Patologia sperimentale
di Massimo Aloisi
Patologia sperimentale
sommario: 1. Introduzione: a) Generalità e cenni storici. b) Sviluppo delle discipline biologiche. 2. Fondamenti tecnici e metodologici. 3. La problematicità e le principali linee di sviluppo della moderna patologia. a) Evoluzione e critica del concetto virchowiano di patologia cellulare. b) I problemi della moderna patologia cellulare sperimentale. c) I problemi della flogosi. d) La patologia generale delle infezioni. e) Il problema della febbre. f) I tumori. g) L'immunopatologia. h) La senescenza. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) Generalità e cenni storici
Il procedere delle conoscenze e il successo via via crescente dei risultati sperimentali della biologia nel senso più generale, e quindi della patologia e della medicina, appaiono chiaramente oggi come il vertiginoso dispiegamento di un nucleo, estensivamente anche abbastanza ristretto, di fatti-teorie, come uno spazio illimitato nelle sue dimensioni che si apre al di là di un singolo punto. Tale punto è il luogo d'arrivo di una molteplicità di traiettorie isolate corrispondenti a tutta una ricerca preparatoria disseminata e spesso confusa svolta nei due secoli che ci hanno preceduto, zona di condensazione di tutta una sperimentazione che aveva a lungo stentato a prendere peso in senso galileiano.
Naturalmente in questa situazione diviene difficile sfuggire all'ingenua suggestione di cercare l'evento esplosivo in una o nell'altra linea di ricerca. Una riflessione appena ponderata fa subito individuare le molte radici di quel punto singolo e rintracciare nelle grandi sperimentazioni del XIX secolo l'humus per la portentosa vegetazione di oggi, e nelle appassionate discussioni di quel secolo, nonostante le reminiscenze delle vecchie metafisiche, la semente per la fiducia moderna (talora anche ridondante) nel lavoro da compiere.
Ma nonostante il ritardo comprensibile - e comunque storicamente dato - della biologia rispetto ad altre scienze sperimentali, anche il XIX secolo in capo al quale si è arrivati al nostro punto di svolta, non è concepibile senza la gestazione delle grandi isolate scoperte del secolo precedente, derivanti dall'aprirsi alla mentalità galileiana, copernicana e harveyana di biologi e fisiologi. E mentre un Lazzaro Spallanzani procedeva con un costante sforzo di aderenza alla netta logica della sperimentazione, altri, pur insigni sperimentatori come il suo contraddittore John T. Needham, rimanevano largamente irretiti nei viticci della scolastica.
Il cammino è dunque stato faticoso e contrastato, specie nel settore meno ‛progressista', quale spesso è quello della medicina, e la fatica e i contrasti sono lungamente proseguiti per tutto il XIX secolo. Certo, i problemi posti dalla biologia e dalla medicina hanno sempre sollevato una molteplicità di complicazioni atte a frenare il semplice trionfo della logica sperimentale: innanzitutto vi è la complicazione del complicato, poiché l'oggetto dello studio è riducibile a un esame semplice e settoriale solo con un impegno centrifugo quasi ingenuo del ricercatore; inoltre si affacciano subito le implicazioni ideologiche e teologiche che hanno assai minor rilievo in altri campi dello studio naturalistico; infine gli interessi non scientifici, accademici ed economico-sociali, quali intervengono con le derivazioni più propriamente mediche, hanno largamente influito in modo negativo attraverso il potere loro proprio.
Tutto ciò non è solo valido per il XVIII secolo, ma anzi lo è particolarmente e paradossalmente anche per il secolo successivo, pur così ricco di premesse per l'attuale ‛liberazione'. Un confronto fra le varie scienze è in questo senso molto utile; si pensi alle seguenti date, che aprono e chiudono archi di vite in parte coesistenti: E. Mach, 1838-1916; H. A. E. Driesch, 1867-1941; A. Einstein, 1879-1955. Naturalmente il confronto è qui chiaramente polemico: vuoi solo mostrare che il pensiero di Mach e di Einstein in fisica coesisteva col pensiero di Driesch in biologia; Driesch non è stato un grandissimo biologo, ma i suoi esperimenti e le sue conclusioni concettuali neovitalistiche hanno avuto una suggestione e un'eco formidabili fino a poco tempo fa, mentre fin dall'origine erano quanto di più lontano dal ragionare di un Mach o di un Einstein.
Soddisfatta così la polemica, dobbiamo subito riconoscere che una generazione addirittura precedente il Driesch aveva però fornito scienziati del calibro di Cl. Bernard (1813-1878), di H. L. F. Helmholtz (1821-1894) e di L. Pasteur (1822-1895) e che nel 1828 F. Wöhler aveva già sintetizzato l'urea (ma è vero che Pasteur e Wöhler erano chimici e che Helmholtz era anche fisico).
Il XIX secolo è dunque stato in ogni modo una premessa molto ricca per gli sviluppi attuali della biologia e della patologia, sia sul terreno delle acquisizioni fattuali, sia su quello delle discussioni teoretiche; le due grandi scoperte del XX secolo, la biologia (e la patologia) molecolare e la cibernetica biologica, sono gli approdi attuali che meno debbono alle premesse ottocentesche e tuttavia vi sono legati dalla rete delle discussioni teoretiche che ebbero inizio nel secolo precedente e rappresentano la risposta definitiva, anche se tuttora ingenua e ignara delle implicazioni trascendenti, al vitalismo vecchio e nuovo.
Sul terreno delle grandi teorie il XIX secolo è un secolo regale: vi nascono la teoria cellulare, le teorie dell'evoluzione, la patologia cellulare, la teoria del mezzo interno, lo strutturalismo nelle grandi divisioni dei viventi, le teorie genetiche, la dottrina delle infezioni (con la definitiva liquidazione di quella della generazione spontanea) e della immunità. Alla fine del secolo si affaccia anche, con la poderosa figura di P. Ehrlich, la dottrina della terapia chimico-specifica, la quale - a parte la mediazione interpreta tiva che è sempre storicamente mutevole - è concettualmente pura biologia molecolare.
Attraverso i precursori ‛globularisti' e poi H.-J. Dutrochet (1824) e M. J. Schleiden (1837, data di alcune sue comunicazioni personali con Th. Schwann sulla struttura ‛cellulare' dei vegetali) la ‛teoria cellulare' prese con Schwann (1839) una forma più scientifica e cioè più lontana dal vitalismo e dal teleologismo superficiale allora imperante. Essa fu un colpo di timone rigoroso e decisivo per ancorare la ricerca biologica e quella delle deviazioni patologiche a uno strutturalismo quanto più possibile comune a tutti i viventi e per il quale la ‛comparazione' (si ricordi quale pregnanza essa ebbe nel secolo del darwinismo) era via via scomponibile, e al limite anche vanificabile, nelle determinazioni cellulari dei viventi e dava origine per ciò stesso a una biologia generale e quindi a una fisiologia generale, la quale infatti, iniziata da Bernard, fu codificata in un trattato specifico, alla fine del secolo, da M. Verworn. Giustamente V. Cappelletti definisce la teoria cellulare ‟un'assiomatica per la biologia", che con R. Virchow divenne immediatamente tale anche per la patologia.
Naturalmente ciò non avvenne senza contrasti e senza implicazioni ideologiche le cui deficienze matureranno in seguito e saranno appunto oggetto di revisioni critiche più consapevoli nel nostro tempo; ma la linea di fondo che nel campo della patologia prese inizio dal Virchow come ‛patologia cellulare' si esplicita oggi nella ‛patologia molecolare', la quale insieme sviluppa e annichilisce l'idea virchowiana.
La parte di ragione che avevano gli umoralisti alla K. Rokitansky (1842), anche malamente sostenuta, era impotente di fronte alla formidabile suggestione della risolvibilità interpretativa dei fenomeni patologici macroscopicamente osservabili nella deviazione funzionale delle cellule degli organi colpiti (cfr. Morgagni), deviazione funzionale che era di regola accompagnata da tutta una semantica morfologica. La filosofia idealistica di Rokitansky bene si attagliava alla sua credenza dell'origine di cellule da materiale non cellulare (blastema), mentre il ‛materialismo' virchowiano era tutt'uno con l'esigenza di rimanere legati strettamente ai fatti osservabili, di rispettare gli assiomi che la lunga esperienza non aveva ancora contraddetto. Del resto prima della metà del secolo i Rapports e la Lettre à M. Fauriel sur les causes premières di P.-J.-G. Cabanis erano arrivati già all'ottava edizione.
Così la patologia cellulare diviene un rapporto del fisico (nel senso di morfologico) col fisiologico ed è per questo che con Virchow e con i suoi discepoli la patologia, in quanto disciplina sperimentale, divenne un modo di scoprire e di capire la biologia e la fisiologia (v. Cappelletti, 1965, pp. 27 ss.).
Queste interazioni erano anche il risultato di una implicita coerenza logica tutta interna - come in Bernard - al programma sperimentale e culturale del Virchow (v. Ackerknecht, 1953).
Ma già i grandi allievi di Johannes Müller (per es. E. Du Bois-Reymond) e quelli stessi di Virchow (per es. J. F. Cohnheim) accentuavano piuttosto l'aspetto fenomenologico, dinamico delle osservazioni microscopiche, realizzando così fin da allora la dialettica fra i due poli della ricerca biologica; dialettica che si espliciterà sempre più nel corso successivo della storia, divenendo talora inutilmente aspra e settaria.
