Patrimonio monumentale e artistico
di Oreste Ferrari
Patrimonio monumentale e artistico
sommario: 1. La crisi del concetto di patrimonio artistico nella sua genesi storica. 2. L'attuale discorso sui ‛beni culturali'. 3. Fondamenti disciplinari e strumenti operativi. 4. Prassi, comportamenti, traguardi. □ Bibliografia.
1. La crisi del concetto di patrimonio artistico nella sua genesi storica
La nozione di patrimonio artistico è, attualmente, tanto generalizzata, almeno nei suoi postulati essenziali, tanto d'uso corrente, da sembrare che non necessiti di ulteriori esplicitazioni. In essa, intanto, generalmente si conviene siano comprese le ‛cose' portatrici del significato di testimonianze oggettive delle civiltà (e, in specie, delle civiltà trascorse): talché più propriamente si parla di ‛patrimonio storico e artistico', con accezione intesa a dilatare quel significato oltre la specificità della qualificazione estetica delle singole ‛cose'.
Altro postulato essenziale è che tale patrimonio sia ‛comune': pertinente quindi non a quegli individui, o limitati gruppi sociali, che di singole cose o di complessi di queste siano di fatto, a valido titolo, possessori, bensì alla comunità, appunto, nel senso più vasto e onnicomprensivo. Dal che discende ancora che la nozione di patrimonio storico e artistico è assunta dalla comunità stessa per motivare propri comportamenti, atti, provvidenze (tecniche, legislative ecc.) miranti alla custodia, alla valorizzazione, alla diffusione dell'apprezzamento e alla conservazione di quel patrimonio: atti, tutti questi, che pur quando non coincidano con i comportamenti e gli interessi degli individui possessori, ma a essi si sovrappongano o prevalgano o perfino contrastino, sono legittimati proprio in virtù di tale assunto, in deroga dunque ad altre istanze del diritto positivo proprie della medesima comunità.
Parrebbe, dunque, dal tracciato di questi connotati di base, che la nozione di patrimonio storico e artistico sia un incontestato e incontestabile termine di riferimento del consorzio civile, un'acquisizione definitiva della coscienza pubblica.
E però, la constatazione flagrante e quotidiana della scarsa capacità di codesti pubblici comportamenti, attività e provvidenze di tradurre le proprie affermazioni di principio in modi realmente atti a conseguire i loro peculiari obiettivi (ossia a meglio conservare, conoscere e apprezzare il patrimonio storico e artistico) non è solo il segno di inadeguatezze ‛tecniche', di inadempienze o di semplici conflittualità di interessi. Vale bensì come sintomo (ma più che sintomo: spesso già come irrefutabile verifica) di radicali insufficienze e ambiguità, al limite perfino di una relativa ma sostanziale caduta di significazione, proprio della nozione di patrimonio storico e artistico, così come essa ci è stata tramandata, e delle sue attuali posizioni concettuali.
L'emergere di queste insufficienze e ambiguità ha peraltro concorso a suscitare un dibattito che, messosi in moto appena nell'ultimo decennio e tuttora in corso, si profila teso a una rinnovata elaborazione concettuale dell'oggetto (il patrimonio storico e artistico, appunto) in una visuale che non è più solo quella specifica delle discipline archeologiche e storico-artistiche, ma si dilata almeno ai confini delle scienze sociali.
Ma poiché, come s'è appena detto, questo dibattito è ancora in corso, né è possibile anticiparne gli esiti, sarà qui in primo luogo utile la riconsiderazione - sia pure per sommi capi - delle ragioni per le quali la già generalizzata nozione di patrimonio storico e artistico ha cominciato a entrare in crisi.
Un primo motivo è già insito nell'uso stesso del termine ‛patrimonio', per la contraddittorietà semantica di questo. Infatti per esso da una parte si intende ciò che è stato tramandato dai patres (Vocabolario della Crusca, Venezia 1612), ossia ciò in cui si rende manifesta e tangibile la traditio di un legame etico-sociale, un segno connotativo della persona come della comunità, dunque, con i suoi ben precisi confini, e non anche tutto ciò che si possiede attualmente, anche per nuova acquisizione del soggetto. In altra e più comune accezione il termine denota invece un accumulo di beni, di consistenze specialmente valutabili, virtualmente negoziabili, e ai quali le attribuzioni di ‛storico' e ‛artistico' non bastano nè a conferire quel significato ideale e simbolico che è peculiare dell'altra accezione, nè a dare valore di universalità, in quanto palesemente non ineriscono di fatto alle ‛cose' costituenti il patrimonio, ma ne sono, per l'appunto, ‛attribuzioni', frutto di un intervenuto riconoscimento, di un'acquisita o riacquisita consapevolezza, insomma di un giudizio critico.
Con il che, nell'un caso e nell'altro, si viene a contraddire del tutto uno dei postulati essenziali della nozione di patrimonio storico e artistico, quella del suo essere universalmente ‛comune': nella prima accezione del termine, infatti, questo significato di ‛comune' si restringe all'ambito della individuabilità e sussistenza di un legame tradizionale, nell'altra accezione si restringe invece all'ambito della presa di coscienza delle attribuzioni di ‛storico' e ‛artistico' (in altre parole: determinate cose, monumenti, manufatti di qualità estetica o meno, cimeli, possono costituire patrimonio storico e artistico per talune comunità e non invece per quelle altre che di simili attribuzioni non abbiano ancora preso consapevolezza, e per le prime neanche sempre, potendo tramutarsi o perfino decadere affatto o venir rinnegate le motivazioni ideali e culturali in genere di dette attribuzioni, la traditio insomma).
La contraddittorietà che così, già di primo acchito, la nozione consuetudinaria di patrimonio storico e artistico rivela, è ancor meglio convalidata da una disamina della sua genesi e sviluppo storici che, occorre subito notare, in pratica si sono manifestati in connessione con momenti piuttosto evoluti della civiltà occidentale.
Di fatto ritroviamo i primi, espliciti indizi di una consapevolezza del diritto della comunità sulle ‛cose' di interesse artistico e/o storico soltanto nella Roma tardo-repubblicana, quando le opere d'arte asportate dalle province assoggettate cominciarono a venir considerate monumenta victoriae e il loro apprezzamento non denotava più (secondo un atteggiamento di cui s'era reso prima interprete Q. Fabio Massimo) mollezza di costumi, ma dovere civico: Cicerone, ad esempio, ricorda che il console P. Servilio ‟populo romano apportavit" le opere d'arte delle città conquistate e ‟in tabulas publicas ad aerarium praescribenda curavit" (Verr., II, 1, 57).
Il passo verso la considerazione che res populi romani fosse tutto quanto, anche di proprietà privata, costituiva monumentum, fu breve: ne abbiamo testimonianza in episodi narrati da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 9 e XXXV, 7), relativi al reclamo della pubblica disponibilità delle singole cose o raccolte artistiche; e testimonianza ancora più significativa è il fatto che monumentum, bene pubblico, da custodire e tutelare nel suo aspetto, venisse considerata soprattutto la città, l'Urbs nella sua particolare accezione carica di valori simbolici (Roma communis patria), onde il promulgarsi di speciali disposizioni legislative che si estesero poi a tutto l'Impero (e ne resterà traccia ancora negli statuti dei comuni medievali): dalla Lex municipalis di C. Giulio Cesare, alla Lex Malacitana, alla Lex genetivae Juliae, fino all'editto di Leone e Maiorano del 458 d. C.
Un comportamento conservativo, dunque, che nel ‛patrimonio' vedeva materializzata la continuità storica del populus (ma, piuttosto, dell'ordinamento statale) romano e che ritroviamo, già venato di rimpianto per le migliori età trascorse, nelle provvidenze di manutenzione e di restauro di antichi monumenti disposte da Teodorico per suggerimento di Cassiodoro: ‟propositi quidem nostri est nova construere, sed amplius vetusta servare: quia non minorem laudem de inventis, quam de rebus possumus acquirere custoditis" (Variae, II, 35).
