Paura, paure
Vertici di osservazione e metodologie
Da qualche anno si va delineando un preciso interesse sul tema della paura, con ampia risonanza mediatica. Inchieste, dibattiti, convegni, libri, questionari hanno indagato la frequenza e le forme in cui si manifestano le angosce e le fobie del nostro tempo, siano esse individuali e collettive, private e pubbliche, nei bambini e negli adulti. Coloro che se ne occupano e preoccupano provengono dalle più svariate competenze: non solo sociologi, psicologi e neurofisiologi, ma anche storici, filosofi, antropologi e, sempre più spesso, politici ed economisti. Certamente la cosiddetta paura è un fenomeno sfaccettato e caleidoscopico, che per essere compreso deve essere affrontato da molteplici vertici teorici di osservazione. Occorre però tenere presente che le varie discipline utilizzano metodologie molto diverse (talora non ne usano alcuna) e che, di conseguenza, la comparazione e l’integrazione dei dati che se ne vogliono far derivare è difficile; così come costante è il rischio, non sempre ingenuo, di slittamenti logici, confusioni di livelli, strumentalizzazioni. È abituale, per es., l’uso disinvolto delle statistiche fuori contesto, presentate con l’apparente oggettività dei numeri al servizio di pregiudizi o di interessi di parte.
La questione più frequentemente dibattuta è quella relativa alle ‘nuove paure’, seppure bisognerebbe preliminarmente chiedersi se davvero ci siano paure vecchie e paure nuove; se eventualmente le nuove abbiano sostituito o si siano sommate alle vecchie; o magari se le antiche, eterne angosce abbiano solo assunto nuove vesti. Nella nostra epoca c’è una sorta di coazione a individuare in ogni ambito l’innovazione e il segno del tempo, enfatizzando spesso banali oscillazioni o labili variazioni che non hanno alcun senso né evolutivo, né involutivo.
È ragionevole pensare che i maggiori cambiamenti si registrino soprattutto a livello esteriore, formale; non possono certo mutare i funzionamenti psicofisiologici di base, né il processo di sviluppo individuale. Ciò che si modifica, in stretta correlazione con le circostanze storiche e culturali, sono semmai i meccanismi di difesa con i quali si tenta di far fronte alla paura. Si potrebbe dire che la paura è un problema basilare, fisiologicamente e strutturalmente immutabile, mentre cambiano semmai le paure nei loro aspetti fenomenici e contingenti; limitati, ma non per questo meno significativi.
Antinomie
In ambito sociologico, precipuamente in questi ultimi anni, è abituale veder contrapporre la paura alla sicurezza, secondo un’antinomia che ormai appare quasi ovvia. Il discorso, se non è semplice, è per lo meno lineare, poiché la paura è spiacevole, negativa; positivo invece il senso di sicurezza. La difficoltà di conquistarlo e conservarlo, per quanto impervia, è considerata un fatto contingente.
Seguendo un’angolazione teorica psicoanalitica, la questione invece inevitabilmente si complica e si carica di paradossi. Non è scontato che, per es., l’opposto della paura sia il sentimento di sicurezza. Si possono configurare di volta in volta anche altre possibili contrapposizioni: con il coraggio, la quiete, la fiducia, la responsabilità o magari l’indifferenza. Sul terreno clinico possiamo addirittura constatare che talvolta il ‘bisogno di sicurezza’ risponde a esigenze nevrotiche, al timore patologico di ogni cambiamento: alcuni individui possono sentirsi minacciati da ogni minima trasformazione che metta a repentaglio l’assetto di base, magari infelice e inibito. Anzi, l’esperienza insegna che sono proprio le persone intrappolate in esistenze misere e coatte ad avere più paura dei mutamenti e a opporre le più tenaci resistenze alla cura. A livello inconscio il cambiamento viene vissuto come una minaccia oscura, come un ulteriore incognito pericolo. Rimanere, invece, in una condizione costante di costrizione morale sembra garantire un distorto bisogno, appunto, di sicurezza.
Una reazione difensiva elementare
Sul terreno della fisiologia, la paura viene considerata come una reazione difensiva elementare, universale, comune a tutte le specie viventi.
