Abstract
Viene esaminato il patto di prova con cui il datore ed il lavoratore valutano la reciproca convenienza a rendere definitivo il rapporto di lavoro, analizzandone la natura giuridica, la forma, il contenuto, la durata e la facoltà di libero recesso con riferimento a tutte le tipologie di rapporto di lavoro.
Il patto di prova costituisce un elemento accidentale del contratto di lavoro ed ha lo scopo di consentire ad entrambe le parti di valutare la reciproca convenienza a rendere definitivo il rapporto (Varesi, P.A., Il patto di prova nel rapporto di lavoro, in Le assunzioni. Prova e termine nei contratti di lavoro, Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1990, 3).
Una prima disciplina organica del patto di prova si è avuta, per la sola categoria impiegatizia, con l’art. 4 del R.d.l. 13.11.1924, n. 1825, quasi totalmente superato (tranne per alcuni profili che continuano ad integrare la disciplina sopravvenuta, v. Cass., 29.9.2008, n. 24282) dall’art. 2096 c.c. e dall’art. 10 della l. 15.7.1966, n. 604, oggi le principali fonti legali di disciplina dell’istituto. L’art. 2096 c.c. indica quali aspetti essenziali del patto: la forma scritta, «salva diversa disposizione delle norme corporative» (co. 1); l’obbligo gravante sul datore di lavoro e sul lavoratore a consentire e a svolgere l’esperimento che forma oggetto della prova (co. 2); il riconoscimento ad entrambi i contraenti, decorso un eventuale periodo minimo pattuito, di recedere prima della scadenza del termine senza obbligo del preavviso (co. 3); la definitività dell’assunzione in mancanza di recesso ed il computo del servizio prestato durante il periodo di prova nell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro (co. 4). L’art. 10 della l. n. 604/1966 ha indirettamente fissato in sei mesi il limite temporale massimo del patto di prova prevedendo che decorso tale periodo trovi applicazione il regime vincolistico dei licenziamenti.
Sono, poi, previste discipline speciali per alcune categorie di lavoratori: l’art. 5 della l. 2.4.1958, n. 339 ha stabilito per il lavoro domestico la durata massima del periodo di prova per le diverse figure professionali; l’art. 9, co. 7, della l. 23.7.1991, n. 223 ha statuito che il lavoratore iscritto nelle liste mobilità e successivamente assunto con contratto a tempo pieno ed indeterminato sia reiscritto nelle liste nel caso in cui non superi il periodo di prova. Per i lavoratori marittimi v. art. 904 c. nav.
Importante è anche la specifica regolamentazione contenuta nei contratti collettivi di categoria, soprattutto per quanto concerne la durata del periodo di prova e le relative modalità di computo.
Secondo la giurisprudenza le parti nella loro autonomia negoziale possono stipulare sia un contratto di lavoro con patto di prova, quanto prevedere lo svolgimento di una semplice attività “esplorativa” dell’ambiente di lavoro che sia finalizzata unicamente all’acquisizione delle opportune, reciproche, informazioni concernenti l’instaurando rapporto (Cass., 4.4.2007, n. 8463; Cass., 5.5.1997, n. 3910).
