Abstract
Vengono esaminati il significato e le norme dei Patti lateranensi stipulati l’11 febbraio 1929 fra l’Italia e la Santa Sede, con particolare riferimento alle disposizioni del Trattato (carattere sacro di Roma, santa Sede, prerogative del sommo pontefice, Stato della Città del Vaticano, potestà della Chiesa cattolica nello Stato italiano) e del Concordato, nelle materie dell’assistenza spirituale, delle persone fisiche e giuridiche, del matrimonio, dell’istruzione, della scuola e dell’insegnamento.
I Patti lateranensi, stipulati l’11.2.1929 fra lo Stato italiano e la Santa Sede, constano di due distinte convenzioni: il Trattato, con quattro allegati (I: pianta del territorio dello stato della Città del Vaticano; II: pianta degli immobili con privilegio di extraterritorialità e con esenzione da espropriazione e da tributi; III: piante degli immobili esenti da espropriazioni e da tributi; IV: convenzione finanziaria) e il Concordato. Con il Trattato si è stabilita di comune accordo tra le due parti contraenti la posizione della santa Sede quale ente sovrano della Chiesa cattolica in Italia, si è costituito lo Stato della Città del Vaticano e si è «definitivamente ed irrevocabilmente» composta e quindi eliminata la “questione romana” (art. 26); con il Concordato si è disciplinata la posizione giuridica della Chiesa cattolica in Italia.
Le norme bilaterali contenute nei Patti lateranensi sono state poi tradotte in leggi interne italiane dalla 1. 27.5.1929, n. 810: solo in un senso convenzionale e improprio si parla comunemente di fonti pattizie o di fonti concordatarie come di una categoria specifica di norme ecclesiastiche italiane distinte dalle fonti di cognizione statali: più esattamente occorre invece parlare di disposizioni di derivazione pattizia o concordataria, con la quale espressione si indicano le norme giuridiche immesse nell’ordinamento dello Stato italiano a seguito dell’attuazione interna degli accordi dell’11.2.1929, disposta mediante l’ordine di esecuzione contenuto nella legge n. 810 del 1929.
Un principio sul quale occorre innanzi tutto richiamare l’attenzione è quello contenuto nell’art. 1 del trattato e richiamato nell’art. 1 conc., per il quale la religione cattolica, apostolica, romana è «la sola Religione dello Stato»: si tratta di un principio che, al momento della stipulazione dei Patti lateranensi, assumeva notevole importanza, giacché proprio sul fondamento di tale principio, coerente con la concezione di uno Stato che si identificava con il suo principe (lo Stato cattolico era quello retto da un principe cattolico, il quale si uniformava alle leggi della Chiesa cattolica), poteva giustificarsi il riconoscimento dei molti privilegi garantiti nei confronti della Chiesa cattolica, compreso il regime di tutela privilegiata previsto nel codice penale del 1930.
Un altro principio assai significativo è quello contemplato nell’art. 1, co. 2, conc.: con la norma contenuta in tale disposizione il governo italiano, in considerazione del «carattere sacro di Roma», sede del pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, si impegnò ad impedire tutto ciò che in Roma potesse essere in contrasto col detto suo carattere.
Questa norma assume una notevole importanza per comprendere le finalità che il regime di Mussolini si proponeva di conseguire con la stipulazione dei Patti del Laterano: essa si riferisce, da un punto di vista storico, sia a una situazione esistente nella capitale, sia all’intento della Chiesa cattolica di restaurare in Roma la società cristiana. L’origine immediata della proposta vaticana di una guarentegia del carattere sacro della capitale va probabilmente ricercata nelle preoccupazioni ecclesiastiche per l’immoralità che parve diffondersi in maniera crescente in quegli anni, proprio a Roma. Il regime di Mussolini, d’altra parte, dimostrò di non volere accettare il ruolo che la Santa Sede intendeva affidargli di difensore della sacertà di Roma; non volle cioè che il suo atteggiamento venisse interpretato come quello di tutore della Chiesa cattolica, come risulta chiaro da una circolare rivolta ai prefetti il 16.2.1929, nella quale, al fine di dimostrare che la sacertà dell’urbe era stata valutata nell’ottica dell’utilità del regime, si precisava che le ragioni della tutela dovuta alla città sacra coincidevano perfettamente con quelle della tutela dovuta alla città capitale del regime fascista, che «ha inteso ed intende dare al popolo italiano una disciplina civile più maschia ed austera, e, per ciò stesso, più rispondente ai bisogni di un popolo forte che vuole essere in grado di rispondere agli appelli della sua storia».