Alcuni, forse un po’ fantasiosi, esperti del mondo vegetale hanno sostenuto di recente che perfino le piante possono provare spavento; non nel senso, ovviamente, di soffrire per i maltrattamenti, ma proprio nella capacità di previsione di un danno potenziale. Lasciando da parte alberi e cespugli, è comunque certo che l’uomo, come ogni animale, prova paura quando si sente vulnerabile e indifeso rispetto a tutta una gamma di insidie che ne possono minacciare il benessere o la sopravvivenza.
Nel corredo naturale biologico di molti esseri viventi, per istinto, c’è infatti la reazione difensiva elementare della paura, pronta a scattare secondo diversi registri fisiologici, ovviamente variabili da specie a specie (ma di questo non ci occuperemo). La sensazione della paura si manifesta in noi con segnali verbali e non verbali (mimica, postura, gestualità ecc.), in parte innati, in parte culturalmente acquisiti con l’educazione e l’esperienza, accompagnati da tutta una costellazione di reazioni corporee concomitanti: fenomeni involontari neurovegetativi del sistema ‘simpatico’ (sudorazione, tensione muscolare, accelerazione dei processi respiratori e cardiocircolatori ecc.). Lo scopo ancestrale delle varie reazioni fisiologiche al timore ha la funzione di comunicare agli altri lo stato di pericolo (per es., con le urla) e di preparare l’organismo alle due difese fondamentali: l’attacco e la fuga. Talora, se la paura è acuta e violenta, si attiva anche il sistema nervoso ‘parasimpatico’, con una conseguente inibizione funzionale cardiocircolatoria e motoria (si dice appunto ‘essere paralizzati dalla paura’) che può arrivare fino alla perdita di coscienza.
Gli esseri umani, peraltro, sono notoriamente i più complicati di tutto il regno animale; quelli cioè in possesso dell’incerto privilegio di essere, almeno in parte, indipendenti dai semplici automatismi degli istinti. Anche noi reagiamo con impulsivo spavento ai rumori improvvisi e ai volti sconosciuti. Anche noi, quando qualcosa ci terrorizza, abbiamo automaticamente reazioni biochimiche che provocano il batticuore, il respiro corto, lo stomaco contratto, le gambe pronte a scattare, e così via. Però, come ognuno può facilmente constatare, nella maggior parte dei casi tali risposte psicofisiche hanno perduto la loro utilità protettiva materiale: se il fenomeno orripilatorio (il drizzarsi dei peli) può servire ai felini che, gonfiandosi, incutono a loro volta spavento al nemico, è in dubbio che in una situazione di pericolo lo stesso fenomeno serva a qualcos’altro che a fornire una suggestiva immagine letteraria (‘roba da far rizzare i capelli’). Così pure, lo stomaco contratto era un buon avvertimento per i nostri antenati nella scala evolutiva, per segnalare loro che, in situazioni rischiose, è meglio non fermarsi a mangiare. Oggi, invece, è solamente un penoso disturbo che richiede medicamento.
Recenti esperienze in ambito psicofisiologico, basate sullo studio delle neuroimmagini cerebrali, hanno confermato che la nostra risposta a uno stimolo genericamente pauroso si esplica secondo due distinti circuiti neurali: una via rapida automatica sottocorticale (diretta ad alcuni nuclei della base cerebrale); e una più lenta (che fa capo ad aree della corteccia cerebrale più sofisticate) capace di discriminare la reale entità del pericolo. È per tale fisiologica dissociazione che reagiamo con uno scossone o con un grido – sentendoci sciocchi un istante dopo – al banale sbattere di una porta o a un colpo di scena in un film. Sopravvivono dunque in noi alcuni riflessi, alcune risposte automatiche e primitive che, nella maggior parte dei casi, non sono di alcuna utilità per l’individuo civilizzato. Essi comportano anzi un dispendio energetico e finiscono con l’esercitare solo un’azione di disturbo che si traduce, a livello soggettivo, in quella spiacevole sensazione di allarme che tutti conosciamo: la paura.
