Abstract
Nel diritto internazionale contemporaneo il principio del patrimonio comune dell’umanità si è affermato nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, con particolare riguardo alla regolamentazione delle attività di sfruttamento dei fondi e dei sottosuoli marini oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali. Lo stesso modello è stato proposto per la regolamentazione di altre aree, senza tuttavia trovare effettiva attuazione. Ancora oggi si tratta per molti aspetti di un concetto astratto e controverso, il cui effettivo impatto sullo sviluppo del diritto internazionale resta ancora non pienamente definito.
Il concetto di res communes omnium – cioè cose riservate al godimento di tutti gli esseri umani – era già noto a Cicerone (De officiis, 1.52) e ad altri giuristi romani, in particolare Elio Marciano, il quale includeva in tale categoria l’aria, l’acqua corrente, il mare e il lido di quest’ultimo (Dani 2014, 7). Tali cose non potevano essere oggetto di dominium da parte di nessuno e dovevano essere lasciate in godimento a chiunque. Esse potevano quindi essere liberamente utilizzate entro il limite necessario a garantire l’esercizio della stessa libertà anche alle altre persone, secondo un concetto giuridico che ricorda molto da vicino il principio della libertà dell’alto mare vigente nel diritto internazionale contemporaneo.
Nel 1493 una Bolla di Papa Alessandro, emanata il 25 settembre, aveva attribuito a Spagna e Portogallo la sovranità sull’alto mare, dividendolo con una linea meridiana che si distendeva attraverso i poli a 100 leghe a ovest delle Azzorre. Tuttavia, nel 1577, a seguito della protesta formale inviata dalla Spagna alla Gran Bretagna dopo l’inizio del viaggio di circumnavigazione del globo da parte di Francis Drake, la Regina Elisabetta replicò che «[t]he use of the sea and air is common to all; neither can any title to the ocean belong to any people or private persons forasmuch as neither nature nor regard of the public use and custom permitteth any possession thereof» (Roberts 1957, 524).
In letteratura, un ruolo importante nello sviluppo del concetto in esame è stato rivestito da Grozio, il quale includeva tra le res communes il mare (così vasto da essere sufficiente per ogni attività che le Nazioni potessero svolgervi, che si trattasse di utilizzo delle acque, di pesca o di navigazione), l’aria e i banchi di sabbia (De Iure Belli ac Pacis, cap. II, I-III). Anche il celebre filosofo Immanuel Kant, nel suo capolavoro «Per la pace perpetua» (1795), invocava l’uso del diritto alla superficie terrestre, che considerava appartenere «to the human race in common», al fine di favorire i commerci e condurre la razza umana sempre più vicina ad una costituzione cosmopolita.
Meno di due secoli più tardi, il 1° novembre 1967, Arvid Pardo, il rappresentante permanente di Malta presso le Nazioni Unite, pronunciò un celebre e lungimirante discorso davanti all’Assemblea Generale, nel corso del quale manifestò la necessità di istituire un regime giuridico che proteggesse le risorse dei fondi e dei sottosuoli degli oceani al di fuori delle giurisdizioni nazionali come ‘patrimonio comune dell’umanità’. In particolare, esse avrebbero dovuto essere gestite e utilizzate collettivamente a beneficio di tutti i popoli e protette dall’appropriazione arbitraria da parte degli Stati, sfruttando «l’opportunità unica di stabilire solide fondamenta per un futuro pacifico e sempre più prosperoso per tutti i popoli». La proposta di Pardo fu fatta propria dalla Dichiarazione sui principi che governano i fondi dei mari e degli oceani, nonché il loro sottosuolo, oltre i limiti della giurisdizione nazionale del 1970, la quale stabilisce che «[t]he sea-bed and ocean floor, and the subsoil thereof, beyond the limits of national jurisdiction (hereinafter referred to as the area), as well as the resources of the area, are the common heritage of mankind» (par. 1), e che «[t]he exploration of the area and the exploitation of its resources shall be carried out for the benefit of mankind as a whole, irrespective of the geographical location of States, whether land-locked or coastal, and taking into particular consideration the interests and needs of the developing countries» (par. 7).
