Patria
Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta
La rinascita del concetto di patria
di Maurizio Viroli
1° marzo
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si reca a Cefalonia per rendere omaggio alla memoria degli uomini della Divisione Acqui che, su quest'isola, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, furono trucidati dalle truppe tedesche. Con commosse parole il Capo dello Stato, tornando ancora una volta a fare riferimento al valore rappresentato dal patriottismo, ricorda come la scelta di quegli ufficiali e di quei soldati di non cedere le armi, ma di combattere e morire per la patria, fu "il primo atto della Resistenza di un paese libero dal fascismo".
La riscoperta della patria
Se esistessero ancora gli storici interessati a registrare minutamente, anno per anno, gli avvenimenti rilevanti occorsi nel loro paese, non mancherebbero certo di notare che nell'anno 2001 gli italiani hanno riscoperto una parola che avevano dimenticato: patria. Su questa valutazione, fatto più unico che raro, concordano esponenti delle più significative tradizioni intellettuali e politiche. Mario Luzi, per citare qualche esempio significativo, in un articolo intitolato La parola patria per noi esiste (l'Unità, 30 marzo), ha scritto che "La parola Patria è stata pronunciata spesso di questi tempi. È una parola che esprime un concetto complesso che viene da molto lontano […] Ma senza di Lei la nostra comunità non tiene e la nostra antica nazione, che ha avuto la fortuna d'essere unita da una lingua comune prima ancora di essere tale, corre il rischio di disgregarsi, il suo popolo tornare ad essere un volgo disperso". In un'intervista rilasciata a Paolo Conti (Italia. Autocoscienza per una nuova identità, in Corriere della Sera, 8 febbraio) a proposito di un convegno su La parola Italia, concretezza e attualità, promosso dal Gabinetto Vieusseux a Firenze (15-16 febbraio), il politologo Domenico Fisichella ha rivendicato alla destra il merito di aver sempre difeso con coerenza i ritrovati valori della patria e della nazione: "Non posso non registrare, quindi, che la continuità della destra rispetto ai valori dell'unità e dello Stato nazionale è di gran lunga superiore alla scarsa continuità della sinistra", mentre Pietro Scoppola ha parlato di vera e propria inversione di tendenza e di un "rilancio in positivo della parola Italia", osservando che la "crisi più grave" dell'unità nazionale è ormai superata.
La riscoperta della patria sembra essere un fenomeno che coinvolge non solo gli intellettuali ma anche il senso comune. Le ricerche statistiche - ha spiegato il sociologo Ilvo Diamanti - indicano che nella percezione delle persone "non c'è opposizione fra appartenenza locale e nazionale". Tutte le indagini svolte in Italia dimostrano che da parte dei cittadini c'è un diffuso, maggior attaccamento alla realtà urbana e, in minor misura, alla realtà regionale: "l'Italia resta, comunque, un ambito verso cui i cittadini esprimono un significativo sentimento di appartenenza"; e rilevano anche che gli italiani non si vergognano affatto di dirsi italiani: "più dell'83% delle persone intervistate un anno fa […] si dicono 'orgogliosi di essere italiani'. Altre ricerche […] forniscono le stesse stime. E, inoltre, dimostrano che non c'è differenza rispetto agli altri paesi europei. Il grado di orgoglio è nella media. Come l'identificazione nell'Italia" (Tra Europa e localismi. Italia in cerca d'una difficile identità, in Il Sole 24 Ore, 15 febbraio).
Nell'ambito della cultura i segni di un rinnovato interesse per il tema della patria e della nazione sono visibili a partire dagli anni Novanta. Nel 1993 Gian Enrico Rusconi pubblica il saggio Se cessiamo di essere una nazione in cui argomenta che per arginare i diffusi fenomeni di slealtà verso la repubblica democratica è necessario rivalutare la nazione come concetto non etnico ma civico, fondato sulla costituzione democratica. A questo studio Rusconi ne ha fatti seguire altri che hanno precisato la proposta iniziale nell'idea di un 'patriottismo costituzionale' o 'patriottismo repubblicano': Patria e Repubblica (1997), Possiamo fare a meno di una religione civile? (1999). Oltre a questi lavori è utile menzionare, per avere un'idea generale del nuovo fervore intellettuale sui temi della patria e della nazione, il volume Nazione e nazionalità in Italia, curato da Giovanni Spadolini (1994) e i saggi L'italiano di Giulio Bollati (1996), Italia: una nazione senza religione civile di Carlo Tullio Altan (1995), Il patriottismo italiano di Massimo Rosati (2000) e Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia di chi scrive (1995).
Anche se il rinnovato fervore di studi è stato importante, a giudizio di molti la riscoperta dell'idea di patria deve essere interpretata soprattutto come una risposta alle tendenze separatistiche e regionalistiche, da un lato, e al processo di integrazione europea dall'altro. Molti italiani, in altre parole, avrebbero riscoperto l'idea di patria per affermare la loro volontà di essere parte della comunità nazionale contro i fautori di separatismi regionali e contro il pericolo di una perdita di identità culturale e storica all'interno della più grande patria europea.
Il ruolo del Presidente
Per quanto sia del tutto ragionevole cercare la spiegazione dei mutamenti culturali e del senso comune nelle vicende politiche e sociali, la riscoperta dell'idea di patria è da ritenere in misura considerevole il risultato dell'iniziativa ideale e politica del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Le sue parole sulla patria e sull'amor di patria hanno espresso in maniera autorevole sentimenti e aspirazioni che molti italiani sentivano e sentono. Nel periodo storico che per convenzione si definisce della prima Repubblica c'erano poche voci autorevoli che parlassero di patria. In quegli anni le voci culturali più significative erano quelle della cultura marxista (nell'interpretazione gramsciana) e quelle della cultura cattolica, ovvero due tradizioni di pensiero che non conoscevano o non apprezzavano il linguaggio del patriottismo: le prime professavano l'internazionalismo, le seconde l'universalismo cristiano.