L’interpretazione corrente della norma contenuta nell’art. 1, co. 2, conc. è nel senso che essa conteneva un impegno del Governo italiano non ben determinato, riferibile alle potestà discrezionali del potere esecutivo; tale indeterminatezza rispondeva assai bene alle finalità che le due parti contraenti si proponevano di conseguire: da parte vaticana, si apprezzava l’indeterminatezza oggettiva della norma, in quanto la generalità dell’impegno assunto dallo Stato consentiva di coprire il maggior numero possibile di ipotesi; lo Stato italiano, da parte sua, intendeva coprire il minor numero possibile di ipotesi concrete, al fine di lasciare il governo italiano pienamente arbitro della situazione. Si voleva cioè evitare di inserire nella norma troppo rigidi criteri di valutazione, proprio al fine di potere adeguarne il contenuto alle esigenze concrete della realtà sociale. La sacertà di Roma è una formula non rapportabile a parametri generali, elaborata per rappresentare una realtà complessa, collegabile a una missione universale che si riteneva Roma dovesse svolgere nella conservazione e nella diffusione della fede cristiana.
Estintosi per debellatio lo Stato pontificio, a seguito dell’occupazione di Roma del 20.9.1870, lo Stato italiano si era proposto, con la legge nota come legge delle guarentigie (l. 13.5.1871, n. 213), di regolare la condizione giuridica del pontefice e degli uffici della s. Sede, nonché le relazioni nei confronti di quest’ultima. Nei decenni successivi l’approvazione di questa legge, la Chiesa cattolica continuò a rivendicare l’esigenza di ottenere di fronte allo Stato italiano una visibile indipendenza del capo della chiesa e dei suoi organi di governo, di avere in particolare un territorio destinato alla residenza del pontefice e della s. Sede, al di fuori di ogni sovranità statuale (“questione romana”).
Con il trattato del Laterano stipulato 1’11.2.1929 si intese eliminare ogni ragione di dissidio esistente fra la s. Sede e l’Italia, al fine di conseguire una sistemazione definitiva dei reciproci rapporti che, assicurando alla s. Sede in modo stabile una condizione di fatto e di diritto, le garantisse l’assoluta indipendenza per l’adempimento della sua alta missione nel mondo e consentisse alla stessa s. Sede di ritenere composta in modo definitivo e irrevocabile la questione romana sorta nel 1870 con l’annessione di Roma al Regno d’Italia.
Contenuto essenziale del trattato lateranense è la creazione dello stato della “Città del Vaticano”: nel 1929 l’Italia riconosce alla s. Sede la piena proprietà e l’esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, con tutte le sue pertinenze e dotazioni (art. 3, 4 tratt.). In relazione poi alla costituzione dello Stato della Città del Vaticano, il trattato prevede un complesso di guarenigie e immunità territoriali e personali del pontefice, dei cardinali, di uffici della s. Sede in territorio italiano: tra queste disposizioni, che vanno coordinate con quelle del concordato relative alla situazione giuridica degli organi periferici della Chiesa in Italia, assumono particolare rilievo le norme contenute nell’art. 8, che contempla le prerogative e immunità del sommo pontefice, nell’art. 12, che stabilisce le garanzie del libero accesso dei vescovi di tutto il mondo alla sede apostolica e delle imnmnità spettanti agli agenti diplomatici secondo il diritto internazionale, nell’art. 21 («Durante la vacanza della Sede Pontificia, l’Italia provvede in modo speciale a che non sia ostacolato il libero transito ed accesso dei Cardinali attraverso il territorio italiano al Vaticano, e che non si ponga impedimento o limitazione alla libertà personale dei medesimi») e nell’art. 23: quest’ultima norma, dopo avere stabilito che per l’esecuzione nel territorio italiano delle sentenze emanate dai tribunali dello Stato della Città del Vaticano «si applicheranno le norme del diritto internazionale», prevede il principio, divenuto costituzionalmente illegittimo dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, che avranno senz’altro piena efficacia giuridica anche a tutti gli effetti civili in Italia i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche e ufficialmente comunicati alle autorità civili circa persone ecclesiastiche e religiose e concernenti materie spirituali e disciplinari. Con riferimento a tale disposizione, l’art. 2, lett. c, del protocollo addizionale al patto di villa Madama del 1984 ha stabilito che tali “effetti civili” «vanno intesi in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani».
