passione
Il termine, usato soprattutto nel Convivio, vale " sofferenza ", sia in senso fisico che psichico, ma vale più spesso " qualità o moto dell'animo ".
La dottrina dantesca della p. deriva sostanzialmente da quella di Aristotele, le cui opere D. richiama di frequente.
Secondo Aristotele (Metaph. V 21, 1022b 15-21) p. si dice in quattro sensi: innanzi tutto, designa una qualità secondo la quale avviene un'alterazione; in secondo luogo, designa l'attività di tale qualità e la conseguente alterazione; in terzo luogo, indica alterazioni e mutamenti dannosi e dolorosi; infine, sono dette p. le grandi calamità e i grandi dolori. Come spiega s. Tommaso (Exp. Metaph., ad l.), p. designa nel primo caso la terza specie della categoria della qualità e, nel secondo, la categoria che è detta appunto p. (cfr. Arist. Cat. 4 2a 4), correlativa a quella categoria dell' ‛ azione '. Ma si può dire che la stessa realtà, considerata in rapporto al suo principio dinamico, è detta azione, considerata in rapporto al soggetto cui inerisce è detta p. (cfr. Arist. Phys. III 3 202a 14-20). Ogni p., in questo senso, presuppone un agente, e poiché il simile non agisce sul simile (Gener. et corrupt. I 7, 323b 18 ss.), l'agente dev'essere diverso dal paziente (Anima II 4, 416a 31 ss.); ma in contatto con esso, mediatamente o immediatamente (Gener. II 1, 734a 3), anche se il solo contatto non basta a spiegare l'azione (Gener. et corrupt. I 2, 315b 5). Inoltre, ogni p. è in un sostrato, giacché la qualità, l'alterazione e il mutamento presuppongono qualcosa che permanga alla quale inerire (Metaph. IV 5, 1010b 34). Secondo Aristotele si dice p. la sensazione (Anima II 5, 416a 33) e in modo analogo l'intellezione (III 4, 429a 14 ss.), anche se in questo caso il filosofo mira a salvare l'impassibilità dell'anima che sente e comprende.
Alla prima accezione del termine indicata vanno ricondotte, secondo Aristotele (Cat. 8, 9a 27 ss., in partic. 9b 33-10b 2), le ‛ qualità ' o ‛ affezioni ' dell'anima: tali sono le perturbazioni come l'ira, l'amore, l'odio, ecc. (Eth. Nic. II 5, 1105b 21-23; Reth. II 8, 1385b 34), che hanno una loro rispondenza in un'alterazione organica transeunte (per l'ira, cfr. Anima I 1, 403a 29-b 2). Ma anche alle qualità modificanti il corpo corrisponde un'alterazione organica (Part. an. III 4, 667b 12; Gener. II 4, 738a 16).
Da quanto si è detto deriva che la p. secondo Aristotele ha sede nella parte non razionale dell'anima, nell'appetito sensitivo (irascibile e concupiscibile); le p. sono elementi che l'uomo è capace di sentire e rispetto ai quali può comportarsi bene o male (cfr. la distinzione tra p., potenza e abito in Eth. Nic. II 5, 1105b 20 ss.). Le p. perciò vanno regolate dalla ‛ retta ragione ' (II 2, 1103b 33), la quale indica il giusto mezzo tra l'eccesso e il difetto considerato non in rapporto all'oggetto ma in rapporto al soggetto (II 6, 1106a 28). Lungi dal condannare le p., Aristotele riconosce loro un posto e una funzione importante in una concezione della vita umana ordinata secondo ragione. Non per nulla egli ritiene insufficiente la definizione della virtù come ‛ apatia ' (II 3, 1104b 24-25; cfr. Tomm. Exp. Eth. Nic., ad l., dove si fa riferimento alle dottrine epicurea e stoica).