Nell'ambito della cultura democratica erano soprattutto gli ex-azionisti e i repubblicani a sentirsi interpreti della tradizione del patriottismo. Essi avevano imparato da Mazzini l'idea che vera patria è solo la libera repubblica che assicura a tutti il pieno godimento dei diritti civili, politici e sociali e da Carlo Rosselli l'idea che la patria degli antifascisti "non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi" (Fronte verso l'Italia, in Scritti dell'esilio, Einaudi, 1992, p. 4). Ma azionisti e repubblicani sono sempre stati, com'è noto, forze minoritarie. La conseguenza di questo stato di cose era che gli italiani che avevano sentimenti patriottici (e non si identificavano con il patriottismo nostalgico e autoritario della destra) trovavano pochissime voci intellettuali che sapessero esprimere e valorizzare i loro sentimenti. Quando hanno ascoltato il presidente della Repubblica parlare con convinzione profonda di patria e di amor di patria, si sono riconosciuti nelle sue parole.
Il patriottismo che Ciampi ha proposto all'attenzione dell'opinione pubblica italiana trae ispirazione sia dalla tradizione repubblicana risorgimentale, sia dall'esperienza ideale e politica del Partito d'Azione. È significativo che il presidente abbia tenuto uno dei suoi interventi più importanti sul patriottismo il 5 dicembre 2000, in occasione della visita alla Domus Mazziniana di Pisa, un luogo che evoca la memoria sia di Giuseppe Mazzini sia di Carlo Rosselli. Nel suo intervento Ciampi citò Mazzini come esempio di un patriottismo che sapeva unire la lealtà verso la propria patria e l'impegno a rispettare e difendere la libertà degli altri popoli, e considerava vera patria solo quella che garantisce le fondamentali esigenze di giustizia. In quell'occasione volle anche indicare un suggestivo percorso culturale: "c'è un filo invisibile e forte, che unisce la nostra Repubblica della Costituzione del 1947 al Risorgimento nazionale e anche alle antiche città italiane che diedero all'Europa - al principio del Millennio che sta finendo - i fondamenti delle libertà moderne, le libertà del cittadino".
Il Capo dello Stato ha ripreso il tema del patriottismo anche nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 2000: "nel corso dei miei viaggi in Italia - ha affermato - ho avvertito uno slancio di emozioni che nel mio animo si identifica con l'amor di Patria e con il sentimento dell'unità dell'Italia". E ha messo in evidenza che il patriottismo bene inteso non è in contrasto né con l'ideale dell'unità europea, né con quello dell'autogoverno federale: "può apparire singolare che proprio ora che si manifesta più intenso il nostro patriottismo, si rafforzino anche altri sentimenti: una maggiore consapevolezza di appartenere alla più grande Patria europea; e una più forte coscienza dell'identità regionale e comunale. Non c'è contraddizione alcuna fra amore della propria città e regione, amor di patria, amore d'Europa. Io amo, insieme, la mia Livorno, la Toscana, l'Italia, l'Europa".
Il discorso pronunciato, pochi mesi dopo, nel corso della visita a Cefalonia è destinato probabilmente a diventare il punto di riferimento ideale di un nuovo patriottismo degli italiani. Ricordando l'eroica decisione degli uomini della Divisione Acqui di combattere i tedeschi piuttosto che subire l'onta di cedere le armi, il Presidente ha detto: "Decideste [voi ufficiali, sottufficiali e soldati della Acqui] così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia".
Le parole del Presidente erano una critica esplicita alla tesi, sostenuta da Ernesto Galli della Loggia nel libro La morte della patria (1998), secondo cui l'8 settembre segnerebbe la data emblematica del crollo del senso di lealtà a una comune patria che la Repubblica non ha più saputo ricostruire per la carenza di un vero patriottismo nell'ideologia e nell'azione della sua classe politica, primi fra tutti i comunisti. Come Ciampi stesso ha riaffermato in un'intervista rilasciata a Mario Pirani (la Repubblica, 3 marzo), la tragedia di Cefalonia dimostra che dopo l'8 settembre in realtà nacque un nuovo senso di amore della patria fondato su ideali di libertà e sulla tradizione del Risorgimento.
Al presidente della Repubblica Galli della Loggia ha risposto (Presidente, parliamo della Patria, in Corriere della Sera, 4 marzo) ribadendo che la tesi della 'morte della patria' non riguarda tanto l'8 settembre e i mesi successivi quanto la Resistenza e il clima politico e ideologico che ha caratterizzato i cinquant'anni di vita repubblicana. La prima non "riuscì, né poteva riuscire, a produrre il radicamento nell'Italia repubblicana di un forte sentimento nazionale in sostituzione di quello andato distrutto con il fascismo e la sconfitta bellica" perché i comunisti, la forza politica più consistente della Resistenza, non avevano un genuino attaccamento alla patria italiana. Il secondo era caratterizzato da contrapposizioni così profonde da rendere impossibile un sentimento unitario nazionale. La conseguenza dei limiti della Resistenza e delle divisioni del dopoguerra è stata che la democrazia italiana fu una "democrazia senza nazione, senza 'patria'".
Il 'patriottismo costituzionale'
La discussione su Cefalonia ha messo in risalto il contrasto fra due ben distinte interpretazioni del patriottismo che convivono, o meglio confliggono, all'interno della rinascita del concetto di patria: una che interpreta l'amore della patria come amore della libertà repubblicana, della Costituzione e delle leggi che la difendono, l'altra che interpreta l'amore della patria come coesione culturale e politica e come unità di intenti e di valori.
Se teniamo presente questo contrasto possiamo intendere per quale ragione l'8 settembre sia per gli uni la nascita della patria libera, per gli altri un crollo dal quale la patria non è più riuscita a risollevarsi. Il diario di Piero Calamandrei - ma altri documenti potrebbero essere citati - è un testo che mette bene in evidenza che la fine della patria fascista, e della sua retorica, è la condizione per la nascita di un nuovo sentimento di patria. In data 1° agosto 1943 scriveva: "una delle colpe più gravi del fascismo è stato questo: uccidere il senso della patria. Questo nome di patria per venti anni ha fatto schifo: questa presuntuosa boria che non sapeva parlar dell'Italia senza aggiungere che tutto il mondo guardava a Roma, questo tono di autoritarismo intimidatorio da teatro di marionette diffuso dai discorsi del 'duce' fino al tono dell'annunciatore della radio, avevano reso insopportabile a ogni ben costrutto stomaco ogni allusione al patriottismo. Si è avuta la sensazione di essere occupati dagli stranieri: questi italiani fascisti che accampavano sul nostro suolo erano stranieri: se erano italiani loro, noi non eravamo italiani" (Diario 1939-1945, a cura di Aldo Agosti, La Nuova Italia, 1977, vol. II, p.155).
