Patrocinio dell’avvocato
Nell’ambito del rapporto d’opera professionale che si instaura tra avvocato e cliente – comunemente definito contratto di patrocinio – uno degli aspetti centrali è la determinazione del compenso. Il legislatore delle cd. liberalizzazioni, convinto che l’eliminazione della rigidità imputabile alle tariffe giovi alla concorrenza, ha abrogato quest’ultime, ponendo l’accordo tra le parti all’apice della gerarchia delle fonti di determinazione e solo se la pattuizione manchi – o quando si tratti di quantificare le spese del giudizio – consentendo al giudice il rinvio a parametri. Novità ulteriori riguardano l’obbligo dell’avvocato di presentare al cliente un preventivo di massima, fornendogli informazioni sui costi della prestazione e sugli estremi della polizza assicurativa a copertura della responsabilità per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività.
Contratto d’opera intellettuale è definito dal codice il rapporto nel quale una persona si obbliga a compiere, verso corrispettivo, un’opera, o servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (art. 2230 c.c.); patrocinio è comunemente classificato questo rapporto quando il prestatore d’opera è un avvocato. Essendo contratto normalmente oneroso, la determinazione del relativo corrispettivo è aspetto cruciale ed è proprio su questo punto che il legislatore è intervenuto negli ultimi tempi, a più riprese, in una prospettiva della cui fondatezza è lecito dubitare; quella secondo cui la liberalizzazione del settore – con l’eliminazione delle tariffe – rappresenterebbe una componente essenziale del processo di crescita del Paese e fattore concorrenziale.
La tendenza era in atto almeno dal 2006 quando, con la l. 4.8.2006, n. 248, di conversione del d.l. cd. Bersani n. 223 del 4.7.2006, furono abrogati, nell’ordine, il divieto del patto di quota lite (già previsto dall’art. 2233, co. 3, c.c.), la vincolatività delle tariffe minime e la correlata previsione di nullità dei patti in deroga ai minimi tariffari in vigore sin dai primi anni ’40 del secolo scorso, giusta l’art. 24 l. 13.6.1942, n. 794.
Nel 2011 questo disegno è stato ulteriormente affinato con la l. 14.9.2011, n. 148 di conversione del d.l. 13.8.2011 n. 138, il cui art. 3, co. 5, lett. d), ha previsto che gli ordinamenti professionali fossero riformati entro 12 mesi dalla sua data di entrata in vigore con regolamento che avrebbe dovuto recepire, tra gli altri, i seguenti principi:
a) il compenso del professionista è pattuito per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico prendendo come riferimento le tariffe professionali;
b) è ammessa la pattuizione dei compensi anche in deroga alle tariffe; c) il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento sino alla conclusione dell’incarico;
d) in caso di mancata determinazione consensuale del compenso, quando il committente è un ente pubblico, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ovvero quando la prestazione è resa nell’interesse dei terzi, si applicano le tariffe stabilite con decreto dal Ministro della giustizia.
L’attuazione di questi principi doveva avvenire col metodo della cd. delegificazione e, cioè, mediante regolamento emanato ai sensi dell’art. 17, co. 2, l. 23.8.1988, n. 400; in effetti, un regolamento è stato emanato, precisamente il d.P.R. 7.8.2012, n. 137 (in G.U. n. 189 del 14.8.2012), ma con esso è stata data attuazione a tutti gli altri principi generali previsti dall’art. 3, co. 5, lett. a-g, l. n. 148/2011, salvo che a quelli sopra illustrati in materia di tariffe (oltre che a quello di cui alla lett. c in materia di tirocinio). Delle tariffe si è, infatti, occupato il d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito in l. 24.3.2012, n. 27 di cui ora si dirà.
In conclusione, a differenza di altri aspetti qualificanti (accesso, pubblicità, obbligo di assicurazione, formazione, disciplina) regolamentati col metodo della delegificazione, il tema delle tariffe è stato ritenuto meritevole di disciplina affidata a normazione di rango primario.
Segno della sua particolare rilevanza rispetto agli altri? Certamente sì, ma non solo: uno dei motivi è che molte delle nuove disposizioni introdotte nel 2012 in materia di compenso non erano state previste dall’originaria l. n. 148/2011 ed altre ne rappresentano un vero e proprio superamento, sicché, se fosse stata seguita la via della delegificazione, si sarebbe posto un problema di contrasto e di eccedenza di questa normativa rispetto alla sua fonte legittimante (la l. n. 148/2011), con conseguente illegittimità.