Lo stesso approccio è stato successivamente seguito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, la cui parte XI stabilisce che l’‘Area’ (ovvero i fondi e i sottosuoli marini oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali) e le sue risorse costituiscono patrimonio comune dell’umanità (art. 136). È anche specificato, all’art. 137, che nessuno Stato può reclamare o esercitare diritti sovrani su qualsiasi parte dell’Area o sulle sue risorse, che nessuno Stato o persona fisica o giuridica può appropriarsi di una qualsiasi parte dell’Area o delle sue risorse, e che nei confronti di esse non sarà riconosciuta alcuna rivendicazione od esercizio di sovranità o di diritti sovrani, né alcun atto di appropriazione. L’art. 141 prevede inoltre che l’Area possa essere utilizzata esclusivamente per scopi pacifici. L’amministrazione dell’Area e delle risorse in essa presenti è affidata all’Autorità internazionale dei fondi marini, un’organizzazione internazionale appositamente costituita, la quale deve gestirle «in such a manner as to foster healthy development of the world economy and balanced growth of international trade, and to promote international cooperation for the over-all development of all countries, especially developing States» (art. 150). L’Autorità agisce a beneficio di tutta l’umanità e deve assicurare l’equa ripartizione dei vantaggi e dei profitti derivanti dalle attività nell’Area (art. 140), favorendo l’effettiva partecipazione degli Stati in via di sviluppo alle attività poste in essere nell’Area. L’Autorità svolge anche importanti funzioni con riguardo alla ricerca scientifica marina, il trasferimento di tecnologie e la protezione dell’ambiente marino (artt.143-145). Le norme della parte XI della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare che disciplinano la gestione e lo sfruttamento dell’Area sono integrate dall’Accordo di New York del 28 luglio 1994 relativo all’attuazione delle stesse.
Il concetto di ‘patrimonio comune dell’umanità’ nel diritto internazionale rimane astratto e controverso per numerosi aspetti, in particolare dal punto di vista concettuale e per quanto riguarda la sua ratio filosofica e validità giuridica. Oltre a mancarne una definizione generalmente riconosciuta, in dottrina si discute se esso debba essere considerato un ‘principio’, un ‘concetto’, una ‘norma giuridica’, o un ‘diritto’ (riconosciuto a favore del genere umano complessivamente inteso). Inoltre, alcuni autori ritengono che l’esistenza e la legittimità normativa del principio in oggetto derivino essenzialmente dal diritto naturale (Baslar, K., The Concept of the Common Heritage of Mankind in International Law, The Hague/Boston/London, 1998), mentre altri, abbracciando un approccio marcatamente positivista, reputano che esso assuma validità giuridica – emancipandosi da uno stato di ‘utopia’ – grazie alla prassi pattizia degli Stati, che rinunciano alle proprie pretese di sovranità su determinate aree e permettono così alle stesse di assumere la qualifica di patrimonio comune dell’umanità (Kiss, A.C., The Common Heritage of Mankind: Utopia or Reality?, in International Law, 1985, 428).