La questione relativa alla definizione della natura giuridica del patto di prova, ancorché da taluni considerata oziosa (Suppiej, G., Il rapporto di lavoro (costituzione e svolgimento), Padova, 1982, 270) o comunque di non particolare rilevanza (Carinci, F.-De Luca, R.-Tosi, P.-Treu, T., Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2013, 108) è stata oggetto di notevole attenzione da parte della dottrina, mentre è stata sostanzialmente ignorata in giurisprudenza. Dopo alcune iniziali ricostruzioni che qualificavano il patto di prova come speciale contratto di lavoro con propria causa tipica data dallo scambio tra il consentire ed il compiere l’esperimento (Assanti, C., Il contratto di lavoro a prova, Milano, 1957, 27), ovvero quale fase preliminare di un rapporto unitario, caratterizzata dalla stessa causa del contratto di lavoro, ma arricchita di un ulteriore elemento attinente all’effettuazione dell’esperimento (Zangari, G., Il contratto di lavoro con clausola di prova, Milano, 1965, 129), l’orientamento maggioritario ha ricondotto la clausola di prova alla figura della condizione. Secondo taluni si tratterebbe di condizione sospensiva poiché la sottoscrizione del patto di prova comporta la costituzione di un rapporto di lavoro provvisorio che diviene definitivo (avverandosi, dunque, la condizione) con il gradimento (o, comunque, il mancato recesso) da parte di entrambi i contraenti (Cassì, V., Il rapporto di lavoro in prova, Milano, 1950, 139; Mancini, G.F., Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Milano, 1962, 220; Riva Sanseverino, L., Dell’impresa in generale, V ed., Comm. c.c. Scialoja-Branca, sub artt. 2060-2134, Bologna-Roma, 1977, 258; Cass., 11.11.1988, n. 6096); secondo altri si tratterebbe di condizione risolutiva, in quanto il rapporto in prova ha di massima lo stesso contenuto di quello definitivo, rimanendo sottoposto al verificarsi della condizione risolutiva rappresentata dal mancato gradimento o comunque dal recesso del datore di lavoro (o del lavoratore) durante o al termine del periodo (Del Punta, R., Lavoro in prova, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 2; Barassi, L., Il diritto del lavoro, II, Milano, 1949, 188; Mengoni, L., Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in Il contratto di lavoro nel diritto dei paesi membri della C.E.C.A., Milano, 1965, 467; Calabrò, E., Periodo di prova (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 73; Brun, S., Il recesso dal patto di prova tra limiti sostanziali e conseguenze sanzionatorie, in Argomenti dir. lav., 2003, 693). Vi è stato anche chi ha ravvisato nel patto di prova il combinarsi dei due elementi della condizione sospensiva e del termine finale in quanto dal contratto di lavoro con clausola di prova originerebbero un rapporto di lavoro provvisorio sottoposto a termine finale incerto e un rapporto di lavoro definitivo subordinato alla condizione sospensiva potestativa del gradimento o del mancato recesso dell’una o dell’altra parte e al termine iniziale incerto della fine del periodo di prova (Santoro Passarelli, F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1966, 138).
Si condivide l’impostazione di chi qualifica il patto di prova come un patto di libera recedibilità senza preavviso inserito all’interno di un unitario rapporto di lavoro che vive di due fasi: una prima fase in cui le parti si impegnano rispettivamente a consentire e a svolgere l’esperimento ed entro i cui limiti di durata è consentito il libero recesso; una seconda fase in cui, esaurita la funzione del patto di prova, in mancanza di recesso il rapporto prosegue e diviene definitivo (Varesi, P.A., Prova (patto di), in Dig. comm., XI, Torino, 1995, 425; Carinci, F.-De Luca, R.-Tosi, P.,-Treu, T., op. cit., 108; cfr. Cass., 26.11.2004, n. 22308 parla di elemento accidentale del contratto di lavoro che non fa venire meno il carattere unitario del rapporto).
Dopo alcuni iniziali contrasti oggi è consolidato l’orientamento che ritiene la forma scritta richiesta ad substantiam in quanto volta alla prevalente tutela del lavoratore (Cass., 22.10.2010, n. 21758; Cass. 15.12.1997, n. 12683; Varesi, P.A., Il patto di prova nel rapporto di lavoro, cit., 14; Del Punta, R., op. cit., 2). In mancanza di forma scritta il rapporto si considera istaurato fin dall’inizio come definitivo (Cass., 29.7.2011, n. 16806). Si esclude, invece, che la clausola di prova costituisca una clausola vessatoria da approvarsi espressamente per iscritto ex art. 1341 c.c. (Cass., 21.6.1991, n. 6988; Cass., 16.7.1988, n. 4678; Varesi, P.A., Prova (patto di), cit., 426). Non si ritiene soddisfatto il requisito di forma attraverso il ricorso a forme equipollenti o sanatorie: ad esempio dal nulla-osta dell’ufficio di collocamento (Cass., 16.4.1986, n. 2694; con riferimento al collocamento obbligatorio 24.1.1997, n. 730); dalla previsione del patto di prova contenuta nel bando (Cass., 14.2.1987, n. 1670); dalla lettera di assunzione proveniente dal datore di lavoro e contenente la mera previsione del periodo di prova (Cass., 8.2.1988, n. 1347); dal mero rinvio del contratto individuale al contratto collettivo, ove nel primo non risulti per iscritto l’assunzione in prova (Cass., 4.1.1997, n. 1045); dalla dichiarazione di quietanza contenente la precisazione che il rapporto si è interrotto durante il periodo di prova previsto dal contratto collettivo (Cass., 15.12.1997, n. 12673). Secondo la giurisprudenza integra il requisito della forma scritta la dichiarazione di assunzione del lavoratore e da questi sottoscritta per ricevuta (Cass., 18.7.2013, n. 17587).