La fine del fascismo e l'8 settembre furono vissuti da una parte degli italiani come rinascita della patria, o meglio come possibilità di rinascita che tuttavia non si realizzò, se non in misura assai parziale rispetto alle speranze nate negli anni della Resistenza, della Costituente e della Repubblica. La ragione principale per cui la prima Repubblica non seppe costruire un vero patriottismo è stata, come ho già accennato, che le forze politiche e intellettuali genuinamente patriottiche rimasero sempre un'esigua minoranza soffocata da forze ben più potenti che patriottiche non erano.
Eppure, nonostante questi gravi limiti, la Repubblica ha saputo costruire un suo patriottismo che si potrebbe definire un patriottismo schivo e finanche silenzioso, che fu soprattutto lealtà sincera nei confronti della Costituzione repubblicana. Per quanto laceranti e drammatiche siano state le divisioni politiche e ideologiche del primo cinquantennio di vita repubblicana, più forte ancora è stata la lealtà alla Costituzione. Prova ne sia che la più tenace divisione che ha attraversato il cinquantennio, la ben nota conventio ad excludendum, ovvero il patto stretto dai partiti democratici di escludere il PCI dal governo centrale, non ha dissolto il patto unitario fra tutte le forze democratiche, PCI compreso, che si traduceva nel concetto di 'arco costituzionale' ed escludeva i neofascisti e gli estremisti di sinistra.
Quando è stata sottoposta all'attacco dell'eversione di destra e del terrorismo di sinistra, ovvero a pericoli che provenivano da forze extracostituzionali, la Repubblica ha saputo resistere proprio grazie all'unità delle forze politiche fondata sulla lealtà alla Costituzione. Anche se non seppe produrre una cultura del patriottismo, e tanto meno un ethos patriottico, la Repubblica ha elaborato e mantenuto vivo un patriottismo sotterraneo ma tenace, che costituisce oggi il punto di partenza per un nuovo patriottismo.
Questo dato della nostra storia dà forza alla proposta di un 'patriottismo costituzionale' che rappresenta uno degli aspetti più significativi della 'rinascita della patria'. Elaborata da Jürgen Habermas agli inizi degli anni Novanta, la teoria del patriottismo costituzionale è stata arricchita da Gian Enrico Rusconi: non si tratta - ha spiegato nel citato convegno del Gabinetto Vieusseux - "di manipolare o ritoccare una vicenda storica carica di divisioni o di dimenticare il ruolo diverso dei diversi protagonisti, ma di riconoscere che alla fine la storia della nazione trova il suo esito e fattore unificante nella democrazia, nella Repubblica. Questa è la sostanza del patriottismo costituzionale che non nega e non si contrappone al patriottismo tradizionale, ma lo realizza nell'affetto e nella lealtà verso una Carta che riassume in sé tutta la storia della nazione" (Italia? È una parola, in La Stampa, 15 febbraio).
Il patriottismo costituzionale, a giudizio di Barbara Spinelli, dovrebbe diventare il cuore di un patriottismo europeo capace di contrastare il nazionalismo e il regionalismo xenofobo che ha intaccato parti significative della mentalità europea. Un patriottismo costituzionale europeo, spiega Spinelli, dovrebbe consistere in un sentimento di lealtà e di attaccamento nei confronti di una Costituzione europea fondata su principi di libertà e di eguaglianza. Sarebbe "un patriottismo differente da quello tradizionale: più freddo, meno determinato da legami di sangue, più universalista. Fondato sul rispetto delle leggi, sulla cultura del contratto, della parola data, dei doveri e diritti dell'individuo-cittadino. Sarebbe blutlos per virtù, e non per difetto" (Giustizia e libertà per la patria Europa, in La Stampa, 8 aprile).
Il 'patriottismo costituzionale' può essere la proposta giusta per le repubbliche democratiche multiculturali, a condizione di non dimenticare che il patriottismo è fatto di ragione e di passioni e che le passioni del patriottismo non sono affatto quelle cieche e brutali dell'attaccamento alla terra, agli antenati, all'etnia o alla religione nazionale, ma anche l'amore della libertà comune, la lealtà nei confronti della Costituzione e la speranza in un futuro da costruire insieme. Questo significa che la Costituzione deve essere resa viva e operante tramite l'azione politica e le sentenze della Corte Costituzionale. Deve diventare, in altre parole, cultura, e cultura vuol dire cultura particolare, nazionale.
Il progetto di uno Stato europeo federale è possibile anche se non esistono un popolo europeo o una nazione europea. Nonostante che i cittadini europei siano divisi per nazionalità e quindi per cultura, memorie, tradizioni, lingua e religione, si può sperare di veder fiorire una sorta di patriottismo costituzionale nei confronti della nuova Costituzione e delle nuove istituzioni politiche europee. Il fatto che i cittadini europei appartengano a diverse culture nazionali non è, a mio giudizio, un ostacolo alla formazione della coscienza politica e della lealtà a possibili istituzioni politiche europee.
Le culture nazionali e locali sono una risorsa per la cittadinanza europea. I cittadini europei imparano la cultura della cittadinanza, quando la imparano, nel sindacato, nelle associazioni sportive e culturali, nelle associazioni professionali, al caffè o al pub, in parrocchia o nei partiti. L'apprendistato della cittadinanza avviene sempre, quando avviene, in contesti locali, particolari, culturalmente densi e significativi. Una volta imparata nei contesti locali, la cittadinanza può essere trasportata facilmente nel contesto europeo senza bisogno di aggiungere astratti principi universalistici. Senza l'apprendistato nei contesti particolari non si impara nessuna cultura della cittadinanza.
Un buon patriottismo costituzionale europeo difficilmente potrebbe nascere sul ceppo di un cattivo patriottismo nazionale, mentre un buon patriottismo nazionale si traduce facilmente in un buon patriottismo europeo. Un'Europa dominata da tendenze nazionalistiche potrebbe anche diventare politicamente unita, ma difficilmente potrebbe diventare un'Europa dei cittadini, se con questa espressione si vuole intendere, come mi pare ragionevole, un'Europa che sia abitata da uomini e donne che vogliono e sanno vivere da cittadini e non da semplici spettatori o consumatori.