Nasceva così quel modo, o piuttosto sentimento retrospettivo, e perfino di mitizzante venerazione per le reliquie del passato, che riaffiorerà volta a volta per lo stimolo di moventi ideali, o di riacquisita consapevolezza storica, con trasparenti allusioni ad aspirazioni restaurative di antichi ordinamenti politici, da quando Carlo Magno Romanorum gubernans imperium nominò Eginardo custode e responsabile della buona conservazione dei monumenti antichi esistenti nel suo regno, a quando i pontefici reduci da Avignone e poi i primi umanisti (Martino V, Pio II, Sisto IV) dichiararono le devastazioni degli edifici romani sacrileghe quanto le alienazioni dei tesori artistici delle chiese.
Al culmine sarà la famosa, accorata lettera che Raffaello indirizzò a Leone X, lamentando la continua spoliazione degli antichi monumenti per trarre materiali per i nuovi, perpetrata ‟dalli maligni e ignoranti, che purtroppo si sono insino a qui facte ingiurie a quelli animi che col sangue loro parturirono tanta gloria al mondo e a questa patria e a noi [...]: segno evidente pur questo della inefficacia d'ogni rescritto, bolla o disposizione pontificia intesa a definire e tutelare quel patrimonio che pur erano, nella loro maestosa presenza, i resti della Roma imperiale!
Pur da un così succinto riepilogo di episodi specialmente indicativi, è ben evidente che la nozione di patrimonio storico e artistico si è, per lunghissimo tempo, fenomenizzata solo in un ambito culturale assai particolare e ha compreso, non esclusivamente, ma certo preminentemente, le vestigia del mondo classico o le manifestazioni della sua moderna renovatio umanistico-rinascimentale, a scapito - anche nella prassi - di ogni altro momento culturale, da quelli medievali (pur quando legati alle prime origini della spiritualità cristiana: quella ‟indagine dei valori di memoria" di cui dette prova Borromini in S. Giovanni in Laterano fu fatto del tutto eccezionale!) a quelli gotici: valga per tutto lo spregio vasariano per la ‛maniera vecchia', o ‛greca', o per quella ‛tedesca', sotto cui si assommava l'intero arco di quell'‛infelice secolo' che fu l'evo dai tempi di Costantino a Cimabue.
La constatazione delle manifestazioni artistiche medievali è constatazione di fatto, necessaria per il raffronto che meglio misura l'eccellenza e dell'antico e della rinascita: ma senza che ciò implichi, anche, il riconoscimento di un attuale valore di patrimonio culturale a quelle manifestazioni medesime.
Ancora la cultura illuministica, pur nel suo sforzo di estesa, enciclopedica rifondazione concettuale, non si dette, nel complesso, una rinnovata cognizione del patrimonio storico e artistico; toccò bensì singoli temi che concorsero a porre le basi per ulteriori sistematizzazioni del concetto. Così, l'affiorare del fenomeno della rivalutazione dei ‛primitivi' (in un'accezione assai vasta del termine), consonante tanto con le nuove idee di storia temprate sullo studio rinnovato delle fonti quanto con interessi etno- e demologici, ampliava il campo del ‛retaggio' culturale ben oltre i termini canonici (mondo greco-romano e Rinascimento), e ciò proprio alla vigilia o in concomitanza con i fremiti nevocativi del neoclassicismo.
Perfino in certi risvolti delle provvidenze legislative del tempo si palesa un incipiente dilatarsi del concetto: quando ad esempio nell'editto del cardinale Albani del 10 settembre 1733 si invoca, tra i motivi della tutela, il fatto che il prestigio dei monumenti richiama a Roma i forestieri, al di là delle considerazioni di carattere utilitaristico riluce una più viva coscienza del bene pubblico e si intravede una rinata percezione dei valori ambientali e connotativi del contesto urbano. Per altri versi, il programma formulato da A. Zanetti nel 1773 per un primo censimento delle opere d'arte esistenti nelle chiese e conventi della Repubblica veneta non voleva certo restringersi ad atto amministrativo e fiscale, ma sottintendeva la necessità di una globale ‛ricognizione'.
E ancora, quando il Trattato di Parigi e poi il Congresso di Vienna sancirono il diritto di vari Stati a ottenere la restituzione delle opere d'arte che erano state loro asportate dalle armate napoleoniche, contemporaneamente ribadivano il principio di pertinenza culturale degli Stati stessi (ma già, implicitamente, delle nazionalità) e inserivano questo criterio giuridico nel diritto internazionale, assumendolo dunque a valore universale.
Ma siamo, con questo, già sul crinale tra l'età illuministica e quella romantica, e sarà proprio questa, all'insegna dello spirito nazionale e dello storicismo, a segnare una svolta decisiva nel conformarsi del concetto di patrimonio storico e artistico. Già nella definizione del campo: la ricerca-riscatto dell'identità nazionale, soprattutto nell' Europa germanica, in Francia e in Italia (per induzione anche in Inghilterra, ove pur non si ebbero i medesimi movimenti politici e moti risorgimentali), riabilitava le fonti culturali particolari e autoctone, le radici ‛longobarde', medievali e gotiche, le saghe e leggende e fiabe popolari: le riabilitava spesso con calda immaginazione, fino all'estetismo sociologizzante di W. Morris e al gothic revival, a tutto scapito ora del retaggio classico, non rinnegato certo, ma del quale si cominciava a intravedere - e quindi in altre sedi si intraprendeva a vagliare - l'aspetto di cultura di élite, con le implicazioni autoritarie di cui esso era divenuto esponente, ancor ultimamente, sull'abbrivo della magniloquenza ‛civile' del neoclassicismo!
Si ampliava altresi il campo, talvolta, a meno costruite e oleografiche ‛genealogie', per l'attenzione portata alfine ad altre entità etno-sociali: è estremamente significativo, in proposito, che già l'editto famoso del cardinal Pacca, del 7 aprile 1820, che fu all'origine di tutta la legislazione di ‛tutela artistica' per oltre un secolo, si preoccupasse - per primo e proprio nella situazione dello Stato pontificio, che nella fase di restaurazione cominciava a scontrarsi con dure realtà sociali - di provvedere a forme di salvaguardia anche per le ‛arti e tradizioni popolari'.
Non è però tanto nella formalità degli strumenti giuridici, ma per una ben più vasta pubblicistica, una più risonante ‛esortazione alle storie', che comincerà a penetrare negli strati dell'opinione pubblica borghese il culto delle ‛patrie' memorie comprensivo delle testimonianze oggettive e artistiche di queste. E semmai in connessione al progressivo affermarsi della consapevolezza e della trasformazione del concetto in precetto (si ‛deve', perché è patriottico, aver cura del patrimonio artistico...; oppure, come ancora prescriverà M. Dvoràk nel suo Katechismus der Denkmalpflege, la ‟tutela appartiene ai doveri di ogni uomo colto") che si consolidano gli strumenti giuridici e si istituzionalizzano comportamenti conservativi che prima erano soltanto episodici.
Alle numerose e ricche sistemazioni museali che si realizzarono nel sec. XIX, sia sotto l'aspetto di passaggio o di recupero alla collettività delle grandi raccolte patrizie (come, sovente, specialmente in Italia) e sia sotto l'aspetto di fondazione ex novo di raccolte statali o municipali, era palesemente sotteso un certo, anche se non sempre ben definito, disegno didattico, la promozione dell'istruzione pubblica. Alle istituzioni museali si affiancavano quindi organismi tecnici e amministrativi a più esteso raggio di competenza (commissioni, giunte, deputazioni, soprintendenze, servizi archeologici ecc.) che in molti Stati riflettono l'articolazione delle autonomie locali (da quelle municipali e dipartimentali, come in Francia, a quelle dei Ländern e dei cantoni, come in Germania e in Svizzera), oppure si innervano in nuove strutture centralizzate, come sarà dopo l'unificazione dello Stato italiano.
Nell'un caso e nell'altro le ragioni positive si equilibravano con quelle opposte; l'aderenza alle specifiche dimensioni delle realtà locali valeva si, almeno in linea di principio, a mantenere in più spiccato risalto il legame della continuità storica, della traditio cioè, nella sua immanente fenomenicità, mentre l'istituzionalizzazione di carattere centrale si preoccupava di sottolineare il valore universale, quell'esser ‛comune' che è superamento di particolarizzazioni non soltanto socioculturali, bensì pure concettuali in genere e quindi prammatiche, all'insegna della storia (e della storia dell'arte nel caso specifico) come fattore integrante e unitario.