Con maggiore accentuazione, nella dottrina platonica le p. sono assegnate all'anima irrazionale, irascibile e concupiscibile, e sottoposte alla ragione (Tim. 70 A-E; si noti che ‛ retta ragione ' è espressione platonica; cfr. Phaedo 73 A). Secondo gli stoici, le p. sono cause di turbamento e perciò il saggio vive secondo ragione quando le domina completamente. Fonti autorevoli di queste notizie per D. sono Cicerone e Agostino. Cicerone (che preferisce rendere πάθος con perturbatio, anche se riconosce che a tradurre " verbum a verbo " bisognerebbe renderlo con morbus: Tusc. III IV 7) informa che Pitagora e Platone dividono l'animo in due parti: una razionale, nella quale " ponunt tranquillitatem, id est placidam quietamque constantiam ", l'altra priva di ragione che possiede " motus torbidos... contrarios inimicosque rationis " (IV V 10), e che per gli stoici la p. è un moto dell'animo contro ragione (" Est igitur Zenonis haec definitio, ut perturbatio sit, quod πάθος ille dicit, aversa a recta ratione contra naturam animi commotio ": IV VI 11). Agostino nota soprattutto che l'ideale dell'ἀπάθεια, da intendere " ut sine his affectionibus vivatur quae contra rationem accidunt mentemque perturbant ", è sommamente desiderabile, " sed nec ipsa huius est vitae " (Civ. XIV 9); per conto suo, ritiene che le p. di per sé non sono un male, ma che lo diventano quando le guidi una volontà perversa (" Apud nos autem iuxta scripturas sanctas sanamque doctrinam cives sanctae civitatis Dei in huius vitae peregrinatione secundum Deum viventes metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, et quia rectus est amor eorum, istas omnes affectiones rectas habent ": XIV 9). Con ciò vien definito l'atteggiamento cristiano rispetto alle p., che non è di rifiuto, ma di accettazione, purché su di esse governi la ragione rafforzata dalla grazia. Secondo Agostino, la traduzione di πάθος con passio si deve ad Apuleio (Civ. IX 4). Tommaso fa propria la dottrina aristotelica, specie nella sua lucida expositio dell'Etica a Nicomaco, ben nota a Dante. Secondo Tommaso, le varie p. possono essere così classificate in rapporto all'anima irascibile e concupiscibile: " Quaecumque... passiones respiciunt absolute bonum vel malum, pertinent ad concupiscibilem, ut gaudium, tristitia, amor, odium, et similia. Quaecumque vero passiones respiciunt bonum vel malum sub ratione ardui, prout est aliquid adipibile vel frugibile cum aliqua difficultate, pertinent ad irascibilem, ut audacia, timor, spes et huiusmodi " (Sum. theol. I II 23 1).
1. Nel senso di " sofferenza ", " patimento ", il termine è raro: Vn XV 2 non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei, Beatrice. In Pd XXIX 98 l'espressione ne la passion di Cristo vale " nel momento culminante della passion, la morte " (Mattalia); l'uso del termine in questo caso è di derivazione biblica (cfr. in partic. Act. Ap. 1, 3 [Cristo] " praebuit se ipsum vivum post passionem [τὸ παθεῖν] ") e ha trovato largo impiego nella liturgia pasquale (" in passione et morte Domini ").
2. Nel senso di " qualità " o " moto dell'anima ", le p. propie dell'anima umana sono sei, secondo D.: di esse fa menzione lo Filosofo ne la sua Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna (Cv III VIII 10; cfr. Arist. Rhet. II 1, 1378a 6 ss.). Esse possono essere considerate come rientranti fra le essenziali passioni, che sono comuni a tutti (XI 7): queste infatti sono quelle qualità o ‛ propria ' che conseguono a un'essenza e che si accompagnano a essa in tutti gl'individui di una certa specie; quelle sei sono comuni a tutti gli uomini e sono ‛ proprie ' della natura umana. Quando si orienta verso un oggetto, la p. si specifica e individua fino al punto che l'oggetto stesso, o ciò in cui essa termina, viene talora chiamato per metonimia col nome della p. stessa: così Enea nell'Eneide è detto " speranza dei Troiani ", che è passione, perché su di lui si fondava tutta la speranza degli esuli (XI 16; un'altra volta al singolare, una volta al plurale).
Rifiutata l'opinione degli stoici che considerarono fine della vita umana essere solamente la rigida onestate... di nulla passione avere sentore (IV VI 9: il Busnelli ricorda Cic. Tusc. IV XVII 37, Fin. III XXI 71, Acad. pr. II XLII 31; ma fa presente che secondo S. Debenedetti, D. e Seneca filosofo, in " Studi d. " VI [1923] 9-10, il passo è documento dell'influenza di Seneca su D.), il poeta pensa che l'uomo deve abituarsi a rifrenare le sue passioni (XXI 14: D. cita l'autorità di Aristotele [cfr. Eth. Nic. II 1 ss.] e di s. Agostino, per il quale v. i luoghi citati dal Busnelli, ad l.); solo allora nasce nell'uomo la virtù, abito elettivo consistente nel mezzo (Cv IV XX 1), la quale non è negazione della p., ma è dominio acquisito di un elemento superiore su di essa, cioè la nobiltà, che in noi è principio di tutto bene (XXI 1): la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione, ma perché la nobilitade vince in quella, è la vertù dinominata da essa, e appellata bontade (XX 2). la p. può essere talora prevalente nell'uomo e determinarne le azioni; in tal caso l'uomo è coperto d'‛ infamia ' (Temo la infamia di tanta passione avere seguita... la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare... lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione, I II 16). Ma se è ordinata dalla ragione al fine della vita umana che è la perfezione, la p. non è fonte di biasimo, né è in sé spregevole. Anzi alcune p. sono frutto di nobiltà: tali sono le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte (IV XIX 5). In particolare, la vergogna non è virtù, ma certa passione buona (§ 8): infatti la passione de la vergogna... è apertissimo segno in adolescenza di nobilitade (XXV 3), e in essa D. individua, seguendo l'insegnamento di Aristotele (Rhet. II 6), tre passioni necessarie al fondamento de la nostra vita buona: l'una si è stupore; l'altra si è pudore; la terza si è verecundia (§ 4; un'altra occorrenza allo stesso paragrafo). Per quanto riguarda la misericordia, poi, D. afferma che è effetto della pietà: dolersi de l'altrui male è misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d'animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni (II X 6; la pietà e la religione sono buone disposizioni da natura date: IV XIX 5; v. DISPOSIZIONE).
