divina. È nella connessione tra filosofia morale e teologia che il pensiero di Galluppi investe molti dei suoi sforzi di coerenza rispetto al proprio sistema filosofico, attuando però delle forzature che compromettono tale coerenza. Nondimeno la legge morale mantiene una propria autonomia: essa non viene ridotta ad alcuna precettistica religiosa e, in quanto verità primitiva, precede in definitiva qualsiasi normativa di siffatto genere. Sia per la morale che per la teologia però il primato della coscienza viene ridimensionato perché vincolato all’esistenza e alla volontà di Dio.
Il pensiero di Galluppi su Dio non viene concepito come suscettibile di interpretazioni, ma si dipana chiaro e solido nella sua ferrea religiosità: «Dio è l’assoluto, l’immutabile, l’infinito, il Creatore di tutto» (Elementi di filosofia, cit., 1° vol., p. 317). Il metodo dell’analisi, sul quale erano stati fondati i prodromi concettuali della filosofia dell’esperienza, trova nell’idea di Dio un limite invalicabile: l’idea di Dio infatti non può essere soggetta a una ricostruzione analitica, a un’illuminazione che conduca l’uomo dall’ignoto al noto, ma è un’idea che è tutt’uno con la ragione che ne attesta la grandezza. Non a caso l’esortazione finale degli Elementi a non lasciarsi «sedurre da una falsa filosofia», indirizzata anch’essa come quella iniziale ai «giovanetti» amanti del vero sapere, è volta a sollecitare a rimanere «fedeli al Vangelo ed alla Chiesa di Gesù Cristo, la quale è il fondamento e la colonna della verità» (2° vol., p. 493).
In campo religioso la verità è dunque quella dei Vangeli. Alla filosofia è affidato il compito di sostenere tale verità, per es. nella dimostrazione dell’esistenza di Dio attraverso una ricostruzione ontologico-gnoseologica basata essenzialmente sulla legge di causalità, secondo cui «non vi ha effetto senza causa» (Lettere filosofiche, cit., p. 280). Così, come numerose altre volte nella tradizione filosofica, anche in questo caso la ragione è capace di decretare l’esistenza divina, partendo da presupposti che essa stessa ha formulato (ovvero l’impossibilità di un effetto di sussistere senza una causa che lo produca). È per questo che conoscere Dio diventa un modo privilegiato per credere in Lui, così come credere in Dio diventa un modo privilegiato per conoscerlo: «la conoscenza di Dio termina la conoscenza dell’uomo, ma la conoscenza dell’uomo comincia la vera conoscenza di Dio» (P. Galluppi, Saggi e polemiche, a cura di F. Ottonello, 1991, p. 252).
In un contesto siffatto il discorso teologico viene elaborato sia come una gnoseologia apologetica che elenca prove a supporto della veridicità intrinseca della religione, sia come un’esortazione ad abbracciarne i precetti. La filosofia ha infatti limiti che la religione non conosce, per es. essa non può fornire all’uomo indicazioni circa la possibilità di rimediare alle proprie colpe e quindi non può provvedere alla sua completa virtù e felicità: «il vangelo riempie questo vôto della filosofia, e lo riempie ammirabilmente» (Elementi di filosofia, cit., 2° vol., p. 492). In questo modo il filosofo si confonde più che con il teologo con il credente: soprattutto per forte convincimento personale ed esistenziale più che dottrinario, infatti, Galluppi rischia di ricadere in una sorta di ‘scolastica’ edulcorata, che relegherebbe la filosofia in un ruolo ancillare nei confronti della teologia, riducendo la ragione a mero strumento di attestazione di una verità che essa è destinata soltanto a riflettere come tale e che proviene direttamente da Dio.
Sia la morale che la teologia galluppiane mostrano dunque tutti i limiti e le contraddizioni di una filosofia che non sempre è all’altezza della fama di cui ha goduto nella sua epoca e in una certa misura in seguito. Nonostante ciò, grazie al solido rigore argomentativo, alla stringente consequenzialità logica e alla ricercata strutturazione concettuale che lo caratterizzano rispetto alle novità del suo coscienzialismo e soprattutto in funzione didattico-pedagogica, il pensiero di Pasquale Galluppi è stato e continua a essere una delle testimonianze più rilevanti del panorama filosofico italiano della prima metà dell’Ottocento.
Memoria apologetica, Napoli 1795.