In termini giuridici, il concetto di patrimonio comune dell’umanità consta di quattro componenti: a) la titolarità dei beni facenti parte di tale patrimonio appartiene all’umanità complessivamente intesa; b) tali beni possono essere utilizzati soltanto per scopi pacifici e nell’interesse della comunità internazionale complessivamente intesa – con particolare attenzione per i paesi più bisognosi – assicurando la condivisione dei vantaggi e un’equa distribuzione dei profitti che ne derivano; c) nessuno Stato può avanzare pretese di sovranità nei confronti dei beni in oggetto, né può, tantomeno, appropriarsene; d) dovrebbero essere create delle istituzioni ad hoc con il compito specifico di controllare e gestire le risorse che sono parte del patrimonio comune dell’umanità (Francioni, F., Antarctica and the Common Heritage of Mankind, in Francioni, F.-Scovazzi, T., a cura di, International Law for Antarctica, Milano, 1987, 107-108). Vale la pena precisare, con riguardo al punto b), che il riferimento al concetto di ‘comunità internazionale’ non è casuale. Tale espressione si differenzia infatti dalla nozione di ‘umanità’, in quanto fa riferimento alla comunità degli Stati: sono proprio questi ultimi, in linea di principio, a condividere la titolarità dell’utilizzo delle aree incluse nel concetto di patrimonio comune dell’umanità, nei limiti e alle condizioni in cui tale utilizzo è possibile, nonché a beneficiare dei vantaggi e degli utili da esso derivanti. In un mondo ideale, poi, tali vantaggi ed utili dovrebbero essere redistribuiti dagli Stati, in modo equo, a favore delle proprie popolazioni; nella misura in cui ciò dovesse avvenire, sarebbe sostanzialmente l’umanità a godere dei suddetti benefici.
Il concetto in questione presuppone anche una ‘responsabilità intergenerazionale’, in quanto, come enfatizzato dalla Dichiarazione UNESCO sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future del 1997, «[t]he present generations may use the common heritage of humankind, as defined in international law, provided that this does not entail compromising it irreversibly» (art. 8).
Oltre all’Area – cioè i fondi e i sottosuoli marini oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali – e alle risorse in essa presenti, di cui si è dato precedentemente conto, altri beni sono stati qualificati come patrimonio comune dell’umanità da accordi e altri strumenti di diritto internazionale. È il caso, anzitutto, del patrimonio mondiale culturale e naturale di valore universale eccezionale, considerato dal preambolo della Convenzione UNESCO sul patrimonio mondiale del 1972 come «part of the world heritage of mankind as a whole» e protetto nell’interesse della comunità internazionale complessivamente intesa. Tuttavia, trattandosi di beni che, anche se protetti dalla Convenzione, restano saldamente sottoposti alla sovranità territoriale degli Stati in cui si trovano, il loro riconoscimento come patrimonio comune dell’umanità assume una connotazione perlopiù simbolica (Marchisio, S., Corso di diritto internazionale, II edizione, Torino, 2017, 224). Si noti che la Convenzione del 1972 non è stato il primo strumento ad utilizzare il concetto di patrimonio comune con riferimento ai beni culturali. Lo stesso approccio era infatti stato precedentemente adottato dalla Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato del 1954, il cui preambolo sottolinea come «damage to cultural property belonging to any people whatsoever means damage to the cultural heritage of all mankind». Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di una statuizione di carattere simbolico, in quanto la Convenzione si preoccupa sostanzialmente di garantire la protezione dei beni culturali collocati nel territorio degli Stati parti in difesa dell’interesse sovrano di questi ultimi su tali beni.
Sempre in ambito UNESCO, la Dichiarazione universale sul genoma umano e sui diritti umani del 1997 statuisce solennemente che «[t]he human genome underlies the fundamental unity of all members of the human family, as well as the recognition of their inherent dignity and diversity. In a symbolic sense, it is the heritage of humanity» (art. 1). La ricerca sul genoma umano è consentita ed incoraggiata, ma deve essere portata avanti garantendo il pieno rispetto dei diritti e della dignità umana (come sottolineato, in particolare, nel preambolo e nell’art. 10 della Dichiarazione). È vietata qualsiasi pratica inerente all’utilizzo del genoma che sia contraria alla dignità umana, in particolare la clonazione riproduttiva di esseri umani (art. 11). Il genoma non può essere oggetto di appropriazione da parte degli Stati e, in quanto tale, non è brevettabile. Inoltre, come sottolineato dall’art. 4 della Dichiarazione, esso, nel suo stato naturale, «shall not give rise to financial gains».