Questo discorso dantesco s'inserisce in quello più generale sulla ‛ buona natura ' (v. NATURA), che è pieno sviluppo della vita umana in ordine al suo fine raggiunto grazie all'attuazione delle inclinazioni naturali innate in ciascuno. Non c'è dubbio che fra gli strumenti dati all'uomo perché possa realizzarsi vanno incluse le p., almeno quelle ‛ laudabili '. Ma poiché la natura umana individuale ha la sua radice nella costituzione del singolo e quindi anche nella sua ‛ complessione ', le p., secondo D., trovano il loro ineliminabile fondamento in quel complesso di determinazioni che caratterizzano l'individuo. Di qui la distinzione tra passioni connaturali e consuetudinarie (III VIII 18); le prime sono ineliminabili quanto al primo movimento, per quanto le tendenze naturali possano essere fatte lievi per buona consuetudine, le altre sono distrutte dal sopravvenire della consuetudine contraria. In I IV 10 (uomo maculato d'una passione, a la quale tal volta non può resistere) si tratta di p. che ha la sua radice in un'alterazione tanto forte che sfugge al pieno controllo delle facoltà superiori; cfr. Tomm. Sum. theol. I II 77 7 " passio quandoque quidem est tanta quod totaliter aufert usum rationis: sicut patet in his qui propter amorem vel iram insaniunt... Si... causa non fuerit voluntaria, sed naturalis, puta cum aliquis ex aegritudine, vel aliqua huiusmodi causa, incidit in talem passionem quae totaliter aufert usum rationis, actus omnino redditur involuntarius... ". Alla p., secondo l'insegnamento di Aristotele (Eth. Nic. II 3, 1104b 14-15; 5, 1105b 23), segue piacere o dolore: Pg XXI 107 riso e pianto son tanto seguaci / a la passion... / che...
3. Al valore di p. come correlativo di ‛ azione ' (cfr. VE II VIII 3 ss.) è da riferire Cv III X 2 quanto l'agente più al paziente sé unisce, tanto e più forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello De generatione si può comprendere: onde, quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l'anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione (per il rinvio ad Aristotele, v. DE GENERATIONE ET CORRUPTIONE; v. anche agente): il desiderio muove dalla potenza concupiscibile nella quale ha sede l'amore (Ep III 5 cum... potentia concupiscibilis, quae sedes amoris est, sit potentia sensitiva) e l'anima che si abbandona a essa si allontana dalla ragione; la p., in tal caso, è " moto dell'animo concupiscibile " che aumenta con l'unione, o anche solo con l'avvicinarsi, al suo oggetto, che così viene a essere agente. Lo stesso tema della vicinanza come condizione perché si abbia l'azione di un agente su di un paziente e si abbia la p. è in Cv IV I 2 però che le cose congiunte comunicano naturalmente intra sé le loro qualitadi ... incontra che le passioni de la persona amata entrano ne la persona amante, sì che l'amore de l'una si comunica ne l'altra, e così l'odio e lo desiderio e ogni altra passione; v. § 5.
In Pd XXXIII 59 Qual è colui che sognando vede, / che dopo 'l sogno la passione impressa / rimane, e l'altro a la mente non riede, il termine designa quel che l'animo ha sentito o patito, e cioè ciò che in esso è stato suscitato da un'esperienza e che permane anche quando non è possibile ricordare ciò che l'ha causata. La passione, nel momento in cui interessa l'individuo, è detta presente (Cv III VIII 9).
In Rime LXVII 61 la mia persona pargola sostenne / una passïon nova, p. indica amore, " un'impressione sensibile prima sconosciuta " (Contini); cfr. Vn II 10. In Rime dubbie XXIX 11 amore è definito passione in disianza. Cfr. anche If XXXI 72 quand'ira o altra passïon ti tocca.