Il trattato del Laterano, che una parte della dottrina ha ritenuto un vero e proprio trattato internazionale, crea per le due «Alte Parti contraenti» (lo Stato italiano e la s. Sede) diritti e obblighi precisati nelle disposizioni del trattato. Assai discussa è la natura giuridica del nuovo Stato nato nel 1929 a seguito della stipulazione del trattato, lo stato della Città del Vaticano, che presenta alcuni caratteri che lo distinguono da ogni altro Stato: esso tende al fine strumentale di assicurare l’indipendenza della s. Sede, ha una propria personalità di diritto internazionale, è in possesso cioè di una capacità di agire distinta rispetto a quella della s. Sede, nei confronti della quale costituisce uno Stato patrimoniale; il collegamento che lo Stato della Città del Vaticano presenta con la s. Sede appare evidente se si considera che il suo organo supremo è lo stesso della s. Sede, e cioè il sommo pontefice che, con legge interna 7.6.1929, ha assunto la qualifica di sovrano dello Stato.
Il territorio dello stato della Città del Vaticano (km 0,44) è costituito dalla piazza e dalla basilica di s. Pietro, dai palazzi vaticani con le raccolte artistiche, i parchi e i giardini e da alcune strade e piazze indicate in apposita pianta allegata al trattato lateranense. Piazza s. Pietro è soggetta a servitù internazionale a favore dello Stato italiano, deve essere aperta al pubblico ed è soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane (art. 3 tratt.). Per quanto riguarda i musei e le biblioteche, la s. Sede ha la piena libertà di disciplinare l’accesso del pubblico, ma essi devono rimanere visibili agli studiosi e ai visitatori (art. 18 tratt.).
Data la situazione di enclave (territorio integralmente chiuso entro uno Stato diverso da quello cui politicamente appartiene) che rispetto al territorio italiano presenta lo Stato della Città del Vaticano, quest’ultimo è beneficiario di un complesso di obblighi assunti dallo Stato italiano (libertà di comunicazioni ferroviarie, postali, telegrafiche e telefoniche, coordinamento di servizi pubblici ecc.).
Un problema di particolare importanza, che ha assunto drammatica attualità in occasione dell’attentato del 13.5.1981 alla vita del pontefice, è quello dei rapporti tra lo Stato italiano e lo Stato della Città del Vaticano in ordine alla giurisdizione penale. L’art. 22, co. 1, tratt. stabilisce in proposito che a richiesta della s. Sede e per delegazione che potrà essere data dalla s. Sede o nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane.
La delegazione di giurisdizione penale deve ritenersi obbligatoria per lo Stato italiano; essa è invece facoltativa per la s. Sede, considerando che nella disposizione in esame si precisa che essa «potrà» essere data dalla s. Sede e che quindi ricorre una facoltà di poter fare la delega.
Nell’art. 22, co. 2, tratt. è poi previsto l’impegno della s. Sede di consegnare allo Stato italiano le persone che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti commessi nel territorio italiano che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli stati; «analogamente si provvederà per le persone imputate di delitti che si fossero rifugiate negli immobili dichiarati immuni nell’art. 15, a meno che i preposti ai detti immobili preferiscano invitare gli agenti italiani ad entrarvi per arrestarle» (art. 22, co. 3, tratt.).
Una questione assai discussa sulla quale occorre richiamare l’attenzione, anche per il rilievo che ha assunto in sede politica, è quella del trattamento tributario degli utili spettanti alla s. Sede.
Il riconoscimento della personalità di diritto internazionale e della sovranità dello Stato della Città del Vaticano importa che cittadini ed enti di tale Stato siano considerati come “stranieri” dal nostro ordinamento giuridico: come tali essi sono soggetti ai tributi della nostra legislazione tributaria, ove ricorrano determinate relazioni, di carattere personale o economico, che comportino il loro assoggettamento alla potestà finanziaria statuale.
Uno dei problemi fondamentali che riguardano il tema delle relazioni tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica è sempre stato quello consistente nel determinare il contenuto e i limiti dei poteri giuridici degli organi della Chiesa cattolica nell’ordinamento italiano: questione che è senz’altro tra le più delicate, complesse e importanti del diritto ecclesiastico.
Il tema relativo alla rilevanza delle potestà della Chiesa cattolica nell’ordinamento italiano è reso particolarmente complesso dalla circostanza che esso si presenta connesso con altre questioni concernenti la qualificazione giuridica del sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa cattolica in Italia e la posizione del diritto canonico nel diritto statuale, questioni che molto spesso la dottrina ha preso in esame unitariamente, ponendo in rilievo l’intimo rapporto che intercorre tra i suddetti argomenti.