Dal punto di vista temporale è necessario che la stipulazione del patto avvenga in un momento anteriore o al massimo coevo alla costituzione del rapporto (Cass., 3.1.1995, n. 25). Si è tuttavia ritenuto invalido il patto di prova sottoscritto prima dell’inizio effettivo della prestazione, ma successivamente alla conclusione tra le parti del contratto di lavoro non contenente tale clausola (Cass., 26.11.2004, n. 22308). È, invece, consentita la non contestualità della sottoscrizione, purché avvenga prima dell’esecuzione del contratto (Cass., 22.10.2010, n. 21758; Cass., 26.7.2002, n. 11122).
L’interpretazione della formula «salva diversa disposizione delle norme corporative» – che consente di derogare alla forma scritta – è stata intesa in senso opposto dalla giurisprudenza e dalla dottrina: la prima si è attestata su di una rigorosa interpretazione della norma, riferendola ai soli contratti corporativi (Cass., 19.11.1993, n. 11417; Cass., 16.4.1986, n. 2694), mentre la dottrina tende ad estenderla anche ai contratti collettivi di diritto comune (Pera, G., Diritto del lavoro, Padova, 1984, 524; Del Punta, R., op. cit., 2; Varesi, P.A., Il patto di prova nel rapporto di lavoro, cit., 19; Ghera, E., Diritto del lavoro, Bari, 2002, 133).
La giurisprudenza di legittimità ritiene che il patto debba contenere anche la specifica indicazione delle mansioni oggetto della prova (che possono essere anche plurime: Cass., 24.9.2004, n. 19279), dovendosene diversamente ravvisare la nullità per incoerenza con la sua causa di tutela dell’interesse di entrambe le parti a sperimentare la reciproca convenienza a rendere definitivo il rapporto (Cass., 10.10.2006, n. 21698; Cass., 13.9.2003, n. 13498; Cass., 26.5.1995, n. 5811). In ragione di ciò si ravvisa l’illegittimità del patto qualora tra le stesse parti sia già intercorso per un congruo lasso di tempo un rapporto di lavoro (anche di natura autonoma: così Cass., 29.7.2005, n. 15960, o in esecuzione di un piano di inserimento professionale: Cass., 17.11.2008, n. 27330) caratterizzato dallo svolgimento delle mansioni per le quali si richiede la ripetizione della prova (Cass., 8.1.2008, n. 138; Cass., 11.3.2004, n. 5016; Cass., 2.12.2004, n. 22637 relativo al pregresso svolgimento di prestazioni presso il datore in veste di socio di una cooperativa cui era stato appaltato un servizio; Trib. Treviso, 17.11.2004, in Lav. giur., 2005, 681 relativo ad una precedente prestazione quale lavoratore interinale; Cass., 7.12.1998, n. 12379 che ha ritenuto che la conoscenza delle parti fosse già intervenuta in un precedente periodo di distacco); è tuttavia ammessa la ripetizione qualora il datore di lavoro dimostri l’esigenza non solo di verificare le capacità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, suscettibili di modificarsi nel tempo per l’intervento di molteplici fattori attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute (Cass., 22.6.2012, n. 10440; Cass., 18.2.1995, n. 1741). La contrattazione collettiva, soprattutto di quei settori in cui è più frequente il turn over, ha disciplinato la materia prevedendo la possibilità di escludere il periodo di prova o, comunque, di ridurlo nel caso di precedente svolgimento di analoga prestazione, con differenziazioni tra settore e settore ed in relazione alla qualifica rivestita dal lavoratore interessato (v. art. 4, disciplina speciale, parte III, CCNL metalmeccanici).
L’indicazione delle mansioni può avvenire anche attraverso il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva purché ciò sia effettuato alla nozione più dettagliata di categorie, qualifiche, livelli professionali ivi contenuta (Cass., 9.6.2006, n. 13455; Cass., 19.8.2005, n. 17045; Cass., 12.1.2005, n. 427; Cass. 24.9.2004, n. 19279; con specifico riferimento al lavoro intellettuale Cass., 27.1.2011, n. 1957).