La cittadinanza è rivestita di vari colori nazionali e locali, si nutre di molteplici memorie, trae ispirazione e motivazione dalle parole di profeti nazionali, viene celebrata in modi e in giorni diversi nei diversi paesi. Per restare in vita ha bisogno di rimanere tale. Il sentimento di appartenenza di cui necessita l'Europa non deve dunque essere costruito aggiungendo principi universalistici alle singole culture nazionali, e neppure disperdendo le culture nazionali in un comune contenitore culturale europeo (quale potrebbe essere poi?), ma soltanto attraverso il rafforzamento di molte e diverse tradizioni civiche.
Diversi modi di essere italiani
La rinnovata riflessione sul patriottismo ha messo in evidenza il limite di idee che pur avevano suscitato un considerevole interesse negli anni Novanta del 20° secolo, ovvero la convinzione che la rinascita di un senso civico in Italia richiedesse la riscoperta di una comune italianità. Credo sia emerso con chiarezza che essere italiani significa poco o nulla. Mussolini era italiano come lo era Carlo Rosselli. Parlavano la medesima lingua (con accenti diversi), prediligevano gli stessi cibi, avevano letto probabilmente Dante, Manzoni e Leopardi. Avevano tuttavia principi politici e morali inconciliabili e le differenze politiche e morali sono molto più importanti delle affinità culturali. Sia che la si intenda come memoria storica comune, o come lingua, oppure come cultura o costume, la nazione non serve a nulla per sostenere o rafforzare il patriottismo repubblicano.
Se guardiamo alla storia, ha scritto Norberto Bobbio, esistono diverse Italie, diversi modi di essere italiani: "c'è l'Italia dei colti e c'è l'Italia dei poveri diavoli, c'è l'Italia dello scudetto, di quelli che si ammazzano per una partita, e c'è l'Italia degli eroi del Risorgimento, di quelli che si sono battuti per l'unità. Ci sono gli italiani che sono fieri di una certa storia d'Italia che non è né la storia politica, né la storia sociale, né la storia religiosa d'Italia, ma è la storia letteraria e artistica, la storia che comprende Dante, Petrarca, i grandi pittori del Rinascimento, coloro che in qualche modo hanno contribuito alla formazione della cultura europea. Quella è la mia Italia, l'Italia nella quale io mi rispecchio, l'Italia per cui sono fiero di essere italiano. Quando a Trento hanno voluto testimoniare la loro fedeltà all'Italia hanno eretto il monumento a Dante. È un'Italia di élite. La maggior parte della gente non ne sa niente. È l'Italia che prosegue con i grandi poeti, con Leopardi, Foscolo, Manzoni e termina con Giuseppe Verdi" (N. Bobbio, M. Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, 2001, p. 9).
I diversi modi di essere italiani si riflettono anche sul modo di intendere il passato. Ci sono sempre stati italiani che si riconoscono nella storia delle nostre repubbliche cittadine e italiani che giudicano quella medesima storia una noiosa successione di fallimenti e sconfitte, così come ci sono sempre stati italiani che si sono sentiti attratti dalla figura di Mazzini e altri che ammirano piuttosto Cavour. Non è possibile né desiderabile elaborare delle narrazioni che siano condivise da tutti e dunque diventino parte di un sentire comune. Ascoltando una bella commemorazione della Repubblica Romana del 1849 tenuta da uno storico di prim'ordine, con la massima serietà intellettuale e la più ampia documentazione possibile, ci saranno alcuni che proveranno viva ammirazione per Mazzini e Garibaldi, altri che giudicheranno quegli eventi un miserevole caso di avventurismo politico; altri ancora che avvertiranno una profonda solidarietà per il povero Pio IX ingiustamente privato di quel potere temporale tanto necessario per svolgere il suo ufficio di pastore di anime. Quanto più le indagini sui momenti fondamentali della storia italiana saranno rigorose e libere da scoperte manipolazioni ideologiche, tanto più sapranno aiutare a formare una memoria condivisa, ma è poco realistico pensare che si possa mai arrivare a una narrazione condivisa da tutti.
Cattolicesimo e patriottismo
Le discussioni dell'anno 2001 sull'idea di patria hanno toccato anche il problema del ruolo svolto dalla religione cattolica e dalla chiesa di Roma nella formazione dell'identità italiana. In un intervento al Dialogo sul Novecento svoltosi a Montecitorio, Indro Montanelli ha riproposto la tesi, che deriva da Machiavelli, che la mentalità cattolica e la Chiesa siano sempre state un ostacolo grave alla formazione di una coscienza patriottica italiana (Dialogo sul Novecento, Camera dei Deputati, 2001, pp. 24-25). Intervenendo al convegno del Vieusseux lo storico Franco Cardini ha invece affermato che "è evidente che, nel secolare corso della storia policentrica d'Italia, non si può parlare di una identificazione totale e assoluta fra l'essere italiani e l'essere cattolici, ma appare non meno indiscutibile che il cattolicesimo e la presenza della Chiesa cattolica hanno avuto, durante quel corso, un ruolo importante e protagonistico. Si può dire che il rapporto strettissimo (a livello non solo culturale e strutturale, ma anche istituzionale) tra italiani e Chiesa romana ha caratterizzato le vicende della penisola ininterrottamente dal IV al XIX secolo" (Un prisma chiamato Italia, in Avvenire, 15 febbraio). Cardini ha affermato anche, tuttavia, che negli ultimi anni il rapporto fra essere cattolici ed essere italiani è diventato assai più debole e che fra i cattolici si sta facendo lentamente strada la consapevolezza che l'Italia sia un territorio nel quale "la minoranza di fatto cattolica debba vivere nell'accettazione del suo ormai disvelato ruolo minoritario".
Credo sarebbe importante, per rafforzare in Italia il patriottismo civile adatto a una società pluralistica, che si affermasse, fra cattolici e non cattolici, la consapevolezza che la nostra identità (di italiani) non dipende affatto dall'avere o dal non avere una fede religiosa. Chi non crede in Dio, o crede in un Dio diverso da quello dei cattolici, è italiano a pieno titolo. Anche se è del tutto vero che l'identità italiana è sempre stata profondamente segnata dalla religiosità cattolica, è del pari vero che la storia europea e la storia italiana (ma anche la storia degli Stati Uniti e di altre nazioni) sono state per secoli storia degli sforzi per emancipare lo Stato dalla Chiesa, nell'interesse dello Stato e nell'interesse della Chiesa. O meglio nell'interesse di chi ha preso e prende sul serio il precetto cristiano che la fede si insegna solo con la parola e con l'esempio, e dunque non ha bisogno del potere coercitivo dello Stato. Il patriottismo civile e la religiosità possono convivere bene, anzi, possono rafforzarsi e limitarsi l'un l'altra, a condizione che il patriottismo non voglia farsi religione civile intollerante e la religione non voglia diventare potere temporale.
