POCCIANTI, Pasquale
POCCIANTI, Pasquale. – Nacque a Bibbiena, nell’Aretino, il 16 maggio 1774 da Pietro e da Margherita Falesi. Nel 1784, alla morte del padre, fu inviato a Firenze dallo zio paterno Vincenzo, canonico della cattedrale di Fiesole: qui intraprese gli studi di scienze matematiche presso le Scuole pie con il padre Stanislao Canovai (Venturi, 1870) e di architettura sotto la guida di Gaspero Maria Paoletti, docente dell’Accademia fiorentina, dove ebbe per colleghi Luigi De Cambray Digny e Giuseppe Cacialli.
La sua formazione si svolse «nell’ambito del sistema didattico creato con la riforma promossa nel 1784 dal granduca Pietro Leopoldo, che sopprimeva l’Accademia del Disegno trasformandola in Accademia di Belle Arti» (Matteoni, 2001, p. 19). Del profitto negli studi sono prova i successi scolastici: nel 1793 risultò vincitore al concorso triennale dell’Accademia con un progetto per uno Stabilimento di pubblici bagni, lodato per l’originalità della composizione (ibid.).
Nel 1794, appena ventenne, venne inserito nell’organico dello Scrittoio delle Regie Fabbriche dapprima in qualità di apprendista, quindi (1806) come ingegnere titolare.
I primi anni trascorsi al servizio dell’ufficio, direttamente sottoposto al granduca, videro Poccianti alle prese con mansioni e incarichi talvolta di scarso rilievo, consistenti per lo più in perizie in ordine alla manutenzione della rete idrica cittadina, da cui peraltro con tutta probabilità trasse origine l’interesse per le opere idrauliche.
Fecero eccezione gli interventi sulle ville periurbane del granducato: tra di esse la sistemazione, condotta con Cacialli, della villa medicea di Poggio Imperiale per conto di Maria Luisa di Borbone, regina di Etruria: la potente facciata dell’edificio, con il portico a bugne in forte rilievo sormontato da una loggia con colonne ioniche, ispirò Antonio Niccolini nel disegno della nuova facciata del teatro S. Carlo di Napoli, opera «decisamente fiorentina (e francese)» (Middleton - Watkin, 1980, pp. 291 s.).
A partire da quegli stessi anni e in più riprese curò la sistemazione della villa di Poggio a Caiano e la costruzione di alcuni annessi. Tra il 1806 e il 1807 realizzò il nuovo corpo scala sul prospetto principale, costituito da due rampe ‘a tenaglia’, in luogo di quelle preesistenti dall’andamento rettilineo, che racchiudono un loggiato destinato al transito e alla sosta delle carrozze. Negli anni successivi (circa 1825) avrebbe realizzato l’edificio della limonaia, caratterizzato in prospetto dalla serie di ampie bucature; a breve distanza avrebbe collocato il piccolo volume prismatico della conserva dell’acqua.
Per la villa medicea della Petraia a Castello curò vari interventi di sistemazione e, tra il 1805 e il 1806, il restauro delle condotte idriche e la costruzione del teatro; nel 1840, poi, avrebbe atteso alla ristrutturazione del quartiere dei principini. Ulteriori interventi furono eseguiti presso la villa dell’Ambrogiana (1805-47); al parco di Pratolino, dove Ferdinando III aveva disposto la demolizione della villa progettata da Buontalenti, si sarebbe occupato, per conto di Leopoldo II, del generale riordinamento (1828) e del progetto di riduzione della paggeria, non realizzato.
Durante il periodo della soppressione del granducato seguita al trattato di Lunéville (1801), l’ufficio dello Scrittoio aveva subito un consistente ridimensionamento. Nel 1807, abolito il Regno d’Etruria, Cacialli fu nominato architetto dei Regi Palazzi e Possessioni, mentre Poccianti, pur mantenendo alcune mansioni a Firenze, venne inviato a Livorno in qualità di assistente dell’ingegnere Ranieri (Neri) Zocchi, incaricato di portare a termine i lavori per la realizzazione dell’acquedotto cittadino.
L’‘esilio livornese’ si rivelò un’occasione di rivalsa professionale: nel 1809, quando la gestione dell’Opera degli acquedotti passò alla Comune cittadina, Poccianti fu eletto ingegnere della comunità e divenne, nell’arco di pochi anni (1813), ingegnere in capo di ponti e strade del Dipartimento del Mediterraneo (Pasquale Poccianti architetto, 1977).