L'equipotenza dei due termini della dialettica fu affidata dalla sorte alla grande personalità scientifica di Bernard, il quale, come fisiologo del milieu intérieur, andava ben oltre il rapporto struttura-funzione (che già viveva, per es., nell'insegnamento di F. X. Bichat, cui era già chiaro il rapporto tra fisiologia e patologia), ma direttamente poneva il rapporto organo-organismo (anche questo intravisto dal Bichat), spostando l'indice a favore dell'unità organismica realizzantesi appunto nel mezzo interno e individuando sempre più l'organismo di contro all'ambiente esterno.
È quindi con Bernard che nasce la fisiologia organismica, e nasce con un implicita (non voluta) polemica verso il ‛cellulismo' o la ‛cellularità' dei fenomeni, e con una franca apertura invece verso il correlazionismo organismico; ed è solo alla vigilia della pubblicazione della famosa Introduction (1865) che va via via assimilando il rapporto tra mezzo interno e vita cellulare (v. Grmek, 1967), onde il concetto di organismo (che maturerà pienamente solo al principio del 1900) acquista in lui una concretezza maggiore.
Ma non vi è dubbio che con l'introduzione sul proscenio dell'attività scientifica del milieu intérieur, Bernard realizzava altri due passi di decisiva importanza per il futuro della fisiologia, della medicina sperimentale e della pratica terapeutica: la moderna biocibernetica si fonda sulle basi concettuali da lui poste, poiché ogni sistema autoregolato è un insieme individualizzabile e solidamente resistente alle sollecitazioni dispersive ambientali appunto in virtù delle sue ‛connessioni interne'; la medicina sperimentale - che è e deve essere una fisiopatologia altrettanto rigorosa quanto ogni altra scienza - non può nascere che dalla fisiologia (‟Il est non seulement nécessaire d'avoir l'esprit d'observation, mais il faut de plus être physiologiste"; v. Bernard, 1926, vol. II, p. 205); la fisiologia del mezzo interno è dunque fisiologia biochimica e biofisica e può essere l'unica base per una terapia scientifica.
Tutta questa modernità di concezioni non avrebbe avuto una collocazione organica nell'opera del Bernard senza il suo grande contributo metodologico. L'Introduction è il discorso sul metodo della medicina moderna, come affermò H. Bergson il 30 dicembre 1913, nel centenario della nascita del Bernard.
Le altre grandi teorie biologiche del XIX secolo non sono state meno pregnanti per il futuro sviluppo della patologia; la teoria dell'evoluzione, permettendo una più valida fondazione dell'anatomia e della fisiologia comparata, non solo dette un avvio legittimo - come si è visto con Bernard e con la scuola di Müller e poi di Virchow - alla patologia comparata e quindi alla medicina sperimentale, ma è divenuta sempre più, con la genetica che vi è strettamente inerente, la base per un modo naturalistico di vedere la teoria e la pratica medica; nel settore microbiologico ed epidemiologico, come vedremo, i meccanismi evolutivi sono parte essenziale dell'interpretazione fenomenica.
Infine, che cosa è stata la dottrina delle infezioni e della reattività immunitaria dei viventi dal punto di vista teorico e pratico per lo sviluppo della patologia e della medicina non ha bisogno di essere qui accentuato.
Con gli esperimenti classici di Pasteur (1861) fu conclusa la bisecolare diatriba sulla generazione spontanea, durata da F. Redi a Needham e a Spallanzani (definito dal Pasteur ‟un des plus habiles physiologistes dont la science puisse s'honorer, le plus difficile à satisfaire") e la conclusione servi a Pasteur a rompere definitivamente con gli ‛spontaneisti', cioè i fatalisti e gli inerti della patologia, rappresentati da H. Pidoux dell'Académie de Mèdécine il quale, davanti a Pasteur, e nonostante Bernard, affermava la sconsolata e reazionaria teoria secondo cui ‟la maladie est en nous, de nous, par nous" (v. Pidoux, 1876, p. 9). Si avviava così l'‛era microbiologica' della medicina con la poderosa opera di Pasteur e con quelle di J. Lister, P. E. Roux, R. Koch, E. Mečnikov, F. A. J. Loeffler, E. Pfeiffer, F. Pacini, E. von Behring, Sh. Kitasato, A. Neisser, ecc. Ma era anche l'‛era immunologica', fecondissimo settore all'inizio intrinsecamente associato alle opere dei ricordati microbiologi ed epidemiologi, e poi sviluppatosi attraverso quelle degli immunologi e immuno-chimici, da H. Büchner e P. Ehrlich a K. Landsteiner. Gli studi di Büchner, Behring, J. Bordet hanno fornito nuove basi, oltre a quelle di Bernard, per una valorizzazione ‛organismica' e non solo ‛cellulare' della fenomenologia morbosa. Euristicamente importanti furono anche le alterne vicende delle teorie ‛celluliste' nei confronti di quelle ‛umoraliste' sulla interpretazione della fenomenologia immunitaria.
L'‛atomismo' ha sempre avuto la sua parte, dai Greci in poi, nelle scelte interpretative dei naturalisti, dei biologi e dei medici e attraverso il Settecento (P.-L. Moreau de Maupertuis) giunge alle soglie del XIX secolo con G.-L. Leclerc de Buffon e con E. Darwin sotto forma di quell'atomismo genetico che assunse il nome di ‛micromerismo' (Y. Delage) all'inizio di quel secolo: Gr. Mendel, per via del tutto indipendente, produsse il materiale più formidabile per tradurre il micromerismo dalla regione puramente speculativa a quella della conquista fattuale che è la moderna ‛genetica molecolare' e infine la ‛biologia molecolare'. Nello stesso tempo lo sviluppo già ricordato dell'immunologia e dell'immunochimica ha largamente contribuito, insieme a quello della genetica, alla concezione neomeccanicistica degli oggetti ‛viventi' e dei fenomeni detti ‛vitali', così come ha largamente contribuito, anche attraverso la virologia, allo sviluppo di una ‛patologia molecolare'.
Infine non vanno dimenticati i riflessi che sulle scienze di base e sulla patologia sperimentale in particolare ha avuto la ‛clinica' non in quanto mera applicazione o traduzione di una patologia a sé stante e unica sorgente di vero, bensì in quanto attività epistemologicamente e quindi ontologicamente fondamentale nella medicina (M. Foucault).
b) Sviluppo delle discipline biologiche
Converrà ora passare brevemente in rassegna le acquisizioni fattuali della biologia e della patologia del XIX secolo, le quali hanno costituito nel loro insieme quel punto singolare di espansione nel quale siamo inseriti oggi, nella seconda metà del XX secolo. Citeremo i dati e le tecniche che hanno avuto un importante sviluppo successivo. Per esigenza di spazio ometteremo in bibliografia molti dei riferimenti relativi a questa massa imponente di acquisizioni; il lettore può rintracciare le fonti che lo interessano nelle rassegne storiografiche della biologia e della medicina recenti (v., per es., Dawes, 1952; v. Bulloch, 1938; v. Cameron, 1952; v. Furth, 1966).
1. L'anatomia comparata e l'embriologia già si erano valse della sperimentazione (K. E. von Baer, 1837), già si era coniato il termine ‛meccanica dello sviluppo' (W. Roux, 1895: data di fondazione dell'‟Archiv für Entwicklungsmechanik der Organismen") e già si erano realizzate le prime colture di tessuto (Roux, 1885): la citologia si stava sviluppando anche su un piano istochimico (F. V. Raspail introdusse nel 1825 la colorazione dell'amido con lo iodio nelle cellule); verso la fine del 1800 si provavano i primi effetti sulle cellule e sugli embrioni dei campi gravitazionali artificiali ottenuti mediante centrifugazione (J. Sachs, 1875; C. Dehnecke, 1880; D. Mottier, 1899), metodo che fu poi largamente usato e perfezionato (T. H. Morgan, 1927).
Le informazioni sulla struttura microscopica dei vari organi e tessuti andavano incessantemente crescendo e sempre più chiara ed elaborata diveniva l'interpretazione funzionale delle strutture: valgano come esempi la morfofisiologia delle ghiandole e quella del sistema nervoso centrale e periferico, con i grandi contributi di R. Remak (1838), di A. Kölliker (1844), di Helmholtz e, verso la fine del secolo, di C. Golgi, S. Ramòn y Cajal, M. Foster e C. S. Sherrington, i quali tutti gettarono le basi morfofunzionali per la comprensione dell'attività del sistema nervoso nel campo fisiologico e in quello patologico (si trattava del resto largamente anche di una morfopatologia sperimentale).
2. La fisiologia sperimentale, anche all'infuori del sistema nervoso e dopo Bernard, aveva già investito, alla fine del secolo, quasi tutti i settori della vita organismica, compresa l'endocrinologia (Müller, A. D'Arsonval, T. Addison) e la psicofisiologia (e psicologia sperimentale) con I. Pavlov.
3. La biochimica era ancora un'estensione o un approfondimento della fisiologia e certamente non si poteva prevedere lo sviluppo vertiginoso di questa scienza quale si manifestò nel secolo successivo, che è il nostro attuale; basti pensare alla parte dedicata alle reazioni biochimiche anche nei trattati di fisiologia dell'inizio del XX secolo, ove si parla ancora di ‟molecole di biogeno" (v. Müller, 1921); ma già la chimica e la ‛patologia' delle fermentazioni, portate alla ribalta da Pasteur, rappresentavano la parte più vivace della biochimica dinamica e l'avvio allo studio delle catalisi biologiche. La biofisica appariva meglio fondata, almeno nella sua relazione con la fenomenologia fisiologica degli organi di senso (vedi i contributi di Helmholtz alla conoscenza della fisiologia della visione e di quella dell'udito).