Quando si prendono in considerazione i problemi riguardanti il tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica, è necessario innanzi tutto tenere presente che lo Stato può limitarsi a riconoscere la più assoluta autonomia della Chiesa, senza riconoscere l’efficacia civile agli atti emanati dalle autorità ecclesiastiche: ed è proprio nelle ipotesi in cui vengono riconosciuti determinati effetti civili agli atti promananti dagli organi canonici (come, per esempio, negli artt. 23, cpv., tratt., 5, 29, 34 conc.) che si pone, in senso tecnico, il problema del collegamento tra gli ordinamenti giuridici dello Stato e della Chiesa cattolica, poiché in dette ipotesi si rende appunto necessario un riferimento al diritto della Chiesa, venga quest’ultimo in considerazione come “presupposto” o mediante “rinvio”.
La Chiesa cattolica esplica, nell’ambito dell’ordinamento giuridico canonico, una potestà d’imperio detta potestas iurisdictionis seu regiminis, la quale comprende poteri normativi, amministrativi e giudiziari e si distingue dalla potestas ordinis, che riguarda la distribuzione dei sacramenti e in genere gli atti destinati a propiziare la divinità.
È opportuno subito rilevare che i termini di “giurisdizione” e di “potestà” sono adottati nel linguaggio giuridico dei canonisti in un significato diverso da quello che essi hanno nel diritto statuale, per il quale il potere di giurisdizione è propriamente inteso nel senso di potere giudiziario; se il termine di giurisdizione nel diritto canonico viene spesso adottato indifferentemente per designare sia l’ordinaria potestà di governo spettante alla gerarchia ecclesiastica nei confronti dei fedeli, sia la potestas iudicialis (cosiddetta giurisdizione in senso stretto), e cioè il potere di applicare nei singoli casi controversi le norme giuridiche canoniche dettate dagli organi competenti della Chiesa cattolica, deve peraltro precisarsi che la nozione tecnica di iurisdictio canonica corrisponde al primo uso del termine. Il concetto di giurisdizione canonica, intesa come potere di chi ha l’ufficio di governare di disciplinare “imperativamente” gli atti dei governati, costituisce una nozione dai limiti assai estesi, rientrando in essa qualsiasi attività posta in essere dalla Chiesa per provvedere al governo dei fedeli al fine di guidarli al conseguimento della beatitudine celeste.
Prendendo ora in considerazione i principi ai quali occorre richiamarsi per valutare la portata e i limiti dell’esercizio della potestà di giurisdizione della Chiesa cattolica nell’ordinamento giuridico italiano dopo la stipulazione dei Patti lateranensi, è necessario innanzi tutto ricordare la disposizione dell’art. 1, co. 1, conc.: quest’ultima norma stabilisce fra l’altro che l’Italia «assicura» alla Chiesa cattolica «il libero e pubblico esercizio della sua giurisdizione in materia ecclesiastica», in conformità delle norme del concordato: tale disposizione trova una conferma e un completamento nei principi contenuti nell’art. 2 conc., che, ai commi 2 e 3, prevede che i vescovi, per l’esercizio del loro ministero pastorale, comunicano e corrispondono con il clero e con i fedeli e hanno il diritto di pubblicare, senza alcuna possibilità di ingerenza preventiva e repressiva da parte dello Stato, e di fare affiggere nell’interno e alle porte esterne degli edifici destinati al culto o ad uffici del loro ministero le istruzioni, le lettere pastorali, i bollettini diocesani e gli altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli, che crederanno di emanare nell’ambito della loro competenza.
La disposizione dell’art. 1 conc. assume grande importanza anche per l’interpretazione di altre disposizioni concordatarie con le quali sono state disciplinate le reciproche interferenze della potestà statuale e delle potestà della chiesa: ed infatti è sul fondamento dei principi contenuti nella ricordata disposizione che deve essere interpretata la disciplina concordataria delle interferenze della potestà statuale e delle potestà della Chiesa riguardo agli ecclesiastici (artt. 2-8), agli edifici destinati al culto (artt. 9 e l0), ai giorni festivi (artt. 11 e 12), all’assistenza spirituale delle forze armate (artt. 13-15), alle circoscrizioni delle diocesi e delle parrocchie (artt. 16-18), alla provvista dei benefici ecclesiastici (artt. 19-26), all’appartenenza di determinati beni alla chiesa (artt. 27 e 28), al riconoscimento degli enti ecclesiastici e all’amministrazione dei beni ecclesiastici (artt. 29¬33), al matrimonio (art. 34), all’istruzione e all’educazione religiosa e laicale (artt. 35-40), alle onorificenze cavalleresche e ai titoli nobiliari pontifici (artt. 41 e 42).