La costruzione del nuovo acquedotto, necessaria e urgente in virtù del considerevole aumento della popolazione che aveva reso insufficiente – in specie nella stagione estiva – l’approvvigionamento idrico assicurato dalla condotta medicea del Limone, era stata intrapresa nell’ultimo decennio del XVIII secolo per disposizione di Ferdinando III, che ne aveva affidato la realizzazione a Giuseppe Salvetti. Il progetto prevedeva un tracciato che dal borgo di Colognole, sul versante orientale del monte Maggiore, nei pressi del quale erano ubicate le sorgenti, sarebbe giunto attraverso gallerie e viadotti verso la collina di Bellavista e quindi, correndo parallelamente alla strada regia, fino alla porta a Pisa.
I lavori ebbero inizio nel 1793; l’incertezza della situazione politica che caratterizzò gli anni successivi ne sancì l’interruzione nel 1799.
Dopo la morte di Salvetti (1801), Riccardo Calocchieri, incaricato di redigere un rapporto sullo stato dei lavori, suggerì di modificare il progetto con l’intento di accelerarne il compimento, utilizzando il condotto del Limone per convogliare le acque provenienti dalle sorgenti di Colognole. Approvata la variante, nel 1806 la regina Maria Luisa affidò la direzione dei lavori a Zocchi; di lì a poco, quando questi fu chiamato a Firenze, la direzione dell’opera passò a Poccianti.
Dai ‘casotti’ delle sorgenti della Morra e della Camorra, a Colognole, fino alle porte della città, l’acqua fu incanalata in forza di un intervento «evidente, potente e nello stesso tempo casuale, facile» (Pasquale Poccianti architetto, 1977, p. 46), seguendo il naturale declivio del terreno e offrendo tratti non privi di suggestione con «precipizi e percorsi a ponte, stretti e non balaustrati» (ibid.). Lungo il percorso Poccianti avrebbe poi collocato le architetture delle cisterne: la prima (non realizzata) in località La Castellaccia, quindi quella di Pian di Rota (1845-52), situata a pochi chilometri dal Cisternino di città, in cui ricorre il motivo del volume compatto da cui emerge in aggetto il pronao tetrastilo di ordine tuscanico, e, all’interno del perimetro urbano, la Gran Conserva, o Cisternone, la maggiore e più conosciuta, ideata nel 1827 e realizzata tra il 1829 e il 1842: potente segno urbano caratterizzato dalla grande nicchia a lacunari, che è allo stesso tempo prospetto e spaccato, e dal portico in aggetto con otto colonne tuscaniche, è «un’opera degna del Ledoux di Arc-et-Senans, e certamente il più riuscito tentativo, in Italia, se non in tutta Europa, di realizzare i sogni dei visionari francesi» (Middleton - Watkin, 1980, p. 291).
Meno incisivo della precedente, il Cisternino è connotato da un alto basamento forato da una serie di aperture a feritoia con funzione di raccordo tra il volume prismatico del corpo principale e i semicilindri cui questo si interseca sui lati brevi. Del tutto differente il trattamento del secondo ordine, dove il colonnato ionico restituisce leggerezza all’insieme.
Sulla qualità paesaggistica del progetto nella moderna accezione del termine sono stati espressi pareri controversi, non apparendo legittimo parlare nel merito di un «operare urbanistico». Più plausibilmente per Poccianti, che pure fortemente volle la realizzazione del passeggio alberato nel tratto fuori città, poi brutalmente troncato dalla nuova cinta daziaria eseguita da Alessandro Manetti nel 1835, era la singola architettura a dover essere valorizzata mediante la realizzazione di un adeguato contesto: tale parrebbe il criterio che informò la scelta di conferire qualità architettonica alle cisterne, «dando ad esse una individualità e una riconoscibilità anche formale e gerarchica nella misura del loro peso funzionale» (L. Capaccioli, L’acquedotto di Colognole, in Pasquale Poccianti architetto, 1977, p. 44).
Analogo al precedente «per affinità di linguaggio architettonico e per vicinanza topografica» (F. Borsi, Poccianti architetto granducale, in Firenze e Livorno, 1974, p. 59) si sarebbe rivelato il complesso dei bagni detti ‘della Puzzolente’, situato a ovest della città nella valle del Limone, che Poccianti avrebbe realizzato tra il 1842 e il 1843 per la famiglia Bartolommei. La progettazione riguardò un piccolo complesso termale e la residenza di famiglia. Della villa, non realizzata, rimane una serie di otto disegni conservati presso il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi: l’impaginato della facciata, con il corpo centrale in aggetto e il bugnato a marcare il primo ordine, rammenta la soluzione compositiva adottata nella villa di Poggio Imperiale.