L’art. 9 l. n. 27/2012 esordisce disponendo al comma 1 che «sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico»; in tal modo si realizza un superamento dell’iniziale previsione contenuta nell’art. 3, co. 5, lett. d), l. n. 148/2011 a tenore della quale, invece, le tariffe continuavano ad avere una loro vitalità residua. La nuova disposizione incide, modificandolo, sul meccanismo di determinazione del compenso previsto dall’art. 2233, c.c. i cui criteri erano ordinati «secondo una scala preferenziale che indica al primo posto l’accordo delle parti, in subordine le tariffe professionali, ovvero gli usi ed infine la decisione del giudice»1.
Mentre prima la mancanza di un preventivo accordo era sostanzialmente ininfluente perché il compenso poteva essere determinato ricorrendo alle tariffe, ora la convenzione circa la remunerazione dell’attività assume rilevanza centrale perché il rinvio alle tariffe non è più consentito stante la loro abrogazione; ciò che determina la simmetrica scomparsa del relativo riferimento contenuto nell’art. 2233 c.c. cit.
È vero che – come ora si vedrà – uscite di scena le tariffe, vi hanno fatto ingresso i parametri quali fattori esterni all’accordo in grado di surrogare l’eventuale sua mancanza; ma il risultato non può dirsi affatto uguale, non solo per certe loro caratteristiche che li distaccano dalle tariffe, ma soprattutto perché l’intera disciplina crea condizioni che spingono al raggiungimento dell’accordo: esemplare è la previsione che impone all’avvocato di consegnare al cliente, al momento del conferimento dell’incarico, un preventivo circa i costi della prestazione, seppur di massima; è prevedibile che, stante la sua obbligatorietà, il preventivo recherà con sé la stipula dell’accordo (oppure, quest’ultimo si sostanzierà nel primo se firmato dalle parti). La ratio dell’intera disciplina appare chiara ed è quella di favorire, per quanto possibile, la stipula di convenzioni, comportamento ritenuto fattore di concorrenza2; tralasciando di considerare, però, il doppio ruolo positivo svolto dalle tariffe: quello di salvaguardia delle fasce deboli dell’avvocatura (i giovani) la cui capacità di pattuizione del compenso è contrassegnata da asimmetria di potere contrattuale, e l’altro – fondamentale – di garanzia della qualità della prestazione, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza comunitaria, la quale ammonisce che vi è il rischio di una concorrenza che peggiora la qualità della prestazione3.
2.1 I parametri
Ai parametri – elaborati per gli avvocati dal Ministero della giustizia – si riferisce l’art. 9, co. 2, cit., che specifica come nonostante la loro introduzione, resta ferma l’abrogazione delle tariffe, quasi ad avvisare che gli uni e le altre non sono scambiabili. In effetti, dal punto di vista della struttura, i parametri contenuti nel d.m. 20.7.2012, n. 140 (in G.U. n. 195 del 22.8.2012) si caratterizzano per la mancanza dell’analiticità che contrassegnava, invece, le tariffe.
Quest’ultime erano organizzate prevedendo le singole prestazioni in cui poteva declinarsi l’attività professionale; accanto a ciascuna voce era indicato l’importo corrispondente, distinto in diritti ed onorario ed il cui ammontare poteva variare, pur a cospetto dell’identità di prestazione, a seconda del valore dell’affare4. Per esemplificare, se per una causa l’avvocato avesse svolto più attività istruttorie (assistenza a prove testimoniali, alle indagini del consulente tecnico d’ufficio, al giuramento, ecc.), o avesse partecipato a più udienze, per ciascuna avrebbe avuto diritto ad un compenso.