Altro settore oggetto di regolamentazione giuridica internazionale per il quale è stato richiamato il concetto di patrimonio comune dell’umanità è quello delle risorse fitogenetiche. In particolare, l’Intesa internazionale della FAO sulle risorse fitogenetiche del 1983 stabilisce che tali risorse «are a heritage of mankind to be preserved, and to be freely available for use, for the benefit of present and future generations». Tuttavia, il successivo Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, stipulato nel 2001, ripudia apertamente tale approccio, riconoscendo «the sovereign rights of States over their own plant genetic resources for food and agriculture, including that the authority to determine access to those resources rests with national governments and is subject to national legislation» (art. 10.1), pur sottolineando che i benefici ottenuti dall’utilizzo delle risorse in oggetto devono essere condivisi dagli Stati parti in modo equo, «on a complementary and mutually reinforcing basis» (art. 10.2).
Infine, l’applicazione del principio in oggetto è stata invocata con riguardo all’orbita geostazionaria (Jacobs, B., The Future of Energy: Lunar Resource Management and the Common Heritage of Mankind, in Georgetown International Environmental Law Review, 2012, 235-237). In particolare, la Dichiarazione di Bogotà del 1976 relativa al primo incontro dei paesi equatoriali afferma solennemente che «[t]he segments of the orbit corresponding to the open sea are beyond the national jurisdiction of states will be considered as common heritage of mankind. Consequently, the competent international agencies should regulate its use and exploitation for the benefit of mankind». Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di una statuizione contraddetta dalla prassi, in quanto, sebbene non possano essere avanzate pretese di sovranità sull’orbita geostazionaria, ancora oggi l’uso della stessa si basa sostanzialmente sulla regola del ‘primo arrivato, primo servito’.
Da quanto sopra evidenziato si evince chiaramente che – al momento in cui si scrive – nell’ambito del diritto internazionale il regime del patrimonio comune dell’umanità ha trovato concreta realizzazione soltanto con riguardo alla disciplina dei fondi e sottosuoli marini situati oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali.
Oltre al principio del patrimonio comune dell’umanità, nell’ambito del diritto internazionale esistono altri concetti inerenti a valori condivisi dalla comunità internazionale complessivamente intesa, i quali, per quanto affini al suddetto principio, almeno concettualmente ne rimangono distinti.
Il primo di tali concetti è quello relativo ai cd. beni comuni (common goods). Questi ultimi si sono affermati nella seconda metà del XX secolo, andando a sfidare la concezione millenaria del diritto internazionale quale ordinamento giuridico esclusivamente fondato sulla sovranità degli Stati, le cui norme costituivano essenzialmente ‘deroghe’ a tale sovranità aventi lo scopo di soddisfare interessi reciproci degli stessi Stati nell’ambito delle loro relazioni. I beni comuni corrispondono a valori condivisi dai diversi Paesi del mondo, la cui protezione giuridica fonda la propria ratio non nella necessità di soddisfare interessi individuali degli Stati, bensì in quella di garantire l’affermazione di determinate regole giuridiche e morali nell’interesse dell’umanità intera. I principali beni comuni affermatisi nell’ambito dell’ordinamento giuridico internazionale sono la dignità umana (salvaguardata tramite le norme internazionali sui diritti umani), l’ambiente (o, per usare un termine alternativo, la ‘natura’) e il patrimonio culturale (Lenzerini, F.-Vrdoljak, A., a cura di, International Law for Common Goods. Normative Perspectives on Human Rights, Culture and Nature, Oxford and Portland, 2014). I beni che fanno parte del patrimonio comune dell’umanità possono essere considerati anche rientranti nel concetto di beni comuni; l’Area, in particolare, fa sicuramente parte dell’ambiente, in quanto quest’ultimo include sia l’ambiente terrestre che quello marino. Allo stesso tempo, però, non tutti i beni comuni fanno anche parte del patrimonio comune dell’umanità. Anzi, la stragrande maggioranza di essi ne sono evidentemente esclusi, in quanto non sono generalmente sottratti alla sovranità degli Stati; quest’ultima è infatti soltanto condizionata al rispetto di determinate norme, ma rimane effettiva ed è pienamente esercitata dagli Stati (come è stato ad esempio notato in precedenza con riguardo ai beni culturali e naturali facenti parte del patrimonio mondiale). Per cercare quindi di ‘visualizzare’ correttamente la relazione esistente tra patrimonio comune dell’umanità e beni comuni possiamo pensare a due cerchi concentrici, di cui quello di diametro (assai) inferiore definisce il primo, e quello con il diametro (molto) maggiore rappresenta i secondi.