Il nostro organismo, nella sua indissolubile unità di psychè e soma, di corpo e mente, continua a funzionare sempre allo stesso modo, e le emozioni – con tutto il loro corredo di pallore, tremore, sudorazione – continuano a dominarci secondo le stesse antiche leggi, sia che subiamo un incidente d’auto, sia che facciamo un brutto sogno. Va tuttavia precisato che al momento, nell’area delle discipline psicologiche, non c’è accordo neppure nello stabilire se la paura possa essere considerata un’emozione. D’altronde, non c’è chiarezza concettuale circa le differenze che intercorrono tra i vari termini che designano i moti dell’animo: affetti, emozioni, umori, sentimenti. Lo psicoanalista inglese Joseph Sandler (1927-1998), per porre un argine alla confusione, propose di distinguere, all’interno del concetto generale degli affetti, le ‘emozioni’ come manifestazioni somatiche neuroumorali e metaboliche, e i ‘sentimenti’ consci e inconsci che sarebbero la componente esperienziale sul versante psichico. In questi termini, le paure possono oscillare tra emozione e sentimento.
Come sappiamo, gli affetti muovono da una base biologica, che viene poi a sua volta modellata in una complessa circolarità dai livelli psicologici e cognitivi. Ovviamente, non è su questo piano psicofisico che si possono riscontare i cambiamenti epocali. Ciò che muta in relazione ai contesti storici e culturali è il senso che assumono le varie paure e il modo in cui si tenta di farvi fronte.
Il linguaggio della paura
Tutte le lingue possiedono una ricca costellazione di termini che designano la reazione psicofisica della paura. In italiano possiamo parlare di ansia, angoscia, timore, spavento, terrore, panico, fobia ecc., con sfumature soggettive di significato a seconda dei vari contesti, che non è possibile definire in assoluto. A volte, per es., si pensa che ci sia una differenza quantitativa tra timore e terrore, tra ansia e angoscia. Altre volte con la parola panico si vuole far riferimento a una paura totale senza forma né contenuto, senza minimamente alludere all’origine etimologica che risale al mitico dio Pan.
La paura ha storicamente un ruolo centrale in psicoanalisi; il termine tedesco Angst, che siamo abituati a tradurre con ‘angoscia’, sul quale Sigmund Freud (1856-1939) ha articolato l’intero edificio della psicoanalisi, significa letteralmente ‘paura’. Il manifestarsi e l’organizzarsi dell’angoscia nelle sue varie forme normali e patologiche è il filo conduttore che scandisce l’intera esistenza. La storia di ogni individuo può essere scritta raccontando il modo in cui reagisce, interagisce, viene a patti con le paure basilari.
In ambito medico-psichiatrico alcuni termini hanno assunto per convenzione un valore particolare. È il caso del termine fobia, il corrispettivo letterale in greco della parola paura, che ha ormai una connotazione psicopatologica specifica. Si parla quindi, per es., di nevrosi fobico-ossessiva, o di varie sindromi connotate dal termine composito che designa la situazione che scatena l’angoscia (acrofobia, claustrofobia, agorafobia ecc., a indicare la paura dell’altezza, dei luoghi chiusi o dei luoghi aperti); oppure il cosiddetto oggetto fobigeno (aracnofobia, rupofobia ecc., se la paura è scatenata dai ragni o dalla sporcizia). D’altronde, spesso le parole importate nella medicina e nella psicologia da altre lingue – stress, per es., che significa solo ‘tensione’ – subiscono un ambiguo processo di reificazione, come se la dizione straniera conferisse loro un valore di oggettiva scientificità. Così, il cosiddetto pavor nocturnus dei vecchi trattati di pediatria è solo un modo pomposo di segnalare che talvolta i bambini si svegliano di notte piangendo, senza saper dire perché, e senza che anche i medici lo sappiano spiegare.
Dunque, molto si può discutere sul senso delle parole nell’italiano e negli altri idiomi, ma si tratta comunque di una stessa costellazione di risposte al confine tra corpo e mente, tra sensazione ed emozione, connesse a esperienze primarie e basilari del processo di sviluppo umano. L’attribuzione del senso è mobile, fluida, variabile e – a rigore – richiederebbe di volta in volta una specificazione. In questa sede privilegeremo l’uso colloquiale, segnalando eventualmente di volta in volta i contesti nei quali i singoli termini assumono particolari attribuzioni; oppure, esploreremo il mutare del significato che parole tradizionali della psicopatologia vanno assumendo ai nostri giorni.