La dichiarazione di nullità del patto comporta di dover considerare il rapporto a tempo indeterminato fin dall’origine, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato per mancato superamento della prova e applicazione della tutela stabilita dalla legge a seconda del tipo di rapporto (Cass., 22.6.2012, n. 10440; Cass., 10.10.2006, n. 21698; Cass., 18.11.2000, n. 14950; con riguardo ad un dirigente Trib. Roma, 14.7.2005, in Mass. giur. lav., 2005, 819).
Il silenzio sulla durata del patto serbato dall’art. 2096 c.c. è stato colmato dall’art. 10 della l. n. 604/1966 ove si è indicato in via indiretta un limite massimo di sei mesi (v. supra §1). Tale previsione deve essere letta in connessione con l’art. 4 del R.d.l. n. 1825/1924 che fissa il più ridotto termine di tre mesi per tutte le categorie di impiegati (si prevede, invece, il termine massimo di sei mesi per gli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi ed impiegati di grado e funzioni equivalenti). Il termine massimo legale è, di regola, ridotto dalla contrattazione collettiva, con disposizioni che tuttavia differenziano in ragione della qualificazione professionale richiesta al lavoratore, prevedendo un periodo più lungo per le posizioni più elevate.
La proroga del periodo di prova contenuta nel contratto collettivo è stata ammessa da una parte della dottrina e dalla giurisprudenza purché mantenuta entro il limite massimo previsto dalla legge (sull’inderogabilità del limite massimo di sei mesi: Cass., 13.3.1992, n. 3093) e purché stipulata per iscritto (Cassì, V., op. cit., 59; Assanti, C., op. cit., 58; Varesi, P.A., Il patto di prova nel rapporto di lavoro, cit., 25); differenziandosi tuttavia tra l’orientamento per cui sono legittime le clausole di proroga inserite fin dall’origine nel contratto individuale (Trib. Roma, 19.2.1977, in Orient. giur. lav., 1977, 129; Trib. Milano, 13.7.1977, ivi, 793; Pret. Dronero, 3.5.1982, in Not. giur. lav., 1982, 565; Cass., 17.4.1986, n. 2735) e quello per cui la proroga è legittima solo se consentita al termine del periodo normale di proroga (Cass., 17.12.1982, n. 6991; v. anche App. Firenze, 6.6.2008, in Foro it., 2008, I, 2642).
Dibattuta è l’applicabilità alla dirigenza del limite semestrale. L’orientamento maturato nella vigenza del solo R.d.l. n. 1825/1924 che riteneva operante anche per la dirigenza il limite massimo semestrale (App. Roma, 30.7.1968, in Orient. giur. lav., 1969, 62; Trib. Milano, 19.12.1968, ivi, 232) è oggi minoritario in ragione dell’affermata inapplicabilità alla categoria sia della legge sull’impiego privato, sia della legge n. 604/1966 (Cassì, V., op. cit., 34; Assanti, C., op. cit., 59; Varesi, P.A., Il patto di prova nel rapporto di lavoro, cit., 25; Pret. Parma, 11.3.1980, in Riv. giur. lav., 1981, II, 444; Trib. Monza, 1.1.1978, in Orient. giur. lav., 1978, 406).
La modalità di computo del periodo di prova sono di regola indicate dalla contrattazione collettiva che nel fissare la durata della prova (a mesi o a giorni) specifica anche se si tratta di giorni di effettivo lavoro o di calendario (sul vincolo del giudice all’indicazione della contrattazione collettiva v. Cass., 8.10.1999, n. 11310). In caso di riferimento al lavoro effettivo, salva diversa esplicita previsione della fonte negoziale, non sono computabili i giorni di sospensione del rapporto di lavoro non preventivabili al momento della stipulazione del patto (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, permessi, sciopero, sospensione dell'attività del datore di lavoro), mentre lo sono i giorni che ordinariamente comportano una sospensione del rapporto, quali riposo settimanale e festività (Cass., 22.3.2012, n. 4573; Cass., 5.11.2007, n. 23061). Più controversa è l’ipotesi in cui nel contratto collettivo non sia specificato nulla e si faccia genericamente riferimento ad un periodo fissato in mesi: secondo un primo orientamento resta esclusa la possibilità di tener conto dei soli giorni di lavoro effettivamente prestato, dovendosi considerare anche i giorni di sospensione della prestazione lavorativa (Cass., 10.6.2013, n. 14518; Cass., 24.1.1999, n. 14538); all’opposto si è ritenuto che il periodo di prova sia sospeso al verificarsi di circostanze imprevedibili al momento della stipulazione del patto (tra cui malattia ed infortunio) in quanto diversamente si impedirebbe un compiuto ed integrale svolgimento della prova (Cass., 22.3.2012, n. 4573; Cass., 10.10.2006, n. 21698).
