pasta
L’alimento italiano per eccellenza
La pasta è un alimento ottenuto dalla macinazione del grano e costituisce un elemento essenziale dell’alimentazione italiana. La sua storia ha origini molto antiche. È difficile stabilire chi l’abbia inventata: già conosciuta dai Greci, fu dimenticata con la caduta dell’Impero Romano e riscoperta grazie agli Arabi e ai Cinesi. Può essere sia secca sia fresca, a seconda del contenuto d’acqua lasciato nell’impasto. È solo da qualche secolo che viene condita con il pomodoro
La pasta viene ottenuta mescolando la semola (una farina ottenuta macinando grossolanamente il grano) e l’acqua, insieme a una piccola quantità di sale. Una storia molto suggestiva vuole che la pasta sia stata inventata dai Cinesi e portata in Europa da Marco Polo nel 1295, al suo ritorno dall’impero del Gran Khan. È molto probabile che anche i Cinesi facessero uso della pasta nella loro tradizione culinaria, ma è storicamente provato che questa ha origini ancora più antiche, che affondano le loro radici nella tradizione mediterranea.
È molto difficile stabilire quale popolo abbia inventato la pasta. Se nei primi millenni a.C. si hanno solo prove dell’esistenza del pane o delle focacce cotti su pietre roventi o in forni primordiali, quelle della pasta vanno cercate nella civiltà persiana e, soprattutto, in quella greca.
Ne parla per primo, nel 5° secolo a.C., il commediografo Aristofane, che in una delle sue commedie descrive un tipo di pasta simile agli attuali ravioli. Tracce dell’uso della pasta si hanno tra gli Etruschi: in una tomba di Cerveteri sono riprodotti strumenti da cucina, molto simili a quelli odierni, necessari per preparare i ravioli. Le testimonianze si moltiplicano con i Romani. Molti autori parlano, nelle loro opere, delle lagane, strisce di pasta più o meno larghe che spesso contenevano farciture a base di verdure: le citano Orazio e Terenzio Varrone, nel 1° secolo a.C., e poi Apicio, uno dei più antichi compilatori di ricette gastronomiche, nel 1° secolo d.C.
La tradizione della pasta sembra poi scomparire per alcuni secoli: è probabile che gli scrittori e i cronisti del tardo Impero Romano non tenessero in particolare conto gli usi e le abitudini alimentari quotidiane, ma è anche vero che, con la caduta dell’Impero, l’economia in generale, e quella agricola in particolare, entrarono in un periodo di crisi. Meno raccolti produssero meno grano e quindi meno pane e pasta. Questa però ricomparve in Africa settentrionale, già sotto l’influsso della civiltà araba, nel 9° secolo, nella nuova veste di pasta secca (esposta cioè al calore al termine della preparazione, in modo da ridurre il contenuto d’acqua e permetterne una più lunga conservazione), mentre fino ad allora la pasta era unicamente mangiata fresca. Quest’ultima restò però di gran lunga la più prodotta, almeno fino a quando, nel 19° secolo, anche la pasta non diventò un prodotto industriale, preparato per essere conservato a lungo.
In uno dei primi libri di cucina arrivati fino ai nostri giorni, il De arte coquinaria (in latino «L’arte di cucinare»), risalente all’incirca all’anno Mille, Martino Corno, cuoco del patriarca di Aquileia, descrive la prima ricetta a base di pasta, importata dalla Sicilia. Furono gli Arabi a diffondere l’uso della pasta nel Mediterraneo e in Sicilia. L’isola, per molti decenni, rimase sotto il dominio arabo e poi diventò possesso normanno. Le sue pianure producevano grandi quantità di grano e di cereali, materia prima per ottenere farina. L’introduzione dei mulini facilitò questa trasformazione e, di conseguenza, una produzione abbondante di pasta. Lo storico arabo al-Idrisi, nel 1154, descrive con molti dettagli i dintorni di Palermo e parla di una località – Travia – in cui erano in attività molti mulini e dove i pastai realizzavano pasta a forma di fili (tria), forse i primi spaghetti. Sul finire del 12° secolo quella della pasta era divenuta una vera e propria industria: molti scritti dell’epoca testimoniano che navi cariche di pasta partivano dalle coste della Sicilia occidentale dirette verso l’Italia meridionale, la Sardegna, l’alto Tirreno e la Provenza.