Un principio che è molto spesso proclamato proprio con riguardo ai beni comuni è quello dell’‘interesse comune dell’umanità’ (common concern/interest of humanity/mankind). Ad esempio, il Trattato Antartico del 1959 sancisce, nel preambolo, che «it is in the interest of all mankind that Antarctica shall continue forever to be used exclusively for peaceful purposes and shall not become the scene or object of international discord». Analogamente, il preambolo del Trattato del 1967 sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzo dello spazio extra-atmosferico, compresa la luna e gli altri corpi celesti, riconosce «the common interest of all mankind in the progress of the exploration and use of outer space for peaceful purposes». Sulla stessa falsariga, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, sempre nel preambolo, dichiara che «change in the Earth’s climate and its adverse effects are a common concern of humankind». Ancora, il preambolo della Convenzione sulla biodiversità del 1992 afferma che «conservation of biological diversity is a common concern of humankind». È un concetto molto spesso reiterato nei trattati relativi alla protezione dell’ambiente, avente lo scopo di definire strategie comuni per affrontare problemi che trascendono i confini del singolo Stato e richiedono un’azione collettiva (Shelton, D., Common Concern of Humanity, in Iustum Aequum Salutare, 2009, 34), in quanto qualsiasi danno causato all’ambiente da attività umane produce effetti negativi nei confronti dell’umanità intera (Mahmoudi, S., Common Heritage of Mankind, Common Concern of Humanity, in Beurier, J.-P.-Kiss, A.-Mahmoudi, S., a cura di, New Technologies and Law of the Marine Environment, The Hague/London/Boston, 2000, 220). Esso, di conseguenza, può al massimo determinare delle restrizioni alla libertà degli Stati di agire in relazione alla materia oggetto del trattato in cui è proclamato, ma certamente non mette in discussione i poteri sovrani degli stessi in quanto tali. Si tratta quindi di un concetto chiaramente diverso da quello del patrimonio comune dell’umanità. Tale differenza è anche concettuale, poiché, mentre il principio ultimo citato si riferisce ad aree peculiari e ben determinate, quello relativo all’interesse comune dell’umanità trova applicazione ‘in modo trasversale’ con riguardo a tematiche specifiche (come i cambiamenti climatici o la biodiversità).
Un’altra categoria con la quale il patrimonio comune dell’umanità si pone in relazione di stretta prossimità è rappresentata dalle res communes omnium. Per quanto apparentemente molto simili tra di loro – e per quanto, come rilevato supra, le seconde possano essere considerate l’antecedente storico del primo – le due categorie rimangono comunque ben distinte. In linea di principio la differenza fondamentale tra i due concetti risiede nel fatto che, mentre, come precedentemente notato, i beni del patrimonio comune dell’umanità possono essere utilizzati soltanto nell’interesse della comunità internazionale complessivamente intesa e garantendo un’equa distribuzione dei profitti che ne derivano, le res communes omnium – sebbene anch’esse non possano costituire l’oggetto di pretese sovrane – possono essere sfruttate dagli Stati individualmente e liberamente, con il solo limite dell’obbligo di diligenza, consistente nel circoscrivere l’appropriazione e lo sfruttamento di tali risorse entro i limiti necessari a garantire l’esercizio effettivo dello stesso diritto anche da parte degli altri Stati. Talvolta, come si vedrà subito di seguito, la distinzione tra i due concetti può tuttavia risultare assai sfumata, in particolare quando, per determinate materie, vengono combinate caratteristiche qualificanti entrambe le categorie, oppure quando strumenti diversi che regolamentano la stessa materia adottano approcci tra essi discordanti.