Il processo di sviluppo
Si può tracciare una linea del percorso di crescita del bambino in parallela correlazione con quella dell’emergere delle sue paure.
La prima angoscia è quella scatenata dal trauma della nascita, anche se con tale espressione non intendiamo più questo evento nel senso letterale e concreto che gli aveva dato a suo tempo uno dei primi discepoli di Freud, Otto Rank (1884-1939). Oggi è considerato piuttosto come una fantasia a posteriori, una memoria impossibile ma carica di significati, di questo dramma originario di cambiamento catastrofico di stato, che obbliga il neonato a sperimentare bruscamente la sensazione della perdita del contatto con il corpo materno e la concretezza della solitudine. La seconda tappa è quella della angoscia degli 8 mesi o paura dell’estraneo, in cui il bambino – che fino a quel momento aveva sorriso fiducioso a chiunque – comincia a distinguere i volti familiari da quelli sconosciuti. In seguito, a seconda delle vicissitudini dell’esistenza e dell’organizzazione psicologica costituzionale di ciascuno, si delinea in tutta la sua gamma e per tutto l’arco della vita, l’angoscia di separazione: come ansia di castrazione, come paura di perdita di sé o dell’altro, come pura angoscia di morte.
L’angoscia di separazione è un sintomo abbastanza generico, non solo nei bambini, ma anche in molti adulti che – con l’ingenuità tipica dei processi inconsci – si illudono che mantenere il contatto sensoriale, il controllo della vicinanza fisica della persona cara o dei luoghi familiari, valga a scongiurare ogni pericolo.
Il processo di crescita, di maturazione, di costruzione dell’identità è correlato alle vicissitudini della separazione nella dimensione relazionale madre-bambino: dal concreto distacco corporeo alla possibilità di differenziarsi e di esistere, al livello simbolico della separatezza psicologica. Lo stile di reazione a fronte degli stimoli potenzialmente disturbanti si apprende prevalentemente per vie precoci, non verbali, nel rapporto tra genitori e figli. È classico l’esempio del neonato che – se la madre è tranquilla – dorme beato tra le sue braccia anche in mezzo al frastuono.
Dobbiamo constatare che oggi – non solo nella patologia conclamata – c’è in generale una minore tolleranza verso gli eventi di separazione, la perdita del contatto: tra genitori e figli, tra compagni adolescenti, nelle coppie. Per es., è frequentissima la difficoltà di abituare i bambini a dormire da soli. Quanto meno si è in grado di affrontare i processi fisiologici di separazione-individuazione, di differenziazione tra sé e non sé, tanto più si ha difficoltà a distaccarsi concretamente, a perdere il legame tattile, visivo, o magari auditivo tecnologico che si attua tramite il telefono cellulare. La comunicazione profonda – molto perniciosa – che viene così trasmessa ai piccoli è che non ci si può separare; che l’interruzione della vicinanza provoca un’ansia insostenibile (in primo luogo nell’adulto, che usa il bambino per i suoi bisogni irrisolti). Purtroppo, questo è il modo più diretto di far crescere bambini insicuri. Tali comportamenti sono ormai talmente diffusi che la frequenza statistica viene scambiata per norma; tanto che un disturbo della crescita serio e condizionante per l’intera struttura, che inevitabilmente si va trasmettendo di generazione in generazione, rischia di non essere più percepito come un problema.