Il lavoratore in prova è titolare di tutti i diritti ed obblighi riconosciuti al prestatore di lavoro subordinato (Del Punta, R., op. cit., 3). In particolare la Corte costituzionale (C. cost., 22.12.1980, n. 189) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2096 nelle parte in cui non riconosce anche al lavoratore assunto in prova in caso di recesso durante o al termine della prova stessa il diritto all’indennità di anzianità (oggi trattamento di fine rapporto) e l’art. 2109 nella parte in cui non riconosce il diritto a ferie retribuite.
La facoltà di libero recesso, esercitabile anche oralmente (C. cost., 4.12.2000, n. 541; Cass., 27.1.2004, n. 1458), esclude l’obbligo di dare il preavviso o di pagare la relativa indennità, nonché l’obbligo di fornire alcuna motivazione (salva l’esplicita richiesta della contrattazione collettiva: così Cass., 5.11.2007, n. 23061; Cass., 13.9.2006, n. 19558). Tale facoltà è consentita non solo al termine del periodo di prova, ma, salvo che l’esperimento sia stato stabilito per un tempo minimo necessario, anche nel corso dello stesso (Cass., 1.12.1992. n. 12814); essa soggiace al doppio limite della mancanza di un motivo illecito e dell’aver comunque consentito un adeguato svolgimento della prova (Cass., 10.10.2006, n. 21698). Dalla formulazione legislativa per cui sulle parti grava l’obbligo di fare e consentire l’esperimento che forma oggetto del patto si è, infatti, desunta la sussistenza di un diritto soggettivo del prestatore di lavoro all’esecuzione della prestazione lavorativa (Assanti, C., op. cit., 78). Ne consegue che l’esplicazione della libertà di recesso del datore di lavoro non è lasciata al suo mero arbitrio, ma è vincolata al diritto del lavoratore a svolgere un esperimento congruo a consentire un’effettiva e ponderata valutazione delle sue capacità e del suo comportamento professionale (C. cost., 22.12.1980, n. 189).
È unanime l’orientamento che attribuisce al prestatore di lavoro l’onere di contestare l’illegittimità del recesso sia sotto il profilo dell’inadeguatezza della durata dell’esperimento, sia assumendo la sussistenza di un motivo illecito (Cass., 14.10.2009, n. 21784; Cass., 12.10.1987, n. 7536). La giurisprudenza ha affermato che qualora il lavoratore deduca il motivo estraneo all’esperimento, offrendo vuoi la prova diretta della sua esistenza, vuoi quella indiretta del positivo superamento dell'esperimento, tale motivo non costituisce di per sé motivo illecito. Affinché sussista l’illiceità occorre dimostrare anche precisi e specifici fatti i quali comprovino che il recesso non era in alcun modo ricollegabile all’esperimento ed al suo esito, ma era dovuto a ragioni del tutto estranee alla sua realizzazione e alla causa del patto di prova, sì da integrare l’unico e determinante motivo illecito della decisione datoriale (Cass., 17.11.2010, n. 23224; Cass., 17.1.1998, n. 402).