Nel 1814, allorché Ferdinando III fece ritorno al governo del granducato, l’ufficio dello Scrittoio tornò a svolgere le proprie mansioni. Nel 1817 Poccianti fu nuovamente in servizio a Firenze con la qualifica di ‘primo architetto’; mantenne tuttavia gli incarichi in Livorno, ove ancora realizzò, tra l’altro, il ponte di S. Marco e, negli anni Quaranta, il ponte nuovo dei Cappuccini.
Il granduca promosse il completamento delle opere intraprese dai francesi, come i quartieri di Parata di palazzo Pitti; e, giudicando che la scala di accesso a questi sul lato nord realizzata da Bartolomeo Ammannati apparisse meschina, ne decretò la demolizione nel 1815. Dal 1796, allorché era risultato vincitore di un concorso per la realizzazione della sala de’ Novissimi, Poccianti era stato autore di molte importanti opere di miglioramento e manutenzione del palazzo intraprese dai Lorena. La realizzazione del nuovo scalone lo vide impegnato fino al 1847: alla lentezza che sempre contraddistinse l’andamento delle sue opere si aggiunsero in questo caso ulteriori difficoltà. La tipologia ‘a pozzo’ imposta dal granduca in corso d’opera, da improntarsi all’estrema regolarità e simmetria delle rampe e dei pianerottoli, mal si conciliava con le quote sfalsate degli ambienti: Poccianti riuscì tuttavia a conferire all’insieme un equilibrio dimensionale e proporzionale e un’idea di simmetria prima estranea al contesto anche mediante l’utilizzo di artifici visivi quali partiti architettonici supplementari. Il ricorso a un linguaggio «antico e razionalistico» (G. Morolli, Lo scalone pocciantiano di palazzo Pitti e il neorinascimento nella Toscana restaurata, in Pasquale Poccianti architetto, 1977, p. 79) fu forse ritenuto dal progettista più gradito ai sovrani tornati in auge rispetto a quello, più coraggioso e vicino all’architettura rivoluzionaria francese, adottato nelle opere livornesi.
Poccianti avrebbe continuato a operare in palazzo Pitti a più riprese fino al 1849: tra i principali lavori si rammentano il corridoio di collegamento con l’edificio del Museo della fisica (1820-31), il nuovo vestibolo (1823-36), in cui furono rimossi i rivestimenti lignei «infestati da incomodi insetti» (L. Zangheri, Ragguagli documentari, in Firenze e Livorno, 1974, p. 241), la sistemazione di piazza Pitti con il completamento dei due rondò (1818-40), il completamento della palazzina della Meridiana (1819-41) e il nuovo salone d’ingresso alla Galleria Palatina (1831-35, non eseguito). Curò inoltre la realizzazione del percorso di collegamento dal cortile dell’Ammannati al giardino di Boboli. A quest’ultimo attese per l’intero periodo in cui lavorò presso lo Scrittoio, curandone la manutenzione e redigendo un progetto per la sua illuminazione. Nel 1849 avrebbe realizzato l’ampliamento dei corpi di guardia posti lateralmente al cancello di Annalena, eseguiti su progetto di Cacialli nel 1820.
Nel 1816 intraprese la realizzazione della scuola di anatomia dell’ospedale di S. Maria Nuova. Nel 1817 redasse il progetto di ampliamento della sala della Biblioteca Laurenziana, resosi necessario al fine di collocarvi la raccolta di manoscritti e incunaboli donata alla città di Firenze dal defunto conte Angiolo Maria d’Elci. I lavori ebbero termine nel 1841: se pur lodata dall’Antolini, la sala Rotonda, o tribuna d’Elci, fu oggetto di critiche dovute al costo elevato, alla scelta della forma circolare, poco adatta a riporvi i volumi, e alla scarsa illuminazione, «per cui a correzione si fecero aperture laterali nascoste dietro ornati» (Supplimento perenne, 1872, p. 742).
Dal 1819 al 1825 fu impegnato nel restauro di palazzo Strozzi, detto ‘Nonfinito’, acquisito dallo Stato nel 1814.
