patria
Nella storia repubblicana fiorentina l’amore per la p. costituisce un elemento del discorso politico universalmente condiviso: è un segno dell’eredità di una tradizione indissolubilmente religiosa (l’elenco delle virtù e degli oggetti della carità include appunto la p., secondo Tolomeo da Lucca nel De regimine principum), giuridica (con la collocazione della p. nel diritto comune) e filosofica (con il lascito etico aristotelico e con quello ciceroniano, attraverso il filtro di Agostino e di san Tommaso). I critici risorgimentali, in primo luogo Francesco De Sanctis, poi quelli del ventennio fascista – quali Francesco Ercole o Giovanni Gentile – fino ai più recenti lettori di M. in chiave di repubblicanesimo, tutti sono stati colpiti dall’exhortatio dell’ultimo capitolo del Principe, quella «Marsigliese del Cinquecento» secondo la formula dello storico francese Edgar Quinet, e dalla forma di religione civile tematizzata poi negli elogi della religione dei Romani (e nelle conseguenti critiche alla religione cristiana) nei Discorsi.
Già dal Duecento in poi la nozione di amore di patria compariva come una trasposizione politica della virtù cristiana di caritas: in Discorsi III xlvii 4, così come in Istorie fiorentine III v 24, si trova d’altronde ancora l’espressione carità della patria, nel senso di amore di patria, il che mostra la presenza del vecchio lessico comunale nel linguaggio politico di Machiavelli. L’amore della p. è un’esigenza suprema, una necessità assoluta, la più grande delle virtù: neanche la salvaguardia dell’anima è superiore a quella della p., giacché bisogna «amare la patria più dell’anima». Di possibile, e parziale, origine ciceroniana (De officiis I 57-58), quel detto venne tramandato da numerosi autori fiorentini: così nel Dialogo del reggimento di Firenze (1521-1525) Francesco Guicciardini allude a Gino Capponi, «bisavolo» di uno degli interlocutori del dialogo, il quale «in quegli ultimi Ricordi suoi» scrisse che
bisognava fare de’ dieci della guerra persone che amassino più la patria che la anima, perché è impossibile regolare e’ governi e gli stati, volendo tenerli nel modo si tengono oggi, secondo e’ precetti della legge cristiana (Dialogo del reggimento di Firenze, a cura di G. Anselmi, C. Varotti, 1994, p. 230).
Quanto a M., egli riprende il detto nelle Istorie fiorentine III vii 8. Nella stessa logica, il Segretario presuppone che i suoi destinatari antepongano la p. «alla salute propria» (M. ad Antonio Giacomini, 1° ag. 1505, LCSG, 5° t., p. 67). L’amore di p. è anche naturale, ossia, nel significato che la parola natura prende nella Firenze rinascimentale, è una delle componenti di una storia cittadina di lunga durata: l’amore di p. è naturale come naturale è a Firenze la libertà, secondo un detto ricorrente da Leonardo Bruni a M., passando per Savonarola. Tale convinzione viene ribadita per es. nell’Arte della guerra, quando M. scrive: «l’amore della patria è causato dalla natura; quello del capitano, dalla virtù più che da niuno altro beneficio» (Arte della guerra IV 151). L’«amore della patria» è un requisito strutturante della relazione cittadino/repubblica, fattore cruciale d’unità anche perché opera come una linfa vitale nei confronti del sentimento d’appartenenza a una comunità di uguali (quel sentimento consentendo poi di passare oltre la rivendicazione dell’uguaglianza sociale o giuridica). Nel Discorso intorno alla nostra lingua M. scrive:
sempre ch’io ho potuto honorare la patria mia, eziamdio con mio carico et pericolo, l’ho fatto volentieri: perché l’huomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere, et di poi tutto quello che di buono la fortuna et la natura ci hanno conceduto; et tanto viene maggiore in coloro che hanno sortito patria più nobile. Et veramente colui il quale con l’animo et con l’opera si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso (§§ 1-2).
E nel Discursus florentinarum rerum dichiara:
Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato da la loro patria. Credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria (§§ 100-01).
Maurizio Viroli, sviluppando una notazione di Hannah Arendt, osserva che
per Machiavelli amare la patria ha due significati diversi. Nel primo vuole dire porre il bene della patria al di sopra delle pratiche del culto; nel secondo vuol dire amare un bene comune (la patria) al di sopra di un bene individuale (l’anima) (Viroli 2005, p. 12).