Controversa è anche la determinazione delle conseguenze derivanti dalla declaratoria dell’illegittimità del recesso (per ragioni diverse dall’asserita nullità del patto su cui supra §3). Un primo orientamento ritiene che l'illegittimità del recesso per l'inadeguata durata della prova o per l'esistenza di un motivo illecito non comporta l'applicazione della tutela legislativa in materia di licenziamenti, ma la prosecuzione della prova per il periodo mancante oppure il risarcimento del danno (Cass., 17.11.2010, n. 23231; Cass., 27.10.2010, n. 21965; Cass., 12.3.1999, n. 2228; Cass., 18.11.1995, n. 11934; per il solo risarcimento del danno Cass., 22.10.1987, n. 7821). Un secondo orientamento ha assimilato il recesso nullo per illiceità del motivo al recesso carente di giusta causa e/o di giustificato motivo, per cui l'accertata nullità determina le medesime conseguenze di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori se ne sussistono i requisiti dimensionali per l’applicazione (Cass., 24.11.1997, n. 11735; Brun, S., op.cit., 702 la quale ritiene che il recesso illecito sia tamquam non esset). Da ricordare è anche l’orientamento che, con soluzione intermedia, ha differenziato tra l’adibizione a mansioni radicalmente diverse da quelle pattuite, nel qual caso il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’inizio e conseguentemente il recesso giustificato solo se intimato per giusta causa o per giustificato motivo (e con l’applicazione delle relative tutele) e l’ipotesi di assegnazione a mansioni non coincidenti con quelle di assunzione, nel qual caso il lavoratore avrà diritto alla prosecuzione della prova (se è possibile) oppure al risarcimento del danno (Cass., 5.12.2007, n. 25301; v. anche Cass., 6.12.2001, n. 15432).
Per le lavoratrici madri l’art. 54 del d.lgs. 26.3.2001, n. 151 indica tra le eccezioni al divieto di licenziamento l’ipotesi di esito negativo della prova, fermo il divieto di discriminazioni. In precedenza la Corte costituzionale aveva stabilito che l’esonero dall’obbligo di motivazione valeva soltanto se il datore di lavoro avesse provato o comunque si fosse acquisita la certezza che egli ignorasse lo stato di gravidanza, salva sempre la prova che il recesso fosse stato determinato da altri motivi pur sempre estranei alla finalità dell’esperimento (C. cost., 31.5.1996, n. 172).
Il patto di prova può essere apposto anche al contratto di lavoro (a termine o a tempo indeterminato) del lavoratore somministrato nei termini previsti dalla contrattazione collettiva, nonché ad un contratto a termine (Cass., 9.7.2002, n. 9962; Cass., 18.2.1995, n. 1741; Cass., 24.2.1982, n. 1175). In quest’ultimo caso, in assenza di specifiche indicazioni del contratto collettivo, la questione verte sulla determinazione della durata del patto che deve avere una durata ragionevolmente ridotta rispetto a quella complessiva del contratto a termine. Nel caso di contratto di lavoro part-time, salvo esplicite disposizioni del contratto collettivo o di quello individuale, non si ritiene applicabile alla durata del periodo di prova il principio del riproporzionamento (Varesi, P.A., Prova (patto di), cit., 428).
La compatibilità di un patto di prova con un contratto formativo è sempre stata espressamente riconosciuta dal legislatore per il contratto di apprendistato (originariamente art. 9, l. 19.1.1955, n. 25 ed oggi art. 2, co. 1, d.lgs. 14.10.2011, n. 167). Ad analoga conclusione si era giunti in via interpretativa anche per il contratto di formazione e lavoro (oggi presente nel solo settore pubblico) (Cass., 4.8.2004, n. 14952; Cass., 21.7.2001, n. 9948). In questi casi la specificità risiede nella funzione del patto che non può concernere l’accertamento del possesso di una specifica capacità professionale, bensì l’attitudine, la capacità e la volontà del lavoratore di apprendere (per il contratto di apprendistato: Cass., 6.6.1987, n. 4979; per il contratto di formazione e lavoro Cass., 8.1.2003, n. 82; Cass., 23.11.1990, n. 11310).