Il patriottismo nella società multiculturale
La rinascita dell'idea di patria incontra tuttavia anche scetticismo e ostilità. Alcuni studiosi ritengono che le parole patria e nazione siano irrimediabilmente logore e quindi inservibili per sostenere il rafforzamento della coscienza civile degli italiani. A questa obiezione si può rispondere che gli ideali politici (e le parole che li esprimono) possono rinascere con significati nuovi anche dopo lunghi periodi di declino e di vita stentata, se hanno radici profonde nella storia di un popolo e se ci sono uomini e donne che sanno riaffermarli con convinzione sincera e con parole vere e convincenti. Prova ne sia che il patriottismo repubblicano, sconfitto nel Risorgimento, emarginato nei decenni postunitari, soffocato dalla retorica imperialista del fascismo, rinasce durante la Resistenza e vive con una sua dignità durante gli anni della Repubblica.
Altri commentatori, come Indro Montanelli, hanno invitato a sospendere le dispute sul passato, in primo luogo la Resistenza e il fascismo, e a non riaprire sempre nuovi processi "che non riescono mai ad approdare ad una sentenza definitiva" (Amor di patria e conformismo, in Corriere della Sera, 6 marzo). Come ho già messo in evidenza a proposito dell'esigenza di costruire una memoria storica condivisa, le controversie storiche non possono per loro natura approdare a sentenze definitive. Questo non significa che esse siano inutili o dannose. La consapevolezza del proprio passato è essenziale per la formazione della coscienza civile di un popolo poiché sviluppa nei più sensibili e nei più generosi l'idea di avere l'obbligo morale, nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto, di realizzare gli ideali civili per i quali hanno lottato i compatrioti che hanno vissuto prima di noi. Questa consapevolezza può essere conservata e rafforzata solo attraverso narrazioni convincenti e rigorose, non importa se contestate e controverse, sulle grandi esperienze del passato.
Altri ancora, come Alberto Arbasino, pongono la domanda se e come sia possibile il patriottismo in una società multiculturale come si sta avviando a diventare anche l'Italia. "Per i più giovani - ha scritto Arbasino - ci sarà un bel problema: l'amor di Patria comprenderà anche gli stranieri che vivono nel nostro paese, ma hanno altre patrie, diverse, con tutt'altri amori e valori e caduti patriottici, altre fedi religiose, altre bandiere nazionali, altre lealtà civili?" (Fratelli d'Italia, la Patria s'è desta…, in Corriere della Sera, 7 marzo). Alla domanda che Arbasino pone si deve rispondere che il patriottismo, nel suo significato più genuino, ovvero di amore della libertà comune e della Costituzione che la difende e la rende possibile, può fiorire anche in una società multiculturale. Ne è prova l'esperienza degli Stati Uniti, una nazione che ha saputo costruire e mantenere vivo da una generazione all'altra un patriottismo fondato sulla comune lealtà ai principi politici della democrazia, nonostante abbia accolto e accolga cittadini appartenenti alle etnie e alle religioni più diverse. La ragione per cui il patriottismo civile o repubblicano è possibile anche in una società multiculturale consiste nel fatto che il sentimento di comune appartenenza che tale patriottismo esige è un sentimento di appartenenza a una repubblica, ovvero a una comunità di cittadini, non a una comunità etnica o religiosa.
L'idea che la Repubblica sia una comunità civile fondata sulla condivisione di diritti e doveri ha trovato di recente conferma in una significativa ma poco nota sentenza della Corte Costituzionale (sentenza del 10 marzo 1999 nr. 172, redatta da Gustavo Zagrebelsky), che sancisce anche per gli apolidi l'obbligo di prestare servizio militare: "Tale comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio di cittadinanza in senso stretto - chiarisce la sentenza - accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall'art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell'uomo e richiedendo l'adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l'appunto, dal legame stretto di cittadinanza". Se si può esigere che anche l'apolide difenda la patria in cui egli vive per elezione, e non per diritto di nascita o di sangue, è possibile pensare a legami di solidarietà anche fra cittadini di etnia e religione diverse.
La festa della Repubblica
Una delle conseguenze più significative della rinascita dell'idea di patria è il ripristino del 2 giugno, anniversario della nascita della Repubblica, come giorno festivo. Questa decisione del Parlamento cancella l'anomalia di una Repubblica che non considera la ricorrenza della propria nascita come un giorno festivo, quasi che l'evento fosse di poca importanza o addirittura imbarazzante. La Repubblica deve saper ricordare la propria nascita e con essa i suoi eroi e i suoi martiri, quelli celebri e ancor più quelli sconosciuti o dimenticati; deve esporre con dignità e senza boria i propri simboli, a cominciare dalla bandiera; deve celebrare con misura e sincerità le ricorrenze che ricordano eventi importanti della storia collettiva degli italiani; deve rispettare i monumenti e i luoghi pubblici; deve dare ai cittadini la possibilità di ascoltare le musiche che hanno espresso il bisogno di vivere liberi degli italiani e delle italiane che hanno vissuto prima di noi. Non deve imitare né la pompa reale, né il fasto cortigiano, né la liturgia della Chiesa, ma deve avere dei rituali che si svolgono negli edifici pubblici e nelle piazze, e che hanno quali protagonisti principali i cittadini, i loro rappresentanti, le forze di sicurezza e le forze armate. Il ritorno della festa della Repubblica è stato un evento importante che ha ridato forza alla rinata di idea di patria. È auspicabile che le forze migliori della cultura e della società civile siano disponibili a dare il loro contributo per spiegare il significato politico e morale della repubblica democratica e per spiegare il significato della nascita della nostra Repubblica nella storia d'Italia.