Gli scrittori che, subito dopo la stipulazione dei patti lateranensi, si proposero di interpretare la formula contenuta nell’art. 1, co. 1, conc. e di chiarire la portata della «assicurazione» fornita dall’Italia alla Chiesa cattolica, in merito al libero esercizio della sua giurisdizione in materia ecclesiastica, precisarono che con la garanzia contenuta nella norma concordataria in esame erano caduti molti istituti, che tendevano a coartare le libertà della Chiesa nell’esercizio delle sue attività giurisdizionali, di magistero, di ordine, ed erano parimenti cadute le diverse forme di regalia, di interventi sovrani nel conferimento di uffici ecclesiastici, di placitazione, e altre forme di controllo e di ingerenza statuale nelle attività della Chiesa.
Lo Stato italiano, nell’assicurare alla Chiesa cattolica il libero esercizio della sua giurisdizione in materia ecclesiastica, non ha inteso in alcun modo considerare civilmente efficaci nel proprio ordinamento gli atti della giurisdizione ecclesiastica, né ha riconosciuto come “potestà giuridiche” i poteri rientranti nell’unitaria potestas iurisdictionis canonica, essendosi soltanto impegnato ad assicurare espressamente che l’attività delle autorità ecclesiastiche potesse esplicarsi liberamente, libera cioè da controlli e da interferenze giurisdizionaliste, ad eccezione dei controlli e delle interferenze contemplati nel concordato stesso.
Con il concordato la Chiesa cattolica ha ottenuto il potere di svolgere il servizio della “assistenza spirituale” presso le forze armate dello Stato, al fine di «integrare la formazione spirituale della gioventù che fa parte delle milizie, secondo i princìpi della religione cattolica» (questa è la formula adottata nella 1. 16. 1. 1936, n. 77). Tre articoli del concordato si occupano espressamente del problema della cura castrense, regolandone la costituzione organica e il funzionamento: l’art. 13 regola il servizio religioso nell’esercito; l’art. 14 estende alle truppe italiane i privilegi e le esenzioni consentiti dal diritto canonico, quelli cioè tradizionalmente concessi alle forze armate dei singoli Stati, e precisa le competenze giurisdizionali dei cappellani militari e la estensione della giurisdizione dell’ordinario militare; l’art. 15, infine, assegnando la chiesa del Pantheon in Roma a quasi cattedrale dell’arcivescovo ordinario militare, concede allo Stato italiano la presentazione ufficiale al cardinale vicario di Roma dei candidati all’ufficio di canonici di detta chiesa, previo accertamento segreto che il presentando sia persona gradita.
La disciplina che riguarda l’assistenza spirituale alle forze armate è contenuta nella legislazione ordinaria emanata dopo la stipulazione dei Patti lateranensi e pertanto solo indirettamente trova il suo fondamento nella legislazione concordataria.
Occorre innanzi tutto precisare che, per il concordato del 1929, la qualità di fedele non porta a una differenziazione dei cittadini: tuttavia quel che non è per il cittadino in quanto fedele può essere per il cittadino in quanto ha acquistato nella confessione religiosa una posizione particolare differenziata da quella degli altri fedeli.
Mentre il diritto canonico usa assai spesso il termine di chierici in alternativa a quello di laici, il diritto statuale alla dizione di “chierici” ha di solito sostituito quella di “ecclesiastici”. La legislazione statuale usa poi un altro termine, quello di “ministro di culto”, che, quando si riferisce a ministri di culto della Chiesa cattolica, comprende coloro che, secondo il diritto canonico, sono investiti delle potestà ecclesiastiche
A proposito delle persone fisiche nel diritto concordatario, è necessario ricordare che numerose disposizioni del diritto italiano attribuiscono speciali esenzioni e privilegi a taluni soggetti differenziati dagli altri per la posizione giuridica particolare che essi assumono nell’ambito delle rispettive confessioni religiose e, per quanto in questa sede interessa, della confessione religiosa cattolica.
Nel diritto canonico assume particolare importanza l’istituto dell’immunità personale, che esenta i chierici e, in genere, le persone ecclesiastiche dalla giurisdizione e dagli oneri imposti dalle autorità
civili: alcuni soggetti ecclesiastici, nel concordato del 1929 (cfr. specialmente gli art. 2, 3, 4, 6, 7, 8), erano sottratti a determinati obblighi, oneri o responsabilità che valevano per la generalità dei cittadini con una normativa la cui legittimità costituzionale è apparsa ben presto dubbia, dopo l’entrata in vigore della carta costituzionale che, all’art. 3, co. 1, prevede che tutti i cittadini «hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di [ ... ] religione [ ... ], di condizioni personali e sociali».