4. La patologia sperimentale, anche al di fuori di quella, in pieno sviluppo, più strettamente legata alla patogenesi delle malattie infettive, aveva già posto le basi operative per la riproduzione e lo studio ordinato delle principali manifestazioni patologiche: le degenerazioni, le atrofie e le ipertrofie da diminuzione o da aumento dello stimolo funzionale, la flogosi, i disturbi di circolo (trombosi, emorragie, necrosi ischemiche, formazione dei circoli collaterali vicarianti, patogenesi dell'arteriosclerosi: Bernard, Virchow, Rokitansky, Cohnheim, Chr. A. Th. Billroth, ecc.), i tumori professionali e le osservazioni fondamentali su tutte le occasioni di insorgenza ‛spontanea' delle neoplasie (onde le varie teorie patogenetiche: Cohnheim, C. Weigert, H. Ribbert, ecc.). Lo studio della febbre iniziava la sua fase sperimentale con le classiche esperienze di K. von Liebermeister.
5. Come si é ricordato, l'era batteriologica e parassitologica della medicina ha preso il suo avvio scientifico e sperimentale nel XIX secolo. All'inizio del nostro secolo, di quasi tutte le malattie infettive non virali erano noti l'agente infettante e molti dei meccanismi patogenetici (l'azione delle tossine, per es.); anche di molte malattie virali si possedevano dati epidemiologici e patogenetici, così che i tentativi di immunizzazione per via vaccinale (per esempio Pasteur) o sierica (Behring, Kitasato, ecc.) erano già in atto; era nota buona parte della fenomenologia immunitaria sia in vitro sia in vivo (compresa, alla fine del secolo, quella dell'ipersensibilità allergica e anafilattica; ma il termine di anafilassi fu adottato da Ch. Richet nel 1902).
In campo parassitologico il XIX secolo ha visto le maggiori e fondamentali scoperte: l'esempio dell'infezione malarica primeggia su tutti (G. B. Grassi, C. L. A. Laveran, Golgi, R. Ross); ma di fondamentale importanza furono le scoperte sulle parassitosi tropicali quali le filariosi, le tripanosomiasi, le schistosomiasi e altre (P. Manson, O. Wucherer, J. N. Demarquay, T. R. Lewis, T. L. Bancroft, G. Evans, J. Rouget, D. Bruce, tra il 1863 e il 1895) completate, proprio all'inizio del presente secolo, dai contributi di J. E. Dutton, A. Castellani, C. Chagas ecc.
6. Anche la chemioterapia ebbe le sue radici concettuali nell'opera formidabile e geniale di Ehrlich (1899); e infine fu di Pasteur la prima riflessione sull'incompatibilità della coesistenza tra microrganismi diversi (e in particolare l'incompatibilità causata da un ‛fermento organizzato' nei confronti di un altro organismo inferiore), nel quadro della visione generale della lotta per l'esistenza in natura, di impronta chiaramente darwiniana (v. Pasteur e Joubert, 1877).
2. Fondamenti tecnici e metodologici
La critica dell'equivalenza tra le strutture rivelabili nei campioni cellulari e tessutali fissati e colorati e le strutture reali delle cellule e tessuti viventi, critica che assunse un particolare valore nell'interpretazione delle strutture ‛nuove' osservabili in patologia, è servita da una parte allo sviluppo delle tecniche per le colture in vitro (da R. G. Harrison, 1907, in poi) e dall'altra a confrontare le immagini microscopiche ottenute con accorgimenti strumentali diversi: la microfotografia in ultravioletto (U. V.) (da A. Köhhler, 1904, fino a Barnard, 1941) che ha permesso non solo di aumentare considerevolmente il potere risolutivo, ma anche di sfruttare la fluorescenza spontanea delle strutture o quella ivi indotta da coloranti (Ellinger, 1940; Pijper, 1942), fino alle recenti spettacolari applicazioni dell'immunofluorescenza (v. Coons, 1956).
Una strutturistica tessutale e cellulare al di sotto dei limiti noti del microscopio ottico comunque perfezionato e modificato (cfr. per es. l'importante contributo portato con la microscopia in contrasto di fase da Fr. Zernike, 1934 e 1935, applicabile a cellule e tessuti ‛non fissati' e ‛non colorati') era possibile fin dalla fine del XIX secolo mediante la microscopia a luce polarizzata, corredata di tutte le implicazioni teorico-deduttive quali lo studio della birifrangenza di forma e di flusso, del dicroismo ecc. (Nägeli e Schwendener, 1877); essa ebbe decisivi sviluppi nella prima metà del nostro secolo a opera di O. Wiener, 1912; W. J. Schmidt, 1924, 1937; A. Frey-Wyssling, 1935-1953, ecc.
Naturalmente tutta un'era nuova per la morfologia subcellulare in campo fisiologico come in quello patologico si è aperta con la microscopia elettronica la cui data di nascita si pone tra il 1930 e il 1938, a seconda che si considerino lo strumento fisico o le sue prime applicazioni alla biologia (v. Hall, 1966). Un primo atlante di ultrastrutture patologiche tecnicamente attendibili è quello edito da D. W. King (v., 1966).
La metodologia istochimica e le tecniche relative sono gradualmente uscite da un empirismo a significato generalmente assai approssimativo (salvo in pochissimi casi come quello della ricerca del ferro) per assumere, in un'applicazione rigorosa, capacità discriminative importanti: basti pensare alla differenza fra la colorazione del glicogeno col metodo di Best (sia pure con risultati assai brillanti) e quella ottenibile mediante perossidazione e reattivo di Schiff (paS) e tutte le varianti per i mucopolisaccaridi; si pensi anche alla reazione di Feulgen, che pure è un derivato della precedente, abbastanza specifica per il DNA ecc. Infine molto interessanti sono, almeno da un punto di vista qualitativo, alcune rivelazioni istochimiche di attività enzimatiche; queste ultime, come le precedenti, possono dare utili informazioni per distinguere tipi di cellule metabolicamente differenziate là dove l'analisi biochimica sulla globalità del tessuto non potrebbe essere di chiarimento, e ciò acquista particolare importanza in patologia. In particolare sono state di grande aiuto anche in sede pratica, cioè anche ai fini diagnostici, le reazioni istoenzimatiche che distinguono le varie fibre muscolari tra loro a seconda delle unità motorie cui appartengono.
Un'analisi quantitativa a livello cellulare e subcellulare è stata fatta, sia senza colorazioni o reazioni preventive - microspettrofotometria in U. V. (v. Caspersson, 1936 e 1950), misura della birifrangenza (v. Schmidt, 1937), misura del contenuto solido mediante microscopia interferenziale - sia dopo opportune colorazioni istochimiche (in tal caso, peraltro, una rigorosità e un'uniformità tecnica non sono sempre facilmente raggiungibili ai fini di una valutazione sufficientemente esatta dei risultati).
Una forma particolarmente redditizia di ‛istochimica dei processi metabolici' è quella offerta dalla tecnica tuttora in notevole sviluppo, anche nel campo della microscopia elettronica, della cito-isto-autoradiografia ottenuta mediante preventivo trattamento del substrato con metaboliti marcati.
Ma un'analisi quantitativa delle differenziazioni biochimiche e quindi metaboliche delle cellule e dei componenti subcellulari in condizioni normali e patologiche è divenuta possibile e veramente ricchissima di informazioni solo quando si son potuti separare mediante centrifugazioni frazionate i componenti delle cellulle e delle strutture e sostanze intercellulari: membrane esterne, nuclei e cr0mosomi, mitocondri e loro frammenti, ribosomi, frazioni del reticolo endoplasmatico, lisosomi, granuli leucocitari e segresomi, miofibrille, membrane basali, fibre collagene, ciglia e flagelli, ecc. Anzi, in alcuni casi, una frazione subcellulare è stata isolata, e se ne è iniziata la definizione metabolica, prima ancora che si identificasse (con la microscopia elettronica) la sua reale natura e la sua posizione nell'architettura cellulare: è, per es., il caso dei cosiddetti microsomi, che poi in buona parte sono stati riconosciuti come frammenti del reticolo endoplasmatico liscio o rugoso. Tale analisi biochimica delle frazioni ha anche permesso, tra l'altro, di dare, in via riflessa, una maggiore consistenza alle indagini istochimiche.