È una dualità di assunzioni prospettiche che, talvolta alquanto artificiosamente, come vedremo, dura fino ai giorni nostri, portando ancora in sé l'ovvio riflesso di distinte motivazioni di ordine pratico, strettamente gestionale, ma anche politico, non meno che di distinte profilature delle metodologie delle discipline archeologiche e storico-artistiche.
Al di là di queste varie circostanze è comunque estremamente sintomatico il fatto che tutto il lavorio di definizione e di elaborazione concettuale del patrimonio storico e artistico prodotto dall'esperienza illuministica prima e poi dalle idealità romantiche e dall'indagine storicistica, sia sfociato - si direbbe, inevitabilmente - in proposte di modelli di comportamento della società nei confronti di detto patrimonio che, pur quando non formalizzate in disposizioni legislative, ma invece sviluppate in altre forme di dichiarazione di consapevolezza, nella pubblicistica, nella prassi didattica ecc., sono generalmente di carattere inibitorio. E questo non può essere imputato, a ben considerare, soltanto al fatto che le formulazioni giuridiche emesse fin quasi alla metà di questo secolo e le corrispondenti loro traduzioni discorsive si rifanno in sostanza a un'unica matrice, qual è ancora il già ricordato editto del cardinal Pacca, d'oltre centocinquant'anni or sono.
Le circostanze per cui le disposizioni legislative e i modelli di comportamento proposti, impartiti e insegnati consistono quasi esclusivamente di divieti, di prescrizioni e di sanzioni (basti scorrere quella che per molti versi e per molto tempo è stata la migliore normativa moderna europea: la vigente legge italiana n. 1089 del 1 giugno 1939), senza quasi individuare alcun tipo di comportamento ‛attivo' diverso da quello di carattere tecnico e amministrativo deferito a organi istituzionali, tali circostanze, si diceva, non sono dovute soltanto alla persistenza di istanze giuridiche di carattere autoritario, o centralistico.
Alla radice è, semmai, la progressiva sderotizzazione del concetto in questione o, come pure dicevamo all'inizio, la riduzione di questo a nozione generalizzata e però assiomatica, secondo un processo di formulazione ‛riduttiva' che è facilmente individuabile come tipico dell'ideologia borghese. Nè è da sottovalutare il fatto che in questo processo si insinuava, per la già accennata ambiguità radicale del termine ‛patrimonio', proprio quello ‟scindersi della cultura in un complesso di beni diventati per l'umanità oggetti di possesso" (e sia pure di possesso comune, da gestire in forma erogativa per quello che ancor oggi si usa denominare ‛pubblico godimento') che già W. Benjamin avvisava essere ‟idea inconcepibile" e a cui è da opporre una ‟visione dialettica della storia che possa venir conquistata soltanto attraverso la rinuncia a quella contemplazione che è tipica dello storicismo" (v. Benjamin, 1955; tr. it., p. 83).
2. L'attuale discorso sui ‛beni culturali'
L'insorgenza di una nuova problematica relativa al patrimonio storico e artistico e alla sua tutela come compito della società si manifesta, dagli anni sessanta, per una serie di fattori convergenti, accomunati dalla constatazione, ricordiamo, dell'inefficacia assoluta del precetto e delle sue consuetudinarie applicazioni pratiche; alquanto meno, ci sembra, dalla constatazione che l'entrata in crisi del concetto di patrimonio storico e artistico scaturisce dal fatto che questo oramai si individuava come peculiarità di ideologie storicamente spiazzate e comunque non più rappresentative della società come complesso.
Alcuni di questi fattori sono stati tuttavia sollecitati da un più vivace senso di partecipazione espresso da un'opinione pubblica assai meno ristretta, assai meno di classe, e sensibilizzata tanto dai mezzi d'informazione e dal turismo di massa quanto da un associazionismo che pur essendo stato, originariamente, di matrice borghese (se non addirittura elitaria: dal World Wildlife Fund a Italia Nostra), seppe poi aprirsi sempre più al confronto con componenti sociali ed esigenze pratiche talvolta perfino contrapposte. Da questa opinione pubblica, allarmata dalla nuovissima imponenza che assumevano fenomeni come quello dei furti, delle alienazioni e del sottomercato delle opere d'arte, o più ancora come quello dello scempio degli ambienti e dei centri urbani investiti dalla speculazione, veniva dunque il sostegno (non sempre coerente, pure questo è vero, comunque caloroso) alla richiesta per altro già avanzata dagli stessi organi istituzionali (ossia dai cosiddetti ‛addetti ai lavori'), di interventi riformativi che non si limitassero alle sovrastrutture, bensì si concretassero in una vera e propria radicale assunzione di indirizzo e di responsabilità politica da parte della collettività.
Fattore assai più incisivo, per le specifiche dimensioni e la vastità delle sue ulteriori implicazioni, è stato ed è tuttora il tema dell'assetto socioeconomico del territorio che, a fronte di inedite realtà demografiche e produttive, tali da reclamare proprio decise opzioni di carattere politico generale, non poteva non portare a una riconsiderazione globale della nozione stessa di territorio, sia come ambiente naturale sia dal punto di vista urbano.
La constatazione della ‛coincidenza' (ed è criterio di nuova acquisizione, questo, e da tener ben fermo) della quasi totalità dei connotati socioeconomici, dunque antropici, del territorio, nella sua configurazione ‛attuale', con le oggettive sedimentazioni che tuttora si conviene di denominare come patrimonio storico e artistico, tale constatazione ha ovviamente avuto effetti talvolta dirompenti sugli usuali atteggiamenti nei confronti di questo patrimonio. Soprattutto ha suscitato la riflessione sui modi di una salvaguardia non più statica, principalmente conservatrice (in un certo senso ‛museale') delle cose di interesse storico-artistico, prospettando invece l'esigenza di una salvaguardia attiva, dinamica, soprattutto finalizzata a una riqualificazione anche delle funzioni sociali delle ‛cose', non esclusivamente limitata al congruo riutilizzo dei complessi ambientali e urbani nè a una semplice valorizzazione a carattere edonistico-turistico; orientata bensì nel senso del mantenimento, o recupero, e anche sviluppo di un organico rapporto della storia, così come è testualmente rappresentata dagli antichi insediamenti, dai complessi monumentali, dai manufatti e dai costumi e dai linguaggi tradizionali, con l'attuale modello di sviluppo civile ed economico della società, nella giustissima convinzione che questo modello di sviluppo, pur con tutte le sue intime connessioni con i nuovi fattori tecnici e tecnologici di carattere generale, tanto meglio sarà definito e particolareggiato quanto più le comunità che lo assumono avranno preso piena consapevolezza delle proprie identità culturali.
Per logica induzione la problematica dell'assetto del territorio ha dunque sollevato anche la questione dell'individuazione dei diretti e primi destinatari dell'azione di salvaguardia delle cose di interesse storico e artistico, cioè la questione delle comunità nel cui seno si promuove un processo di ‛riappropriazione culturale' di quelle cose stesse, e alle quali competono pertanto più specifiche responsabilità e diritti-doveri di partecipazione non mediata alle medesime azioni di salvaguardia. Quest'esigenza, nonostante macroscopici quanto alienanti fenomeni di urbanizzazione e di emigrazione soprattutto delle classi rurali, è stata secondata anche dall'innalzamento del grado di cultura in generale e dall'associazionismo, e ha messo in luce con più ampia gamma di argomenti la necessità che la gestione della salvaguardia fosse esercitata non più da organismi meramente tecnici e facenti parte di una struttura centralizzata, inevitabilmente burocratica, ma invece da organi immanenti alla complessità delle realtà locali, diretta espressione di queste, in una prospettiva di coinvolgimento delle varie componenti sociali che non derogasse certo da specifiche esigenze e metodologie scientifiche (anche se talvolta si è perfino invocata la ‟deprofessionalizzazione delle funzioni di tutela": v. Corsale, 1975), ma meglio sapesse individuare i propri contenuti politici.
Tutto questo ha trovato facile rispondenza nel più vasto dibattito sul decentramento delle funzioni pubbliche e sui compiti delle autonomie locali che si va sviluppando non soltanto in paesi come l'Italia o il Regno Unito, dove il problema di un ordinamento regionale - pur nella diversa concezione amministrativa della Regione - si è impostato in termini di una nuova dialettica con i poteri centrali ed è a un elevato grado di maturazione, ma anche in paesi come la Francia e la Germania Federale, ove invece la potestà delle autonomie locali era, come già abbiamo visto, ben consolidata, e pur necessitava di darsi nuovi contenuti e nuove prospettive.