Purtroppo, non è possibile crescere senza sperimentare il dolore psichico. La ‘paura dell’estraneo’ è il prezzo che si paga per imparare a distinguere, tra le varie persone che ci circondano, quelle a cui possiamo accordare la nostra fiducia. Allo stesso modo, imparare a piangere per la lontananza o l’abbandono delle persone care costituisce la necessaria premessa della capacità di amare. Una certa quota di paura e di angoscia è ineliminabile, anzi è addirittura necessaria per la maturazione e la crescita, per non relegare i bambini – e poi gli adulti – in un falso paradiso in cui si negano sia la realtà esterna sia quella interna. Così errori pedagogici di segno opposto si alternano sulla scena familiare e sociale. In passato erano molti i genitori (più spesso i padri) che ritenevano necessario ‘temprare’ il carattere dei figli (soprattutto, si sa, dei figli maschi) non concedendo alcuna indulgenza alle debolezze, forzandoli a superare le loro paure; oggi invece capita di vedere soprattutto adulti incerti e confusi, iperprotettivi, spesso più spaventati dei loro figli.
L’atteggiamento pedagogico attuale è pieno di contraddizioni: talora si vorrebbero censurare tutti gli elementi angosciosi delle favole, dal lupo di Cappuccetto rosso alla strega di Biancaneve; mentre bambini e adulti non sanno come dare senso e limite al martellamento quotidiano incontrollato di immagini televisive spaventose della finzione e della realtà.
Le classificazioni delle paure
Dal punto di vista descrittivo il campo delle paure è vastissimo e molti studiosi si sono prodigati a ordinarle secondo i più minuziosi criteri. La classificazione è però un’impresa tanto vasta e articolata quanto sostanzialmente poco produttiva, poiché i modelli concettuali secondo i quali si tenta di differenziarle e raggrupparle sono mutevoli, segnati dai vertici disciplinari, dai contesti socioculturali e dall’aria del tempo.
Si possono distinguere sul versante del soggetto: paure individuali e collettive, maschili e femminili, adulte e infantili, ancestrali o futuriste. Dal punto di vista, invece, dell’oggetto, dei contenuti, l’elenco è pressoché infinito: possiamo avere paura dell’acqua e del fuoco, del buio e dei fantasmi; di fenomeni naturali, come il terremoto e il tuono, o di minacce artificiali create dall’uomo, come la guerra nucleare e il disastro ecologico. A incutere spavento possono essere persone reali come i ladri, o personaggi immaginari come i protagonisti delle antiche favole o di certi moderni film dell’orrore. II bestiario delle paure è poi ricchissimo: cani, gatti, cavalli, pipistrelli, ragni, serpenti, insetti, squali e così via. Non c’è forse nemmeno un animale del regno naturale che non abbia suscitato la sua specifica fobia, indipendentemente dall’oggettiva pericolosità, senza escludere le bestie che abitano il mondo delle leggende e delle fiabe, come i draghi e i lupi mannari. Si possono poi individuare i vari contesti: famiglia, coppia, scuola, lavoro; oppure gli ambiti: salute, circolazione stradale, conflitti bellici ecc., nei quali le paure si creano e si manifestano. C’è infine da tener conto, nel caso dei bambini, di tutte le morbose fantasie che hanno a che fare proprio con le persone care: la paura di restare orfani, di essere stati scambiati in culla, oppure che, di nascosto, i genitori siano stati scambiati con degli automi che hanno poi assunto le loro sembianze.
Come insegna la psicoanalisi, la caratteristica più interessante della paura umana è però relativa ai diversi livelli di coscienza implicati: nella maggior parte dei casi, infatti, le paure consce, che possiamo nominare e denunciare, sono intrecciate, condizionate, alimentate da altre paure inconsce a noi stessi sconosciute. Il pericolo in verità non è esterno, ma interno; non proviene cioè che in minima parte dalle insidie del mondo reale, ma dalle nostre fantasie e dai nostri conflitti intrapsichici che vengono proiettati su una situazione esteriore. L’esempio più comune è la paura dello straniero, intorno alla quale si aggrovigliano le angosce originarie infantili della paura dell’estraneo, i pregiudizi preconsci e le credenze razziste organizzate nel corso della vita e le preoccupazioni, purtroppo realistiche, che si configurano nei moderni contesti urbani, esposti all’immigrazione incontrollata che può intrecciarsi con la malavita e l’illegalità locali. Così, nelle fantasie e nei sogni, con ingenuo razzismo, spesso ‘il nero’, ‘lo straniero’ altro non sono che una parte nostra inconscia che si affaccia alla coscienza, che segna il momento in cui si impara a distinguere ciò che è familiare da ciò che è sconosciuto, dentro e fuori di noi. L’inconscio – come a suo tempo aveva già detto Freud – è la nostra «terra straniera» interiore.