Naturalmente il grande progresso concettuale e tecnico nell'indagine biologica e biopatologica è tuttavia dovuto al portentoso sviluppo della biochimica fino alla metà di questo secolo, il quale è confluito, per una sua parte oggi molto valorizzata, nell'affermazione della biologia molecolare (ovviamente nel senso più ristretto del termine, poiché altrimenti tutta la biochimica potrebbe definirsi una biologia molecolare); a questo punto si è immediatamente definita anche una patologia molecolare (v. sotto, cap. 3, § a). Qui la ricchezza e la varietà delle tecniche sono vaste quanto lo sono i rami di indagine della biochimica, sia descrittiva, sia dinamica o enzimologica, sia metabolica, sia infine molecolare e genetica. Ricorderemo le principali conquiste metodologiche: a) tutto il campo, che è stato fecondissimo, della micromanometria da O. Warburg (1914 e 1926) in poi, oggi in gran parte sostituita dall'analisi elettrochimica; b) i mezzi per l'indagine enzimologica in condizioni di purezza; c) l'ultracentrifugazione (T. Svedberg, 1925 e 1940) e l'elettroforesi (1937) e l'immunoelettroforesi (1939) per la separazione dei complessi proteici; d) la cromatografia (1936) e l'analisi della sequenza degli amminoacidi nelle proteine (fingerprint); e) la spettrofotometria e l'analisi anionica e cationica applicate a sospensioni cellulari o di particelle subcellulari attive per studiare la dinamica dei fenomeni di trasporto attraverso le membrane e in generale i microeventi metabolici (v. Martin, 1947; v. Smith, 1960; v. Leach, 1969-1970); f) l'uso larghissimo dei composti marcati, rappresentati da isotopi radioattivi o diversamente pesanti, per seguirli nelle varie vicende metaboliche: ricorderemo che il primo esperimento con tracciante è stato fatto nel 1913 nell'Istituto del Radium di Vienna (v. Dawes, 1952) e che dieci anni dopo O. de Hevesy studiò con tal mezzo la distribuzione del piombo nelle piante (v. de Hevesy, 1948); g) l'uso di specifici inibitori bloccanti noti passaggi delle catene metaboliche (della respirazione, delle sintesi di RNA, delle sintesi proteiche ecc.) e il relativo trasporto energetico; h) l'uso di sostanze denunzianti, mediante fluorescenza o metacromasia, condizioni allosteriche o di ionizzazione di siti attivi sulle membrane; i) l'analisi strutturalistica ai raggi röntgen ecc.; 1) la chimica preparativa di sostanze organiche attive (per esempio vitamine, sostanze cancerogene, ecc.).
Altre scienze, il cui sviluppo ha condizionato quello della patologia, hanno contribuito con risultati concettuali o tecnologici di primaria importanza: tutto lo sviluppo della moderna microbiologia e soprattutto della virologia, con i riflessi fondamentali per una nuova concezione della genetica e della patologia genetica; la possibilità di studio di animali mantenuti privi di germi (germ free) o privi di germi patogeni (pathogen free: v. Miyakawa e Luckey, 1968); la scoperta dei chemioterapici e degli antibiotici (v. sotto); l'immunologia, la quale oggi si rivela non meno importante della biochimica per lo studio della struttura e reattività degli organismi nel loro complesso (vedi i metodi per l'analisi e la localizzazione degli anticorpi, le teorie della loro genesi e il concetto di antigene, la produzione di anticorpi in vitro, lo studio analitico immunochimico della specificità - per cui v. Landsteiner, 1936-, la scoperta della immunotolleranza sperimentale e l'analisi dettagliata delle reazioni patologiche); i metodi endrocrinologici e radioimmunochimici per l'analisi ormonale, per l'individuazione della presenza di virus, ecc.; tutta la massa ingente dei metodi elettrofisiologici (estesi oltre il sistema cardiacomuscolare e il sistema nervoso) e di quelli biochimici per lo studio del meccanismo d'azione delle sostanze neuroeffettrici secondo il principio dei quanti di azione acetilcolinica (v. Katz, 1958; v. Martin, 1966) e delle sostanze vaso- e capillaro-attive, e attive in genere sui muscoli lisci (v. Erspamer, 1961; v. Schachter, 1969: qui si apre tutto il panorama offerto dalla moderna farmacologia); la biofisica, la radiobiologia e radioterapia; i metodi della genetica e dell'allevamento dei ceppi puri di animali (per un panorama elementare sulle metodologie biofisiche v. Ackerman, 1962).
Accanto a questi vi sono altri settori che vanno in particolare menzionati: la metodologia della sperimentazione sull'alimentazione; tutta la matematica statistica per l'analisi dei risultati e della loro attendibilità e significatività; la biometria, antropometria e costituzionalistica (in campo umano); infine lo sviluppo teorico della cibernetica che ha dato un impulso straordinario allo studio, prima timido, dei sistemi di controllo tanto al livello molecolare, quanto a quello organismico, integrato; l'importante settore della bionica nel quale vengono imitate, fin dove è possibile, le connessioni cibernetiche operanti nei sistemi organismici, con ciò contribuendo non poco a prospettare nuove linee di ricerca nei relativi settori (v. Milhorn, 1966; v. Kalmus, 1966) e all'ingresso dei calcolatori in medicina (v. Spicer, 1968).
Infine, anche a voler escludere da questa rassegna le metodologie inerenti alla ricerca psicologica e psichiatrica nelle sue forme più elevate e non sperimentabili fuori dall'ambito umano (per es. psicanalisi), vanno tuttavia ricordati come strettamente inerenti ad aspetti importanti della patologia nel senso classico il campo sperimentale dei riflessi condizionati (v. Pavlov, 1927) e quello della patologia psicosomatica (v. Bykov, 1954).
Nè è da sottacere, ai fini di una valutazione dello sviluppo della patologia nel settore umano, il grande contributo derivato dall'istituzione quasi ovunque fuori d'Italia del clinical pathologist, quale persona (o, meglio, più persone) addestrata a seguire accanto al clinico l'evoluzione delle malattie nei singoli casi, rilevando i dati morfologici, biochimici, microbiologici, immunologici, farmacologici relativi ai vari pazienti, secondo un pieno rigore scientifico e cioè in modo da permettere la comparazione - finché è possibile - con i dati clinici e con i risultati sperimentali. L'abitudine artigiana ancora prevalente in Italia di affidare ai giovani aspiranti clinici, accanto all'impegno per la loro preparazione propriamente medica, anche quello di studiare in proprio le caratteristiche biopatologiche dei pazienti, senza una più razionale divisione del lavoro, è stata ed è fonte di arretratezza e di approssimativismo non certo favorevoli allo sviluppo della patologia scientifica dell'uomo. (Sui temi trattati in questo capitolo molti riferimenti bibliografici sono in Dawes, 1952).
3. La problematicità e le principali linee di sviluppo della moderna patologia
Va qui premesso (ma riguarda in qualche misura anche l'estensione data alla parte introduttiva di questo articolo) che ora si intende il termine ‛patologia' essenzialmente nell'accezione che, nell'uso proprio nel mondo universitario italiano, vale ‛patologia sperimentale e generale'. Non si prendono in considerazione, per ovvie ragioni di limiti, i dati innumerevoli pertinenti all'‛anatomia patologica', che spesso in altri paesi è tutt'uno con la patologia generale, nè quelli relativi alle ‛patologie speciali medica e chirurgica', secondo la divisione scolastica italiana, che non sono altro, fondamentalmente, che la descrizione delle varie malattie (come base del ragionamento clinico). Tuttavia non può trovare spazio in questa rassegna anche la sola enunciazione degli sviluppi della patologia sperimentale relativi a ciò che viene chiamato ‛fisiopatologia d'organo o di apparato', comprese naturalmente l'endocrinologia e la neurofisiopatologia nelle loro varie specificazioni. L'estensione che questi vari settori hanno infatti raggiunto non si presta a essere nemmeno riassunta in un articolo, anche se una visione unitaria della fisiopatologia nel suo complesso sarebbe molto utile. Qualche criterio generale sarà tuttavia introdotto.
a) Evoluzione e critica del concetto virchowiano di patologia cellulare
Ci riferiamo, in tutta questa sezione, alla patologia ‛non a focolaio', cioè diversa da quella che si determina per uno stimolo fiogistico circoscritto o per una localizzazione microbica o virale. Come si è visto, il ‛micromerismo', che è al fondo della teoria cellulare, vive inevitabilmente anche nella teoria virchowiana della patologia cellulare: fu certamente un'acquisizione concettuale validissima, allora, nonostante le proteste degli umoralisti, poiché era la strada obbligata per uscire dalla vacuità delle ‛crasi' o ‛temperie' umorali, forse in alcuni casi vere, ma difficilmente dimostrabili. Ancorandosi alla scoperta delle ‛unità biologiche elementari', le cellule di allora, la patologia poteva determinarsi come somma degli eventi patologici svolgentisi nelle singole cellule e gli eventi stessi ricostruirsi partendo dalle modificazioni strutturali-funzionali delle cellule.
Nella misura in cui l'organismo è la somma delle sue cellule, anche la sua patologia globale è la somma delle alterazioni delle singole cellule, nei vari organi, volta a volta diversi a seconda delle malattie.
Vi sono state molte ragioni per cui una critica alla schematicità di questo pur giustificato ragionare si è fatta sentire in ritardo (e per molti aspetti della teoria essa non è ancora esplicita): l'attenzione rivolta - e giustamente - per decenni alla microbiologia e allo studio della patologia da infezioni e della reazione immunitaria, che ha spostato ogni elaborazione concettuale sul fenomeno del parassitismo; la rapida e promettente crescita delle acquisizioni istologiche e citologiche, come campo sempre più ricco di mediazione per l'interpretazione patogenetica virchowiana; la constatazione che le ‛alterazioni cellulari tipo' (quali descritte dal Virchow e successivamente) non sono in definitiva molte, nonostante la varietà delle noxae, fatto questo che collimava con la rappresentazione di una ‛regolarità cellulare' nelle manifestazioni patologiche; infine l'aprirsi delle ricerche sistematiche di oncologia, con le quali veniva chiaramente riaffermato essere la genesi tumorale un evento prettamente cellulare.