Altri lavori in Firenze furono i restauri al convento di S. Apollonia e alla Fortezza da basso, e i progetti per una nuova sala del museo degli Uffizi (1835-48) e per la sistemazione della loggia dell’Orcagna, ove eseguì il rinnovo del ballatoio di coronamento «mal condotto dal tempo» e della terrazza di copertura (Fantozzi, 1847, p. 29).
Nel territorio di Lucca, oltre ai progetti redatti negli anni della dominazione francese per Elisa Baciocchi (villa Marlia, piazza Napoleone e porta Elisa), si rammentano il palazzo ducale a Bagni di Lucca e l’ingrandimento del palazzo pretorio a Pietrasanta (1851); del 1814 è il rinnovamento della chiesa della S. Vergine a San Romano presso Montopoli (Pisa), parzialmente compiuto nel 1837.
Nominato cavaliere con rescritto del 16 giugno 1833, fu eletto tra gli accademici di merito di S. Luca nel 1843.
Nel 1835 Poccianti era stato giubilato e posto in pensione: in ragione dei suoi meriti rimase tuttavia, per volontà del granduca, aggregato alle Regie Fabbriche con la qualifica di architetto consultore. Nel 1849, soppresso lo Scrittoio, divenne membro del Consiglio d’arte allora istituito: insieme ad Alessandro Manetti (con il quale ebbe sempre rapporti burrascosi a seguito dell’affronto subito a Livorno), Luigi Campani e Giuseppe Martelli ebbe l’ufficio di esaminare e valutare le opere di pubblico interesse progettate e intraprese nel territorio toscano (Firenze e Livorno, 1974, pp. 213 s.).
L’insorta necessità di modificare il tracciato della cinta muraria della città di Firenze realizzando una nuova barriera che inglobasse il quartiere del Lungarno, aveva provocato numerose proteste, rimaste senza esito, in ragione della dispendiosità dell’opera. Fabio Nuti, architetto protetto del Manetti incaricato della redazione del progetto, era stato tuttavia invitato (1854) ad apportarvi varianti «in conseguenza delle ulteriori disposizioni governative» secondo le quali la barriera avrebbe dovuto avere un carattere non monumentale, ma «elegante e gentile», in quanto accesso a «un luogo di passeggio» (G. Contorni, Il progetto per la barriera delle Cascine a Firenze, in Pasquale Poccianti architetto, 1977, pp. 32 s.). Elaborate le modifiche in due differenti proposte progettuali, il Consiglio d’arte espresse numerose riserve su entrambe. Il ministro Giovanni Baldasseroni sollecitò i membri a formulare proposte a loro volta. Nel giugno 1855 Poccianti presentò il proprio progetto per l’edificio di barriera, che fu valutato favorevolmente e approvato da Manetti con la motivazione che «esso dava al Nuti un buon concetto di come dovesse riformare il suo» (ibid., p. 36): il fatto provocò vivaci reazioni da parte di Poccianti, nuovamente offeso dal collega, tanto da minacciare che, qualora non gli si fosse data la possibilità di ultimare il progetto in qualità di autore, non avrebbe esitato a ritirarlo. Accolta la protesta, l’opera fu condotta in piena autonomia, ma ebbe vita assai breve in ragione delle opere di ampliamento intraprese di lì a poco da Giuseppe Poggi.
I disegni rimasti consentono peraltro di effettuare un significativo raffronto con il progetto del Nuti: alla struttura doganale compatta e pesante da quello ideata, Poccianti contrappose un elegante diaframma di collegamento tra città e campagna, enfatizzato dal differente trattamento delle superfici dei due fronti.
Membro dell’Accademia del disegno dal 1799, ne divenne consigliere dal 1850. Nel 1854 elaborò una dettagliata relazione sulle condizioni statiche del campanile di S. Croce.
Morì a Firenze il 18 ottobre 1858, a seguito delle lesioni riportate in un incidente occorso durante un’ispezione per conto della Compagnia dei pompieri, di cui era membro dal 1795.
Dal matrimonio con Maria Anna Ducci, sposata nel 1817, erano nati Tito, Cesare, Fulvia ed Elena; nel 1850 Fulvia aveva sposato Giuseppe Poggi.
Suoi aiuti furono Pietro Passeri e, alla morte di questi, Angiolo Della Valle, che lo aveva sostituito nel 1857 alla direzione dei lavori dell’acquedotto.
L’Archivio di Stato di Firenze, il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi e il fondo Deputazione Acquedotti dell’Archivio di Stato di Livorno conservano documenti, disegni e progetti relativi alla sua intensa attività professionale.
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