Questo criterio è abbandonato nel d.m. n. 140/2012 dal momento che vengono in rilievo, non singole e specifiche attività, bensì, per l’assistenza giudiziale in sede civile, amministrativa e tributaria, solo cinque fasi e cioè a) la fase di studio, b) di introduzione del procedimento, c) istruttoria, d) decisoria ed infine e) esecutiva (art. 4 d.m. n. 140/2012). Meccanismo simile è previsto per l’attività giudiziale penale (art. 12 d.m. cit.), mentre, per l’attività stragiudiziale occorrerà tenere conto del valore e della natura dell’affare, del numero e dell’importanza delle questioni trattate, del pregio dell’opera, dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente (art. 3 d.m. cit.). Per tornare all’esempio di prima, la nuova regolamentazione fa sì che all’interessato spetti un unico compenso, a prescindere dal numero di attività istruttorie, o di udienze. Il sistema costituisce, indirettamente, stimolo a definire quanto prima possibile la causa e certamente contribuirà a sfatare la vulgata – priva di qualsiasi base – dell’avvocato interessato alle lungaggini processuali perché più la causa pende, più rende.
Al d.m. sono allegate alcune tabelle (per gli avvocati le tabelle A e B) che indicano gli importi che il giudice può liquidare a seconda del tipo di attività e del valore dell’affare; la somma può essere aumentata, o diminuita, dal giudice – per tener conto delle particolarità del caso concreto – applicando percentuali variabili fino al massimo (normalmente) del 60% ed al minimo (normalmente) del 50%.
Il raffronto con le tariffe precedenti di cui al d.m. 8.4.2004, n. 127, dimostra che il compenso è mediamente diminuito in misura molto rilevante; ma ciò è stato giustificato dalla sezione consultiva del Consiglio di Stato nel parere n. 3126 reso il 5.7.2012 sullo schema di decreto ministeriale in esame, col dire che proprio la diversità di sostanza dei parametri, rispetto alle tariffe, rende indifferente la circostanza che il raffronto tra quelli e queste conclami l’esistenza di una riduzione in peius, mentre le condizioni economiche del Paese giustificano un tal sacrificio da parte degli avvocati (!).
La funzione dichiarata dei parametri è quella di apprestare un criterio di riferimento per il giudice in sede di liquidazione giudiziale delle spese (a carico del soccombente); ma, quando manchi la previa determinazione del compenso tra le parti (in caso, ad esempio, di contenzioso tra avvocato e cliente), ancora ad essi il giudice potrà fare riferimento.
2.2 Il problema della successione nel tempo di tariffe e parametri
La questione applicativa che sin da subito l’emanazione del decreto ha posto è quella relativa ai criteri da adottare per la quantificazione del compenso per prestazioni che si situano a cavallo dell’entrata in vigore della nuova normativa (parte eseguite prima, parte dopo) e di quelle esauritesi prima, mentre nessun dubbio esiste sul fatto che per quelle iniziate successivamente debba applicarsi per intero la nuova normativa.
Per le prime (e cioè le prestazioni cd. a cavallo), occorre muovere dal principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità che, premessa la natura unitaria dell'incarico professionale non frazionabile in ordine alle diverse prestazioni eseguite, giunge alla conclusione che, in caso di successione di tariffe nel tempo, è applicabile quella vigente al momento in cui l’incarico può dirsi esaurito anche se iniziato nel vigore di diversa tariffa5. Sostanzialmente è questo il criterio cui la giurisprudenza si è subito ispirata a partire dall’entrata in vigore del d.m. n. 140/2012; ma, se il punto di partenza è unico, diverse sono state le conseguenze applicative tratte.
In particolare, per primo il tribunale di Cremona, ritenendo che i parametri debbano applicarsi in ogni caso di prestazione non esaurita al momento dell’entrata in vigore del regolamento, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della nuova normativa nella parte in cui dispone «l’applicazione retroattiva delle nuove tariffe forensi anche ai processi in corso e all’attività già svolta ed esaurita prima della sua entrata in vigore, in relazione all’art. 3, 24 e 117 Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 Cedu, all’art. 5 trattato UE e all’art. 296 Trattato sul Funzionamento dell’UE e all’art. 6 Trattato UEE per esso ai principi dello Stato di Diritto richiamati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Carta di Nizza»6. L’ordinanza del tribunale si segnala, in particolare, per la chiarezza con cui individua la ratio della normativa consistente nel costituire uno stimolo indiretto alla gestione quanto più rapida possibile del processo da parte dell’avvocato; poiché i parametri non si applicano come le tariffe poiché riguardano cd. macro fasi a prescindere (normalmente) dal tempo impiegato, gli avvocati sarebbero spinti a non lavorare in perdita e, perciò, a definire rapidamente le cause; in questo, che viene visto come un filtro indiretto all’acceso dei cittadini alla giustizia, è individuata la ragione dell’incostituzionalità, in un contesto nel quale la retroattività dei parametri altera l’equilibrio economico del rapporto avvocato-cliente.