Arendt sottolineava per suo conto che:
la questione, come Machiavelli la vedeva, non stava nel decidere se si amava Dio più del mondo, ma se si era capaci di amare il mondo più di se stessi. E questa decisione in realtà è stata sempre la decisione cruciale per tutti coloro che dedicano la vita alla politica. La maggior parte degli argomenti di Machiavelli contro la religione sono diretti contro coloro che amano se stessi, ossia la propria salvezza eterna più del mondo: non sono diretti contro coloro che realmente amano Dio più di quanto amino il mondo o se stessi (Arendt 1963, trad. it. 1983, p. 34 nota 20).
Tuttavia, se la p. costituisce uno dei valori maggiori dell’etica di M., non è solo per via di una sua convinzione astratta: la riflessione di M. nasce dalla consapevolezza storica del rischio di morte che pesa sulla Repubblica fiorentina in una situazione di guerra permanente. In una prospettiva nella quale ogni atto, ogni concetto diventa funzionale alla difesa dello Stato fiorentino, l’espressione amore della patria acquisisce uno statuto non solo affettivo e va oltre il semplice requisito morale di una doxa ereditata: diventa un movente dell’azione politica e una molla della riflessione di M. nella storia, anche quando non si tratta di Firenze. I verbi associati al sostantivo patria mostrano immediatamente che il concetto viene sempre inserito in una dinamica storica e non in un sistema teorico stabile o in una descrizione statica del mondo politico. La p. nel linguaggio di M. è lo spazio naturale dell’agire politico individuale (tanto più sentito quando se ne sia privi, nell’esilio, quando si è «cacciati» dalla p., e quando si aspira a esserle «resi» o «restituiti»); la p. rinvia a un regime repubblicano che può essere sconvolto (quando essa è «occupata» o «rovinata») e che va difeso (l’obiettivo è allora di «benificare», «liberare» o «salvare» la p.) contro chi la «inganna» o la «tradisce».
La p. costituisce, per una forma di pensiero particolarmente attento alla realtà delle situazioni storiche come quello di M., un elemento soggettivo di valutazione. La presenza e la forza di una nozione come quella di p., oggetto d’amore, è uno dei tratti che impediscono di esaurire il pensiero di M. in logiche strettamente realistiche e prammatiche. In un certo senso, nell’amore per la p. risiede una forza trainante la cui comprensione presuppone un’analisi affinata di tutte le componenti della «qualità dei tempi» come processo in corso, come «verità effettuale», quindi in movimento, suscettibile di mutare anche il quadro dei valori comuni. Così, per es., è «sempre mai tenuta lealtà el tradimento che si facessi contro ad uno demolitore della patria sua» (M. ai commissari del Casentino, 22 nov. 1498, LCSG, 1° t., p. 135). Così viene posto che:
La patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria [...] La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà (Discorsi III xli 3 e 5).
Nelle legazioni e commissarie viene frequentemente proclamata la necessità di dimostrare «amore» o «affezione» (le due parole sono strettamente sinonime) alla p.:
È uficio addunche di buono cittadino, come debbe desiderare ciascuno essere e essere tenuto, quando egli è in qualche espedizione pubblica, avere sommamente caro che qualche avversità gli sopravvenga per mostrare ad una ora e quanto e’ vaglia e quanta affezione e’ porti alla patria sua (M. a Stefano Parenti, 26 luglio 1498, LCSG, 1° t., p. 23).
Il 3 ottobre 1502 M. scrive che Piero Soderini viene ritenuto dai francesi «uno uomo che teme Iddio, savio e amatore della sua patria» (M. ai commissari d’Arezzo, 3 ott. 1502, LCSG, 2° t., p. 326). Così il fratello di Piero, Francesco Soderini, secondo M., non lascia «né a ricordare né ad operare cosa veruna che si convenga a chi ama la sua patria e il bene universale» (M. ai Dieci, 23 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 401). Ancora, il vescovo di Volterra scrive a M. di avere «inteso chiaramente come procede el principio militare [ossia l’ordinanza], che corresponde alla speranza nostra pro salute et dignitate patriae» (Francesco Soderini a M., 4 marzo 1506, Lettere, p. 119). Nei Discorsi si va oltre quell’assunto e viene messo in rilievo che l’amore di p. non è privilegio del solo gruppo dirigente, ma che, in una Repubblica bene ordinata come quella romana, tutto il popolo ne è animato; così, nel discorso che sottolinea che la moltitudine è più savia di un principe, M. asserisce che «chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della sua patria» (Discorsi I lviii 20). Un collegamento necessario viene in tal modo stabilito tra virtù, religione civile, rifiuto dell’ozio e amore di p. come viene teorizzato in Discorsi II ii 35-36:
E benché paia che si sia effeminato il mondo, e disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio, e non secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere.
