PASTORINI, Pastorino
PASTORINI, Pastorino. – Nacque verso il 1508 a Castelnuovo Berardenga (borgo chiantigiano della Repubblica di Siena) da Giovanni Michele d’Andrea Pastorini, calzolaio emigrato dal Ponte di Pontremoli e dalla seconda moglie Francesca di Lorenzo (Milanesi, 1879).
Negli anni Venti svolse la formazione di pittore e maestro vetraio ad Arezzo con Guillaume de Marcillat (nel 1528 risulta suo «garzone»; Mancini, 1909), che volle lasciargli in eredità «i vetri e le masserizie da lavorare et i suoi disegni» (Vasari, 1550 e 1568, IV, 1976, p. 229; nonché il testamento del 30 luglio 1529, con il quale Marcillat impegnò peraltro l’«eius famulus» Pastorino e Stagio Sassoli a completare la doratura di una pala destinata a S. Francesco: Milanesi, 1859, p. 152). In seguito rientrò a Siena per dare prova dell’abilità di maestro vetraio nel cantiere del duomo, guidato nei primi anni Trenta da Baldassarre Peruzzi.
Eseguì una finestra con l’immagine di S. Ansano per la sagrestia (1531), i decori in vetro e oro del fregio del pulpito di Nicola Pisano (1532), il restauro delle finestre della navata e del coro (1533; E. Carli, in Landi, 1655 circa, 1992, p. 134 n. 43; Butzek, 2006, pp. 185 s.); iniziò pure la vetrata per il finestrone della nuova abside (mai realizzata perché l’apertura fu subito tamponata per ragioni strutturali; Fattorini, 2010, p. 15). In previsione del soggiorno senese di Carlo V, nel 1536 lavorò alle «invetriate del palazzo» che lo avrebbe accolto (Milanesi, 1856, p. 193; Borghesi - Banchi, 1898, p. 401; Moscadelli, 1990, pp. 695 nn. 181-183, 711 n. 98) e nel luglio dello stesso anno fu pagato per un paio di «drappelloni colle palle», per «l’arme di papa Pio» e vari «acconcimi» al carro delle celebrazioni dell’Assunta (Milanesi, 1856, p. 193); frattanto l’11 maggio fu saldato per avere dipinto nel chiostro dell’abbazia di Monteoliveto Maggiore (Borghesi - Banchi, 1898, p. 600). Nel 1537, ancora per il duomo, realizzò una finestra accanto all’organo nuovo e «racconciò» due angeli di vetro (Milanesi, 1856, pp. 193 s.; Butzek, 2006, p. 187).
Negli anni successivi fu nella Roma di Paolo III: nel 1538, come «Pasturino pittore», ebbe un pagamento «per scatulette per mettere lì le medaglie che fa per sua Santità» (Attwood, 2003, p. 243), che segna la più antica attestazione dell’attività cui il senese deve la celebrità. Alla sua mano, infatti, si possono assegnare oltre duecento medaglie, spesso firmate con l’iniziale ‘P’, che lo rendono il più prolifico medaglista italiano del Cinquecento (si veda il repertorio di Toderi - Vannel, 2000, pur con alcuni casi di cronologia e attribuzione da ridiscutere). Il nucleo più antico si associa con un’attività romana prolungatasi fino al 1547 e che lo vide ritrarre anche Tiziano (Attwood, 2003, pp. 243, 248 n. 471; Toderi - Vannel, 2000, pp. 584-592, con riferimento pure ad alcuni pezzi segnati con un monogramma equivocato per sigla giovanile di Pastorino, ma da riferire probabilmente a Tommaso d’Antonio Perugino: Hill, 1920, 1978, p. 90; Attwood, 2003, p. 377).