Un complesso di disposizioni erano contemplate nei tre commi dell’art. 5 conc., per il quale: nessun ecclesiastico poteva essere assunto o rimanere in un impiego o ufficio dello stato italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo senza il nulla osta dell’ordinario diocesano, norma che accentuava ulteriormente il rapporto di soggezione speciale che legava gli ecclesiastici alla gerarchia; la revoca del nulla osta privava l’ecclesiastico della capacità di continuare a esercitare l’impiego o l’ufficio assunto (co. 2), disposizione che introduceva una ipotesi di inammissibile capitis deminutio; in ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potevano essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego nei quali fossero a contatto immediato col pubblico (co. 3), norma che, oltre a ledere i diritti fondamentali dei cittadini, era in evidente contrasto con gli stessi interessi spirituali della Chiesa, per la coazione che esercitava sugli investiti di ordini sacri, nel senso di indurli a conservare tale qualità anche quando fosse venuta meno ogni loro adesione spirituale ad essi.
In proposito sono da ricordare gli art. 19 e 20 conc., che limitavano il diritto della Chiesa in tema di nomina di vescovi, nomina che poteva avvenire solo dietro nulla osta dello Stato, e obbligavano i vescovi a prestare giuramento di fedeltà allo Stato e al capo dello Stato.
La norma che implicava una ingerenza dello Stato nella provvista delle sedi vescovili (art. 19 conc.) e quella che prevedeva l’obbligo del giuramento da parte dei vescovi (art. 20 conc.) non si giustificavano alla luce della costituzione, giacché, richiamando alla memoria i principi della politica giurisdizionalista dello Stato, ponevano la Chiesa cattolica in una posizione meno favorevole di quella derivante da un’applicazione dei precetti costituzionali.
Le medesime considerazioni potevano valere per ritenere inaccettabile l’art. 43 conc. che, al co. 1, imponeva alle organizzazioni della Chiesa cattolica di svolgere le loro attività al di fuori di ogni partito politico, e, nel 2° c., precisava che «La Santa Sede prende occasione dalla stipulazione del presente Concordato per rinnovare a tutte gli eccleiastici e religiosi d’Italia il divieto di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico», disposizioni in contrasto con il principio costituzionale della libertà delle associazioni che intendano concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 cost.).
La materia degli enti ecclesiastici e del patrimonio ecclesiastico è particolarmente complessa: ed è noto che proprio in ordine a tale questione i contrasti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica sono stati e sono tuttora di tale entità che forse il maggiore ostacolo per la revisione del concordato è consistito proprio nella difficoltà di pervenire in tale materia a una soluzione soddisfacente sia per lo Stato che per la Chiesa cattolica.
Sono numerose le norme che, nel concordato del 1929, riguardavano, direttamente o indirettamente, la materia degli enti e del patrimonio della chiesa (artt. 16, 17, 18, 23, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 35 e 39); le disposizioni del concordato sono state poi integrate da due provvedimenti normativi emanati dopo la stipulazione del concordato ed elaborati da una commissione mista formata da rappresentanti della s. Sede e del governo italiano, la 1. 27.5.1929, n. 848 e il regolamento approvato con r.d. 2.12.1929, n. 2262.
Nel complesso della legislazione concordataria dedicata a tale materia (cfr. soprattutto art. 30 e 31 conc. e 4, e 30, co. 4, l. n. 848 del 1929) possono individuarsi due principi generali, consistenti: il primo, nel riconoscimento di un’autonomia della Chiesa e del suo ordinamento, per quanto riguarda l’erezione (e i successivi mutamenti) delle persone giuridiche ecclesiastiche e la vigilanza e il controllo della gestione dei beni ad esse appartenenti; il secondo, nell’attribuzione allo Stato italiano dei poteri, in alcuni casi qualificabili “discrezionali”, di riconoscere le singole persone giuridiche ecclesiastiche e di sottoporre le persone giuridiche formalmente riconosciute dallo Stato a un complesso di norme che si traducevano in un insieme di limiti all’esercizio della loro attività.
La maggior parte dei problemi attualmente discussi a proposito della materia matrimoniale riguarda questioni poste dall’entrata in vigore dei principi costituzionali (1948), dall’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano (1970), dall’approvazione della legge di riforma del diritto di famiglia (1975), dall’entrata in vigore delle norme concordatarie in tale materia, dall’approvazione della legge sulle unioni civili approvata l’11.5.2016.