In If XX 30 Ancor se' tu de li altri sciocchi? / Qui vive la pietà quand'è ben morta; / chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin passion comporta?, il termine è variamente inteso, a seconda che si riferisca la condanna di Virgilio (vv. 29-30) a D. o agl'indovini, i dannati puniti nella quarta bolgia, sul cui ciglio si trovano il poeta e il suo duca. La difficoltà dell'interpretazione del passo è anche dovuta all'incertezza della lezione: passion porta / compassion porta / passion comporta. Il Petrocchi legge passion comporta e (Introduzione 181) intende la frase di Virgilio come riferita agl'indovini. Quanto all'interpretazione, il Petrocchi, premesso che " non è compito dell'editore " offrire una spiegazione della parola, rimanda al Parodi (" Bull. " XX [1913] 154-155), al commento del Vandelli e al Cicchitto (Postille bonaventuriane dantesche, Roma 1940). Ora, secondo il Parodi, i vv. 29-30 definiscono la colpa degl'indovini " che s'arrogano di penetrare gli arcani del futuro usurpando ciò che Dio ha riserbato per se stesso ", ovvero " che al giudizio di Dio apportano sofferenza, o propriamente perturbazione ". A questa interpretazione si affianca quella del Comparetti (Virgilio nel Medio Evo, Firenze 1943², I 267-269), del Vandelli, Rossi, Momigliano, Chimenz, la quale si può così riassumere: " chi è più scellerato di colui che tollera (comporta: cfr. Pd XXIX 88 si comporta) e, quindi, presume, come fa appunto l'indovino, una condizione di passività (passion: ‛ modificazione passiva ', nel senso più generale del greco πάθος e del lat. passio) per il giudizio di Dio, che è attività per essenza? ". Leggermente diversa la parafrasi del Cicchitto: " chi più scellerato di colui che si rivolge a usurpare divinum officium, illudendosi di potere per se ipsum praescire certitudinaliter futura contingentia? ". Il Pagliaro (Ulisse 614-615) accetta la tesi del Comparetti, aggiungendo che " per il significato di comporta... occorre assumere una tensione espressiva... la quale bene si adatta alla concitazione del discorso (parallela alla concisione imposta dalla terza rima, nella quale si chiude il processo del pensiero) ". Diversamente, il Casini (" Bull. " IX [1902] 58-61), il Del Lungo, il Pietrobono, pur con qualche sfumatura diversa, danno questa parafrasi: " chi è più scellerato di colui che nella estimazione dei giudizi divini porta passione di affetti umani? ". Infine, secondo il Filomusi Guelfi (Nuovi studi su D., Città di Castello 1911, 185-195), Virgilio si riferisce agl'indovini, in quanto " attribuiscono le passioni umane al consiglio di Dio ". Al contrario, gli antichi commentatori (Ottimo, Guido da Pisa, Benvenuto, Buti, Landino, Daniello), cui vanno aggiunti molti degl'interpreti moderni (D'Ovidio, Studii sulla D.C., Milano 1901, 108-110; Rambaldi, Il canto XX dell'Inferno, Mantova 1904, 19-42; Barbi, Problemi I 272; il Torraca; il Porena; il Caccia, Il canto XX dell'Inferno, Firenze 1961, 18-22), riferiscono la condanna di Virgilio a " colui che prova pietà per la pena assegnata da Dio ai peccatori dannati " e, quindi, a D. stesso, che, al vedere la figura umana orribilmente stravolta nei peccatori della quarta bolgia, è stato colto da un moto di pianto: cioè passion, quando non è addirittura corretto in compassion, avrebbe il significato, unico nell'uso dantesco del termine, di " compassione ", secondo un'accezione presente nel volgare antico. D'altro canto, il Venturi, il Lombardi, il Cesari e, fra i più moderni, il Mattalia, pur scorgendo nelle parole di Virgilio un rimprovero a D., che continua quello dei vv. 27-28, non intendono passion come " compassione ", ma come " dispiacere ", " sofferenza ", " incontrollate reazioni affettive " di fronte al giudizio di Dio. Mentre secondo l'interpretazione del Parodi, del Comparetti, del Cicchitto, ecc., la condanna, da parte di Virgilio, della pietà di D. (Qui vive la pietà quand'è ben morta, If XX 28) si riferisce solo alla compassione provata da questo di fronte agl'indovini, secondo la spiegazione del D'Ovidio, del Rambaldi, del Barbi, ecc., la reprimenda di Virgilio potrebb'essere intesa come un'esclusione della pietà o per tutti i dannati, ovvero per quelli puniti in Malebolge, o, ancora, per i soli indovini, a seconda del significato che si attribuisce al Qui del v. 28. Per tutto questo problema della pietà di D. per i dannati e le loro pene, v. PIETA'.