È ben vero che accanto al Virchow già si facevano strada uomini come Cohnheim, impegnati a cogliere i collegamenti fenomenologici cellulari con quelli extracellulari (basti pensare al suo studio sull'infiammazione), ed è altrettanto vero che nel frattempo progredivano le indagini sui sistemi di correlazione, sull'importanza del sistema nervoso, di quello endocrino e degli umori circolanti come fattori di integrazione organismica: tutto questo non poteva (e in definitiva non può nemmeno oggi) cancellare il valore euristico della scoperta fondamentale che gli organismi si sviluppano e funzionano sulla base della loro divisione in cellule e quindi che le indagini sulle malattie e sulla morte non potevano prescindere da quest'obbligo di distribuirsi cellula per cellula. Del resto, nella sua forma più rudimentale, anche la correlazione è descrivibile come interazione fra due cellule, l'una origine dello stimolo e l'altra oggetto della stimolazione.
Ma l'evoluzione della biologia ha non solo ampliato, bensì anche spostato la visuale della patologia cellulare rispetto alla sua prima concezione; molte delle considerazioni che ora verremo facendo rappresentano un approfondimento del primitivo concetto, altre si presentano invece come superamento di esso in una valutazione dell'organismo come sistema integrato che è certamente più e altra cosa che la somma di tutte le sue parti. L'ambiguità che fin dalle epoche più remote della storia serpeggia tra le concezioni atomistiche (qui micromeristiche) e quelle monistiche o correlazionistiche della natura dei viventi è nella natura stessa dell'oggetto dello studio: composito, ma solidalmente congegnato; suddivisibile anche fisicamente in parti sempre più minute, ma conservanti anche allo stato isolato ‛una parte' della fenomenologia dei viventi; stabilizzato al massimo possibile anche nei confronti di un ambiente deteriorante e nello stesso tempo mutevole e adattativo, anzi stabilizzato perché mutevole. Nella nostra ricerca delle parti rappresentative come unità elementari strutturali-funzionali di questo composito essere vivente l'ambiguità è costantemente palese, poiché volta a volta nell'analisi della ‛composizione organismica' ci troviamo di fronte a piani strutturalmente e funzionalmente individuabili, anche se non indipendenti, che meritano il nome di ‛unità': anche l'organismo è un'unità e così lo sono aggruppamenti interorganismici; ma la ricerca della più elementare unità è, appunto, ambigua per il carattere gerarchico della molteplicità dei feedbacks nella costruzione organismica, onde si sono considerate unità elementari le vecchie ipotetiche ‛molecole biogene', cui oggi si ritorna consapevolmente con la genetica molecolare (geni), e lo sono state e lo sono ancora per i più le ‛cellule' (dopo Schwann) come entità discrete capaci di perpetuarsi anche fuori dall'organismo da cui vengano prese.
Ma le cellule, nella classica teoria schwanniana e nella patologia cellulare virchowiana, sono essenzialmente viste come unità morfo-funzionali, mentre l'odierno portentoso sviluppo della biochimica ha prodotto altre divisioni nella macchina organismica, le quali non rispettano necessariamente il micromerismo cellulare: le divisioni metaboliche, la fisiologia e la patologia delle catene metaboliche, nella misura in cui sono genericamente rappresentate in tutte le cellule e in tutti i tessuti (consideriamo come esempio elementare il metabolismo del glucosio e i suoi rapporti con l'insulina), sono alla base di una fisiologia e di una patologia per settore metabolico e non per compagini cellulari. La stessa patologia cellulare virchowiana, quando volle essere (ed è un processo ancora all'inizio) interpretata in termini biochimici (che sono i soli a poter offrire, quando bene orientati, una vera ‛patogenesi', ossia una comprensione degli eventi), ha dovuto rifarsi ai processi generali che riguardano tutte le cellule e suscitare quindi il sospetto che le lesioni morfologicamente osservabili in particolari cellule (del fegato, del rene, del miocardio, del tessuto nervoso, ecc.) rappresentassero il risultato di processi denaturanti come punto d'arrivo di alterazioni metaboliche più generali ma particolarmente gravi, come effetti macroscopici, in quelle determinate cellule.
All'origine di una determinata ‛patologia cellulare' poteva quindi esserci (e in molti casi lo si è effettivamente dimostrato) una lesione non cellulare ma biochimica generale. Tale concetto fu introdotto da R. A. Peters per definire un'alterazione singolare (cioè, al limite, anche di un solo passaggio) di un processo metabolico, la quale non è di per sé traducibile in alcunché di morfologico, ma capace di produrre conseguenze gravi in molte cellule e mortali per l'intero organismo (a questo punto le alterazioni difficilmente saranno libere da manifestazioni strutturali osservabili, le quali comunque avrebbero importanza secondaria, poiché puramente consequenziali).
Tra gli esempi per primi studiati vi fu quello dell'avitaminosi B1 per carenza di cocarbossilasi piruvica e quindi per frenaggio del ciclo degli acidi tricarbossilici, e quello dell'intossicazione da fluoroacetato che, competendo nel ciclo col normale metabolita acetato, forma l'antimetabolita fluorocitrato, il quale come tale blocca l'enzima aconitasi e provoca l'arresto del ciclo e un accumulo di citrato. Come si vede, questa sperimentazione è strettamente inerente alla scoperta degli antimetaboliti nella chemioterapia (e nell'antibioticoterapia), la cui origine concettuale risale a Ehrlich, e i cui sviluppi sperimentali, le applicazioni pratiche e i primi chiarimenti sui meccanismi d'azione sono stati estremamente importanti (v. cap. 3, § d).
Per definizione, il concetto di lesione biochimica trascende la suddivisione in cellule dell'organismo e vuole indicare una patologia non propriamente cellulare ma potenzialmente ubiquitaria, comunque settoriale del metabolismo. Tuttavia - e qui é invece ancora una considerazione in appoggio al concetto di patologia cellulare - non esistono in realtà cellule generiche, bensì solo cellule specifiche e la loro specifica differenziazione, che è una determinazione biochimica-strutturale, può portare a una diversa sensibilità dei vari tipi di cellule nei confronti di una stessa noxa, sia pure questa una lesione biochimica (a meno che non si tratti di una lesione localizzata, come sembrò all'inizio nel caso del tutto artificiale del fluoroacetato, in un sistema metabolico ubiquitario). In effetti, le lesioni biochimiche spontanee, quali per es. quelle da difetti enzimatici genetici (errori genetici del metabolismo: v. Strauss, 1960; v. Peacocke e Drysdale, 1965), si riflettono come alterazioni metaboliche di tutte le varietà di cellule in cui quel sistema enzimatico è di norma largamente rappresentato, ma solo di queste: quando due tipi di cellule, come quella epatica e quella muscolare, hanno due varietà molecolari diverse per una stessa attività enzimatica, come è per la fosforilasi, un difetto genetico può riflettersi massivamente su uno dei due tipi di cellule e per niente sull'altro.
Siamo così giunti al concetto di ‛patologia molecolare', che è del tutto moderno ed è pertanto l'ultima possibile sfida alla patologia cellulare (v. Chain, 1970). Lo commenteremo tra poco, dopo aver esaminato l'influenza sulla dottrina virchowiana della nascita e dello sviluppo della microscopia elettronica e delle tecniche per la separazione delle strutture subcellulari allo stato attivo.
La microscopia elettronica, ovviamente e almeno per un verso, non può non offrire una mediazione sempre più risolutiva e ricca per risolvere i quadri della patologia cellulare classica nelle loro determinanti substrutturali e ciò fino al limite delle macromolecole; in tal senso essa è un invito allettante a una nuova fondazione della patologia cellulare descrittiva, come lo è stata e lo è per la citologia e l'istologia normali descrittive.
Tuttavia, il processo patogenetico è pur sempre biochimico e anche col microscopio elettronico si rischia di fare una mera collezione di epifenomeni strutturali.
Lo studio biochimico-dinamico delle frazioni subcellulari isolate ha invece fornito molti dati interessanti per l'interpretazione delle condizioni patologiche; ma a questo punto ci si è anche accorti che si poteva riaffacciare il problema del superamento della patologia cellulare: essendo le cellule costituite da unità strutturali subcellulari reiterate (membrane esterne, reticolo endoplasmatico, mitocondri, ribosomi, lisosomi, nuclei, ecc.), si poteva pensare a una patologia ‛mitocondriale' (v. Luft e altri, 1962) ‛del reticolo endoplasmatico', ‛lisosomale' (v. Dingle e Fell, 1969), ‛nucleare', ‛delle membrane basali' ecc. Ma il riconoscimento, già sopra avanzato, che in realtà esistono solo cellule specifiche, ci riporta a una più facile persuasione che anche i loro componenti subcellulari siano solo simili e non necessariamente eguali nei vari tipi di cellule differenziate, onde una patologia per unità subcellulari è forse assai poco fattibile, a meno che non si tratti di lesioni massicce e incompatibili con qualunque manifestazione di vita (ma allora scompare anche la patologia ‛cellulare'). Sono semmai gli eventi finali della degradazione cellulare che possono assumere carattere comune a più cellule, che è pertanto generico, e sono infatti gli eventi cui sono legati i lisosomi, i segresomi, ecc. (ma con varianti, anche qui, come per es. quelle relative ai fenomeni della fagocitosi; v. Dingle e Fell, 1969).
La genetica e quindi la biologia molecolari hanno portato, come si è visto, necessariamente al delinearsi di una patologia molecolare (v. Baron, 1957; v. De Reuck e Knight, 1964). Anche qui, a parte l'ovvia delimitazione del termine ‛molecolare' per evitare banali generalizzazioni, occorre distinguere ciò che rientra nel concetto virchowiano di patologia cellulare, quando l'alterazione molecolare si riflette solo su determinate cellule (esempi comuni: le emoglobine patologiche sono associate ad alterazioni macroscopiche primarie solo dei globuli rossi; alcune glicogenosi solo del fegato e dei reni, o dei muscoli), da ciò che invece rappresenta un disturbo più ubiquitario o generale dell'organismo, nel qual caso si supera la prospettiva virchowiana (deficienze proteiche del sangue, deficienze o inibizioni enzimatiche ubiquitarie, ecc.).