Anche il Tribunale di Varese, nella sentenza 26.9.2012, n. 12527, muove dalla stessa premessa della sostanziale retroattività dei parametri e quindi della loro applicabilità alle prestazioni iniziate in precedenza, ma individua il modo per eliminare le distorsioni che ciò comporta, non già nella dichiarazione di incostituzionalità della norma, bensì nell’uso da parte del giudice di un’opportunità offerta dall’art. 1, co. 7, d.m. cit. per il quale il giudice che reputasse incongruo il compenso in conseguenza dell’effetto retroattivo della normativa, potrebbe non applicarla in modo rigoroso e ricalcolare il compenso secondo i vecchi criteri, spiegandone le ragioni; in tal modo le vecchie tariffe diventerebbero canoni orientativi per una applicazione della normativa che ne elimina i rischi di incostituzionalità (lettura costituzionalmente orientata).
L’applicabilità dei parametri alle prestazioni a cavallo dell’entrata in vigore della nuova normativa è predicata dalla recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 17406 del 12.10.20128 secondo cui i nuovi parametri devono applicarsi ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del decreto se il professionista non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché quest’ultima abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate. Ciò non solleciterebbe dubbi di costituzionalità perché il corrispettivo deve intendersi unitario, in coerenza con l’unitarietà della prestazione, sicché è ai criteri per la sua quantificazione esistenti al momento in cui la prestazione è terminata che occorre aver riguardo.
Ancor più di recente la sentenza della Corte di cassazione a sezioni riunite del 5.11.2012, n. 189209, seppur conferma il principio suindicato, lo mitiga nel senso che la regola dell’unitarietà della prestazione professionale deve intendersi riferita a ciascun grado di giudizio per cui se quelli di merito si siano esauriti prima dell’entrata in vigore del d.m. n. 140/2012 e solo quello di legittimità si sia concluso dopo, per i primi due restano applicabili le tariffe e non i parametri.
In conclusione – applicando la prima giurisprudenza così formatosi – alle prestazioni esuaritesi prima dell’entrata in vigore del d.m. n. 140/2012 per tali intese non solo quelle relative ad incarichi totalmente completati, ma anche le altre relative a gradi di giudizio conclusi a quella data, restano applicabili le vecchie tariffe; per quelle a cavallo si applicano i parametri.
2.3 Le misure premiali e sanzionatorie
Che l’interesse del legislatore per la sollecita definizione dei processi traspaia dalla normativa sui parametri è dimostrato dall’esistenza di misure premiali e sanzionatorie, non tutte giustificabili. Quanto alle prime, se il procedimento – ad esempio – si conclude con una conciliazione, il compenso è aumentato fino al 25%, o al 40% di quello altrimenti liquidabile, rispettivamente, nel caso di assistenza giudiziale e stragiudiziale (artt. 3, co. 3, e 4, co. 5, d.m. cit.); quanto alle seconde, è elemento di valutazione negativa in sede di liquidazione giudiziale del compenso l’adozione di condotte abusive che ostacolino la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli (art. 4, co. 6, d.m. cit.).
Sicuramente incongrua è, invece, la misura sanzionatoria prevista dall’art. 10 d.m. cit. secondo il quale, nel caso di responsabilità processuale ai sensi dell’art. 96 c.p.c. ovvero «nei casi d’inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all’avvocato del soccombente è ridotto di regola del 50 per cento rispetto a quello liquidabile a norme dell’art. 11». La norma è criticabile da più punti di vista; innanzitutto, va stigmatizzato il pregiudizio che l’anima perché, visto che la sanzione colpisce l’avvocato (suo è il compenso da diminuire) ed il meccanismo è automatico (la discrezionalità del giudice riguarda la misura della riduzione, non l’applicazione della sanzione), è evidente che la premessa indimostrata da cui si muove è che inammissibilità, improcedibilità ed improponibilità non siano altro che conseguenze di azioni dolosamente o colposamente incardinate dal professionista nonostante la prognosi negativa che le accompagna. Tanto più ciò è vero se si pensa alla novella, in punto ad appello civile, di cui al d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito in l. 7.8.2012, n. 134 (in vigore dall’11.9.2012) che introduce l’art. 348 bis c.p.c. secondo il quale l’appello è dichiarato inammissibile dal giudice quando non ha ragionevoli probabilità di essere accolto. In tal caso, una prognosi rimessa alla discrezionalità del giudice, attinente al merito, può portare ad una sanzione a carico dell’avvocato, ingiusta quando la prognosi del professionista fosse fondatamente differente e/o il cliente avesse richiesto, comunque, la proposizione dell’appello.