Fino all'8.8.1929, giorno in cui entrarono in vigore l’art. 34 conc. e la l. 27.5.1929, n. 847, emanata per l’attuazione dello stesso articolo, vigeva in Italia quello che i canonisti definiscono il “sistema del matrimonio civile obbligatorio”: il matrimonio civile era l’unica fonte del vincolo matrimoniale, la sola produttiva di effetti giuridici: non poteva aversi matrimonio civilmente valido, all’infuori di quello celebrato dinanzi alla competente autorità dello Stato. Ne seguiva che un matrimonio canonico, non accompagnato da un parallelo matrimonio civile, era una mera res facti, del tutto irrilevante per l’ordinamento statuale. Per oltre sessant’anni la materia matrimoniale fu dunque disciplinata in Italia dal principio liberale che fosse di esclusiva competenza dello Stato dettare, in tale materia, le norme regolatrici, in maniera uniforme per tutti i cittadini, qualunque fosse il loro credo religioso. Tale sistema venne superato con gli accordi del 1929: in base agli art. 34 conc. e 5 ss. 1. n. 847/1929 (cd. “legge matrimoniale”), lo Stato italiano si è impegnato a «riconoscere al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili».
In seguito alla legislazione del ‘29, il cittadino ha potuto contrarre matrimonio in tre diverse forme: a) “matrimonio civile”, che poteva essere contratto da chiunque ed era regolato sia quanto alla forma che alla sostanza dal codice civile (art. 84 ss.); b) matrimonio cd. concordatario, che poteva essere contratto solo dai cattolici ed era regolato sia per quanto riguarda la forma che la sostanza dal diritto canonico: tale matrimonio, per conseguire gli effetti civili, doveva essere trascritto nei registri dello stato civile e doveva rispettare altre formalità (art. 82 c. c.); c) matrimonio religioso dei culti acattolici, che si differenziava dal matrimonio civile solo per quanto riguardava l’atto di celebrazione (compiuto, anziché dall’ufficiale di stato civile, da un ministro del culto, delegato dalla competente autorità statale): questo tipo di matrimonio, sia quanto alla forma che alla sostanza, era disciplinato integralmente dalla legge civile (art. 83 c. c.).
Il sistema del diritto matrimoniale concordatario si basava sul principio dell’”estranieità” del matrimonio canonico all’ordinamento dello Stato italiano, sul principio, cioè, per il quale il matrimonio religioso si formava, in quanto contratto-sacramento, nella sfera dell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica e quindi al di fuori dell’ordinamento giuridico italiano: l’ordinamento dello stato si limitava, attraverso i suoi organi, a prendere semplicemente atto dell’avvenuta costituzione del contratto-sacramento o del fatto che il contratto-sacramento, già riconosciuto ad effetti civili, fosse stato successivamente dichiarato nullo dal giudice ecclesiastico per una causa di nullità dipendente dall’ordinamento della Chiesa.
La prima conseguenza derivante dall’introduzione del sistema matrimoniale concordatario era che quest’ultimo precludeva allo Stato ogni concreta possibilità di praticare una propria autonoma politica matrimoniale, in quanto le parti avrebbero potuto sempre eludere i limiti posti dalla legge civile ricorrendo al matrimonio religioso: le esigenze avvertite dallo Stato e tradotte nei suoi precetti legislativi avrebbero potuto essere frustrate attraverso il ricorso al matrimonio canonico.
La già ricordata formula dell’art. 34 conc. («Lo Stato italiano riconosce gli effetti civili al sacramento del matrimonio disciplinato dal diritto canonico»), presa in sé, lasciava aperto l’adito a svolgimenti diversi e il sacrificio del diritto statale fu in parte consumato con la legge matrimoniale 27.5.1929, n. 847 e perfezionato dalla giurisprudenza, in particolare da quella della Cassazione, a proposito delle singole questioni che si sono presentate in pratica: è però da tenere presente che, secondo la comune opinione, il progetto della legge matrimoniale era scaturito da un accordo con l’autorità ecclesiastica.
I problemi del diritto matrimoniale concordatario devono essere valutati distinguendo due momenti fondamentali: i) il momento costitutivo del vincolo matrimoniale; ii) il momento dell’eventuale cessazione dei suoi effetti nell’ordinamento italiano. Ma si tratta di un’analisi in questa sede non consentita, considerando i limiti quantitativi posti all’elaborazione di questa voce.
L’art. 36 conc. dispone testualmente: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato.
Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e professori, sacerdoti o religiosi, approvati dall’autorità ecclesiastica, e sussidiariamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di un certificato di idoneità da rilasciarsi dall’Ordinario diocesano.
La revoca del certificato da parte dell’Ordinario priva senz’altro l’insegnante della capacità di insegnare.
Pel detto insegnamento religioso nelle scuole pubbliche non saranno adottati che libri di testo approvati dall’autorità ecclesiastica».
Con la norma concordataria lo stato fascista stabilì dunque, in contraddizione con i principi ispiratori che avevano caratterizzato la riforma Gentile nel 1923, l’estensione dell’insegnamento della religione nelle scuole medie e medie superiori: tale concessione costituì uno dei prezzi più pesanti che, insieme alla rinuncia statale alla sovranità in materia matrimoniale, il regime fascista dovette pagare pur di ottenere dalla Chiesa cattolica, con la stipulazione dei Patti lateranensi, un sostanziale riconoscimento del regime di Mussolini.
Le questioni più delicate che le norme contenute nell’art. 36 conc. hanno sollevato sin dall’entrata in vigore dei patti lateranensi sono le seguenti: a) l’interpretazione della formula introduttiva dell’articolo, per la sua affermazione solenne, che contrasta con la conseguenza, fatta quasi in forma di concessione (lo Stato [ ... ] consente), e per la sua dizione ampia e generica, suscettibile di far pensare all’accettazione di una dottrina confessionale da parte dello Stato italiano; b) la mancanza dell’esplicito riconoscimento della facoltà di dispensa per chi intendesse non avvalersi dell’insegnamento della religione; c) la possibilità di discriminazioni in ragione della frequenza dell’insegnamento e delle pratiche di culto; d) la posizione giuridica degli insegnanti di religione; e) i programmi di insegnamento della religione. Non è qui possibile esaminare analiticamente tali questioni: in sintesi può ricordarsi che, nonostante il principio posto a base dell’art. 36, tale norma è sempre stata interpretata in senso restrittivo e che con essa alla Chiesa sono stati attribuiti compiti ben precisi, riferibili: aa) all’accordo tra la s. Sede e lo Stato sui programmi di religione; bb) all’approvazione dei maestri e professori sacerdoti o religiosi e al rilascio, da parte dell’Ordinario diocesano, di un certificato di idoneità ai maestri e professori laici; cc) all’approvazione dei libri di testo di religione.
Tra le disposizioni concordatarie in materia di insegnamento, istruzione, scuola, la più importante è certo quella dell’art. 36, a proposito della quale la dottrina ha affrontato numerosi e complessi problemi interpretativi. Le norme degli artt. 35, 37, 38, 39 e 40 hanno assunto un’importanza minore, ma anche con riferimento ad esse può affermarsi che la materia dell’istruzione è una delle più problematiche tra quelle considerate nel concordato del 1929, tanto che essa ha costituito e costituisce uno dei temi rispetto ai quali più difficile è apparsa l’opera di modifica e di riforma del sistema vigente.
La legislazione ordinaria del vigente diritto ecclesiastico italiano è stata emanata negli anni 1929-1930, e cioè negli anni di massimo potere del governo fascista: tale legislazione è rimasta in vigore dopo l’approvazione della Carta costituzionale del 1948 e in parte dopo l’approvazione del Patto di Villa Madama del 18 febbraio 1984.
Questa voce non esamina i problemi dell’interpretazione e dell’attuazione dei Patti lateranensi dopo l’entrata in vigore della Costituzione italiana del 1948 e del patto di villa Madama del 18 febbraio 1984, argomenti per i quali sarà necessaria l’elaborazione di una nuova voce.
Statuto fondamentale del Regno di Sardegna 4.3.1948; Trattato lateranense 11.2.1929; Concordato lateranense 11.2.1929; Convenzione finanziaria 11.2.1929; circ. ministero degli interni sulla tutela del carattere sacro di Roma; l. 27.5.1929, n. 810, sull’esecuzione del Trattato, dei quattro allegati e del Concordato fra l’Italia e la Sana Sede; l. 27.5.1929, n. 847, disposizioni di applicazione del Concordato, nella parte relativa al matrimonio (l.m.); l. 27.5.1929, n. 848, sugli enti ecclesiastici e sui patrimoni destinati a fini di culto; l. fondamentale della Città del Vaticano; R.d. 2.12.1929, n. 848, sugli enti ecclesiastici e sui patrimoni destinati a fini di culto; R.d. 5.6.1930, sull’insegnamento della religione cattolica negli istituti medi di istruzione.
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