PAULUCCI DI CALBOLI, Fulcieri
PAULUCCI DI CALBOLI, Fulcieri. – Nacque a Napoli il 26 febbraio del 1893 dal conte Raniero e da Virginia Lazari Tornielli.
Il padre era un diplomatico, discendente da un antichissimo casato forlivese; la madre era la nipote del conte Giuseppe Tornielli Brusati di Vergano, ambasciatore ed esponente di una importante famiglia dell’aristocrazia subalpina.
Fulcieri trascorse l’infanzia a Parigi, dove Raniero fu prima segretario, poi consigliere dell’ambasciata. Nel 1906 si trasferì con la famiglia a Lisbona, in seguito alla nomina del padre a ministro di legazione. Nella capitale portoghese la sua formazione fu affidata ad Angiolo Gambaro, un giovane prete modernista con il quale Fulcieri sarebbe rimasto in contatto per tutto il resto della sua vita.
Di soli dieci anni più anziano di Fulcieri, Gambaro accettò l’incarico di precettore anche per sottrarsi alle ostilità di cui era stato fatto oggetto nell’ambiente ecclesiastico a causa del suo orientamento modernista. Nel 1906 gli era stata negata l’ordinazione sacerdotale; la ottenne nel 1907, ma la nomina a parroco continuò a essergli rifiutata. Gambaro propose a Fulcieri un ricco programma di letture, in cui, accanto agli esponenti del ‘canone risorgimentale’, godevano di ampio spazio gli autori stranieri (soprattutto francesi e russi, oltre all’immancabile Thomas Carlyle) e alcuni contemporanei, tra i quali Giovanni Verga, Alfredo Oriani e Gabriele D’Annunzio.
Nel 1911 Fulcieri s’iscrisse alla facoltà di legge dell’Università di Genova, dove si laureò nel luglio 1914 con Gino Arias discutendo una tesi sulla questione del celibato, in cui si proponeva l’introduzione di una tassa sostitutiva della procreazione (la tesi fu pubblicata postuma per volere di Benito Mussolini – che ne scrisse la prefazione – pochi mesi dopo l’effettiva introduzione della tassa sul celibato, con il titolo La lotta contro il celibato nel passato e nell’ora presente, Milano 1927). Appena entrato all’università, Fulcieri aderì alla neocostituita Associazione nazionalista italiana (ANI). Nel 1914 contribuì a fondare un’associazione studentesca, i Fratelli d’Italia, che – come scrisse all’amica Rosetta Colombi, redattrice del periodico ticinese d’intonazione irredentista L’Adula – aveva per scopo «il più nobile che si possa immaginare: morire per la patria» (1999, p. 64).
Costituita nel 1910, l’ANI trovò negli studenti universitari il suo principale centro propulsivo. Come altri giovani borghesi e aristocratici della sua generazione, Fulcieri era attratto dalla modernità dello stile politico dei nazionalisti, dalla loro esaltazione della guerra come fucina di alti valori spirituali e dagli attacchi contro le ‘degenerazioni’ del parlamentarismo, in nome della difesa degli interessi collettivi della nazione. All’interno dell’ANI militò fino alla fine dei suoi giorni, aderendo con entusiasmo alla svolta antiliberale sancita dal congresso del 1914.
Nell’agosto del 1914, Paulucci conobbe a un ricevimento la figlia del generale Carlo Porro, futuro braccio destro di Luigi Cadorna in qualità di sottocapo di stato maggiore dell’Esercito. Alessandra Porro divenne la sua fidanzata, ma Fulcieri non ottenne dai genitori il permesso di sposarla.
In tema di morale sessuale Paulucci aveva una posizione molto netta, che si ispirava al principio dell’uguaglianza fra i sessi e si riassumeva nella rigida osservanza della castità prematrimoniale per entrambi i membri della coppia. Convergevano in questa idea, oltre agli insegnamenti del precettore e al puritanesimo della madre, un esigentissimo ‘dover essere’ e il rispetto per la figura femminile derivato dagli insegnamenti paterni, con la conseguente ribellione contro la morale maschile che, in una lettera alla Colombi dell’agosto 1913, definì «tutta foderata d’ignobile egoismo» (ibid., p. 64).