Ma per altro verso lo sviluppo della patologia molecolare, non ancora sufficientemente esteso, ha forse accentuato il limite che già esisteva in Virchow anziché ovviarlo: è quello costituito dall'implicita ricerca di una causa obiettivabile in una singola struttura (o pochissime strutture, non ha rilevanza qui che si tratti di cellule o di molecole), i fenomeni patologici globali e la malattia organismica divenendo perciò conseguenze semplici e sommatorie di microeventi elementari tutti dovuti a quel difetto singolare; ora, esistono certamente casi così determinati, e sono appunto i casi più semplici delle malattie ereditarie o delle malattie da tossici; ma esiste tutta un'altra patologia che appare articolatà con l'intera fisiologia organismica, quale disfunzione più complessa della macchina vivente. Ci riferiamo principalmente alle conoscenze sulla fisiologia dei ‛sistemi di controllo' e alle loro implicazioni fisiopatologiche. Come è noto, sistemi autoregolati o cibernetici si constatano nella macchina organismica a tutti i livelli, da quello intermolecolare (degli acidi nucleici e delle nucleoproteine, con i relativi attivatori e repressori, dei sistemi enzimatici, dei vari sistemi di pompaggio ionico e idrico, ecc.) a quello intrae intercellulare, a quello degli organi di uno stesso apparato o sistema, a quello tra i sistemi organismici e unità superorganismiche (v. Milhorn, 1966; v. Kalmus, 1966; v. Gérardin, 1968; v. Reiner, 1968).
Se la fisiologia è oggi altamente caratterizzata dal riconoscimento della natura gerarchico-cibernetica degli organismi viventi, altrettanto sta accadendo anche per la patologia; è evidente allora che pur rimanendo ancora uno spazio per la ‛patologia cellulare', questa è sempre più da vedersi nel modo meno virchowiano: al limite, un sistema autoregolato può divenir ‛patologico' solo per una minore efficienza della autoregolazione, il quale evento potrà determinarsi anche senza o con una minima lesione cellulare o alterazione della compagine molecolare del sistema implicato; in ogni caso potrà verificarsi un notevole divario fra l'entità e la natura della ‛lesione' cellulare, o dell'‛alterazione' molecolare (se in qualche modo raggiungibili) e l'entità e la natura della disfunzione al livello cibernetico. È abbastanza chiaro quanto tutto ciò ancora riguardi (ma sotto un aspetto molto diverso e dinamico) e quanto invece trascenda del tutto la classica ‛patologia cellulare'.
Lo studio della composizione molecolare delle membrane esterne delle cellule e delle complesse funzioni che ivi si svolgono, atte al contempo a mantenere un mezzo interno cellulare ben distinto dal mezzo esterno intercellulare (ma milieu intérieur nel senso bernardiano per l'organismo integrato) e a stabilire invece i necessari trasporti materiali ed energetici per la fisiologia cellulare, ha aperto nuove vie alla comprensione analitica della patologia cellulare, che però ne allarga molto gli orizzonti. Basti pensare al fenomeno più noto e più ubiquitario dell'azione dell'insulina sul passaggio di metaboliti (glucosio, amminoacidi) dentro le cellule e a quello altrettanto noto delle giunzioni a carica acetilcolinica o γ-amminobutirica (sinapsi), o, infine, e sempre come esempio fra i tanti, ai complessi rapporti strutturali-funzionali che si stabiliscono tra fibre muscolari e ambiente intercellulare al fine di realizzare rapidi scambi (per la contrazione e il rilasciamento) con tutto lo spessore della fibra.
Così si può enucleare accanto a una patologia cellulare una ‛patologia delle interazioni fra cellule e fra cellule e ambiente'. L'ontogenesi normale è tutta una serie di esplicitazioni di rapporti di questo genere più o meno rigidamente determinati; una rottura in qualche punto di tali rapporti realizza molti degli aspetti che sommariamente vengono descritti come patologia cellulare e che non sono che conseguenze, nelle cellule, di quella rottura. Tali fatti sono in giuoco ovunque, ma vanno particolarmente segnalati i processi della flogosi e quelli della genesi tumorale.
Analogamente dicasi per i rapporti cellule-virus (v. anche microbiologia e virus) che sono oggi molto studiati nel senso dell'invasione e dell'integrazione virale nelle cellule, ma forse lo saranno anche nel senso della possibile genesi autoctona di virus da cellule prima normali.
Dalla patologia delle interazioni fra cellule si passa per salti alla patologia delle interazioni fra tessuti, organi e apparati nell'organismo integrato (endocrinologia, fisiopatologia degli apparati, patologia psicosomatica: in quest'ambito rientra la patologia dello stress o ‛cimento' come esaurimento dei fenomeni neuroendocrini dell'adattamento organismico a situazioni di emergenza acute o, meglio, ripetute e cronicizzate; v. Selye, 1950), così come a quella delle interazioni fra organismo e ambiente naturale e sociale (ecopatologia), oggi così preoccupanti.
b) I problemi della moderna patologia cellulare sperimentale
Numerosi quadri ‛degenerativi' delle cellule descritti dal Virchow e dai successivi patologi sono stati riprodotti sperimentalmente, spesso (ma non sempre) ponendo gli animali da esperimento nelle stesse condizioni in cui l'osservazione era stata condotta nell'uomo o comunque come patologia spontanea.
Ma, naturalmente, riproduzione di un quadro patologico (che è pur acquisizione di indubbia importanza) non significa affatto la possibilità di una sua ‛interpretazione patogenetica'. Tra l'altro, come si è già detto, si è presto verificato il fatto che uno stesso ‛quadro' morfologico (prevalentemente di microscopia ottica, poiché la microscopia elettronica nella patologia cellulare è naturalmente introduzione del tutto recente) poteva aversi per situazioni molto diverse, suggerendo così l'ipotesi che le cellule avessero sequenze fenomenologiche inevitabili e comuni (modi di morire alla fine non troppo diversi); in termini biochimico-metabolici ciò si traduce nell'opinione che con molta facilità, pur partendo da cause eziologiche diverse, si finisca con l'investire terminalmente gli stessi processi dell'autoregolazione e quindi, disorganizzati questi, si debba verificare uno stesso danno consequenziale più o meno comune e irreversibile. E quanto infatti si è constatato in molte indagini sperimentali sulla degenerazione vacuolare, sul rigonfiamento torbido, sulla degenerazione o infiltrazione grassa. Per quest'ultima, nel tentativo di individuare il punto di attacco di un'eventuale noxa steatogena, si sono collezionati numerosi veleni epatici (insieme alla riproduzione di diverse situazioni di abnorme alimentazione) i quali tutti producono steatosi.
Per il fegato sembra oggi che il punto d'incrocio sia situato al livello delle sintesi delle proteine veicolanti il grasso fuori dall'organo (v. McLean e altri, 1965; v. Recknagel e Ghoshal, 1966; v. Lombardi, 1966). Così, per l'effetto necrotico nel fegato, la sperimentazione ha chiarito che esso diviene inevitabile quando - e ciò succede evidentemente con una certa frequenza - si riduca molto seriamente e irreversibilmente il sistema della produzione e della conservazione dell'energia (con lesione delle membrane, formazione e lesione di lisosomi, fenomeni autodigestivi, ecc.). Ma questo stesso difetto energetico, in misura variamente grave, influenza comunque tutti i processi metabolici (ed è esso stesso un difetto metabolico), per cui anche le sintesi proteiche (per es. nel fegato) non possono non essere compromesse: di qui l'embricatura facile tra steatosi e necrosi sperimentale del fegato.
Molto più significative e specifiche della patologia cellulare appaiono dunque - e appariranno via via che le cercheremo - le modificazioni cellulari classificabili come ‛progressive' nel senso di un incremento di attività e strutture sufficientemente coordinate (cioè una reattività positiva anziché negativa o ‛regressiva', degenerativa), senza pregiudizio finalistico. Valgano come esempi le ipertrofie del reticolo endoplasmatico persino nel corso di eventi altrimenti regressivi, come, per es., nell'atrofia muscolare da denervazione (v. Muscatello e altri, 1965) o come effetto di alcune sostanze tossiche che in dosi opportune inducono nel fegato una maggior sintesi degli enzimi atti a demolire quella molecola tossica (enzimi adattativi) e persino una vera proliferazione del loro supporto endocellulare, cioè del reticolo endoplasmatico liscio (v. Rees, 1968). A questo proposito ricordiamo che anche Virchow aveva ricondotto alcuni aspetti apparentemente degenerativi della cellula, quali intercorrenti nel cosiddetto ‛rigonfiamento torbido', a fenomeni di esaltata sintesi proteica (ma probabilmente si trattava di esaltata endocitosi proteica).
A questo proposito si può osservare che non hanno ancora avuto sufficiente sviluppo e chiarimento concettuale i settori-limite della iper-ipotrofia, iper-ipoplasia (anche nei confronti, per es., della neoplasia) e della rigenerazione. La possibilità di una rigenerazione completa del fegato in ratti e in altri animali dopo epatectomia quasi totale ha posto problemi molto interessanti circa i fattori che controllano lo sviluppo ponderale in questo come in altri organi (per es. anche nell'iperplasia-ipertrofia vicariante del rene), e cioè la moltiplicazione e il trofismo cellulari: fattori che realizzano dei meccanismi di feedback tanto direttamente, per informazioni a raggio d'azione locale, quanto fors'anche (direttamente o indirettamente) per informazioni a raggio d'azione generale, cioè attraverso il sistema umorale (v. Goss, 1964; v. Johnson e Roman, 1966).