Fu solo nel 1295, secondo la tradizione, che Marco Polo fece scoprire la pasta agli Occidentali, dopo averla mangiata in Cina, e già agli inizi del 14° secolo si hanno testimonianze di pastifici a Genova. Fino alla fine del Cinquecento, comunque – nonostante la floridezza di alcuni centri produttivi, come la Sicilia, la Liguria e la Campania –, il consumo di pasta non si diffuse tra le classi povere anche per il suo costo allora elevato. Solo nel 17° secolo, con la diffusione della gramola – uno strumento che rende morbida e omogenea la pasta – e l’invenzione del torchio meccanico, la produzione si fece abbondante, i prezzi calarono e il consumo aumentò in modo considerevole. In questo periodo sorsero numerosi pastifici nell’area napoletana, dove le condizioni climatiche, con aria secca e ventilata, permisero abbondanti produzioni di pasta secca. Fino a quel momento la pasta era sempre abbinata a verdure e soprattutto a formaggio: al più, nelle case dei ceti ricchi, faceva da contenitore a farciture di carne e verdure, come gli attuali ravioli. Spesso poi veniva servita in abbinamenti agrodolci.
Nella prima metà del Seicento avvenne la grande rivoluzione: nell’area napoletana, sotto il dominio spagnolo, furono introdotti i pomodori, da pochi decenni portati in Europa dal Nuovo Mondo. Fu una rivoluzione lenta ma progressiva. Per molto tempo, infatti, il pomodoro fu visto con sospetto e utilizzato solo come pianta ornamentale. Superati timori e superstizioni – si pensava che i suoi frutti fossero velenosi –, l’abbinamento con la pasta fu quasi naturale e così travolgente che divenne il piatto di base per le popolazioni di umile condizione, dato il suo basso costo. L’area napoletana superò rapidamente, per produzione e consumi, quella siciliana. Il nuovo piatto, però, non entrò subito nelle sale da pranzo delle famiglie nobili: per lungo tempo, infatti, la pasta, nelle sue nuove forme, era mangiata con le mani e venduta agli angoli di strada da venditori ambulanti, già allora forniti di carrettini, che portavano grandi pentole fumanti e condite. La pasta era servita per pochi soldi su pezzi di carta e mangiata per strada. Solo all’inizio del Settecento anche i nobili si avvicinarono al nuovo piatto, non per il superamento di antiche diffidenze ma perché nel frattempo era stato inventato – meglio sarebbe dire reinventato e migliorato – uno strumento essenziale per mangiare la pasta: la forchetta. Già conosciuta da alcuni secoli, fino allora aveva solo due rebbi: l’idea di portarli a quattro venne, secondo la tradizione, a un ciambellano della corte del Regno di Napoli, Gennaro Spadaccini. Il successo fu immediato e presto, dalla corte partenopea, la ‘moda’ si diffuse in Italia e nel resto d’Europa.
Nei due secoli successivi la pasta ha registrato miglioramenti nella produzione, prima con macchine idrauliche, poi a vapore, quindi elettriche, infine computerizzate. La tradizione pastaia è però rimasta solidamente italiana. Se l’area storica rimane quella campana, altre grandi aziende produttrici sono tuttora attive in Emilia-Romagna e nel Centro-Sud, mentre la secolare e diffusa tradizione ligure si è persa quasi del tutto e oggi registra un unico importante centro produttivo a Imperia. Gli Italiani restano inoltre i maggiori consumatori di pasta, in genere condita con pomodoro o sughi a base di diversi ingredienti, ma anche cotta nel brodo. Non a caso, fin dal Settecento, il nomignolo di ‘mangiatori di pasta’ era affibbiato ai popolani napoletani, e in epoche più recenti l’epiteto – poco glorioso, per la verità – di macaroni (da maccheroni, nome generico di ogni tipo di pasta) ha identificato migliaia di emigranti italiani nel mondo.
Il consumo di pasta, insieme a quello di verdura e frutta, è alla base della dieta mediterranea, ‘scoperta’ dagli Americani negli anni Settanta, ed è divenuto un modello mondiale di corretta alimentazione, perché fornisce in modo equilibrato carboidrati – e quindi zuccheri complessi facilmente fruibili dal corpo umano –, vitamine e sali minerali, mentre è minimo l’apporto di grassi e di proteine animali. Sempre che non se ne faccia un consumo eccessivo o scorretto, ovviamente.