Dal settembre 1541 fu coinvolto nel prestigioso cantiere della sala Regia del Vaticano diretto da Perin del Vaga. Su disegni di quest’ultimo eseguì le vetrate delle finestre (Vasari, 1550 e 1568, 1974, V, p. 152), lavorate in Belvedere fin dal 1542 con il fratello Guido e l’assistente Niccolò e compiute nel giugno 1545, in parallelo con la decorazione in stucco della volta (Bertolotti, 1878, pp. 181, 188-190; Müntz, 1884, pp. 328 s.). Rimosse nel Seicento, le vetrate dovevano essere ornate a grottesche, come potrebbero testimoniare alcuni disegni di ambito perinesco (Davidson, 1976, pp. 407-411; Parma Armani, 1986, p. 330).
Per volontà di Paolo III, tra il 1546 e il 1548 restaurò quindi le finestre della chiesa di S. Marco (Bertolotti, 1878, pp. 200 s.), lavorò a quelle della residenza del sacrista in Vaticano e a «un quadro di vetro per la lettica dell’eccellentissima signora duchessa d’Urbino» (Müntz, 1884, pp. 329 s.).
Rientrato a Siena, nel 1548 vendette gli immobili di Castelnuovo Berardenga, perché ormai abitava in città, nella zona di Salicotto, (Romagnoli, ante 1835, 1976, pp. 539-541). In marzo era già impegnato a restaurare le vetrate della cattedrale ed entro i primi mesi del 1550 eseguì tre nuove finestre (per la sagrestia, per l’altare di S. Sebastiano e per i cantori; Butzek, 2006, p. 188). Frattanto nel gennaio 1549 aveva lavorato alla finestra della sagrestia della Compagnia di S. Giovanni Battista della Morte (Borghesi - Banchi, 1898, p. 568) e il successivo 7 febbraio aveva ottenuto la commissione della grande vetrata circolare della facciata del duomo, completata nel 1552, dopo che, per inadempienza, era stato imprigionato nel corso del 1551 (Milanesi, 1856, pp. 189 s., 192; Borghesi - Banchi, 1898, p. 600; Landi, 1655 circa, 1992, pp. 57, 135-136 n. 45).
Corredata della firma dell’autore, dell’arme dell’operaio Azzolino Cerretani e delle insegne civiche, la grande vetrata è ancora al suo posto: illustra una scenografica versione dell’Ultima Cena chiusa sul fondo da un monumentale porticato ‘all’antica’, lasciando intendere quanto l’allievo di Marcillat avesse saputo crescere nella Roma farnesiana. Sorprende lo scarso interesse riservatole dalla storiografia artistica novecentesca (per es., Marchini, 1956, p. 55), quando in passato fu giudicata tanto bella da sembrare dipinta dal Sodoma (Della Valle, 1786, p. 336) e come «la più sublime e vasta delle pitture in vetro che sia al mondo» (Romagnoli, ante 1835, p. 541, che la voleva tratta da un cartone di Perin del Vaga: ibid., pp. 544-553).
Il 20 dicembre 1549 aveva inoltre ottenuto dagli ufficiali della Mercanzia l’incarico di decorare con stucchi e affreschi le tre volte della loro loggia presso piazza del Campo; nel maggio 1552 aveva ultimato soltanto la prima volta a sinistra, e pertanto fu nuovamente incarcerato e obbligato ad abbandonare la commissione, che sarebbe passata a Lorenzo Rustici (Milanesi, 1856, pp. 190 s.).
Nonostante la presenza di ridipinture, la volta – restaurata nel 2012 – conserva ancora un apparato di stucchi e grottesche aggiornatissimo sulla ‘maniera’ romana dei suoi tempi (Acidini Luchinat, 1978, pp. 10-13, dove si assegna a Pastorino pure la volta mediana, prontamente restituita a Rustici da Fiorella Sricchia Santoro, 1980).
A tali anni senesi risalgono anche diverse medaglie (Toderi - Vannel, 2000, pp. 592-603) nelle quali effigiò tra gli altri Girolamo Spannocchi (1548), il novelliere Pietro Fortini e un buon numero di gentildonne (tra queste è la medaglia di Tullia Tolomei che nel 1551 tanto piacque al «Trappolino» durante una visita alla bottega del maestro; Bottari - Ticozzi, 1822; Attwood, 2003, p. 251).