Altro fattore intrinsecamente di grande portata innovativa, e pur esso in ceita misura suscitato dal reclamo di assunzione di compiti finalizzati di tutela da parte della collettività, è quello generato dall'aver posto come pregiudiziale (in realtà spesso con una certa semplificazione empirica) il problema della determinazione oggettiva, piuttosto che della definizione concettuale, proprio del patrimonio storico e artistico: il problema, in altri termini, della ricognizione testuale, dell'indagine conoscitiva intesa come esperienza e vincolante presa di coscienza. È dai tempi dello Zanetti, sappiamo, dalla fine del Settecento, che un problema come questo incombe sugli organismi tecnici e sulle istituzioni culturali interessate alle attività di studio e di tutela del patrimonio storico e artistico; esso ha percorso come costante Leitmotiv le legislazioni ottocentesche e quelle della prima metà di questo secolo e ha determinato uno dei campi di esperienza e di ricerca attiva più fecondi dei tempi moderni: basti ricordare, tra tutti, l'esempio che venne da A. Riegl e Fr. Wickhoff nella Scuola di Vienna, attraverso appunto il tirocinio della prassi ricognitiva.
Tuttavia è ben significativo delle nuove istanze il constatare come mai quanto nell'ultimo quindicennio la problematica della ricognizione, del censimento e, più complessivamente, a livello veramente scientifico, della catalogazione, si sia imposta agli organi istituzionali sia a livello nazionale (specialmente in Francia e in Italia, per il sorgere di strutture operative nuove, quali l'Inventaire des Monuments et des Richesses Artistiques de la France e l'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, e nella Germania Federale e in Austria, come in molte nazioni dell'Est europeo, dalla Polonia all'Ungheria) e sia a livello di cooperazione e di intese internazionali (si pensi alle iniziative dell'UNESCO per favorire lo sviluppo di tal tipo di attività nei paesi ex coloniali o del Terzo Mondo, oppure alle iniziative del Consiglio d'Europa per i centri storici e i siti o complessi territoriali di valore naturalistico-ambientale).
Per il fatto stesso di essere assunta come fattore pregiudiziale per corrispondere alle esigenze di un'attività di tutela programmatica e finalizzata, questa tematica ha visto sensibilmente modificarsi i suoi termini di approccio e i suoi ambiti operativi. E infatti là dove precedentemente era il concetto di patrimonio storico e artistico, per la sua connaturazione di giudizio estetico e di accertamento storico, a servire da orientamento per l'atto ricognitivo, stringendolo inevitabilmente entro argini selettivi (a parte la discriminante di stampo idealistico tra poesia e non poesia, tra arte e non arte, era pur vigente il criterio di specificazione del rilevante interesse storico e/o artistico), ora invece una ricognizione (e sarà sempre da considerarla, in questo caso, nella sua peculiarità etimologica: nuova, riesperita cognizione) che si ponga come atto pregiudiziale e che si fondi appunto sulla coincidenza delle testimonianze antropiche con il connotato - diciamo ancora - storico-artistico, dilata enormemente il campo oggettivo dell'indagine, pur quando ha consapevolezza di dover scontare proprio quel suo esser pregiudiziale, cioè la sua momentanea sospensione di giudizio sul grado di artisticità e storicità per la immediata constatazione dell'inerenza alla fenomenicità culturale (questa stessa, poi, da ulteriormente precisare). Di qui, pertanto, e ben a ragione, la revoca dello stesso usurato concetto di patrimonio storico e artistico e la sua sostituzione non propriamente con un altro concetto, ma piuttosto con un'espressione totalizzante, la locuzione anzi di ‛beni culturali' (a tutt'oggi infatti più in là della locuzione non si è andati, e una vera e propria elaborazione critica del ‛bene culturale' non s'è prodotta).
È comunque nella logica di questa diversa e tanto estensiva proposizione dell'oggetto dell'indagine ricognitiva che è stato possibile, tra l'altro, riassumere anche la testimonianza storica ‟dei mezzi e dei metodi praticamente impiegati nella produzione" (v. Kula, 1963; tr. it., pp. 63 ss.), e cioè di quella che oramai comunemente si definisce ‛cultura materiale': che era, non dimentichiamolo, da sempre compresa nei campi d'indagine più comunemente battuti dalle discipline archeologiche, anche se tenuta come fattore sussidiario, mentre alle discipline storico-artistiche, maggiormente segnate dal vizio d'origine delle tradizioni estetiche accademiche e idealistiche, era rimasta affatto impervia.
Ne è anche conseguito, un po' pure sotto la spinta di facili entusiasmi parasociologici, un moto di accentuazione rivalutativa per siffatti tipi di testimonianze antropiche a danno della considerazione dello specifico artistico e/o dello specifico storico, mirante comunque a una sorta di radicale degerarchizzazione dell'oggetto d'indagine.
Degerarchizzazione della quale, peraltro, neanche è ben chiaramente percepibile, al momento, l'eventuale retroterra ideologico: e che comunque, in quanto rifiuta di risolvere quella preliminare sospensiva di giudizio che è pur da scontare nell'atto meramente ricognitivo, contraddice di fatto quell'impegno di politica attivante la presa di coscienza dei valori dei beni culturali che viene però invocato; contraddice insomma, per rifarci ancora a Benjamin, all'assunto fondamentale che ‟ogni sforzo consumato intorno a un'opera d'arte è destinato a rimanere frustrato qualora la conoscenza dialettica non riesca a coglierne il suo concreto contenuto storico" (v. Benjamin, 1955; tr. it., p. 84).
Con ben altra consapevolezza, invece, e significativamente proprio dalla parte di una consistente e meditata esperienza antropologica, quale ad esempio quella d'un Kubler, ‟all'ispida bruttezza [del termine] di ‛cultura materiale' ‟ si è inteso sostituire quello di ‟storia delle cose", da cui ‟emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile dell'identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione" (v. Kubler, 1972; tr. it., p. 17).
3. Fondamenti disciplinari e strumenti operativi
Ma con questo, ecco, veniamo a toccare un altro, e forse il più complesso, punto della questione: l'individuazione della situazione disciplinare entro cui oggi si ripropone il discorso che già fu del patrimonio storico e artistico e che è ora dei beni culturali.
Per quanto s'è detto fin qui appare palese che la riproposta coincide con una situazione in cui le discipline archeologiche e storico-artistiche (come, d'altronde, praticamente tutte le discipline storiche) stanno scontando una loro specifica, e anche abbastanza vistosa, crisi d'identità, che rimette in discussione non soltanto metodologie o temi particolari d'indagine o correlazioni interdisciplinari, in una parola la scientificità delle discipline stesse, ma soprattutto funzioni. In fondo la stessa sollecitazione all'aprirsi a un cosiddetto ‛orizzonte antropologico', cioè a un ambito che si presume più propriamente scientifico, altro non sottende che la ricerca di un'udienza meno particolare, meno ‛specialistica' in sostanza.
D'altro canto, una riconsiderazione a consuntivo dei modi con cui si è sviluppata la tendenza a una storia sociale dell'arte dagli inizi di questo secolo, qual è stata offerta da E. Castelnuovo (v., 1976-1977), con il suo implicito risvolto di riproposta, almeno per distinti temi d'indagine, vale pure come sintomo di urgenze ben avvertite, relativamente proprio all'identificazione delle possibili funzioni delle discipline storico-artistiche nel senso della formazione di nuovi comportamenti della società. Nonostante l'iterazione, che sembra oramai divenuta di prammatica, sul problema della degerarchizzazione dell'oggetto di queste discipline, il richiamo a temi come quello del pubblico, ossia dei destinatari primi della produzione artistica (ripreso da una precisa indicazione di G. C. Argan: v. La storia..., 1969, p. 17: ‟Lo storico dell'arte che facesse la storia dei soli artisti si comporterebbe come uno storico dell'economia che considerasse operatori economici soltanto i produttori e non i consumatori"), o come quello della funzione sociale e ideologica del museo, è richiamo quant'altri mai esplicito a questioni propriamente inerenti la gestione collettiva, insomma la politica, dei beni culturali.