La questione dell’ammissibilità della stipulazione di un patto di prova con l’invalido assunto obbligatoriamente (assunzioni obbligatorie) è stata indirettamente affrontata, e risolta in senso positivo, dall’art. 11, co. 2, della l. 12.3.1999, n. 68 che consente di stipulare a fini occupazionali convenzioni per lo svolgimento di «periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo» (così prima di tale intervento normativo nel senso della legittimità Cass., S.U., 27.3.1979, n. 1763; C. cost., 16.5.1989, n. 255). Resta fermo il generale divieto di prestazioni non compatibili con le minorazioni del prestatore di lavoro (art. 10, co. 2, l. n. 68/1999), con la conseguenza che anche la prova deve riguardare mansioni compatibili con lo stato dell’invalido e che la valutazione del suo esito deve prescindere da ogni considerazione sullo stato medesimo (Cass., 23.5.2007, n. 12049; Cass., 16.8.2004, n. 15942; Cass., 14.10.2000, n. 13726). Le Sezioni Unite della Cassazione, superando un precedente contrasto interpretativo, hanno altresì affermato che anche per gli avviati obbligatori il recesso datoriale è sottratto alla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, per cui non è richiesta una formale comunicazione del motivo del recesso, spettando al lavoratore che ne alleghi l'illegittimità provare eventuali motivi illeciti o discriminatori (Cass., S.U., 2.8.2002, n. 11633). Tra i motivi illeciti sono stati ricondotti lo svolgimento della prova in mansioni incompatibili con lo stato di invalidità o la finalizzazione del recesso, adottato nonostante il positivo superamento dell’esperimento, alla mera elusione della disciplina del collocamento dei disabili (Cass., 27.10.2010, n. 21965).
Nel settore pubblico contrattualizzato è presente un evidente profilo di specialità dato dall’automatica inserzione ex lege nel contratto di lavoro di un periodo di prova.
L’art. 2, co. 2, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 nel prevedere che il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti sia assoggettato alla medesima disciplina del personale del settore privato, fa tuttavia salve le specifiche disposizioni contenute nel medesimo decreto delegato. Tra queste l’art. 70, co. 13, prevede che in materia di reclutamento le pubbliche amministrazioni applichino la disciplina prevista dal d.P.R. 9.5.1994, n. 487. L’art. 17 di tale decreto stabilisce che i candidati vincitori di concorso (ed analoga previsione è contenuta nell’art. 28 del medesimo decreto per le assunzioni non concorsuali mediante avviamento dagli uffici di collocamento) sono invitati, con raccomandata, ad assumere servizio sotto riserva di accertamento del possesso dei requisiti prescritti per la nomina e sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il quale risultano vincitori. Alla contrattazione collettiva è attribuita la competenza a definire, in maniera integrativa ed in relazione alla complessità dei compiti assegnati al lavoratore, la durata del periodo di prova.
La fonte collettiva è intervenuta con previsioni “fotocopia” per i vari comparti ed aree dirigenziali introducendo due regole peculiari: la previsione di una durata minima garantita pari alla metà del periodo di prova e l’obbligo di motivazione del recesso. Secondo la giurisprudenza da quest’ultimo obbligo discende la verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto alla finalità della prova e all'effettivo andamento della prova stessa, senza che sia, tuttavia, intaccato il potere di valutazione discrezionale dell'amministrazione datrice di lavoro, non potendosi omologare la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova a quella della giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo. Ne consegue che non vi è alcuna inversione dell’onere della prova spettando al lavoratore di dimostrare in positivo il superamento della prova (Cass., 2.8.2010, n. 17970; Cass., 13.8.2008, n. 21586; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 10.5.2013, n. 1217; con riguardo alla speciale disciplina del personale della scuola Cass., 27.6.2013, n. 16224).
La contrattazione collettiva riconosce al dipendente già in servizio presso altra amministrazione il diritto alla conservazione del posto senza retribuzione presso l’amministrazione di provenienza per tutto il periodo di prova e, in caso di recesso, il diritto di rientrare a domanda nella categoria e profilo di provenienza. Si prevede, altresì, l’esonero dallo svolgimento del periodo di prova per il lavoratore che a seguito di progressione verticale (a seguito del d.lgs. 27.10.2009, n. 150 assoggettata anch’essa esplicitamente a pubblico concorso) abbia acquisito una posizione di lavoro nella categoria immediatamente superiore.
La giurisprudenza ha affermato che nel caso di mobilità volontaria sia illegittima la pretesa di un nuovo periodo di prova da parte dell’amministrazione di destinazione qualora il patto di prova sia già stato superato nell’amministrazione di provenienza (Cass., S.U., 12.12.2006, n. 26420).
Art. 2096 c.c.; art. 10 l. 15.7.1966, n. 604; art. 4 R.d.l. 13.11.1924, n. 1825; art. 11 l. 12.3.1999, n. 68.
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