Sull’analisi e la sintesi, Napoli 1807; ripubblicato in La filosofia della matematica, a cura di G. Lo Cane, Vibo Valentia 1995, pp. 325-76.
Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell’ideologia, del kantismo e della filosofia trascendentale, 6 voll., Napoli-Messina 1819-1832; 5 voll., Milano 1846; ripubblicato in epoca più recente in edizioni parziali, di cui l’ultima a cura di C. Librizzi, Roma 1964.
Elementi di filosofia, 3 voll., 6 tt., Messina 1820-1827.
Lettere filosofiche su le vicende della filosofia relativamente a’ principii delle conoscenze umane da Cartesio sino a Kant inclusivamente, Messina 1827.
Lezioni di logica e di metafisica, 3 voll., Napoli 1832-1834, Milano 1845-1846; poi una scelta a cura di E. Vigorita, Messina 1940.
Filosofia della volontà, 4 voll., Napoli 1832-1840, Milano 1846.
Storia della filosofia, 1° vol., Archeologia filosofica, Napoli 1842; Storia della filosofia. Opera compresa in nove capitoli a cui si aggiunge L’elogio funebre scritto da Errico Pessina, Milano 18472.
Opuscoli politico-filosofici sulla libertà, a cura di G. Oldrini, Napoli 1976.
Saggi e polemiche. La collaborazione ai periodici dal 1828 al 1845, a cura di F. Ottonello, Genova 1991.
Tra le edizioni moderne dei testi di Galluppi si vedano:
Per Memoria apologetica, ed. a cura di L. Meligrana, Soveria Mannelli 2004.
Per Elementi di filosofia, ed. a cura di G. Lo Cane, 2 voll., Soveria Mannelli 2001-2003.
Per Lettere filosofiche, ed. a cura di G. Bonafede, Palermo 1974.
P.E. Tulelli, Intorno alla dottrina ed alla vita politica del barone Pasquale Galluppi. Notizie ricavate da alcuni suoi scritti inediti e rari, «Atti della Reale accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1865, 2, pp. 101-21.
N. Arnone, Pasquale Galluppi giacobino?, in Studi dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniversario della sua laurea, Napoli 1912, pp. 129-52.
G. Gentile, Pasquale Galluppi giacobino?, «Rassegna storica del Risorgimento», 1914, 1, pp. 389-412; ripubblicato in Opere complete di Giovanni Gentile, 20° vol., Albori della nuova Italia: varietà e documenti, a cura di V.A. Bellezza, Firenze 1969, parte I, pp. 109-41.
G. Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, 2 voll., Milano 1930, pp. 27-109.
E. Di Carlo, Pasquale Galluppi poeta, «Atti dell’accademia di Palermo», 1943, pp. 46-63.
G. Di Napoli, La filosofia di Pasquale Galluppi, Padova 1947.
A. Guzzo, Pasquale Galluppi, in Grande antologia filosofica, 20° vol., Milano 1971, pp. 163-217.
G. Calogero, Pasquale Galluppi: filosofo del Risorgimento, Cosenza 1967.
E. Garin, Storia della filosofia italiana, 3° vol., Torino 19783, pp. 1074-91.
Studi galluppiani, Atti dei Convegni tropeani per il centenario della morte ed il bicentenario della nascita di Pasquale Galluppi, Tropea 1979.
A. Sofia, Galluppi e Pancaldo: due patrioti dalla vecchia alla nuova Italia, Messina 1988.
Studi galluppiani, Atti del Convegno galluppiano di Tropea (28-30 maggio 1987), Cosenza 1991.
M. Di Napoli, Galluppi Pasquale, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 51° vol., Roma 1998, ad vocem.
L. Fulci, I sonetti di Pasquale Galluppi, Soveria Mannelli 2003.
Gli “Elementi di filosofia” di Pasquale Galluppi. Fra ragione teoretica e metodologia storica, Atti del V Convegno di studi galluppiani, Tropea-Drapia 2003, a cura di S. Venezia, Soveria Mannelli 2007 (in partic.: G. Tortora, La rivoluzione incompiuta. Sugli “Elementi di filosofia” di Pasquale Galluppi, pp. 19-42; L. Meligrana, Pasquale Galluppi e la società tropeana tra Sette e Ottocento. Vicende personali e giudizio storico-politico, pp. 43-65; G. Lo Cane, Pasquale Galluppi e Edmund Husserl, pp. 175-84).