Delle res communes omnium fanno anzitutto parte l’alto mare (cioè le zone di mare non sottoposte alla giurisdizione nazionale, limitatamente alla superficie e alla colonna d’acqua) e, seppure ciò sia opinabile (per i motivi che saranno spiegati subito di seguito), lo spazio-extra atmosferico, inclusa la luna e gli altri corpi celesti (Marchisio, S., Corso di diritto internazionale, cit., 220-221). In relazione al primo, l’articolo 87 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 codifica il principio di diritto internazionale consuetudinario della libertà dell’alto mare, stabilendo che quest’ultimo è aperto a tutti gli Stati e includendovi la libertà di navigazione, la libertà di sorvolo, la libertà di collocare cavi e oleodotti, la libertà di costruire isole artificiali e altre istallazioni permesse dal diritto internazionale, la libertà di pesca e quella di ricerca scientifica, a condizione che tali libertà siano esercitate «with due regard for the interests of other States in their exercise of the freedom of the high seas, and also with due regard for the rights under this Convention with respect to activities in the Area».
Con riguardo allo spazio extra-atmosferico, la collocazione dello stesso nella categoria del patrimonio comune dell’umanità o in quella delle res communes omnium risulta piuttosto problematica. Ciò in quanto l’art. I del Trattato del 1967 sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzo dello spazio extra-atmosferico, dopo aver stabilito che tali attività dovranno essere attuate a beneficio e nell’interesse di tutti i Paesi, a prescindere dal loro grado di sviluppo economico o scientifico (trattandosi di una prerogativa dell’intero genere umano), dispone che lo spazio extra-atmosferico può essere esplorato e utilizzato liberamente da tutti gli Stati, su basi di uguaglianza, nel rispetto del diritto internazionale e senza discriminazioni di alcun tipo. Il successivo art. II prevede poi che lo spazio extra-atmosferico, inclusa la luna e gli altri corpi celesti, non può essere oggetto di appropriazione nazionale, che essa abbia luogo attraverso pretese di sovranità, uso, occupazione o qualsiasi altro mezzo. L’art. III aggiunge infine che le attività oggetto del Trattato devono essere svolte perseguendo lo scopo di preservare la pace e la sicurezza internazionale e di promuovere la cooperazione e la comprensione internazionale. Appare evidente che il Trattato del 1967 configura lo spazio extra-atmosferico quale res commune omnium. Tale caratterizzazione è tuttavia messa in discussione dall’Accordo del 1979 sulle attività degli Stati sulla luna e gli altri corpi celesti, il quale, all’art. 11, par. 1, sancisce che la luna e le sue risorse naturali costituiscono il patrimonio comune dell’umanità. Il successivo par. 5 dispone poi che gli Stati parti dell’Accordo si impegnano a stabilire un regime internazionale, dotato di procedure appropriate, al fine di governare lo sfruttamento delle risorse naturali della luna, non appena tale sfruttamento apparirà fattibile. In termini tecnico-giuridici, in mancanza di clausole di compatibilità, in entrambi i trattati, che ne definiscano i possibili conflitti, potrebbe essere sostenuto che, quale accordo internazionale successivo, l’Accordo del 1979 – limitatamente alle relazioni tra gli Stati parti di entrambi gli strumenti in oggetto – prevalga sul Trattato del 1967, rendendo quindi preferibile la caratterizzazione dello spazio extra-atmosferico quale patrimonio comune dell’umanità. D’altra parte, il fatto che il regime internazionale appena citato non sia ancora stato stabilito, unito alla scarsa propensione da parte degli Stati di ratificare l’Accordo del 1979 (al 25 marzo 2018 si contano soltanto 18 Stati parti), sembra mostrare chiaramente come la comunità internazionale sia in pratica maggiormente propensa a considerare lo spazio extra-atmosferico quale res commune omnium (Marchisio, S., op. cit., 222-223). La soluzione della questione rimane comunque incerta.