Tutto ciò fa avvertire che siamo ancora molto lontani da un'interpretazione valida delle occorrenze della patologia spontanea (malattie) in termini di patologia cellulare sperimentale e che la soluzione si troverà solo attraverso una computerizzazione di tutti i fattori operanti nel microcosmo cellulare (diversi a seconda delle varie specifiche cellule, ma in parte anche comuni): i quali fattori si rivelano oggi così numerosi e interagenti che un singolo sperimetatore non può seguirli e volta a volta ponderarli.
Apparentemente più misteriosa, ma forse più prossima a un'interpretazione univoca, è la metamorfosi amiloide: sono sempre più interessanti, oggi, i rapporti tra amibidosi, sistema immunopoietico e reattività del mesenchima (v. Cohen, 1965; v. Mandema e altri, 1968).
c) I problemi della flogosi
Alla descrizione fatta dal Cohnheim (v., 1873) e a quelle successive più specificanti i quadri delle flogosi acute (angioflogosi o essudative) e di quelle croniche (istoflogosi o produttive) si sono aggiunti più recentemente i tentativi in buona parte coronati da successo (ma prevalentemente per le forme acute) di individuare i fattori che convergono alla realizzazione di un fenomeno complesso e integrato quale è la flogosi (v. Zweifach e altri, 1965; v. Houck e Forscher, 1968).
Si é dimostrato che la noxa flogogena agisce, attraverso la lesione primaria locale, sia per produzione in sito di sostanze capillaroe venulo-attive, sia per la mediazione del sistema nervoso. Ma la vasodilatazione, l'essudazione, la leucocitosi che si instaurano quando la flogosi acuta acquista una certa estensione si sono rivelate tutte fenomeni tra loro correlati e anche sotto il dominio del sistema endocrino (corteccia e midolla surrenale), il che ha avuto notevolissima importanza pratica. Di grande interesse è anche il moderno attacco della flogosi al processo immunopoietico (specie nei confronti delle infezioni) in una rappresentazione complessa di tutta la reattività del sistema vascolo-mesenchimale, considerato, in senso lato, più fortemente condizionato dal sistema di correlazione umorale e meno da quello nervoso. Specularmente, la reattività immunologica ritorna a condizionare la flogosi attraverso i fenomeni dell'immunopatologia. Ne conseguono importanti connessioni patogenetiche che riguardano l'insediamento delle malattie infettive, il loro decorso, la loro guarigione o la loro cronicizzazione.
d) La patologia generale delle infezioni
La patologia generale delle infezioni ha naturalmente progredito via via che si sono conosciute meglio non solo le caratteristiche di virulenza o di tossicità degli agenti infettanti, per ognuno dei quali è stato abbastanza studiato il rapporto complesso con l'organismo ospite durante tutto l'arco dell'infezione, ma anche le conseguenze in termini fisiopatologici dell'esistenza delle infezioni e in generale delle contaminazioni batteriche, le quali non sono tutte da vedere come aggressive e dannose per l'organismo (v. Henrici e Ordal, 19483; v. Howie e O'Hea, 1955; v. Jawetz e altri, 1962). Particolare importanza ha avuto l'infezione virale, il rapporto tra virus e organismi, tra virus e cellule. Quest'ultimo è divenuto un problema centrale della biologia e della patologia, investendo grandi campi di studio, di sperimentazione e di speculazione, quali quelli della genetica e delle integrazioni genomiche, dei tumori, dei rapporti fra le cellule, dell'origine stessa dei virus.
Il primordiale fenomeno di difesa antibatterica, la fagocitosi, ha avuto (dopo le fondamentali scoperte di Mečnikov, 1884) un grande sviluppo negli ultimi tempi con l'analisi degli aspetti biochimici e ultrastrutturali del processo della fagocitosi (v. Karnovsky, 1962; v. Rossi e Zatti, 1966).
Per le infezioni virali è stato per lungo tempo sottovalutato il fenomeno dell'interferenza' (Magrassi, 1935-1936), cioè quello per cui un'infezione virale ne ostacola o impedisce una seconda dello stesso o di altro virus. Circa vent'anni dopo è stata isolata la sostanza responsabile (o le sostanze responsabili) del fenomeno: l'interferon, il quale appare ora la principale difesa degli organismi (anche embrionali) contro le infezioni virali (v. Finter, 1967; v. Wolstenholme e O'Connor, 1968; v. Rita e altri, 1963) e fornisce una tematica molto interessante circa i rapporti tra virus e cellule ospiti, sulla recettività delle membrane cellulari al virus e sulla replicazione virale.
Connesso col problema delle infezioni è quello della terapia antinfettiva. È giusto ricordare che le idee geniali di Ehrlich (negli anni 1889-1911) hanno fruttificato in sede di rigorosa biochimica con le scoperte dei chemioterapici e degli antibiotici il cui meccanismo d'azione, quando sia noto (e lo è in molti casi), si dimostra descrivibile, in termini generali, come ‛inibizione enzimatica', con le perspicuità strutturistiche inerenti, le quali hanno portato e portano la ricerca al massimo livello concepibile intellettualmente (v. Domagk, 1935; v. Trèfouël e altri, 1935; v. Fleming, 1929 e 1947; v. Waksman, 1945; v. Woolley, 1952; v. Jawetz 1956; v. Cowan e Rowatt, 1958; v. Shive e Skinner, 1958; v. anche Albert, 19684; v. Rogers, 1968).
e) Il problema della febbre
La genesi del fenomeno febbrile è stata argomento di numerose discussioni, tanto numerose quanto scarse erano le conoscenze obiettive sulla mediazione tra agente nocivo (per es. infezione, tossine batteriche, sostanze varie introdotte per via parenterale, ecc.) e rialzo termico (v. Centanni, 1893).
La scoperta dei pirogeni esogeni ed endogeni (v. Seibert e Mendel, 1923; v. Snell e Atkins, 1968) ha fatto fare un notevole passo avanti alla comprensione della febbre come uno spostamento del sistema termoregolativo a un livello più elevato. Ciò spiega come anche il febbricitante termoregoli. Rimane tuttavia una vasta problematica ancora aperta ed essa riguarda: a) l'individuazione dei meccanismi molecolari attraverso i quali le variazioni termiche si tramutano in impulsi e quindi messaggi nervosi sia al livello periferico (termocettori cutanei), sia al livello centrale (centri termoregolatori); b) la valutazione finalistica del fenomeno febbrile quale episodio comune nel corso di molte infezioni (specie acute).
La persuasione del medico pratico secondo cui la febbre fa parte della reattività generale dell'organismo e come tale è segno di validità difensiva non è facilmente comprovabile sperimentalmente. È possibile che ancora ci sfuggano alcuni aspetti epifenomenici del processo febbrile. Oggi si intravedono interrelazioni fenomeniche fra fagocitosi, azione leucocidica di prodotti batterici e liberazione di pirogeno endogeno (v. febbre). Ma uno studio naturalistico ed evoluzionistico della termoregolazione e quindi del processo febbrile rivaluta pertinentemente il significato adattativo (e pertanto anche difensivo) della capacità a febbricitare (v. Klüger, 1978).
f) I tumori
Tre grandi date per lo sviluppo dell'oncologia sono state quella del 1911 per la scoperta di P. Rous del primo esempio di tumore da virus filtrabile (sarcoma di Rous, scoperta che rimase quasi inspiegabilmente negletta per molti anni), quella del 1914, anno della comunicazione di K. Yamagiwa e K. Ichikawa circa il primo carcinoma sperimentale da sostanze chimiche (catrame; v. anche Yamagiwa e Ichikawa, 1918) e infine quella del 1932, quando J. W. Cook, I. Hieger, E. L. Kennaway e W. V. Mayneord ottennero le prime sostanze carcinogene allo stato puro. Con queste tre scoperte una buona parte delle discussioni sull'origine dei tumori ebbe a cessare e fu sostituita da un'altra serie di orientamenti concettuali, anche se la problematica inerente alla multiformità di rapporti ezio-patogenetici nello sviluppo tumorale non poteva essere obliterata.
Con l'avanzare della genetica e la scoperta e l'analisi del fenomeno mutativo il problema oncologico sembrò avviato a una conclusione unitaria secondo la quale la cellula neoplastica sarebbe da considerarsi una ‛nuova specie' cellulare nella specie organismica (v. Huxley, 1958) per ‛modificazioni' della compagine nucleare. Non mancarono però le insistenze su un'origine epigenetica e fenotipica della malignità, specie quelle basate sull'azione di alcune sostanze cancerogene e degli ormoni e quelle intese a vedere l'oncogenesi come una deviazione primaria del metabolismo cellulare (Warburg, 1923-1956); non infrequentemente, come nel tumore mammario del topino, si trovarono associati fattori sicuramente genetici con quelli epigenetici ormonali e con un fattore virale (fattore di Bittner) anch'esso trasmissibile, ma attraverso il latte (v. Bittner, 1936).
L'ipotesi della deviazione o mostruosità metabolica (glicolisi aerobica) come caratteristica essenziale e discriminante delle cellule neoplastiche, sulla quale ha tanto polemizzato Otto Warburg, è andata perdendo terreno, di pari passo con la diminuzione dell'importanza discriminante della mostruosità strutturale, via via che da una parte si sono conosciute cellule neoplastiche a minima deviazione metabolica e strutturale e dall'altra deviazioni o eccezioni metaboliche e analoghe alterazioni strutturali in cellule normali (v. Oreenstein, 1954; v. Nowinski, 1960; v. Aisenberg, 1961; v. Bush, 1962).
