PATRIZIATO
. Il patriziato romano (sull'origine della distinzione fra patrizî e plebei in Roma v. plebe) rimase per quasi tutta l'età repubblicana una nobiltà chiusa e di nascita. Il termine patricii viene da pater, parola con la quale s'indicano propriamente i signori, membri del senato patrizio (cfr. le espressioni antichissime auspicia ad patres redeunt, patrum auctoritas), e significa quindi i membri delle famiglie dei patres, cioè gli appartenenti alla classe dominante, i cui capi sedevano nel senato. I termini patres e patricii si scambiano alle volte tra loro: p. es., nelle XII Tavole: conubia ut ne plebei cum patribus essent. Appartenevano al patriziato romano i membri gentiles di un certo numero di gentes patrizie. Queste gentes sono, per alcuni, antichissime organizzazioni di natura politica, per quanto si presentino come aggregati di discendenti da un comune supposto capostipite, e anteriori all'altro organismo politico, la civitas; il patriziato sarebbe quindi il complesso dei gentiles, dei membri di queste genti unitesi a formare la civitas, e perciò essi soltanto sarebbero stati originariamente cittadini della civitas. Chi vede invece nel patriziato una formazione secondaria, ritiene anche le genti patrizie organismi secondarî, sorti dal fatto che i rami delle famiglie divenute ricche e potenti, per ovvia solidarietà di interessi e per orgoglio, cominciarono a mantenere fra di loro un vincolo e il ricordo delle relazioni di parentela anche lontana, che non interessavano invece gli umili.
Gli antichi sapevano che fino a una certa epoca genti estranee erano state ammesse nel patriziato romano. Si ricordava infatti che le genti patrizie albane erano state accolte nel patriziato romano, e di sei di queste genti è giunto a noi il nome, mentre i plebei albani vennero aggregati alla plebe romana. Si raccontava anche della assunzione fra i patrizî dei Claudî, oriundi sabini, avvenuta o all'epoca di Romolo o nei primi anni della repubblica. Nel patriziato romano si distinguevano poi i patres maiorum gentium e i patres minorum gentium, e queste genti minori pare fossero genti plebee ascritte a un certo momento al patriziato, secondo la tradizione, dal re Tarquinio Prisco, e tenute in un certo grado di inferiorità rispetto alle altre. Ma durante tutta l'età repubblicana nessuna gente fu più innalzata o accolta nel patriziato, che divenne una casta chiusa, i cui membri non potevano anzi, fino al plebiscito Canuleio del 445 a. C., contrarre iustae nuptiae con plebei. Questa serrata del patriziato fu causa della sua rapida decadenza numerica. Probabilmente gli eruditi romani avevano calcolato a 136 le genti patrizie al principio della repubblica. Noi possiamo accertarne da 50 a 60, e di queste solo 22, con 81 famiglie, esistevano dopo il 367 a. C.; e negli ultimi anni della repubblica le genti a noi note si riducono a 14 con circa 30 famiglie. La scomparsa di tante genti pare dovuta non solo a estinzione causata dalle perdite in guerra e dalla mancanza di elementi rigeneratori in una casta chiusa, ma anche a decadenza economica, che respingeva fra la plebe le famiglie impoverite. In seguito alle guerre civili, la diminuzione dei patrizî fu così forte, che riusciva difficile trovare chi coprisse i posti di sacerdote riservati ai patrizî. Perciò, nel 45 o 44, Cesare si fece attribuire da una lex Cassia la facoltà, come pontefice massimo, di elevare plebei al patriziato, facoltà che nel 30 una lex Saenia attribuì anche ad Augusto, che stava allora compiendo il census. In seguito la facoltà di creare patrizî fu compresa nella potestà censoria e come censori se ne valsero Claudio, Vespasiano, Tito; scomparsa la censura, la facoltà passò al principe. Vespasiano fu il primo imperatore che non fosse di famiglia già patrizia, e il patriziato fu concesso dal senato a lui e in seguito a tutti gl'imperatori che si trovavano nelle sue condizioni. Sino dalle origini, o almeno da tempo antichissimo (a seconda del modo in cui si concepisce l'origine del patriziato), le magistrature dello stato, e in genere i sacerdozî, sono riservati ai patrizî; e si fa anzi concedere il patriziato a quei re, che la leggenda faceva di origine non romana o non patrizia (Numa, Tarquinio Prisco, Servio Tullio). Un principio generale opposto, cioè che i cittadini romani, patrizî o plebei, si dovessero ritenere senza distinzione tutti qualificati per le magistrature, non fu mai proclamato; bensì si riconobbe con una serie di misure particolari il diritto ai plebei di presentarsi all'una o all'altra magistratura patrizia (il titolo di magistratus patricii era ancora in pieno vigore alla fine della repubblica), o il loro diritto esclusivo di occupare un certo numero di posti di magistrato, mentre gli altri potevano essere occupati da patrizî o plebei. Per la storia di questo progressivo esaurimento del privilegio patrizio alle magistrature e ai sacerdozî, v. plebe. Esso ebbe per risultato una condizione d'inferiorità del patriziato, escluso da un certo numero di posti delle magistrature patrizie e dalle magistrature plebee, di fronte ai plebei ammessi a tutte le magistrature. Rimasero riservati al patriziato i sacerdozî del rex sacrorum, dei tre maggiori flamines e dei salii; vestali plebee ricorrono in epoca antichissima. Nel senato gl'interreges potevano essere scelti solo fra i patrizî, e ai membri patrizî del senato era riservata l'auctoritas patrum, la conferma dei deliberati delle assemblee popolari, che però già dal sec. III a. C. fu ridotta a una formalità. Patrizio fu sempre, per quanto noi possiamo vedere, il princeps senatus. Tuttavia rimaneva al patriziato il grande prestigio della tradizione e della effettiva potenza economica e politica che alcune casate patrizie mantennero sino alla fine della repubblica. Ciò è dimostrato dal fatto che alcuni diritti alle magistrature riconosciuti ai plebei non ebbero praticamente applicazione che parecchi anni dopo la loro sanzione legislativa. Gradatamente però la nuova nobiltà patrizio-plebea prese nel governo dello stato e nella considerazione del popolo il posto dell'antico patriziato.