Abbandonata l’impresa della loggia della Mercanzia, Pastorino lasciò Siena (dove rimase il fratello Guido, impegnato nel 1553 nella certosa di Pontignano; Borghesi - Banchi 1898, p. 601) e si trasferì in Emilia per dedicarsi soprattutto alla coniazione di monete e medaglie (che da questo momento iniziano a distinguersi dalle precedenti per le maggiori dimensioni, la presenza del bordo perlinato e il ricorrere della data e della sigla ‘P’; Hill, 1920, 1978, p. 86) e all’esecuzione di piccoli ritratti in stucco policromo: un’attività che gli valse le lodi di Giorgio Vasari (1550 e 1568, IV, 1976, p. 630; di cui ritrasse la moglie Nicolosa Bacci in una medaglia del 1555: Toderi - Vannel 2000, p. 609 n. 1870) e di Ulisse Aldrovandi (Daninos, 2008, p. 95 nota 4). La prima tappa fu Parma, dove giunse probabilmente tramite lo zecchiere senese Angelo Fraschini e lavorò nel 1552 per Ottavio Farnese, cui volle donare due ritrattini in stucco policromo, l’uno dello stesso duca e l’altro del suo luogotenente Paolo Vitelli (Ronchini, 1870; Milanesi, 1879, p. 437); al nome di Pastorini si accosta peraltro un piccolo busto bronzeo di Ottavio Farnese al Metropolitan Museum di New York (Goldsmith Phillips - Raggio, 1954).
Nel 1553 passò al servizio di Ercole II d’Este, andando a coniare nella vicina Reggio Emilia, dove ebbe peraltro a difendersi dall’infondata accusa di avere falsificato monete e insegnò il mestiere a Niccolò Signoretti e Alfonso Ruspagiari; al periodo reggiano, che si prolungò entro il 1554, risalgono le medaglie di Alfonso Tassoni e Francesco Parolari (Rossi, 1888; Malaguzzi Valeri, 1892; Toderi - Vannel 2000, pp. 604, 608 nn. 1844, 1864).
Nel 1554, per volontà del duca Ercole, ebbe l’incarico di maestro della zecca di Ferrara (Cittadella, 1864; portano la ‘P’ alcune monete del 1558 e 1559; Corpus nummorum, 1927), città in cui si sarebbe stabilito per un paio di decenni, producendo un buon numero di medaglie (Gruyer, 1897, pp. 672-690; Boccolari, 1987; Toderi - Vannel 2000, pp. 602-631; Attwood, 2003, pp. 244 s.). Tra i molti personaggi effigiati si ricordano lo stesso Ercole d’Este (1554), le figlie Lucrezia ed Eleonora (1552), il loro fratello Alfonso (erede del Ducato nel 1559) e altri personaggi che ebbero a che fare con la corte, inclusi l’inglese Edward Courtenay e diverse autorità francesi.
Durante il lungo soggiorno emiliano seppe mantenere relazioni con la Toscana, approfittando dei rapporti tra le corti estensi e medicee: nel 1558 eseguì infatti la medaglia di Lucrezia de’ Medici, sorella di Francesco, in occasione delle nozze con Alfonso II d’Este (Langedijk, 1980; Avery, 1983). Entro il 30 settembre 1559 sottopose quindi «dua medaglie per monete per la zecha di Siena» all’attenzione di Vasari che, valutandole positivamente, suggerì a Cosimo de’ Medici di incaricarlo di fare «duo madri da coniare» (Frey, 1923). La medaglia di Francesco de’ Medici datata 1560 ha fatto pensare a un passaggio fiorentino del maestro giusto in quell’anno (Attwood, 2003, pp. 244, 270 s.), cui risale peraltro la Graticola di Bologna che Pietro Lamo (1560) scrisse per commissione di Pastorino. Di una breve e successiva attività mantovana, connessa con il matrimonio tra Guglielmo Gonzaga ed Eleonora d’Austria nel 1561, dovrebbero testimoniare alcune medaglie gonzaghesche, comprese quelle celebrative delle nuova coppia ducale (Magnaguti, 1921; Attwood, 1994, p. 180; Id., 2003, pp. 244 s., 271 s.), così come un ritratto in cera di Eleonora d’Austria datato 1561 (Pollard, 2007, pp. 382, 388).
