SORIA (de Soria), Pasquale
SORIA (de Soria), Pasquale (Pasquale Giuseppe). – Nacque il 4 novembre 1762 a Gioa del Colle, in Terra di Bari, da Giuseppe Nicola e da Francesca Paola Lamanna.
Il padre era benestante, mentre la madre apparteneva a una famiglia di probabile origine spagnola stabilitasi a Gioia, città infeudata ai de Mari, tra il XVII e il XVIII secolo.
Fratelli di Pasquale furono Francesco, Domenico e Cesare, con i quali fu mandato a Napoli nel 1775, ove uno zio canonico impartì loro i primi rudimenti delle lettere e del diritto. Di vivace intelligenza, studiò nella capitale partenopea latino, greco, francese, filosofia sotto la guida di Pietro Miciletto di Crotone, come asserisce Gioacchino Maria Olivier-Poli che a lui, nel suo Dizionario (1825), dedicò un’ampia biografia. Successivamente, fu allievo di Francesco Conforti che lo avviò allo studio della giurisprudenza.
Dotato di estese cognizioni ed eloquenza, nel 1782 cominciò a esercitare la professione legale a Napoli, a Trani e in altre sedi di tribunali provinciali, patrocinando cause per alcune Università (Comuni) in lotta o con le locali chiese o con i baroni per questioni che generalmente riguardavano lo sfruttamento e l’usurpazione dei demani o il malgoverno feudale. La fama che conseguì in quelle cause gli guadagnò, però, invidie e persecuzioni che, successivamente, gli avrebbero aperte le porte del carcere, anche perché il suo comportamento non fu scevro da contraddizioni.
Insegnò diritto all’Università di Altamura, attiva dal 1748 al 1811 e retta allora da monsignor Gioacchino de Gemmis, ove tenevano cattedra anche Luca de Samuele Cagnazzi, Giovan Battista Manfredi, Vitangelo Bisceglia, consolidando in quella sede la propria fama di valente giureconsulto.
In accordo con i fratelli (che nel 1799 avrebbero militato nelle file dei realisti) ambì sempre a estendere le proprietà fondiarie della famiglia, utilizzando le proprie capacità forensi che gli consentivano di condurre vittoriosamente a termine vertenze che avevano come protagonisti il principe di Acquaviva e Gioia Carlo de Mari, la Chiesa di Gioia e l’Università. Le parcelle dovutegli e non pagategli perché onerose erano soddisfatte con l’occupazione di terre appartenenti ai soggetti già menzionati che, ben presto, si trasformavano da caparra in acquisizioni definitive, con la conseguente espulsione dalle stesse dei contadini che le coltivavano o che usufruivano dei diritti di pascolo e legnatico. Il suo modo di fare, tipico del ceto dei galantuomini di tanti paesi del Regno di Napoli, gli suscitò l’ostilità dei contadini (dai quali si difendeva circondandosi di uomini facinorosi a lui ligi) e di coloro che nelle vertenze da lui patrocinate erano stati sconfitti. La sua influenza nelle vicende locali era tale che nella difesa dei diritti del capitolo della collegiata di Gioia, benché si fosse impadronito di porzioni che gli consentivano di unire parti disperse delle proprietà fondiarie familiari, riuscì a ottenere dai sacerdoti a sé più vicini di essere nominato avvocato difensore per ulteriori procedimenti giudiziari e di essere pagato in anticipo con la censuazione di alcune terre formalmente concessegli in fitto. Ma, accusato da molti concittadini di usurpazioni, violenze e minacce, la sua posizione divenne vieppiù insostenibile a partire dagli ultimi anni Novanta del secolo.
Amico di Mario Pagano e di Ettore Carafa, sembra avesse conosciuto Emanuele de Deo che nel 1793, in una cena a Gioia ove si trovava, avrebbe minacciato di uccidere il re Ferdinando IV e la regina Maria Carolina. Qualche anno più tardi, nel 1797, quando il re intraprese il suo viaggio per la Puglia, ad Altamura Soria avrebbe parlato male del ministro John Francis Edward Acton e, dunque, per le sue frequentazioni e per le sue parole, ma anche per una serie di accuse di violenza e di malversazione, fu arrestato e tradotto in carcere a S. Maria ad Agnone a Napoli. La prigionia fu blanda, tanto che aveva la possibilità di ricevere avvocati e studenti di diritto che a lui si rivolgevano per consigli, oltre che di comporre trattati e allegazioni legali in gran parte rimaste inedite o perdute.