repertorio
I simboli della Repubblica Italiana
La bandiera tricolore
Il tricolore italiano fu adottato per la prima volta come bandiera nazionale dalla Repubblica Cispadana, il cui Parlamento riunito a Reggio Emilia nella sua quattordicesima sessione, il 7 gennaio 1797, approvò la mozione del deputato di Lugo Giuseppe Compagnoni, decretando "che si renda universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre colori verde, bianco e rosso, e che questi tre colori si usino anche nella coccarda cispadana, la quale debba portarsi da tutti". La bandiera cispadana, che al centro della fascia bianca mostrava lo stemma della Repubblica (una faretra contenente quattro frecce, circondata da una corona di alloro), si rifaceva al modello del tricolore della Rivoluzione francese, cui si erano attenuti, variando solo nella scelta dei colori, anche tutti gli stendardi dei vari reparti militari italiani che affiancarono l'armata napoleonica nel suo passaggio in Italia. In particolare il verde, bianco e rosso comparivano nei vessilli della Legione Lombarda e in quelli della Legione Italiana, che raccoglieva i soldati provenienti dall'Emilia e dalla Romagna, e probabilmente per questo motivo la Repubblica Cispadana li confermò nella propria bandiera. Gli stessi colori furono poi adottati dalla Repubblica Cisalpina (9 luglio 1797), mentre le Repubbliche di Venezia, Genova, Roma e Napoli, che per volere della Francia non poterono fondersi con la Cisalpina, dovettero scegliere altri colori. Dalla Cisalpina il tricolore passò alla Repubblica Italiana (1802) e al Regno Italico (1805), fino alla sua caduta (1814).
Durante il Risorgimento, divenuta simbolo di libertà e di unità nazionale, la bandiera verde, bianca e rossa fu issata nei moti carbonari del 1821 e del 1831, fu adottata dalla Giovane Italia e fu portata in America da Garibaldi. Nel biennio 1848-49 sventolò in tutti gli Stati italiani in cui si instaurarono governi costituzionali. Il 23 marzo 1848, alla vigilia della Prima guerra d'indipendenza, Carlo Alberto, nel proclama rivolto alle popolazioni del Lombardo-Veneto, indicò il tricolore come bandiera nazionale: "per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe […] portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana".
La bandiera del Regno di Sardegna divenne dunque quella verde, bianca e rossa, con inserito al centro, bordato di blu, lo stemma sabaudo. La stessa passò poi, nel 1861, al Regno d'Italia. La foggia dei vessilli presentò però variazioni fino al 1923, quando una specifica legge (l. 24 dicembre 1924 nr. 2264) precisò i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato; in quest'ultima, usata nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche, allo stemma veniva aggiunta la corona reale.
Dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e la proclamazione della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale (19 giugno 1946) confermò come nuova bandiera italiana il tricolore, togliendovi lo stemma dei Savoia. La scelta fu ratificata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della Costituzione, che recita: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni".
L'inno nazionale
"Fratelli d'Italia / l'Italia s'è desta, / dell'elmo di Scipio / s'è cinta la testa. / Dov'è la Vittoria? / le porga la chioma, / ché schiava di Roma / Iddio la creò. / Stringiamoci a coorte / siam pronti alla morte / l'Italia chiamò.
Noi siamo da secoli / calpesti, derisi, / perché non siam popolo, / perché siam divisi. / Raccolgaci un'unica / bandiera, una speme: / di fonderci insieme / già l'ora suonò. / Stringiamoci a coorte / siam pronti alla morte / l'Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci, / l'unione e l'amore / rivelano ai popoli / le vie del Signore; / giuriamo far libero / il suolo natio: / uniti per Dio / chi vincer ci può? / Stringiamoci a coorte / siam pronti alla morte / l'Italia chiamò.
Dall'Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano, / ogn'uom di Ferruccio / ha il core, ha la mano, / i bimbi d'Italia / si chiaman Balilla, / il suon d'ogni squilla / i Vespri suonò. / Stringiamoci a coorte / siam pronti alla morte / l'Italia chiamò.
Son giunchi che piegano / le spade vendute: / già l'Aquila d'Austria / le penne ha perdute. / Il sangue d'Italia, / il sangue Polacco, / bevé, col cosacco, / ma il cor le bruciò. / Stringiamoci a coorte / siam pronti alla morte / l'Italia chiamò".
Questo è nella sua interezza il testo del Canto degli Italiani, scritto a Genova, nell'autunno del 1847, dal poeta e patriota Goffredo Mameli, allora ventenne. I versi suscitarono l'entusiasmo del musicista, anch'egli genovese, Michele Novaro, che di getto, appena venutone a conoscenza, compose una melodia destinata ad accompagnarli. Nacque così quello che era destinato a divenire il più amato degli inni patriottici italiani. Eseguito per la prima volta a Genova il 10 novembre 1847, fu costantemente cantato nei moti rivoluzionari del 1848 e nelle guerre per l'indipendenza fu una delle canzoni più in voga fra i combattenti. Già il primo biografo di Cavour e di Vittorio Emanuele II, Giuseppe Massari, lo definì il vero e proprio inno nazionale italiano e tale lo considerò anche Giuseppe Verdi, che lo inserì, accanto alla Marsigliese e a God save the King, nell'Inno delle nazioni, da lui composto in occasione dell'Esposizione universale di Londra del 1862.
Tuttavia, anche dopo l'unificazione, l'inno del Regno d'Italia rimase quello del Regno di Sardegna: la Marcia reale d'ordinanza, che era stata composta nel 1831, su richiesta di Carlo Alberto, da Giuseppe Gabetti, capomusica del 1° Reggimento della Brigata Savoia. Alla Marcia reale si affiancò, nel periodo fascista, Giovinezza, inno ufficiale del partito, con parole di Salvator Gotta e musica di Giuseppe Blanc. Nelle manifestazioni ufficiali venivano eseguite tutte e due.
Proclamata la Repubblica, furono naturalmente abbandonate sia la Marcia reale sia Giovinezza. La questione del nuovo inno nazionale fu affrontata nella seduta del Consiglio dei Ministri il 12 ottobre 1946, nell'imminenza della cerimonia di giuramento di fedeltà alla Repubblica delle truppe, fissata al successivo 4 novembre. Il ministro della Guerra, Cipriano Facchinetti, suggerì che in quell'occasione fosse adottato l'inno di Mameli e la sua proposta fu approvata. Tuttavia, sebbene nel verbale di quella seduta sia scritto: "si proporrà schema di decreto col quale si stabilisca che provvisoriamente l'inno di Mameli sarà considerato inno nazionale" e mentre la formula del giuramento allora stabilita fu sottoposta all'approvazione dell'Assemblea Costituente, la norma relativa all'inno è sempre rimasta senza seguito legislativo. Ciò, evidentemente, non ha impedito di riconoscere, in tutti questi anni, nelle parole e nella musica dell'inno di Mameli il simbolo dell'identità nazionale italiana.