In questa discussione, del resto, andrebbe distinta, nella compagine del tumore, la parte che veramente conserva l'attitudine neoplastica (cellule moltiplicanti si) da quella che apparentemente la perde e si differenzia totalmente in cellule corneificanti, cellule ossee, cellule mucipare, ecc.: è assai verosimile che la modificazione nucleare che permette e realizza la malignità (a parte la definibilità di essa) non sia sempre fatale nè irreversibile al livello cellulare.
Le colture di tessuti hanno fornito un'interessante apertura per la comprensione della modificazione neoplastica delle cellule: queste debbono presentare modificazioni superficiali delle loro membrane che annullano il fenomeno della ‛inibizione da contatto' della moltiplicazione, il quale invece si verifica con le cellule normali (v. Ambrose; altri, 1967). Siamo quindi in presenza di un'alterazione dei rapporti intercellulari.
Con i progressi dell'immunologia e l'importanza della relativa fenomenologia nell'ontogenesi normale (differenziamento tardivo) non poteva mancare l'aspetto immunologico della cancerogenesi, sia nel senso della perdita di particolari antigeni, sia, all'opposto, dell'acquisizione di nuovi.
Infine, con l'estendersi sempre maggiore del novero dei tumori dovuti a virus (virus oncogeni) e con l'analisi sempre più approfondita dei complessi rapporti tra virus e cellule, si fa attualmente strada la persuasione che tutti i tumori siano in definitiva dovuti a virus (comunque questi originati), arrivando quindi a dar forma a una teoria unitaria in cui l'ipotesi genetica prende il sopravvento innestando le variazioni mutative del DNA in quelle da integrazione del materiale nucleidico virale (per i virus DNA); e ciò sarebbe possibile anche per virus RNA, sia per azione citogenetica, sia per riflesso sul DNA, nella misura in cui è verificabile il fenomeno molto importante recentemente scoperto di una disponibilità dell'RNA virale a far da stampo (template) per un corrispondente DNA. L'estensione del ritrovamento delle trascriptasi inverse in molte cellule facilita oggi questa interpretazione (v. Temin, 1972).
Rimangono tuttavia aperti, per i tumori, diversi quesiti certamente non indifferenti, oltre a quello centrale del denominatore comune della loro origine: il problema dei tumori benigni e dei loro rapporti con i maligni; la reversibilità dell'atteggiamento maligno al livello cellulare, cioè in singole unità della popolazione tumorale; i rapporti intercellulari e cellulo-connettivali nella tumorigenesi; la biologia delle metastasi (radiosensibilità, ormonosensibilità, ecc.). (v. neoplasie: Oncologia sperimentale).
g) L'immunopatologia
Che la fenomenologia immunitaria in vivo potesse risolversi in un danno dell'organismo fu noto già al principio del secolo con gli esperimenti di P. Portier e di Ch. Richet sull'anafilassi sperimentale (1902) e di M. Arthus (1903), nonché con le osservazioni cliniche di C. von Pirquet e B. Schick sull'analoga malattia da siero nell'uomo (1903-1905). In seguito a ciò si è sviluppata tutta la teoria e la pratica della patologia da ‛ipersensibilità' (atopie, allergie infettive, ipersensibilità da contatto e da trapianto) tutta, o quasi, facilmente comprensibile nella teoria generale della immunità, che concerne il modo di formazione degli anticorpi, le loro diversità molecolari, il loro ancoraggio alle cellule immunocompetenti o il loro passaggio nel sangue e in varie secrezioni, ecc. (v. Samter e Alexander, 1965; v. Humphrey e White, 1963). Ancora oggi la patologia più recente su base immunologica ha due sezioni, una prevalentemente sperimentale, l'altra invece, ancora largamente congetturale per alcuni aspetti, clinica e osservazionale, che però si riesce a interpretare sulla base dei dati sperimentali.
Vanno citati i risultati molto importanti sulla produzione sperimentale delle nefropatie da anticorpi eterologhi o da complessi antigene-anticorpo (v. Masugi, 1933 e 1934); quelli sulla produzione di encefalomieliti (v. Rivers e altri, 1933); ancor più interessanti e importanti sono i risultati positivi di produzione di una patologia da iso- e autoanticorpi: tiroiditi (v. Witebsky e Rose, 1956), adrenaliti (v. Colover e Glynn, 1958; v. Milcou e altri, 1959), nefropatie (v. Heymann e altri, 1962) ecc.
Corrispondentemente si è accertata o ipotizzata un'origine autoimmunitaria (autoaggressione) di molte malattie umane. Ciò è giustificato soprattutto da tre ordini di considerazioni: a) le suddette prove sperimentali che vanno via via estendendosi (v., per es., la miopatia isoimmune ottenuta da Trisotto e altri, 1970); b) la dimostrazione di concentrazioni globuliniche anticorpali e di complemento nei luoghi delle lesioni, o di movimenti anticorpali nel plasma; c) la permissibilità di una teoria immunitaria che non contrasta con tali reperti, in particolare la teoria della immunotolleranza e della sua reversibilità.
Sono così considerate nel novero delle malattie autoimmuni alcune tiroiditi, le atrofie delle mucose, in particolare di quella gastrica con conseguente anemia perniciosa, alcune nefropatie, miocardiopatie e vasculopatie, il lupus eritematoso, le ‛malattie del collageno', la mioastenia grave, alcune malattie epatiche ecc. Un meccanismo collaterale un poco diverso dalla semplice ‛perdita della tolleranza' è quello di una regressione della tolleranza per reattività immunitaria contro antigeni (per es. batterici) molto affini ad altri organismici (per es. antigeni streptococcici nei confronti di quelli cardiaci o renali).
Una critica va tuttavia fatta a una parte della letteratura esistente in questo campo: la sola dimostrazione di globuline e complemento umani nei luoghi di lesione (per es. in quelli dell'aterosclerosi) per mezzo di anticorpi relativi resi fluorescenti non è sufficiente a far dichiarare autoimmune la natura della malattia; depositi aspecifici del tipo ora detto possono verificarsi su lesioni precedenti e altrimenti prodotte. Naturalmente ciò non esclude che il fenomeno, specie per la presenza di complemento, non porti a un aggravamento delle lesioni: per questo e per altri motivi esiste dunque la possibilità che alcune malattie umane, anche non primitivamente autoimmunitarie, abbiano un decorso aggravato per processi autoaggressivi secondari.
Ben nota, nel campo della patologia da reazione immunitaria, è la fenomenologia del ‛rigetto del trapianto' omologo (per non parlare di quello eterologo), ormai largamente studiato anche fuori dal settore puramente sperimentale.
Infine va ricordata la possibile opposta reattività dell'impianto omologo (di tessuto linfatico) contro l'ospite (runt disease) e la cachessia immunitaria (wasting disease) da timectomia neonatale, ambedue nel topino. È importante la considerazione che tanto le malattie autoimmuni quanto queste alterazioni generali organismiche, che rientrano nel quadro della reattività immunopoietica, sono più o meno largamente influenzate dalla situazione genetica dei soggetti (v. immunologia e immunopatologia).
h) La senescenza
Le più vecchie ricerche puramente morfofunzionali sulla senescenza, atte a individuare i tessuti o gli organi da ritenere i maggiori responsabili dell'involuzione senile (tessuto connettivo e sistema vascolare, ghiandole a secrezione interna, ecc.), hanno fornito dati interessanti ma anche non omogenei e senza dubbio secondari rispetto a un nascosto processo primario. Si è visto così che il processo di senescenza, anche quando sia possibile considerarlo svincolato dai fenomeni di patologia cardiovascolare che si sovrappongono tanto frequentemente, è entro certi limiti relativamente diverso da soggetto a soggetto sia per età di insorgenza, sia per velocità di processo, sia, infine, per distribuzione delle lesioni (v. Levi e altri, 1933; v. Antognetti e Scopinaro, 1954).
Le idee semplicistiche su una naturale e fatale ‛isteresi' dei colloidi, alla base della senescenza, potevano aver diritto di cittadinanza solo fino a che non si fosse raggiunta una sufficiente informazione sul ricambio materiale e su quello proteico in particolare e soprattutto sulla vita media delle proteine organismiche, strutturali, enzimatiche ecc. Di rimbalzo, quindi, il problema si è necessariamente spostato sull'apparato riproduttore delle compagini proteiche e quindi sul sistema DNA-RNA (v. Curtis, 1966).
Si considera cioè l'evenienza di ripetute mutazioni nel DNA delle cellule dei vari tessuti (mutazioni somatiche, inevitabili nel tempo) non accompagnate da divisione cellulare (la quale già è bloccata alla nascita o a sviluppo ul timato per alcuni tessuti e si rallenta per altri nel corso degli anni). Mancando la divisione, viene anche meno la selezione a favore delle cellule indenni e ben funzionanti, si accumulano in esse alterazioni progressive della codificazione e pertanto dell'assetto enzimatico e della struttura e della prestazione funzionale. Di qui la relativa variabilità della distribuzione delle deficienze senili (anche se statisticamente livellabili). Tra queste deficienze possono ascriversi anche una minore istocompatibilità o in genere mutamenti nel sistema immunopoietico, onde vengono facilitate le insorgenze di situazioni autoimmuni (autoaggressive).
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