Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Cézanne non segue la strada degli impressionisti, ma porta avanti per tutta la vita una solitaria meditazione sulla logica del visibile, sui rapporti tra percezione e rappresentazione.
Coetaneo e compagno di viaggio degli impressionisti, Paul Cézanne non intraprende il percorso della trascrizione immediata di luci e ombre, colori e atmosfera, e nel corso della sua intera esistenza incentra la sua arte sui rapporti tra percezione e rappresentazione.
Da vecchio è poi assalito dal dubbio che “la novità della sua pittura derivasse da un disordine degli occhi e che tutta la sua vita fosse stata impostata in base a un difetto fisico”.
In realtà il ruolo di Cézanne è fondamentale, come nota Max Imdahl, nella “deconcettualizzazione del mondo” sviluppata dalle avanguardie europee dopo l’impressionismo ancora mimetico e naturalista. Un processo che oppone la conoscenza sensoriale al tradizionale primato della conoscenza concettuale e nello stesso tempo favorisce il recupero dell’“innocenza dell’occhio”, di quella purezza di visione che rifiuta le modalità ricognitive determinate da precedenti esperienze percettive. Si tratta, chiarisce John Ruskin, di una verginità percettiva nei confronti delle forme e dei colori, pari a quella di un cieco che d’un tratto acquista la vista e per la prima volta sperimenta l’incanto e la suggestione delle macchie di colore che generano forme e modelli percettivi.
Quasi sconosciuto sino al 1907, anno della grande retrospettiva parigina organizzata un anno dopo la scomparsa dell’artista, le opere di Cézanne sono sempre respinte dalla giuria del Salon: l’artista presenta tre dipinti alla prima mostra degli impressionisti del 1874 e sedici nel 1877, in occasione della terza mostra.
Questo infaticabile sperimentatore, il cui unico fine – scrive una volta a Monet – è “la chimerica ricerca dell’arte”, ideale assoluto e pertanto irraggiungibile, nasce a Aix-en-Provence nel 1839. Nel primo decennio d’attività, dal 1861 al 1871, esprime un’intensa, spesso sfrenata, sensibilità romantica con le forme e la tecnica dei pittori realisti. L’orgia (1864-1868) è ispirata a un capolavoro di Delacroix, la Morte di Sardanapalo, anche se l’impianto scenico è ripreso dalle Nozze di Cana di Paolo Veronese che Cézanne ha ammirato e studiato al Louvre. Con il dipinto il giovane artista approfitta dell’occasione per mettere in scena alcuni conflitti interiori, scaturiti da un carattere introverso e tormentato. Lo spettacolo lascivo di tanti corpi avvinghiati in disinibita promiscuità tradisce il conflitto tra la sensualità accesa, che tormenta lo spirito e il corpo di Cézanne, e le inibizioni da cui cerca di liberarsi tramite l’effetto catartico dell’arte.
I chiari, tersi paesaggi di questi anni dimostrano inoltre un’attenzione verso il luminismo di Corot. Cézanne ama ripetere che per dipingere un paesaggio bisogna prima studiare la conformazione geologica del territorio: un’affermazione che denuncia l’ansia di conoscenza della natura non solo nell’aspetto esteriore, ma nella struttura più intima e nascosta. Così la montagna Sainte-Victoire, un alto picco a est di Aix-en Provence, diventa alla fine il soggetto ossessivo della sua pittura.
Ma, più in generale, Cézanne ripropone sempre gli stessi soggetti, la zona collinare attorno alla città natale, lo Château Noir, il Tholonet e il Bibémus, di cui conosce tutto, dalla fitta vegetazione verde che ricopre i pendii sino alla sottostante stratificazione geologica, spiegatagli da un amico d’infanzia, Fortuné Marion, docente di scienze naturali.
Una moderna Olimpia (1872) è un singolare, ironico omaggio a Manet, in cui il languido idolo nudo è diventato una molla compressa e caricata d’energia al centro di uno spazio sferico centripeto. Come Manet, anche Cézanne alterna zone scure a zone chiare, ma su una gamma molto più luminosa e vivace. Il centro è occupato per intero dalla grande macchia bianca del letto, su cui si esalta la gamma infocata del corpo di Olimpia, svelato nella sua nudità al pittore voyeur dal gesto della serva negra che solleva il lenzuolo. Il dipinto che non ha niente di impressionista, né come soggetto né come tecnica, viene presentato alla prima mostra degli impressionisti, nel 1874, insieme alla Casa dell’impiccato (1872-1873) e a un Paesaggio ad Auvers, non identificato. Il critico Castagnary, intelligente difensore di Courbet e del realismo, parla di opera impressionista per eccellenza, anzi la indica come esempio della pericolosa capacità di astrazione dal reale insita nel metodo di Monet e dei suoi seguaci. Gli altri critici e il pubblico deridono le tre opere di Cézanne che, indignato, si astiene per vent’anni dalle esposizioni. Allontanatosi da Parigi e dai suoi amici impressionisti, si chiude in se stesso, nell’isolamento e nel silenzio dell’atelier di Aix-en-Provence.