Si è detto che la nuova normativa incentiva la stipula di accordi relativi al compenso tra avvocato e cliente; l’art. 9, co. 4, l. n. 27/2012 detta regole al riguardo e stabilisce, prima di tutto, che esso (compenso) «è pattuito nelle forme previste dall’ordinamento al momento del conferimento dell’incarico professionale». Già ora l’art. 2233, co. 3, c.c. prescrive l’adozione del requisito di forma ad substantiam per gli accordi sul compenso e da questo punto di vista non vi sono, pertanto, novità.
Il fatto poi si dica che l’accordo va raggiunto al momento del conferimento dell’incarico professionale, non introduce un ulteriore requisito di validità perché, anche ammesso che la prescrizione sia imperativa, trattasi di norma di comportamento la cui violazione non genera conseguenze sulla validità dell’atto, onde anche un accordo stipulato per iscritto successivamente al conferimento dell’incarico è perfettamente valido10. Il fatto che l’accordo sul compenso risulti da atto scritto non implica che ugualmente per iscritto deve essere stipulato il contratto di patrocinio; il principio di libertà delle forme stante l’eccezionalità delle norme che ne prescrivono una in particolare, porta a ritenere che il contratto di patrocinio può anche risultare verbis. Sennonché, seppur non necessario, è sicuramente opportuno che sia redatto per iscritto se non altro perché il momento del conferimento dell’incarico è anche quello nel quale l’avvocato è gravato da una pluralità di oneri informativi nei confronti del cliente del cui assolvimento è opportuno lasciare traccia scritta in caso di contestazioni future; ed il documento scritto riflettente la regolamentazione del contratto di patrocinio è l’occasione per dar conto di aver adempiuto a simili obblighi.
Il secondo periodo del quarto comma in esame stabilisce, poi, che l’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve rendere noto al cliente il grado di complessità, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento sino alla conclusione e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. Per quanto riguarda il grado di complessità, si tratterà di indicarla in modo generico, curando, nel caso di prestazione particolarmente complessa, di spiegarne le ragioni. In tal caso, particolare attenzione dovrà essere prestata al momento dell’accettazione dell’incarico perché l’art. 12, co. 1, del codice deontologico forense11 stabilisce che «l’avvocato non deve accettare incarichi che sappia di non poter svolgere con adeguata competenza» mentre il co. 3 soggiunge che «l’accettazione di un determinato incarico professionale fa presumere la competenza a svolgere quell’incarico». Quanto agli oneri ipotizzabili, si tratterà di indicare voci di costo, quali il contributo unificato, l’imposta di registro, i costi per copie, notifiche, chiamate in causa, compensi al consulente tecnico di ufficio e/o di parte e così via. Si intende che quel che il legislatore vuole evitare è il cd. effetto sorpresa e cioè che il cliente risulti esposto a pagare, alla fine, spese non preventivate; lo scopo è raggiunto imponendo – come ora diremo – anche l’obbligo di redazione di un preventivo, seppur di massima. Infine, occorrerà dar conto della polizza assicurativa stipulata per il risarcimento di eventuali danni provocati nello svolgimento dell’attività. Si tratta di un obbligo che dovrà essere adempiuto (salvo il caso di cui infra), però, non prima del 16.8.2013. Infatti, la norma che ha reso obbligatoria la stipula della polizza assicurativa è l’art. 5 d.P.R. 7.8.2012, n. 137 (in G.U. n. 189 del 14.8.2012) che, a termini dell’art. 14, è entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella G.U., e cioè il 15.8.2012; poiché, però, il co. 3 del cit. art. 5 prescrive che l’obbligo di assicurazione «acquista efficacia decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto» e l’art. 12 di questo stabilisce che entra in vigore «il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» i dodici mesi in questione decorrono dal 16.8.2012, onde tutti i contratti di patrocinio stipulati sino al 16.8.2013 non dovranno recare alcun avviso relativo alla polizza. Beninteso, sempre che l’interessato non ne sia già ora munito perché in tal caso l’obbligo deve ritenersi vigente da subito.