Caratterizzato da relativa incertezza è anche il problema relativo al fatto se possa essere o meno considerata parte del patrimonio comune dell’umanità l’Antartide. In tal senso, nel Trattato Antartico del 1959 non è incluso nessun riferimento al concetto in esame. Addirittura, l’art. IV del Trattato esclude espressamente che lo stesso possa essere interpretato nel senso di presupporre una rinuncia di uno Stato parte dei diritti o delle pretese di sovranità sul territorio antartico precedentemente rivendicate. Allo stesso tempo, l’art. I sancisce che l’Antartide può essere utilizzata solo per scopi pacifici, proibendo qualsiasi attività di natura militare. Sulla stessa falsariga, ma in modo ancora più significativo, il Protocollo al Trattato Antartico sulla protezione ambientale del 1991, all’art. 2, designa l’Antartide quale riserva naturale dedicata alla pace e alla scienza. Il Protocollo introduce inoltre una moratoria di cinquanta anni, a partire dalla sua entrata in vigore, allo sfruttamento minerario dell’Antartide; tale moratoria scadrà nel 2048, essendo il Protocollo entrato in vigore nel 1998. Tuttavia, il sistema realizzato dal Trattato Antartico ha soltanto ‘congelato’ le preesistenti pretese di sovranità sull’Antartide, non eliminandole tout court. Inoltre, alla luce dell’attuale regolamentazione non è assolutamente escluso che sia possibile procedere allo sfruttamento minerario del continente antartico dopo il 2048, secondo modalità che al momento sono tutte da definire (considerato che il trattato che avrebbe avuto lo scopo di regolamentare tale sfruttamento – la Convenzione sulla regolamentazione delle attività concernenti le risorse minerali antartiche del 1988 – è stato sostituito dal Protocollo del 1991 e non è mai entrato in vigore). Evidentemente, una tale situazione non appare compatibile con la qualifica di patrimonio comune dell’umanità, apparendo maggiormente aderente – analogamente a quanto rilevato per la luna e per gli altri corpi celesti – alla caratterizzazione di res commune omnium.
Per dovere di completezza è opportuno fare un cenno anche al concetto di res communis humanitatis. Sebbene parte della dottrina consideri tale espressione come equivalente a res communes omnium, sembra in realtà che i due concetti differiscano, a causa del fatto che, mentre il secondo costituirebbe un concetto di natura ‘privatistica’ che attribuirebbe la titolarità di un bene sì a tutti i consociati, ma ‘individualmente’ (si tratterebbe, in altre parole, di un bene che tutti i titolari del diritto hanno ‘contemporaneamente’ la possibilità di utilizzare su base individuale), la titolarità sulle res communis humanitatis sarebbe invece attribuita all’umanità complessivamente intesa, considerata quindi come un distinto e autonomo soggetto di diritto (Lefeber, R., The Exercise of Jurisdiction in the Antarctic Region and the Changing Structure of International Law: The International Community and Common Interests, in NYIL, 1990, 113). Secondo i fautori di tale ultima posizione dottrinale, la caratterizzazione di res communis humanitatis sarebbe essenzialmente riferibile allo spazio extra-atmosferico (Cocca, A.A., Mankind as A New Legal Subject: A New Juridical Dimension Recognized by the United Nations, in Proceedings of the 13th Colloquium on the Law of Outer Space, 1972, 212). Si tratta, evidentemente, di un concetto molto affine a quello del patrimonio comune dell’umanità, com’è del resto palesato dalla struttura etimologica delle due locuzioni.