L'emblema della Repubblica
L'emblema si compone di una stella a cinque punte inserita al centro di una ruota dentata, circondata da due rami di ulivo e di quercia annodati da un cartiglio recante la scritta: "Repubblica Italiana". La stella d'Italia è simbolo di origine risorgimentale: nell'iconografia ottocentesca, infatti, l'Italia veniva rappresentata come una stella luminosa che indicava il cammino da percorrere per raggiungere l'unità e l'indipendenza o come una figura femminile, recante una stella in fronte o sul capo coronato. La ruota dentata d'acciaio è un richiamo al primo articolo della Costituzione: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, quello di quercia la forza e la dignità del popolo italiano.
La scelta dell'emblema ha avuto un iter piuttosto complesso. Per assicurare una larga partecipazione alla definizione dello stemma repubblicano, il 27 ottobre 1946 fu indetto, con decreto del presidente del Consiglio, un concorso nazionale e fu nominata una commissione giudicante, presieduta da Ivanoe Bonomi: le indicazioni fornite erano scarne (esclusione dei simboli di partito, inserimento della stella d'Italia, ispirazione al "senso della terra e dei comuni"), il premio per i primi cinque classificati era fissato in L. 10.000. Al concorso parteciparono 341 candidati, artisti e dilettanti; ai cinque vincitori fu chiesto un nuovo disegno, questa volta con un tema preciso (una cinta turrita con forma di corona, circondata da una ghirlanda di fronde; in alto la stella d'oro; in basso la rappresentazione del mare; infine la scritta: "Unità e libertà"). Fra tutti fu prescelto il bozzetto disegnato da Paolo Paschetto, che venne esposto insieme a quello degli altri finalisti in una mostra a via Margutta. Tuttavia la scelta della commissione non fu approvata. Fu quindi insediata una nuova commissione, presieduta da Giovanni Conti, e fu indetto un secondo concorso. Vincitore, fra 96 partecipanti, risultò anche questa volta Paschetto. Il suo disegno, con alcuni ritocchi apportati dai membri della commissione, fu approvato dalla Costituente nella seduta del 31 gennaio 1948; dopo gli ultimi adempimenti e stabiliti i colori, la scelta dell'emblema fu definitivamente ratificata il 5 maggio successivo, con decreto legislativo a firma del presidente della Repubblica, Enrico De Nicola.
Lo stendardo presidenziale
Lo stendardo presidenziale segnala, secondo l'ordinamento militare e cerimoniale, la presenza del Capo dello Stato e lo segue perciò in tutti i suoi spostamenti. Viene innalzato sulle automobili, sulle navi e sugli aeroplani che hanno a bordo il Presidente, all'esterno delle prefetture quando visita una città, e all'interno delle sale dove interviene ufficialmente.
La prima adozione di uno specifico vessillo destinato al Capo dello Stato risale al 1965. L'allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat scelse un drappo azzurro con al centro l'emblema repubblicano in oro. Nel 1990 il Presidente Francesco Cossiga, che introdusse un nuovo regolamento relativo all'esposizione dello stendardo nelle cerimonie e negli edifici pubblici, decretò l'adozione di un nuovo modello, costituito dalla bandiera tricolore bordata di azzurro. Nel 1992 il Presidente Oscar Luigi Scalfaro ripristinò quello precedente, riducendo però le dimensioni dell'emblema.
Lo stendardo attualmente in uso è descritto nel d.p.r. 9 ottobre 2000 ed è stato issato per la prima volta sul Quirinale il 4 novembre 2000. Si ispira alla bandiera della Repubblica Italiana del 1802 ed è costituito da un quadrato di rosso, bordato di azzurro; sopra il quadrato di rosso è un rombo bianco sul quale è posto un quadrato di verde, con al centro l'emblema della Repubblica in oro. L'esemplare originale è conservato nell'ufficio del comandante del Reggimento Corazzieri.
Il Vittoriano
Edificio simbolo dell'unità della Patria può essere considerato il Vittoriano, il monumento romano eretto per onorare la memoria di Vittorio Emanuele II, "liberatore della Patria, fondatore della sua unità". La sua costruzione, decisa già all'indomani della morte del re (9 gennaio 1878), fu stabilita dal Regio decreto del 16 maggio 1878, nr. 115, che istituiva allo scopo un'apposita commissione reale. Nel 1880 fu indetto un primo concorso internazionale, che fu vinto dal francese P.H. Nénot con un progetto da realizzare presso le Terme di Diocleziano, sul luogo dell'attuale piazza della Repubblica. Parve tuttavia inopportuno che il monumento nazionale fosse affidato a uno straniero e nel 1882 fu indetto un nuovo concorso, stavolta riservato a soli italiani. Il bando di questo secondo concorso era molto più dettagliato del precedente: prevedeva una statua equestre in bronzo del re, uno sfondo architettonico a scalee e infine una precisa ubicazione sulle pendici settentrionali del Campidoglio, in asse con via del Corso. Furono presentati 98 elaborati e vinse un architetto marchigiano, Giuseppe Sacconi.
Il progetto di Sacconi, che subì in corso d'opera diverse modifiche, prevedeva la creazione, sul modello dei grandi santuari dell'età classica, di una grande piazza sopraelevata aperta ai cittadini, raggiungibile attraverso un percorso ascendente di scalee e terrazzamenti e sovrastata da un grandioso porticato. La struttura architettonica doveva essere scandita da gruppi scultorei e bassorilievi celebranti gesta e protagonisti del Risorgimento e culminanti nelle quadrighe poste sul fastigio del portico, rappresentazioni allegoriche quella di destra della libertà dei cittadini, quella di sinistra dell'unità della patria.
Il 30 dicembre 1884 Sacconi fu nominato direttore dei lavori, ai quali si dedicò fino alla sua morte (1905). La posa della prima pietra avvenne alla presenza di Umberto I e dell'intera famiglia reale il 22 marzo 1885, nel corso di una solenne cerimonia la cui scenografia fu curata da Sacconi stesso. Tra il 1885 e il 1888 si procedette, secondo un programma stabilito dal presidente del Consiglio, Agostino Depretis, alla vasta opera di demolizioni necessarie per far spazio al nuovo monumento: furono abbattuti il palazzo-torre di Paolo III, tre chiostri del convento dell'Aracoeli e tutte le case presenti sulla pendice del Campidoglio. Successivamente, per far sì che la prospettiva del Vittoriano da via del Corso assumesse maggior risalto, fu demolito e spostato di alcune decine di metri il palazzetto di Venezia.