Infine, il terzo periodo del quarto comma introduce l’obbligo del preventivo di massima e stabilisce che la «misura del compenso ... deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi».
È comprensibile la difficoltà di prevedere tutte le possibili varianti che possono caratterizzare – ad esempio – un processo difficile e ciò si traduce in altrettanta difficoltà di stilare preventivi, seppur di massima, indicando tutte le voci di costo. Un modo per superare queste difficoltà potrebbe essere il rimando ai parametri, cosa oggi possibile dopo la non conversione di quella parte del d.l. n. 1/2012 in cui si vietava il riferimento ai parametri nei rapporti con consumatori e microimprese. Anche un patto di quota lite potrebbe risolvere la segnalata difficoltà di previsione.
In ogni caso, è sempre possibile inserire nel contratto di patrocinio (ulteriore motivo per cui è senz’altro opportuna la sua stipula per iscritto) una clausola di salvaguardia, in grado di agganciare il compenso alle sopravvenienze e che preveda, se del caso, un obbligo di rinegoziazione del compenso.
A testimonianza dell’importanza che il legislatore riconnette al preventivo, si ricorda che secondo l’art. 1, co. 6, d.m. n. 140/2012 «l’assenza di prova del preventivo di massima ... costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell’organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso».
1 Cass., ord. 29.12.2011, n. 29837, in CED Cass., rv. 620796.
2 Sennonché, la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto che le tariffe non sono di per sé ostacoli alla concorrenza: C. giust., grande sezione, 29.3.2011, C-565/08, riferita alle tariffe massime, mentre la direttiva sui servizi nel mercato interno (2006/123/CE del 12.12.2006 recepita in Italia con d.lgs. 23.4.2010, n. 94) non pone ostacoli alla previsione di tariffe nelle professioni regolamentate.
3 Esemplare la sentenza C. giust., grande sezione, 5.12.2006, nei procedimenti riuniti C-94/2004 e C-202/2004, la quale in un passo della motivazione afferma che «non si può escludere a priori che tale tariffa consenta di evitare che gli avvocati siano indotti, in un contesto come quello del mercato italiano il quale ... è caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di avvocati iscritti ed in attività, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell’offerta di prestazioni al ribasso con il rischio del peggioramento della qualità dei servizi forniti».
4 Per riferimenti, v. Perfetti, U., Ordinamento e deontologia forensi, Padova, 2011, passim.
5 Cass., 11.3.2005, n., 5426, in CED Cass., rv. 5811371) secondo cui «In caso di successione di tariffe professionali forensi, la liquidazione degli onorari va effettuata in base alla tariffa vigente al momento in cui le attività professionali sono state condotte a termine, identificandosi tale momento con quello dell'esaurimento dell'intera fase di merito o, per il caso in cui le prestazioni siano cessate prima, con il momento di tale cessazione, mentre gli onorari del giudizio di legittimità vanno liquidati con riferimento al tempo dell'esaurimento di tale giudizio, essendo in esso espletata l'attività sulla base di un mandato speciale, con la conseguenza che, ove la liquidazione sia fatta dal giudice del rinvio, restano irrilevanti eventuali mutamenti della tariffa successivamente intervenuti». Conf. Cass., 12.5.2010, n. 11482, in CED Cass., rv. 612875).
6 Trib. Cremona, ord. 13.9.2012, reperibile nel sito www.altalex.com.
7 Reperibile nel sito www.altalex.com.
8 Reperibile nel sito www.cassazione.net.
9 Reperibile nel sito www.cassazione.net.
10 Cass., S.U., 19.12.2007, n. 26725, in CED Cass., rv. 600331, ha infatti ribadito la tradizionale distinzione tra regole di validità e regole di comportamento per cui, ove non altrimenti stabilito, la violazione di quest’ultime è solo fonte di responsabilità.
11 Emanato dal Consiglio nazionale forense nel 1997 e consultabile nel sito www.consiglionazionaleforense.it.