Per tradizioni familiari, status e formazione Paulucci era destinato alla carriera diplomatica, ma lo scoppio della guerra cambiò i suoi piani: nell’ottobre del 1914 si arruolò come volontario nel plotone allievi ufficiali del reggimento «cavalleggeri di Saluzzo». Dal momento dell’entrata in guerra dell’Italia, rendendosi conto che la cavalleria era destinata a rimanere di fatto inattiva, chiese e ottenne di essere spostato in fanteria: nell’ottobre del 1915 fu assegnato alla brigata «Padova», sul fronte del Carso, quale ufficiale addetto al comando. Ferito due volte allo stesso ginocchio, fu ricoverato contro la sua volontà a Milano, ma le cure non poterono guarirlo dalla zoppia. Da quel momento, ricevette diverse offerte di incarichi anche prestigiosi di ufficio o rappresentanza, lontani dal fronte; ma Paulucci non si rassegnò a ruoli sedentari, e tentò in tutti i modi – compreso uno sciopero della fame – di tornare al fronte.
Le ragioni che corredavano la richiesta di passare ai bombardieri inoltrata al generale Pietro Panizzardi, comandante dell’artiglieria della 3ª armata, esemplificavano una percezione di sé come esponente di un’aristocrazia morale, oltre che di sangue: Paulucci riteneva, infatti, di dover sempre combattere in prima linea per il suo triplice profilo di interventista, di quasi genero del sottocapo di stato maggiore e di discendente di una famiglia nobile, della quale si sentiva chiamato a tenere alta la fiaccola trasmessagli in eredità dagli avi.
Alla fine, scrisse direttamente a Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, e nel dicembre del 1916 fu nominato ufficiale osservatore di controbatteria. Tornò dunque a combattere da invalido. Il 18 gennaio 1917, durante un bombardamento nemico, andò volontariamente a guidare i rincalzi e venne colpito alla schiena, con conseguente lesione del midollo spinale. Ne ricavò la medaglia d’oro al valor militare, e una paralisi permanente delle gambe.
Dopo Caporetto si dette alla propaganda, instancabile sulla sua carrozzella. Fu tra i promotori del Comitato d’azione fra mutilati, invalidi e feriti di guerra; in qualità di presidente della sezione di difesa patriottica, il suo compito era quello di sorvegliare e denunciare attività di profitto di guerra, denigrazione e sabotaggio. Fu insomma un protagonista di primo piano di quella organizzazione extraparlamentare del nazional-patriottismo e dell’autentica paranoia antidisfattista caratteristica dell’ultimo anno di guerra.
La sua propaganda si basava sull’assunto che non l’esercito, ma il Paese fosse responsabile dell’invasione del Veneto, come emergeva dagli articoli scritti per Vita fraterna, una rivista patriottica milanese edita dalle sorelle Maria e Adelaide Arpesani e dalla loro zia, figlia di Paolo Arpesani, un medico patriota delle Cinque giornate. Il periodico comparve nel gennaio 1917 e fu pubblicato fino al giugno 1920, prima in forma mensile poi, dopo Caporetto, con cadenza – non sempre mantenuta – quindicinale. Paulucci collaborò intensamente con la rivista soprattutto nell’ultimo anno di guerra.
Nella primavera del 1918 contrasse un’infezione della pelle – l’erisipela – causata probabilmente dalle piaghe da decubito. Fu ricoverato a Milano, dove scrisse alcuni articoli per Il Secolo XIX, raccolti poi in opuscolo (Dalla morte alla vita, Genova 1918), ispirato alla religione dei morti e all’etica del sacrificio. Con il progredire della malattia, fu ricoverato presso l’Istituto Rizzoli di Bologna, dove il celebre clinico Augusto Murri tentò inutilmente di salvargli la vita.
Morì nel sanatorio svizzero di Saanen (Canton Berna) il 28 febbraio 1919.
Opere. Oltre ai testi citati si segnala: La patria, l’amore, la guerra. Lettere e scritti (1911-1919), scelti da A. Gambaro, introdotti e annotati da P. Arcari, a cura di G. Tassani, Bologna 1999.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Forlì, Archivio Paulucci di Calboli, Fondo Fulcieri Paulucci di Calboli.
L. Toeplitz De Grand Ry, F. P. d. C. nelle lettere ad Alessandra, Milano 1920; Id., F. P. d. C., Piacenza 1922; Nell’annuale della morte di F. P. d. C. Orazione detta dal prof. Francesco Emiliani nella sede dell’associazione fra emiliani e romagnoli residenti in Roma il 3 marzo 1927, Roma 1927;V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, V, Milano 1932, pp. 121 s.; E. Grasselli, La vita di F. P. d. C., medaglia d’oro, Milano 1936; G. Tassani, Nobiltà eroica. F. P. d. C., in La Grande Guerra. Dall’intervento alla vittoria mutilata, a cura di M. Isnenghi - D. Ceschin, Torino 2008, pp. 525-534.