La problematica si riflette pure, ovviamente, sui temi dei modi di riappropriazione culturale, sui tramiti di questa nell'azione didattica, istituzionalizzata o meno, dunque sulle funzioni delle discipline nell'ambito della scuola e dei mezzi di comunicazione in generale.
Nè sui versanti che si riterrebbero più propriamente ‛specialistici' - quelli, ad esempio, della ricerca iconologica o dell'indagine strutturalistica - è mancato un collegamento di tali ricerche con un modulo di formulazione meno esclusivo, meno ‛erudito', teso proprio cioè alla delineazione di quel ‛ritratto visibile dell'identità collettiva' che non ricalca più i vecchi percorsi della Geistesgeschichte ma appunto si porge ora come ipotesi stimolante per innescare processi di esperienza e recupero di tale identità. E abbiamo pur visto come il filologismo classificatorio di vecchio stampo praticamente si sia dissolto e tramutato in relazione a nuove funzioni a cui è chiamato ad adempiere, nell'ottica peculiare del ‛catalogo', sostitutiva di quella dell'inventano, del corpus, del repertorio.
Ora, la constatazione di siffatta coincidenza, o quanto meno concomitanza, del travaglio specifico delle discipline archeologiche e storico-artistiche con l'emergenza di un'inedita problematica gestionale (politica) dei beni culturali, vale tanto come dimostrazione delle implicite correlazioni quanto come termine di riferimento e punto d'appoggio per una progettazione di sistemi, di strumenti tecnici e di figure professionali anche, di criteri giuridici e di relazioni, per i quali occorre un ingente sforzo di reale invenzione.
Ma questo è stato disatteso: ché a onta di ogni fervore problematico, il discorso sulle strutture operative - ne abbiamo pure accennato prima - s'è di fatto finora svolto sotto l'avvertimento a volte concitato di esigenze, per fronteggiare anziché realmente corrispondere alla pressione crescente del reclamo pubblico a una compartecipazione conoscitiva e gestionale dei beni culturali. Invero, che le strutture di recente escogitate, in Italia come altrove, da un lato soffrano ancora di condizionamenti tecnicistici e burocratici, dall'altro indulgano a una specie di fuga in avanti per velleitarismi populistici, addirittura di stampo assembleare, sempre passando sopra o perfino trascurando di tener conto di quanto veniva suggerito dal fermento disciplinare, è pur questo un dato di fatto. Ne è riprova il constatare come sia ancora tutto da fare un radicale rinnovo degli istituti, siano essi il museo, la biblioteca pubblica, l'archivio o il centro di documentazione, o anche la scuola. Ne è riprova altresì la circostanza, per nulla formale e tanto meno marginale, che le norme legislative di tutela restano, in Italia come altrove, e pur quando di recentissima emanazione, sostanzialmente le medesime quali furono formulate decenni or sono, in situazioni culturali e sociali tanto diverse dalle attuali.
Non è qui questione certo di centralismo o di regionalismo, bensì di una non ancora conseguita maturazione di criteri generali di diritto, che è quanto dire di un non ancora definito quadro o progetto di società. È una constatazione, pur questa, conclusivamente amara: segno d'una temperie che vede sì coincidenze e concomitanze di vivaci istanze culturali, ma non ancora una sintesi dialettica e unificante, tale da riempire il vuoto lasciato dal decadere delle vecchie ideologie.
4. Prassi, comportamenti, traguardi
Quali che ne siano i presupposti ideologici e le implicazioni sociali, è comunque innegabile che le moderne problematiche della tutela dei beni culturali si siano tradotte in attività di notevole rilievo, a volte anche di possente incidenza sulle proprie oggettive finalità. Basti prendere come punto di riferimento le situazioni degli anni immediatamente successivi all'ultimo conflitto mondiale, e confrontarle con le situazioni attuali, per misurare quanto quelle problematiche abbiano già influito su strutture, tecniche e comportamenti operativi, e anche sulla formazione di una più acuta percezione del raggio degli adempimenti politico-amministrativi.
Un inventario di siffatte incidenze pratiche, pur se dettagliato al massimo, risulterebbe però ancora frammentario ed episodico e, in specie, non renderebbe ragione delle motivazioni circostanziali (o, se vogliamo, delle opzioni che pur nella loro frequente disomogeneità sono non di meno sintomatiche), di quel che è stato realizzato. Converrà al momento piuttosto sforzarci di individuare le principali tematiche di intervento, che invero meglio ci offrono la possibilità di un bilancio ragionato degli ultimi trentacinque anni di esercizio della tutela e della conservazione.
Una prima tra queste tematiche (ed è stata forse quella che più estesa risonanza ha avuto sull'opinione pubblica, valendo così anche come incentivo per la stessa definizione concettuale dei prolemi relativi ai beni culturali) ha riguardato la messa a punto di strumenti giuridici a miglior supporto della tutela.
La constatazione degli enormi danni provocati dalle vicende belliche - e l'eventualità di danni ancor maggiori nel futuro - e poi l'emergere di fattori sociali non meno devastanti quali l'intensificata urbanizzazione e, per converso, il rapido spopolamento di nuclei abitati rurali o periferici; e ancora, la dilagante mercificazione dei beni culturali, l'attenuarsi di funzioni storicamente proprie a questi che in passato ne avevano pur garantito la conservazione (come per esempio in conseguenza della riforma della liturgia cattolica), sono stati invero tutti fenomeni a fronte dei quali si è stimolata l'ideazione di nuove misure protettive, segnatamente a livello internazionale.
Per quel che riguarda i danni per cause belliche (nella più ampia accezione: dalle distruzioni materiali dei beni alla loro asportazione) il problema ha rinvenuto soluzioni che avevano già una loro tradizione: invero le intese internazionali come quelle promosse dall'UNESCO per la salvaguardia dei beni e per la restituzione alle comunità di pertinenza di quelli che fossero stati asportati da una delle parti in conflitto (Convenzione dell'Aja, 1954), altro non sono state che una riedizione aggiornata delle misure che, promosse nel quadro del Congresso di Vienna del 1815 da intellettuali e politici illuminati (da A. Canova a lord Castlereagh) consentirono la restituzione allo Stato della Chiesa e ad altre ‛nazionalità' di gran parte delle opere d'arte di cui s'era impossessato l'impero napoleonico. Parimenti a intese già altre volte adottate si sono ispirate quelle che recentemente hanno dichiarato ‛città aperte', zone di rispetto, determinati centri di rilevante interesse storico, religioso, monumentale. Tuttavia accordi di tal sorta, che si proiettavano sullo sfondo di circostanze eccezionali quali sono appunto le vicende belliche, sono stati pure a fondamento di altri che si sono invece proposti come forme di comportamento generalizzate, attesa comunque la dimensione, se non proprio l'eccezionalità, di quei fattori - diversi dalle vicende belliche - di cui abbiamo fatto cenno prima.
Tra le principali di queste intese sono senza dubbio la Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico (Consiglio d'Europa, Londra, maggio 1969), per la difesa dei siti archeologici dagli scavi e asportazioni clandestine e per lo studio scientifico dei reperti; la Carta europea del patrimonio architettonico (Consiglio d'Europa, Amsterdam, ottobre 1975) per la conservazione preventiva e integrata dei centri storici urbani; la Convenzione per le misure da prendere per interdire l'esportazione, l'importazione e il trasferimento di proprietà illecite dei beni culturali (UNESCO, Parigi, novembre 1970), che ribadiva pure l'obbligo di restituzione ai legittimi proprietari dei beni divenuti appunto oggetto di traffici illegali; la Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale (UNESCO, Parigi, novembre 1972) intesa ad ampliare i criteri e le misure protettive anche all'ambiente naturale.
Si noterà facilmente la complementarità di questi quattro fondamentali dispositivi, dai quali traspare il riconoscimento della pertinenza non solo ‛patrimoniale' - che è comunque un dato di fatto storico - bensì pure contestuale, ambientale insomma, dei beni.