Ulteriori notizie sul periodo padano vengono da quattro lettere inviate a Francesco de’ Medici da Bernardo Canigiani, residente fiorentino a Ferrara (Milanesi, 1879, p. 438 n. 1; Borghesi - Banchi, 1898, pp. 568 s., 601), che il 14 maggio 1565 scriveva di un ritratto di Alfonso II «di stucco colorito […] di mano di Pasturino senese assai ben fatto» che era stato inviato alla corte imperiale come dono per la futura sposa Barbara d’Austria, e allegava a Francesco una medaglia del senese che, a suo dire, «cangerebbe volentieri il Po coll’Arno» (ma a Ferrara Pastorino troppo male non doveva stare, dato che risiedeva nella delizia di Belvedere; Cittadella, 1868). Così tuttavia non fu, se il 13 ottobre 1572 Canigiani tornò a farsi portavoce del desiderio del maestro, allora a Bologna (potrebbe risalire a questo soggiorno l’esecuzione di un ritratto in cera di una giovane amata dal pittore Francesco Cavazzoni, che con il Pastorino e altri fu tra gli artisti orbitanti intorno al naturalista Ulisse Aldrovandi; Ferrari, 2010). Ribadito il successivo 20 ottobre che Pastorini valeva molto essenzialmente nei «ritratti di stucco coloriti del naturale, dove egli imita molto bene ogni cosa», Canigiani il 20 novembre avrebbe poi scritto al suo signore di avere dato al senese «commiato ordinario, con buona licenza di andare a servire chi gli piaceva». Così il maestro passò a coniare monete a Novellara, come lascia intendere una lettera del 31 marzo 1574 dello zecchiere Giovanni Antonio Signoretti (Campori, 1855, pp. 348 s.); oltre ad alcune monete perdute, risalgono al tempo novellarese le medaglie dei conti Camillo e Alfonso Gonzaga (Attwood, 1994, p. 177; Id., 2003, p. 245).
Pastorino riuscì finalmente a trasferirsi a Firenze al servizio del granduca Francesco I entro il 1576: anno cui risale l’effigie del granduca nella medaglia in vetro e argento di Francesco I e Giovanna d’Austria del Museo del Bargello (Supino, 1899, p. 124 n. 343; Toderi - Vannel 2000, p. 632 n. 1983), e a partire dal quale egli risulta tra gli stipendiati di corte come maestro di stucchi, con il salario di 10 ducati al mese (dimezzato nel 1589 per l’età; Borghesi - Banchi 1898, p. 601).
Nella capitale medicea realizzò pure una vetrata per Palazzo Vecchio, dedicandosi tuttavia soprattutto all’attività di ritrattista nelle tecniche predilette; lo confermano il ricordo di «due ritratti in stucco colorito in scatolino a don Giovanni di Mendoza» (Milanesi, 1879, p. 438), una bella lettera del 10 maggio 1584 inviata alla duchessa di Mantova Eleonora de’ Medici (cui aveva fatto il ritratto; Bertolotti 1885, p. 157), una serie di medaglie medicee (Toderi - Vannel 2000, pp. 630-634) e, sempre al Bargello, due deliziosi ritratti di Francesco I, rispettivamente in cera e porcellana bianca (quest’ultimo siglato e datato 1585; Berti, 1967; Acidini Luchinat, 1978, pp. 13 s., 25 nn. 35-36).
Morì a Firenze ai primi di dicembre del 1592; il 6 dicembre fu sepolto in S. Maria Maggiore, dove il 27 luglio era stato inumato anche il fratello Guido (Borghesi - Banchi, 1898, p. 601).
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