Con l’avvento della Repubblica nel gennaio del 1799 terminò la prigionia di Soria, inviato dalle autorità rivoluzionarie a democratizzare la città di Gioia e le località circostanti. In quell’occasione si costruì la sua fama di patriota repubblicano, anche in opposizione al comportamento del fratello Francesco, spietato capomassa sanfedista.
Quest’ultimo, prima aveva fatto democratizzare Gioia poi, indotto dal principe Carlo de Mari al cui servizio era un suo zio, aveva mutato bandiera e ripristinato con inenarrabili episodi di violenza il governo monarchico a Gioia e ad Acquaviva, ove era una sorella monaca benedettina. Tentò di conquistare anche la vicina Modugno, in cui era stato innalzato l’albero della libertà, avvicinandosi pericolosamente con le sue bande alla repubblicana Bari e devastandone il circondario. Definito «commodo di casa sua, ma ladro e cervello torbido» (Faenza, 1899, p. 180), quando fu ripristinato il governo borbonico, Francesco cadde in disgrazia delle stesse autorità provinciali e del visitatore regio monsignor Ludovico Ludovici, che gli inibirono di continuare nei suoi saccheggi e ruberie, riconoscendo che molti che si erano opposti alla Repubblica lo avevano fatto per perseguire fini privati e per regolare vendette nei confronti di coloro che spesso erano solo sospettati di essere repubblicani.
A Gioia Pasquale tentò di imporre una visione moderata della Repubblica, ma per l’ostilità di gran parte della cittadinanza (anche perché aveva circondato di pareti altre porzioni del demanio comunale) e per sfuggire alla violenza sanfedista fu costretto a rifugiarsi nei boschi dei dintorni. Al rientro dei Borbone fu incarcerato a Trani in base ad accuse non documentate e la sua prigionia continuò anche quando tornarono nel Regno i francesi, questa volta al comando di Giuseppe Bonaparte. A suo favore si mossero allora le Università di Altamura, Corato, Cerignola e Castellaneta, che evidenziarono il ruolo da lui svolto in qualità di maestro di tanti giovani, che lo aveva reso famoso in tutta la Puglia, nonché l’atteggiamento tenuto nel 1799 quando aveva cercato di evitare inutili violenze nella sua piccola patria. Sottolinearono inoltre che un’interessata confusione con il fratello Francesco, contro le idee del quale aveva combattuto, lo aveva condotto in carcere. Il 3 settembre 1806 fu finalmente liberato.
Non dovettero essere solo motivi di natura politica quelli che lo avevano portato in prigione; qualcuno parlò di usurpazione dei demani, come si intuisce anche da una strofa contenuta nel poema di Francesco Paolo Lo Sapio (1834) che celebrava le qualità di Pasquale nel campo della giurisprudenza e ne rilevava il profondo legame con la città natia: «... abbenchè questa di un tal figlio si duol, perché non sempre della madre il partito sostenne e la ragione» (pp. 175 s.). Soria restava colui che in tanti procedimenti giudiziari caldeggiava la causa dei contadini abbrutiti dal regime feudale vigente, auspicava la loro liberazione dai bisogni primordiali, i loro diritti a servirsi degli usi civici e, contemporaneamente, occupava e privatizzava ampie porzioni di demani pubblici.
La sua vita continuò fra gli impegni nella corte d’appello di Altamura e poi in quella di Trani, quando quell’istanza giudiziaria vi fu trasferita nel 1817. Qui si trovò a dirimere anche controversie ereditarie tra ex baroni e loro discendenti, mentre la sua sperimentata strategia di ampliamento e di consolidamento delle proprietà fondiarie della famiglia continuava a erodere i demani comunali ed ecclesiastici della sua città. Nel 1811 ottenne parere positivo da parte della Commissione per la divisione dei demani all’occupazione delle terre già appartenute alla chiesa collegiata di Gioia, e nel 1819 l’arcivescovo di Bari, Nicola Coppola (1818-23), in visita pastorale alla città, gli confermò i diritti di piena proprietà sulle terre già di pertinenza del capitolo, in cambio di una somma di denaro che non corrispondeva al valore di ciò che egli aveva incamerato. Nel 1833, il figlio Teodoro avrebbe infine ottenuto la conferma reale della transazione del 1819.