Non si può certo dire che, per il solo fatto di essere stati promanati, tali dispositivi abbiano prodotto la risoluzione dei problemi che li avevano provocati: e ciò da una parte per la non raggiunta universalità delle adesioni degli Stati membri dei due consessi internazionali promotori (UNESCO e Consiglio d'Europa), ma anche per le contraddizioni che si sono verificate con altri contemporanei dispositivi internazionali. Basterà rammentare, ad esempio, che proprio al principio di un più rigoroso controllo sui traffici internazionali di beni culturali si è anche inferta una deroga gravissima con l'applicazione delle norme doganali del Mercato Comune Europeo che hanno abolito quel deterrente economico che, in paesi come l'Italia, era costituito dalla cosiddetta ‛tassa d'esportazione' (v. Argan, Esodo..., 1969).
La pressione sui pubblici poteri e sulla pubblica opinione di quei dispositivi e degli altri più particolareggiati che li hanno accompagnati, e anche iniziative come quelle per il salvataggio dei templi di Abū Simbel e dei monumenti e del centro storico di Venezia, hanno trovato canali in certo senso ‛istituzionali' nei due organismi associativi sui quali gravitano i settori professionali interessati: l'ICOM (Internationai Council of Museums) e l'ICOMOS (International Council of Monuments and Sites) che, rispettivamente per quel che attiene ai beni culturali mobili e a quelli monumentali, urbani e ambientali, attraverso una fitta serie di lavori di esperti e di convegni hanno messo a punto criteri metodologico-operativi di rilevantissima importanza: anche per questo occorrerà menzionare almeno l'elaborazione della Carta del restauro (quella detta ‛di Venezia', 1964), che ha surrogato la vetusta ed empirica Carta di Atene del 1931 all'insegna di criteri di reale scientificità, di oculata utilizzazione delle risorse tecnologiche avanzate e, soprattutto, di una più sviluppata consapevolezza storica.
Per altro, là dove le Convenzioni sopra citate sono state ratificate dalle autorità di governo, si sono anche messi in moto processi di compatibilità, quindi di adeguamento delle legislazioni nazionali e, per ovvia conseguenza, anche di riorganizzazione delle istituzioni preposte all'attuazione dei disposti legislativi stessi: e se ciò, in alcuni casi, come già ci è occorso di notare, ha dato luogo a provvedimenti riformativi come quello che, in Italia, ha portato alla nascita del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e, in Francia, alla concentrazione di diversi servizi tecnici e amministrativi nel Ministère des Affaires Culturelles, sovente ha invece prodotto la nascita di organismi affatto nuovi, perfino in nazioni che per propria tradizione costituzionale mai avevano avuto organismi di coordinamento centralizzato nel settore: tipico è il caso del Heritage Conservation and Recreation Service, che fa parte del Department of Interior statunitense e che ha come proprio organo operativo il National Park Service; analogamente, nel Regno Unito, l'equivalente del nostro Ministero per i Lavori Pubblici ora esercita - in forza del Town and country planning act (1962-1968) - funzioni non solo di consulenza e coordinamento delle autonomie locali, bensì pure di effettivo e puntuale controllo.
Più che per la costituzione di organismi come questi che si sono appena indicati, la cui configurazione è, ripetiamo, essenzialmente politico-amministrativa, l'indirizzo verso cui muovono i più recenti comportamenti delle istituzioni pubbliche a fronte della specificità dei problemi dei beni culturali è dato dalla costituzione di organismi tecnici e culturali specializzati.
Anche in questi settori si sono costituiti organismi a plesso internazionale: il più attivo e prestigioso è l'International Center for Conservation (patrocinato dall'UNESCO) che ha sede in Roma e che ha tanto compiti di formazione professionale del personale da adibire alla conservazione quanto compiti di ricerca scientifica vera e propria, di scambio di informazioni e di consulenza tecnica tra gli organismi nazionali.
Per quel che concerne questi ultimi è specialmente sintomatico delle linee di tendenza delle tematiche preminenti, che essi si siano formati o nuovamente sviluppati in rapporto all'assunzione di compiti specifici, che sono proprio quelli della conservazione e della catalogazione dei beni.
Riguardo al primo punto l'Istituto Centrale del Restauro di Roma e altri organismi a esso collegati (i laboratori connessi alle Soprintendenze di Firenze e di Venezia), il Koninklijk Instituut voor het Kunstpatrimonium di Bruxelles e, di recentissima costituzione, l'Institut National de la Restauration di Parigi svolgono un ruolo decisamente primario nel campo della ricerca applicata e della didattica, pur mantenendo almeno in parte la funzione di laboratori di elevata specializzazione, ai quali si affidano ‛casi' particolarmente complessi. Per altro proprio a organismi come questi si deve l'elaborazione di quello che è il concetto operativo di più larga portata innovativa, il concetto cioè della conservazione programmata e integrata, teso a definire sistemi e prassi che alla prevenzione (che invero sovente potrebbe ridursi a semplice buona manutenzione) e alla terapia restauratrice (che, come si sa, non di rado ha imprevedibili effetti indotti, anche traumatici, sui beni) mira a sostituire la definizione e la promozione di condizioni ottimali dell' ‛esistenza' dei beni stessi: nel che è implicito anche lo studio dei fattori fisici di carattere generale e riflesso che condizionano la conservazione. Traspare, da questo orientamento, e al di là di quella che può anche apparire una sua visuale meramente tecnicistica, la connessione con altre forme di conservazione programmata, che si estendono dai manufatti ai siti archeologici e urbani, all'ambiente naturale e che pertanto investono anche le condizioni determinanti non più d'ordine solamente fisico, bensì pure socioeconomico.
A fondamento di questo orientamento medesimo non può non stare la più rigorosa valutazione scientifica dell'intervento conservativo propriamente detto: e ciò, oltre che dagli organismi sopra indicati, è sviluppato specialmente dai laboratori degli organismi nazionali di tutela o dei principali musei di tutto il mondo.
Sembra così alfine instradata su più pertinenti indirizzi un'attività che ancora fino a poco tempo fa rimaneva ampiamente soggetta a empirismi, a fin troppo disinvolte sperimentazioni che avevano anche provocato danni irreparabili (si può qui ricordare la cleaning controversy che fu dibattuta in Inghilterra negli anni sessanta, provocata dai discutibilissimi metodi con cui erano stati trattati alcuni dipinti rinascimentali della National Gallery di Londra: v. Ruheman, 1968; né meno vivace fu la discussione su altri interventi condotti su celebri pitture della Pinacoteca Vaticana).
Invece, alcuni più recenti interventi - anche su grande scala, come quelli compiuti soprattutto in Italia sugli affreschi - hanno avuto esiti affatto esemplari. Non di rado infatti si son potute anche affrontare situazioni che fino a non molti anni or sono erano apparse insolubili: dal restauro degli affreschi pregiotteschi in S. Francesco ad Assisi a quello della serie dei Trionfi di Cesare del Mantegna a Hampton Court, a quelli delle pitture murali indiane e dell'Estremo Oriente!
Nè va dimenticata l'esperienza d'eccezione che, sempre nel campo delle tecniche di conservazione dei dipinti e dei manufatti lignei, fu provocata dall'alluvione di Firenze del 4 novembre 1966; fu quella infatti l'occasione per investigare non soltanto sui problemi specificamente connessi con gli effetti materiali dell'alluvione medesima, ma anche su problemi di maggiore durata, compresi quelli organizzativi (v. il rendiconto delle questioni e la disamina dell'evoluzione dei criteri operativi in Baldini e Dal Poggetto, 1972).
Un altro settore nell'ambito del quale si sono verificate importanti innovazioni tecniche, comunque ancora suscettibile di ulteriori sviluppi e che, per l'entità stessa delle implicazioni proprie, attende anche più dettagliate verifiche, è stato quello della conservazione delle sculture che si trovano in luoghi aperti e sono quindi soggette agli effetti dell'inquinamento atmosferico: è problema palesemente ingente, e di estrema urgenza, che non potrà certo più risolversi mediante la semplice rimozione e trasferimento in luogo chiuso delle opere interessate e la loro sostituzione con copie, al fine di non sfigurare l'aspetto originario dei monumenti su cui erano collocati gli originali.