Non più condizionato dal naturalismo impressionista, Cézanne percorre la strada più personale e più originale di un costruttivismo formale. Tra il 1879 e il 1882 dipinge una decina di autoritratti. In quello con il cappello, conservato a Berna (1879-1882), l’analisi geometrica della forma, tipica del periodo “costruttivo”, come nota Maurice Raynal, è “risolta con giochi di angoli, triangoli e parallele, grazie ai quali il viso si stacca su uno sfondo cilindrico privo di asperità, perché il pittore ormai disegna con il pennello”.
Lo stesso Cézanne dice che la “linea e il modellato non esistono affatto, il disegno puro è un’astrazione”; il colore è anche forma e la pittura si costruisce con il colore-forma. In natura non esistono linee, contorni e quindi disegno, ma forme colorate nello spazio: il disegno deve risultare dal colore che, da solo, può restituire un’immagine dell’oggetto come un tutto indivisibile. La cosa vissuta è prima oggetto di una percezione-visione, da cui poi si irradiano tutti gli altri dati dell’esperienza: profondità, morbidezza, durezza e persino l’odore. La pittura deve quindi rendere le cose nell’unità imperiosa, nella presenza e nella pienezza insuperabile che noi chiamiamo realtà. Così Cézanne dilata i volumi, li enfatizza, ma sempre per mezzo del colore puro, steso in campi regolari e compatti, conclusi da un contorno che non è chiaroscuro, ma linea e anzi – per essere più precisi – una serie di linee che svolgono la stessa funzione di racchiudere una forma e di definirla, mantenendo una propria identità. Nell’autoritratto di Berna, il pittore sembra infatti meditare sulla funzione del contorno, vuole provare tutte le soluzioni possibili e immaginabili.
In alcuni punti il contorno è segnato con una larga linea nera incisa sulla tela da un grosso pennello, in altre parti si spezza in due o tre segmenti, in altri ancora viene eliminato e la giacca nera del pittore si fonde con le zone più scure dello sfondo.
Cézanne scardina il sistema figurativo tradizionale, basato sulla trascrizione prospettica delle esperienze percettive. La prospettiva, così come era stata messa a punto nel Rinascimento fiorentino – la cosiddetta “prospettiva lineare” – tendeva a razionalizzare, a uniformare e a rendere obiettivo il processo percettivo che è, invece, soggettivo e personale. Presentato in prospettiva un oggetto circolare diventa un’ellisse perfetta, mentre nella visione effettiva, la cosiddetta visione o percezione vissuta, appare una forma che si avvicina all’ellisse ma che ellittica non è. Lo stesso fenomeno capita con linee, superfici e colori: la traduzione prospettica non coincide con la percezione vissuta. Anche il contorno degli oggetti, la linea che delimita la forma, caposaldo della didattica artistica accademica, in natura non esiste: è un dato geometrico e convenzionale. I corpi, le cose, gli oggetti naturali non hanno contorni; linea e contorno sono stati adottati dai sistemi figurativi tradizionali, nel disegno che ne è la base, per circoscrivere una forma, per delimitarla nello spazio che occupa e per darle un’identità immediatamente riconoscibile. La linea è infatti una convenzione, un’astrazione dalla realtà naturale. Una forma disegnata richiama alla memoria una forma naturale, ma non è una forma naturale, è forma arbitraria diventata legge in quanto accettata da tutti.
Cézanne medita a lungo su questa convenzione figurativa, rendendosi conto che se da un lato l’eliminazione totale del contorno toglie agli oggetti la loro identità formale, dall’altro segnare un solo contorno – come pretende la didattica accademica – significa sacrificare a un principio astratto l’inesauribile ricchezza della realtà percettiva. Ed ecco la soluzione raggiunta da Cézanne: tracciare non uno, ma più contorni con un marcato tratto blu, in modo da restituire all’oggetto la sua pregnanza percettiva e la capacità di presentarsi sotto svariati punti di vista. L’occhio dell’osservatore e del pittore, infatti, non è mai fisso e immobile nella rigidità di un solo punto di vista, come vuole la regola prospettica e come realizza l’obiettivo della macchina fotografica: si muove in avanti, di lato, si avvicina all’oggetto, lo esplora, lo aggira.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento le avanguardie artistiche, stimolate dai risultati ottenuti dai nuovi strumenti meccanici produttori di immagini mobili, orientano le loro ricerche verso l’illusione del movimento, ma senz’altro Cézanne li ha preceduti. Nell’intento di fornire il maggior numero possibile di informazioni sull’oggetto, per rappresentare in un’unica forma visiva il risultato percettivo e i dati della coscienza e della memoria (“percepire è anche ricordare” dice Bergson), l’artista mette a punto una tecnica che consente di riprodurre le cose tenendo conto dei vari aspetti spazio-temporali, nella sintesi di ciò che si vede, la percezione, e di ciò che grazie alla memoria si sa, la conoscenza.