I lavori di costruzione procedettero a rilento, anche per la sistematica carenza di finanziamenti. Grandi difficoltà presentarono le opere di fondazione, a causa dell'orografia del sottosuolo, in cui si alternavano roccia e sabbia, e della presenza di cunicoli e gallerie. Polemiche accompagnarono la scelta del materiale: il progetto originario di Sacconi prevedeva il travertino, ma nel 1889 fu stabilito di usare il marmo botticino, proveniente dalle cave di Mazzano presso Brescia, che era più adatto a essere scolpito e modellato, ma nel suo candore risultava del tutto estraneo alla tradizione cromatica dell'edilizia romana. Nel 1905, scomparso Sacconi, la direzione dei lavori fu assunta da Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo Manfredi; alla morte di quest'ultimo (1910), fu confermata ai primi due.
Il 4 giugno 1911, in occasione del cinquantenario dell'unità d'Italia e alla presenza di Vittorio Emanuele III e di 5000 sindaci d'Italia, avvenne la solenne inaugurazione del monumento equestre di Vittorio Emanuele II. La gigantesca scultura in bronzo dorato (alta 12 m e lunga 10) era stata progettata da Enrico Chiaradia, risultato vincitore del concorso indetto nel 1885, e ultimata dopo la sua morte (1901) da Emilio Gallori. Il basamento su cui poggia è decorato da un bassorilievo rappresentante il Trionfo delle opere di pace e delle virtù di guerra, opera di Angelo Zanelli. La statua equestre costituisce il perno della decorazione scultorea del Vittoriano, cui contribuirono nel corso degli anni più di cinquanta artisti.
Angelo Zanelli ideò anche la definitiva sistemazione e decorazione della zona centrale del monumento, quella propriamente detta Altare della Patria, dove nel 1921 venne tumulata la salma di un soldato sconosciuto morto durante la Prima guerra mondiale.
Con la collocazione delle due quadrighe sul fastigio (l'Unità opera di Carlo Fontana, la Libertà di Paolo Bartolini) nel 1925 e 1927 il Vittoriano fu finalmente ultimato. Complessivamente il monumento ha una superficie di 14.500 m2, è largo 135 m, profondo 130, alto 81 (70 senza le quadrighe).
Nel 1987 sono iniziati i lunghi lavori di restauro destinati a sanare lo stato di degrado nel quale il complesso del Vittoriano era caduto nel corso del tempo, a causa di problemi strutturali, di inquinamento atmosferico e anche di mancata manutenzione, forse conseguenza della lunga fase di sfortuna critica che il monumento, ritenuto troppo invasivo rispetto al suo contesto e tacciato di soverchia retorica, ha attraversato. I restauri hanno comportato opere di impermeabilizzazione (infiltrazioni delle acque piovane si erano manifestate già all'inizio del Novecento, quando si verificarono le prime lesioni murarie), di pulizia dai depositi lasciati dallo smog, di ripavimentazione, di ricopertura. È stato ripristinato il meccanismo di sollevamento della cancellata di chiusura (disegnata da M. Manfredi, in ferro, è lunga 40 m) ed è stato predisposto un nuovo sistema di illuminazione, inaugurato nel 1997. La possibilità di usufruire di uno stanziamento di 10 miliardi dai fondi del Giubileo del 2000, per intervento diretto del presidente della Repubblica, ha consentito di condurre a termine la prima fase del restauro e di allestire un percorso di visita all'interno del monumento. Così il 4 novembre 2000 il Vittoriano, che era stato chiuso nel 1969 dopo lo scoppio di un ordigno e da allora era rimasto inaccessibile, è stato riaperto al pubblico, riappropriandosi così del suo ruolo di spazio aperto ai cittadini già previsto dal progetto di Sacconi.
Le onorificenze della Repubblica
L'Ordine al merito della Repubblica Italiana è stato istituito con la l. 3 marzo 1951, nr. 178, ed è composto di cinque classi: Cavalieri di gran croce, Grandi ufficiali, Commendatori, Ufficiali e Cavalieri. Inoltre una decorazione di Gran cordone può essere conferita per altissime benemerenze ai Cavalieri di gran croce. L'uso e la disciplina di questi titoli sono regolati dallo Statuto dell'Ordine approvato con il d.p.r. 31 ottobre 1952. Le onorificenze sono conferite con decreto del presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei Ministri, sentita la Giunta dell'Ordine, a cittadini italiani e stranieri che abbiano acquisito particolari benemerenze verso la nazione nel campo delle arti, della cultura, dell'economia, delle scienze, delle attività sociali, comprese quelle inerenti la pubblica amministrazione e il settore privato. Non possono essere insigniti senatori e deputati durante il loro mandato parlamentare.
La concessione ha luogo ordinariamente il 2 giugno (festa della Repubblica) e il 27 dicembre (anniversario della promulgazione della Costituzione italiana). Le onorificenze concesse in occasione della cessazione dal servizio dei pubblici dipendenti e quelle accordate a stranieri possono avvenire in qualunque data. Gli insigniti sono registrati in un Albo, redatto a cura della Cancelleria dell'Ordine. Oltre a quello al merito della Repubblica Italiana, vi sono altri Ordini cavallereschi repubblicani: l'Ordine militare d'Italia, l'Ordine al merito del lavoro, l'Ordine della stella della solidarietà italiana, l'Ordine di Vittorio Veneto. Il primo nel tempo, la Stella della solidarietà italiana, è stato istituito nel 1947, su proposta di Pietro Nenni, e dedicato agli emigranti "in segno di riunione alla comunità nazionale". Altre onorificenze conferite sono: medaglie e croci di guerra; medaglie al valor civile, al merito civile, ai benemeriti della salute pubblica e al merito della sanità pubblica, ai benemeriti della scuola, ai benemeriti della cultura e dell'arte, ai benemeriti della scienza e della cultura, ai benemeriti della pubblica finanza, al valore dell'Esercito, al valore di Marina, al valore aeronautico; stella al merito del lavoro; benemerenza per otto lustri di lodevole servizio nelle scuole elementari; benemerenza dell'istruzione elementare e materna; medaglia mauriziana al merito di dieci lustri di carriera militare; medaglia militare al merito di lungo comando; medaglia d'onore per lunga navigazione; medaglia militare aeronautica di lunga navigazione aerea.