Tale prassi, che in passato è pur stata assai frequente (e che ha gremito di sculture rimosse dalle ubicazioni originarie tanti musei di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, di Germania, della stessa Italia) è oggi considerata più correttamente come estrema risorsa: ora ci si orienta piuttosto verso l'intervento in situ, che dalla liberazione delle sculture dagli strati di materie depositate e degradanti (e che non sono certo la malintesa ‛patina' del tempo!) procede all'applicazione di sostanze che rinforzano la struttura delle superfici dei minerali delle sculture stesse e valgono come strato protettivo, fino allo studio di altre opportune forme di salvaguardia. Valgono anche a questo proposito pochi esempi di realizzazioni di notevole successo: quelle sulle sculture della facciata di S. Petronio a Bologna e quelle sui celeberrimi rilievi di Wiligelmo del Duomo di Modena (per il problema più in generale, v. Riccomini e Torraca, 1969; v. anche The treatment of stone..., 1973).
Né, in una pur rapida rassegna di argomenti qual è la presente, si può tacere del tutto dei problemi, in parte analoghi ai precedenti, della conservazione dei manufatti metallici, specialmente delle sculture in bronzo (dai cavalli della facciata di S. Marco a Venezia al famoso grifo di Perugia) e dei reperti di scavo.
Ne risulta insomma, al di là della episodicità di interventi anche singolarmente vistosi e prestigiosi, una linea di comportamento realmente consapevole della necessità della più attenta utilizzazione delle risorse delle scienze (v. Urbani, 1973, con amplissima esposizione di particolareggiati temi tecnici) e orientata sull'ideazione di un progetto conservativo che risalga alle premesse della conservazione oggettiva medesima.
Intimamente collegata con la tematica della conservazione, in determinati suoi presupposti, è l'altra maggiore tematica dei tempi recenti, quella della conoscenza integrata e integrale dei beni culturali, ossia della catalogazione. La frase ‟conoscere meglio per conservare meglio" è diventata quasi un luogo comune, una petizione di principio ricorrente che però, occorre avvisare subito, è soltanto parzialmente pertinente a questa tematica.
La catalogazione dei beni culturali non è - come abbiamo già accennato in precedenza e com'è comunque sempre necessario ribadire - un'operazione la cui fisionomia si definisce in rapporto alla finalizzazione a interventi di conservazione tecnica e di gestione amministrativa; non si definisce, quanto meno, principalmente in rapporto a questo, avendo essa le sue radici più in profondità, al di là comunque di questi strati prammatici, in una più circostanziata e totalizzante presa di conoscenza della complessività dei beni culturali e della loro immanenza nei comportamenti culturali.
In quanto tale, la catalogazione è, in primissima istanza, operazione di indagine storica, che si avvale degli strumenti dell'analisi filologica, scientifica, antropologica e sociologica, ma il cui fine primario è la realizzazione del proprio specifico quadro di riferimento. Se si distingue dalle discipline archeologiche e storico-artistiche così come queste sono comunemente intese, non è per proprio limite tecnicistico, bensì perché mira soprattutto alla cognizione di insiemi non parcellizzati per classi tipologiche, fenomenologiche, iconografiche, cronologiche, patrimoniali, ma invece insiemi contestualizzati nella globalità spazio-temporale dell'area culturale investigata. Con ciò si definisce la peculiare vocazione interdisciplinare, o pluridisciplinare, della catalogazione (che, ovviamente non ne fa, come pur talvolta approssimativamente si ritiene, una nuova superdisciplina, né tanto meno una professione); si definisce altresì il campo operativo, che è essenzialmente quello dell'organizzazione sistematica delle conoscenze particolareggiate prodotte dai diversi settori disciplinari.
Ciò comporta, certo, compiti di surrogazione, almeno a livelli di prima ri-cognizione, di tutto quanto, tra i beni culturali, senza discriminazioni qualitative o di alcun altro genere, risulta meno investigato dalle discipline tradizionali; ma comporta in special modo visuali distinte da quelle proprie di queste discipline medesime, e tali però da suscitare, anche a breve termine, ridefinizioni degli obiettivi e delle identità di queste.
Sviluppatasi, fin dai suoi inizi storici, e poi ancora nella sua fase di generale riorganizzazione che, in tutto il mondo, si è verificata in questo dopoguerra, soprattutto nell'ambito degli organismi e degli apparati di tutela, in un rapporto che sovente è stato di alterità se non addirittura di contrapposizione con le attività degli organismi accademici (donde la frequente denuncia della latitanza delle università e delle istituzioni tradizionali da tali campi operativi), la catalogazione ha certo dovuto scontare tale suo rapporto d'origine con le istanze peculiarmente prammatiche: lo slogan riportato poco sopra - ‟conoscere meglio per conservare meglio" - ne è una riprova. La catalogazione ha tuttavia anche messo a punto metodi di ricerca che hanno tratto speciale qualificazione dal suo proprio radicale fondamento storicizzante.
Non apparirà pertanto enfatica l'affermazione che perfino nei campi dell'indagine filologica, in quelli della più sofisticata definizione interpretativa, l'apporto delle attività di catalogazione è stato assai piu consistente e innovativo di quello arrecato dai settori della ricerca cosiddetta ‛pura'. Anche in termini puramente quantitativi l'apporto della catalogazione è stato nettamente prevalente: se si pensa a ciò che è stato prodotto, come volume di conoscenze, da organismi quali l'Inventaire Général des Richesses Artistiques de la France, l'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione italiano, il Bundesdenkmalamt austriaco, il Rijksbureau voor Kunsthistorisches Documentatie dell'Aja, e altri similari organismi germanici, delle nazioni scandinave e di quelle dell'Est europeo, apparirà nella sua intera giustezza quel che avevano intravisto i grandi ‛conoscitori' degli inizi del secolo e i maestri della Scuola di Vienna, dal Riegl al Wickhoff, al Dvoràk: e cioè che la via per una rifondazione moderna delle discipline archeologiche e storico-artistiche non può passare altro che attraverso l'esperienza e la pratica della catalogazione. Un solo dato statistico, di larga approssimazione, può essere qui sintomatico: in Italia, nei sette anni dal 1971 al 1978 sono stati studiati, analizzati, definiti storicamente, beni culturali di qualsiasi categoria per un complesso che è già oltre il triplo di quello che era stato oggetto d'indagine nei precedenti ottant'anni dell'amministrazione delle Belle Arti: l'evidenza quantitativa si contrappone, certo, all'elitaria specificazione dei ‛capolavori', ma sostanzia il terreno culturale reale che questi giustifica anche in quanto, eventualmente, tali.
Il che, d'altronde, non è neanche una semplice invocazione teorica. Giunta a certe dimensioni, invero, la catalogazione innesca necessariamente anche processi di raccordo sistematico dei dati che, se sono pur sempre in prima definizione organizzati in rapporto alla contestualità dei beni con le rispettive aree culturali (come, ad es. anche nelle pubblicazioni dell'Inventaire francese, della Kunsttopographie austriaca, germanica e svizzera, del National Register statunitense) non di meno oggi si proiettano specialmente su potenziati sistemi informativi, mediante l'elaborazione automatizzata dei dati (v. First international conference..., 1978).
Risorse prettamente tecniche anche queste, è vero, che alla pari di altre non meno sofisticate (dalla fotogrammetria all'aereofotointerpretazione) producono maggiore esattezza della definizione e organizzazione dei dati: ma che anche aprono nuove virtualità di ricerca, nuovi sistemi anamnestici, soppiantando cosi - anche se non certo in via integralmente sostitutiva - le desuete logiche dei corpora, delle monografie, delle parcellizzazioni positivistiche.
Ancora un argomento si ritiene necessario enunciare in questo rapido panorama degli attuali problemi inerenti ai beni culturali: la tematica museale, che nel suo evolversi nei tempi a noi più prossimi ha manifestato aspetti fortemente innovativi e significative convergenze sulle altre tematiche sopra descritte. Considerata nei suoi connotati tradizionali, la tematica museale si è in parte tenuta su posizioni di distacco dai moventi di fondo della conservazione e della catalogazione: ha invero a lungo perdurato la concezione del museo come luogo privilegiato di custodia di prodotti artistici selezionati, di ‛tesori' ritenuti esemplari e perciò presentati - come si usava dire - al ‛pubblico godimento'. Sul museo ha cioè gravato l'ideologia del ‛monumento', del ‛capolavoro', che è stata di fatto all'origine se non sempre della nascita almeno del moderno sviluppo di gran parte delle pubbliche raccolte europee e americane del XVIII e XIX secolo: l'ideologia che ha disinvoltamente asportato dai luoghi d'origine, ha decontestualizzato dalle civiltà di pertinenza quantità immense di testimonianze oggettivamente tra le più peculiari di quelle civiltà stesse.