Fu anche consultore dell’ex feudatario Carlo de Mari, suo nemico nel 1799, nelle cause per la divisione degli ex demani feudali, e fece in modo che molte terre del principe ubicate a Gioia e ad Acquaviva fossero dichiarate di natura burgensatica e non feudale e fossero, quindi, mantenute nel possesso di de Mari. Il fatto che diversi uomini incaricati dalla Commissione feudale di misurare e di censire i demani feudali di de Mari fossero legati al barone testimonia dell’influenza che, anche dopo il 1806, godeva nella zona l’ex feudatario, difeso da un ex repubblicano come Soria.
I processi sociali ed economici dei quali Soria fu testimone e protagonista hanno influenzato gran parte della storia del Mezzogiorno: l’eversione della feudalità e la quotizzazione dei demani portò non alla formazione di una piccola proprietà contadina, ma a una feroce privatizzazione dei terreni e alla proletarizzazione dei contadini stessi che si dovettero scontrare non soltanto con le disposizioni garantiste della legislazione napoleonica e poi borbonica, ma anche con l’attivismo di un ceto di avvocati che difesero accanitamente la natura burgensatica e non feudale dei demani che dovevano essere suddivisi e approfittarono, nel contempo, dell’accesa litigiosità tra le parti e della lunga durata dei processi per incamerare, per conto proprio, quelle terre che dovevano invece essere assegnate ai contadini. Fu in quella fase che il cosiddetto ceto dei galantuomini (avvocati, notai, professionisti in genere), grazie al maneggio spregiudicato della legge, si trasformò in un ceto di grandi proprietari fondiari e relegò alla marginalità sociale ed economica uomini che fino ad allora avevano incrementato le proprie magre risorse con l’utilizzo dei demani dell’Università, della Chiesa, dei baroni.
Quando nelle provincie meridionali si sviluppò la carboneria, Soria si iscrisse, con il grado di maestro, alla loggia gioiese La Costanza dei Bruti, che nel 1820 contava 164 adepti, fra i quali diversi avevano partecipato ai moti del 1799. Ma la sua partecipazione all’attività della loggia, alla quale si era iscritto nel nonimestre costituzionale dovette essere poco più che simbolica, dato che nelle carte di polizia egli veniva definito di condotta moderata, a differenza di altri ‘effervescenti’ che partirono in armi per difendere il Regno dall’invasione austriaca o che intendevano vendicarsi per i torti subiti nel 1799, quando le loro case erano state devastate dai sanfedisti ed erano stati costretti alla latitanza.
Non si segnalò quindi per la sua partecipazione alla rivoluzione costituzionale del 1820-21, anche perché la conclusione dell’esperimento costituzionale coincise, di fatto, con la sua scomparsa.
Morì infatti a Trani nel marzo del 1821 (qualche testo parla del giorno 15, qualche altro del 26, qualche altro ancora del 27).
Aveva sposato Anna Luisa Scelsi (o Scelza) con la quale aveva avuto un unico figlio, Teodoro (1811- 1883), anch’egli avvocato, come lo sarebbe stato l’omonimo nipote, che condusse felicemente a termine tutte le vertenze demaniali che il padre aveva intrapreso e che a Trani nel 1848 fece parte di quel gruppo di cittadini che bruciò lo stemma del locale viceconsolato austriaco. Egli fu colui che rinunziò al de che precedeva il suo cognome, anche se molti testi da noi utilizzati già non usano il de a proposito di Pasquale e del fratello Francesco.
Scritti e discorsi. Tra le numerose allegazioni scritte da Soria si segnalano solo quelle qui utilizzate: Per l’università di S. Michele contro l’illustre duchessa di Casamassima, Napoli 1792 (e altra allegazione dello stesso titolo del 1793); Il naufrago menato al porto. A difesa de’ marchesi di Fragagnano, Altamura 1814.
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