L’indagine che precede ha mostrato che, sebbene l’idea di patrimonio comune dell’umanità abbia incontrato molti consensi dal punto di vista ‘ideologico’, in termini di diritto positivo è rimasta circoscritta al solo ambito dei fondi e dei sottosuoli degli oceani al di fuori delle giurisdizioni nazionali. Anche in tale ambito, oltretutto, si tratta di una regolamentazione che è stata sì definita in modo preciso e puntuale, ma che – al momento in cui si scrive – non è ancora contraddistinta da una significativa attuazione concreta, sebbene l’Autorità internazionale dei fondi marini funzioni come istituzione indipendente già dal 1997 e abbia iniziato a cooperare con gli Stati in attività di esplorazione dei sottosuoli marini. Tutto ciò in un contesto nell’ambito del quale, per converso, da più parti si invoca l’estensione del principio in oggetto ad altre aree, ad esempio l’Antartide (Francioni, F., Antarctica, cit., 133-136), e i Paesi in via di sviluppo lo considerano un metodo per porre un freno al dominio dei Paesi industrializzati nello sfruttamento di risorse di importanza capitale per il futuro della terra (Frakes, J., The Common Heritage of Mankind Principle and the Deep Seabed, Outer Space, and Antarctica: Will Developed and Developing Nations Reach a Compromise?, in Wisconsin International Law Journal, 2003). Esiste quindi indubbiamente un’evidente ‘tensione’ tra l’approccio ideologico e l’applicazione concreta del principio di cui si tratta. Il motivo di tale asimmetria è in realtà risultato ben chiaro fin dalle origini della concettualizzazione teorica dell’idea di patrimonio comune dell’umanità. Colui che è considerato il ‘padre’ di tale idea, Arvid Pardo, faceva presente che essa andava a sfidare «[the] structural relationship between rich and poor countries», determinando una «revolution not merely in the law of the sea, but also in international relations» (Pardo, A., Ocean Space and Mankind, in Third World Quarterly, 1984, 569). In altre parole, la sua effettiva operatività presupporrebbe «major changes in the world that would be required to apply its provisions» (Myers, D.S., Is There a “Common Heritage of Mankind”?, in Proceedings of the 13th Colloquium on the Law of Outer Space, 1990, 335). Tali cambiamenti non dovrebbero semplicemente avere carattere normativo, ma presupporrebbero soprattutto una revisione drastica – almeno per le aree sottoposte all’applicazione del principio del patrimonio comune dell’umanità – del caposaldo fondamentale del diritto internazionale moderno, ovvero il principio della sovranità degli Stati. È vero che negli ultimi decenni questi ultimi hanno – progressivamente e faticosamente – accettato notevoli restrizioni alla loro sovranità, perfino allo scopo di salvaguardare quei beni comuni di cui si è parlato in precedenza e che non sono legati alle dinamiche di reciprocità che caratterizzavano il diritto internazionale tradizionale. È però anche vero che l’idea del patrimonio comune dell’umanità non si limiterebbe semplicemente a circoscrivere tale sovranità, ma toglierebbe ad essa qualsiasi ruolo. Come se ciò non bastasse, l’effettiva realizzazione dell’idea in oggetto impedirebbe ai Paesi più potenti di approfittare del loro migliore livello di sviluppo sociale e tecnologico, costringendoli a porsi su un piano di parità – in termini soprattutto di opportunità di sfruttamento delle risorse e di distribuzione degli utili – con quelli più poveri. Si tratta di una prospettiva che, nel momento storico che stiamo attraversando, è ancora difficilmente accettabile da parte dei suddetti Paesi, i quali non mancano di sottolineare come la piena attuazione del principio in esame inibirebbe le potenzialità dei mercati e frenerebbe lo sviluppo economico. Nel contempo, il fatto stesso che il principio del patrimonio comune dell’umanità sia riuscito ad affermarsi anche solo in senso ‘ideologico’ costituisce una prova incontrovertibile che un importante processo di revisione del diritto internazionale ha avuto inizio, e che esso è verosimilmente destinato a compiersi, sebbene sia alquanto arduo prevedere quanto tempo occorrerà affinché ciò si verifichi.
Fonti normative
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Bibliografia essenziale
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