E ci si dovrà chiedere se alle origini del fallimento di Cesare Borgia non sia stato appunto il fatto che il figlio del pontefice era un uomo senza p., il quale poi non riuscì, o forse non ebbe il tempo di «fondare una patria».
Ma, quale che sia la forza del movente patriottico in M., è notevole il fatto che l’espressione sia usata parcamente: il sintagma amore della patria, in quanto tale, non è usato frequentemente (tre volte soltanto nelle Istorie fiorentine e tre volte nei Discorsi, una volta nell’Arte della guerra). Tutto si svolge come se quell’umanità che viene legata all’amore di p. (Istorie fiorentine III xi 8) fosse sempre meno consistente. Nel primo capitolo del libro V delle Istorie fiorentine, M. può perfino scrivere:
E se, nel descrivere le cose seguite in questo guasto mondo, non si narrerà o fortezza di soldati, o virtù di capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata, si governavano. Il che sarà forse non meno utile che si sieno le antiche cose a cognoscere, perché, se quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e spegnerle gli accenderanno (Istorie fiorentine V i 13).
L’amara conclusione, lontana dagli accenti profetici di altri passi ben noti, rimane esemplare di una questione che per M. va sempre letta alla luce della storia in corso. E la storia dei suoi tempi non si mostrava benevola nei confronti della p. fiorentina. Ma la speranza permaneva, pure se l’analisi nutriva sempre meno illusioni: due anni dopo la fine della scrittura delle Istorie, in piena lega di Cognac, all’apice della catastrofe, poche settimane prima del sacco di Roma, M. può ancora scrivere all’amico Francesco Vettori, il 16 aprile 1527, come per effetto di una resistenza del retaggio repubblicano: «amo la patria mia [più che l’anima]» (Lettere, p. 459, tra quadre integrazione congetturale in presenza di una cancellatura nell’unico testimone della lettera).
Per l’argomento, si vedano anche le voci: odio e amore; pietà e crudeltà.
Bibliografia: E. Quinet, Les révolutions d’Italie, Paris 18481852; F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana (1870-1871), Milano 1991, pp. 480 e segg.; E. Kantorowicz, Pro patria mori in Medieval political thought (1951), in Id., Selected studies, New York 1965, pp. 307-24; F. Chabod, Alcune questioni di terminologia: stato, nazione, patria nel Cinquecento (1957), in Id., Opere, 2° vol., Scritti sul Rinascimento, Torino 1981; H. Arendt, On revolution, New York 1963 (trad. it. Milano 1983); F. Gilbert, Italy, in National consciousness, history and political culture in early mod ern Europe, ed. O. Ranum, Baltimore-London 1975, pp. 21-42; G.M. Barbuto, Gentile, Machiavelli e lo Stato etico di Campanella, «Laboratoire italien», 2001, 1, pp. 109-25; R. Villari, Patriottismo e riforma politica, in Libertà politica e virtù civile, a cura di M. Viroli, Torino 2004, pp. 95-108; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli, e il problema morale dell’Italia, Roma-Bari 2005; E. Mattioda, L’Italia di Machiavelli e quella di Guicciardini, in La letteratura degli italiani 3. Gli italiani della letteratura, Atti del XV Congresso nazionale dell’Associazione degli italianisti italiani, Torino 14-17 sett. 2011, a cura di C. Allasia, M. Masoero, L. Nay, Alessandria 2012, pp. 53-65; E.I. Mineo, Entre caritas et commons. De l’historicité du bien commun, in Studi in onore di Michèle Riot-Sarcey, Paris, in corso di stampa.