Le genti patrizie avevano costumanze ed usi, sanciti anche da deliberazioni collettive dei gentili, ma non pare che l'adozione di usanze simili sia mai stata vietata alle famiglie plebee, che volessero e potessero imitare l'organizzazione gentilizia dei patrizî. Il legame gentilizio trovava la sua espressione nel nomen comune, al quale si cominciò presto ad aggiungere un cognomen per distinguere le varie famiglie della gente, e si giunse così al sistema del triplice nome romano. Le genti avevano proprî luoghi di culto e proprî sacra, alcuni dei quali esse celebravano anche per conto dello stato, e forme speciali di rito. Per es., i Claudî sacrificavano con il capo coperto, i Cornelî non cremavano i loro morti. Pare che fosse esclusiva dei patrizî la forma del matrimonio solenne per confarreatio. Nelle narrazioni delle lotte fra patrizî e plebei giunte a noi, i patrizî affermano come loro esclusivi diritti quello d'avere una gens e di possedere gli auspicia privati e pubblici. Probabilmente ciò non si riferisce a uno stato di diritto vero e proprio, ma alla tendenza a considerare come tale uno stato di fatto, conseguenza della possibilità per i ricchi patrizî di mantenere i vincoli gentilizî e della pratica degli auspici derivante dal monopolio delle magistrature e dei sacerdozî, che assicurava ai patrizî l'esclusività anche nell'interpretazione del diritto consuetudinario. Si ritiene da alcuni che fosse riservata ai patrizî l'occupazione dell'ager publicus, ma la cosa non è probabile. Differenze importanti fra patrizî e plebei nel diritto privato non si possono dimostrare. I plebei potevano avere dei clienti al pari dei patrizî e, ad es., il diritto dei gentili di succedere al morto intestato in mancanza di eredi necessarî e di agnati, sancito dalle XII Tavole, trova applicazione anche per genti plebee. Sappiamo che la patrizia ereditiera doveva scegliersi un marito fra i gentiles, salva concessione in contrario dei comizî. Anche il costume esteriore non era diverso fra patrizî e plebei, e il calceus patricius è la calzatura dei patres, dei senatori, non della casta patrizia.
Un nuovo patriziato romano fu creato da Costantino. Esso era una nobiltà personale, puramente onoraria e vitalizia. I patrizî avevano la precedenza su tutti i funzionarî tranne i consoli e per un certo tempo anche su questi. Giustiniano li liberò dalla patria potestas. Zenone riservò il titolo ai personaggi che erano stati prefetti del pretorio e di Costantinopoli, magistri militum e consoli. Il titolo fu portato in Occidente da molti re barbari.
Bibl.: Th. Mommsen, Die römischen Patriciergeschlechter e Die patricischen und die plebejischen, Sonderrechte, in Römische Forschungen, I, 2ª ed., Berlino 1864, p. 69 seg.; Römisches Staatsrecht, III, Lipsia 1887, p. 3 seg.; Ch. Lecrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, IV, p. 347; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 224 seg.; H. Stuart Jones, in Cambridge Ancient History, VII, Cambridge 1928, p. 413 seg.; v. anche la bibliografia di plebe. Per il patriziato dell'età tarda v. Th. Mommsen, Ostgothische Studien, in Gesammelte Schriften, VI, Berlino 1910, p. 422; O. Hirschfeld, Kleine Schriften, Berlino 1913, p. 662; O. Seeck, Gesch. des Untergangs der antiken Welt, VI, Stoccarda 1920-21, p. 99 e 211; G. B. Picotti, Il "patricius" nell'ultima età imperiale e nei primi regni barbarici d'Italia, in Arch. stor. ital., s. 7ª, IX (1928).