Nel Monte Sainte-Victoire visto dai Lauves (1904-1906), alberi, case e montagne sono presentati da punti di vista diversi. La scomposizione prospettica dell’oggetto, infatti, proietta nello spazio i vari piani: le varie facce, non più bloccate in una rigida veduta frontale, ruotano offrendo alla vista tutti i loro aspetti, così da acquistare – persa la fissità della posa – dinamismo e movimento.
Lo stesso Fritz Lang, il grande regista dei Nibelunghi e di Metropolis – capolavori del cinema espressionista tedesco – ha detto: “È un peccato che ci sia tanta sproporzione tra l’occhio e la macchina da presa. Dovremmo avere occhi su tutti i lati della testa”. Ecco, Cézanne presenta un mondo visto con occhi su tutti i lati della testa e anticipa, con i mezzi della pittura, una percezione coinvolgente e rotante che sarà realizzata, alcuni decenni dopo, dai movimenti della macchina da ripresa cinematografica. L’artista riesce a seguire il “percorso della vista”, introducendo la dimensione temporale nel processo di percezione-rappresentazione.
L’occhio, dice in una delle sue più memorabili dichiarazioni, si deve fare “concentrico” per conoscere prima gli oggetti e poi per presentarli, per rappresentarli così come li ha percepiti e conosciuti, non in un’astratta realtà fenomenica, ma secondo le apparenze assunte nella coscienza umana.
Nell’ultima produzione di Cézanne il paesaggio assume un ruolo preponderante, quasi esclusivo. Il Monte Sainte-Victoire viene replicato in una ventina di copie a olio o all’acquerello, realizzando pochi spostamenti: “chinato soltanto un po’ più a destra o a sinistra”.
Mentre Monet dipinge in ore differenti e in condizioni variate di luminosità le sue serie di covoni, pioppi, facciate di cattedrali e ninfee, col fine di registrare la relatività fenomenica del mondo naturale, Cézanne ritorna più volte sullo stesso tema – le mele, il Monte Sainte-Victoire, le bagnanti – per riflettere, come dice Max Indahl, sulla pittura e sulla sua possibilità di dar luogo, nelle sue innumerevoli trasformazioni, a costruzioni autonome.
Cézanne vuole infatti studiare la struttura architettonica delle immagini e negli ultimi anni della sua vita individua tre materie-colore, con cui costruisce paesaggi a un tempo sintetici e monumentali. La terra si identifica sempre con il color ocra, gli alberi e la campagna con il verde, il cielo con il blu. Ma la suddivisione non è netta e schematica e ogni colore-materia invade il territorio delle altre materie-colore: il cielo è blu con chiazze vistose di ocra e di verde; sul terreno ocra e sulla verde campagna si proiettano le macchie blu del cielo, cui è affidata la funzione di rappresentare l’atmosfera. Diversamente da Monet e dagli altri impressionisti, per Cézanne l’atmosfera non è ombra colorata, ma materia colorata, espansa, circolante in un universo polimaterico, in cui “per fare sentire l’aria” aggiunge le bleuâtre, la tinta bluastra.
Nel 1904, in una delle tante lettere scritte all’amico Emile Bernard, Cézanne afferma che bisogna “trattare la natura con il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano, si orienti verso un punto centrale”. Ciò significa ricercare nelle forme naturali le forme geometriche primarie che le costituiscono e le sottendono. Per Gauguin, Cézanne è stato “un incompreso, la cui natura è essenzialmente mistica e orientale”, definizione che si può accettare se nelle opere dell’artista si riconosce una mistica ricerca della struttura invisibile delle forme visibili. Cézanne non si propone di ridurre le forme naturali ad astrazioni geometriche, cosa che faranno i cubisti, prendendo forse troppo alla lettera quella indicazione resa pubblica da Bernard nell’ottobre 1907, quando Pablo Picasso nel suo atelier del Bateau Lavoir progetta le Demoiselles d’Avignon, manifesto del cubismo. Le “architetture di immagini” di Paul Cézanne – come le definisce Kurt Badt – sviluppano le premesse costruttive contenute nei modelli naturali e la pittura, non più calco mimetico della natura, diventa una costruzione formale architettonica e musicale.