Ora, mentre sarebbe assurdo disconoscere il merito delle funzioni culturali di quelle raccolte, il loro essere esse stesse in specifico modo segno di temperie e di civiltà e, infine, l'azione di reale salvataggio e di promozione scientifica che esse hanno comportato, è anche innegabile che la tendenza da esse rappresentata era destinata a pervenire - come di fatto è pervenuta nell'immediato dopoguerra - a un punto di saturazione, mettendosi in crisi per ragioni oggettive oltre che per ragioni a loro volta ideologiche.
Per ragioni oggettive già perché, dopo l'eccezionale mobilità provocata, negli anni tra il 1945 e il 1960 circa, dalla dispersione di tanti patrimoni privati, il mercato artistico si è contratto e non offre quasi più (salvo che in casi sporadici o di flagrante illiceità: l'acquisto ad esempio del cratere di Euphronios, proveniente da scavi clandestini in Italia, da parte del Metropolitan Museum di New York) la possibilità di perseguire la politica della concentrazione dei capolavori nelle istituzioni delle nazioni più ricche.
Per ragioni ideologiche perché, come anche dicevamo prima, una più vivace presa di coscienza da parte di tutte le società impedisce alla base l'alienazione delle testimonianze culturali. Sono, per l'appunto, e gioverà ulteriormente sottolinearlo, le medesime ragioni ideali che hanno sotteso e sono state a loro volta suscitate dallo sviluppo delle attività di conservazione e di catalogazione, che hanno determinato le già ricordate Convenzioni e intese internazionali dell'UNESCO e del Consiglio d'Europa e perfino altre proposte ancor meno realisticamente praticabili, come quella che sulla fine dello scorso decennio fu avanzata in sede UNESCO da alcuni paesi del cosiddetto Terzo Mondo e che intendeva promuovere la restituzione alle culture di origine (peraltro neanche tutte più esistenti, né rappresentate da specifici organismi politici) delle opere che erano state asportate dalle nazioni occidentali durante l'epoca coloniale.
Ma pur questo costituisce un aspetto vistoso, ingenuamente retorico forse, di una più profondamente radicata inversione di tendenza: non si tratta più infatti di frenare quella specie di emorragia o di colonizzazione che pur si verifica nell'ambito stesso delle aree culturali nazionali, bensì di definire nuovi ruoli e nuove vocazioni delle istituzioni museali, collocando queste in un rapporto di più intima connaturazione con le stesse aree culturali entro cui si trovano oggettivamente, tenendole ben entro il circuito della vita sociale; non più come meta di pellegrinaggi estetici ma come centro organico di funzioni culturali, di documentazione e di attività sociale.
Pur con frequenti declinazioni utopistiche o anche francamente demagogiche, questa linea di tendenza si è venuta tuttavia sviluppando con ricchezza di esperienze soprattutto là dove si è pure messa in atto una politica dei beni culturali specialmente incentrata sulla prassi della conservazione e della catalogazione e più attenta ai fattori integrativi dell'intera fenomenologia culturale (v. Emiliani, Dal museo..., 1974).
Sul piano pratico ciò si è tradotto in due distinti momenti. Un primo, che prende le mosse fin dagli anni trenta di questo secolo, ma che poi si è manifestato con spettacolare ampiezza dopo la guerra, è stato quello di un'estesa riconsiderazione che possiamo definire strutturale dell'organismo museale: questo momento cioè si è focalizzato su nuove esperienze di architettura del museo, di sistemi e tecniche espositive, anche di organizzazione e potenziamento di servizi. È stata quasi come una fase di assestamento, in relazione pure al fatto che si era quasi avvertita l'imminenza del raggiungimento di quel punto di saturazione della dimensione museale di cui s'era prima fatto cenno, ed è stata anche la fase di primo, forse più intuitivo che ragionato, approccio alla definizione delle funzioni nuove a cui il museo veniva chiamato dalla società.
Il riordinamento delle grandi istituzioni museali dopo le forzose chiusure o anche i danni sofferti durante il periodo bellico è stato così il banco di prova delle nuove concezioni del museo. Gli interventi, a volte neanche vistosi, entro istituzioni quali il Louvre, il Victoria and Albert Museum di Londra, il Metropolitan Museum di New York, il Rijksmuseum di Amsterdam, il Museo del Castello Sforzesco a Milano, Capodimonte a Napoli, Palazzo Bianco a Genova, il Museo Correr di Venezia e il Museo Civico di Verona, che hanno impegnato tanti architetti tra i più prestigiosi del nostro tempo, non sono certo stati semplici ammodernamenti, né la risoluzione secondo criteri più aderenti al gusto attuale del tradizionale accrochage ! Sono stati bensì la prefigurazione di funzioni sostanzialmente nuove che, 0vviamente, ancor meglio si son potute individuare là dove si è invece trattato della creazione ex novo di altri organismi museali, quando insomma la progettazione architettonica ha potuto procedere di pari passo con quella istituzionale.
Lo si è visto specialmente nel caso di molti musei d'arte moderna e contemporanea, soprattutto per la percezione di una vocazione polifunzionale, per la percezione cioè di organismi che non fossero soltanto l'esposizione di raccolte di opere, bensì soprattutto il luogo di una molteplicità di manifestazioni culturali: sulla via che era stata in certo senso pionieristicamente segnata dal Museum of Modem Art di New York, giusto cinquant'anni or sono, è nata la progettazione di istituti quali il Whitney Museum e il Solomon Guggenheim Museum di New York, del Museo Kröller-Müller di Otterlo, del Museo di Arte Moderna di Vienna e di quello di San Paolo del Brasile, della Neue Galerie di Berlino, della Kunsthalle di Amburgo, delle Gallene d'Arte Moderna di Torino e di Bologna: realizzazioni tutte pregevoli dal punto di vista progettuale, anche se poi nella pratica dell'adempimento delle proprie funzioni differiscono fortemente, sul piano qualitativo, tra di loro.
Né quello dei musei dedicati al ‛contemporaneo' è stato il solo terreno fertile della nuova concezione museale; sovente anche i musei archeologici, per una specie di riscatto della dimensione antropologica e storicamente totalizzante dell'archeologia, hanno definito funzioni analoghe a quelle degli altri musei sopra ricordati: si pensi ai musei di Paestum o di Città del Messico. Ma il campo dell'esperienza più feconda è stato quello dei musei etnografici, cresciuti in gran copia soprattutto nei Paesi Scandinavi, nei paesi dell'Est europeo, nel continente americano. Si tratta, come ben si vede, tanto nel caso dei musei archeologici come in quello dei musei etnografici, proprio di istituzioni il cui connotato saliente è il loro essere ‛musei del territorio', dunque della dimensione antropica del contesto entro cui sorgono.
Il secondo, e più attuale, momento della tematica museale è proprio questo, della nascita e proliferazione di istituzioni anche di modesta dimensione, ma capillarmente diramate e radicate alle realtà socioculturali locali. Si tratti di antiquaria o di musei diocesani, comunali, naturalistici, folclorici, queste istituzioni tendono non più a costituirsi come ricoveri di capolavori bensì come centri di documentazione e di attività promozionale, comprendenti anche exempla significativi delle rispettive aree culturali, mantenendosi così in intimo e costante rapporto con l'ambiente circostante. Si può dire anzi - e non sembri un paradosso - che siffatta capillarizzazione, anziché moltiplicare in una miriade di nuclei espositivi l'antico concetto del museo, per il fatto di dislocare i punti nodali di un'estensione totalizzante delle funzioni museali giunga a configurare (o meglio a restituire) la fisionomia di museo, in senso nuovo, all'intero territorio.
Appare questa, oggi, la sola alternativa possibile all'alienazione del bene culturale da quella contestualità storica che la prassi della conservazione e della catalogazione aveva già riconosciuto. Appare anche - e pur questo non sembri un paradosso - il nucleo generativo di comportamenti tesi al più ampio coinvolgimento sociale nelle attività di cultura i quali, al loro apice, e sia pure fascinosamente utopistico, hanno la macchina-museo: il Centre Pompidou a Beaubourg.
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