All’origine della vita, infatti, la nostra esperienza psichica, in ordine al basilare principio del piacere/dispiacere, è fatta soprattutto di sensazioni gradevoli o sgradevoli, e i confini tra ‘dentro’ e ‘fuori’, tra sé e gli altri, sono confusi. Così la sensazione di fame all’interno dello stomaco è difficilmente distinguibile da un attacco che viene dall’esterno. Si tratta certo di vicende complicate, difficili da afferrare per la nostra mentalità adulta logica e ordinatrice. Possiamo però portare a esempio l’esperienza, molto comune, di quando andiamo a dormire dopo aver mangiato qualcosa di pesante. Spesso – come è noto – accade allora di avere degli incubi. La sensazione penosa della cattiva digestione si è cioè ‘tradotta’ in un’immagine mentale di qualcosa di cattivo che, appunto, incombe, ci minaccia dall’esterno. La più suggestiva raffigurazione dell’incubo ci è offerta dalla nota opera pittorica omonima di Johann Heinrich Füssli (The nigthmare, 1872), nella quale vediamo il piccolo mostro maligno appollaiato sul ventre della dormiente. La caratteristica dell’incubo è di sospendere la nostra facoltà di ‘giudizio di realtà’; l’incubo cioè viene vissuto come se fosse una minaccia reale, che ha fine solo con il risveglio.
Sul piano puramente logico, è semplice operare una distinzione basilare tra paure vere e paure immaginarie, tra circostanze nelle quali è realistico, legittimo, normale provare timore, e circostanze nelle quali invece la sensazione minacciosa è ingiustificata o comunque sproporzionata. Sul piano delle singole vicende, le cose sono, però, molto più complicate e i confini sfumano continuamente tra concreto e astratto, tra normalità, idiosincrasia, bizzarria e vera e propria patologia nevrotica o psicotica. Quindi, la differenziazione più importante – quella tra paure patologiche e paure normali – è un’impresa sempre controversa, impossibile da attestare in modo netto e assoluto.
Entro certi limiti, le situazioni angosciose ci fanno maturare, crescere, alimentando le funzioni psicologiche del controllo e della fiducia nelle nostre forze di fronte ai pericoli interni ed esterni. Ma, per potersi fare coraggio, occorre avere ben chiaro quale sia il nostro nemico; e anche questo non è un ovvio dato oggettivo, ma un complicato punto di arrivo. La situazione più sconvolgente e traumatica è invece quella in cui siamo pervasi dall’ansia, ma non sappiamo capire da dove provenga il pericolo; per immaturità psichica o per nevrosi non siamo in grado di dare una rappresentazione precisa all’oscura minaccia.
La qualità creativa dei sintomi
È perciò sempre un’importante tappa nel processo di maturazione il momento in cui, dalla paura senza volto e senza nome, un bambino arriva a individuare ciò che suscita in lui il timore; o in forma semplice e diretta (il ladro, il rapitore ecc.) o, più spesso, sotto forma di un simbolo ‘preso in prestito’ dalla realtà, che riesce a condensare in un’immagine il groviglio di fantasie e di confuse sensazioni: brutto, scuro, ignoto, cattivo, quale il classico ‘uomo nero’ del passato.
Nominare, riconoscere una paura è dunque già il risultato di un’elaborazione dell’angoscia, che la trasforma in un materiale rappresentabile, comunicabile a sé stessi e agli altri. Così i sogni e, ovviamente, gli incubi, i disegni dei bambini e le favole a loro destinate, in un certo grado tutta l’arte, ma anche le fobie e i sintomi nevrotici possono essere considerati dal punto di vista psicologico dei materiali creativi, a prescindere dalla loro qualità estetica.
È possibile decodificare le paure?
Quando ciò che incute spavento è oggettivo e reale, è su questo piano concreto che occorre affrontare il problema; le considerazioni psicodinamiche hanno ben poco peso a confronto con l’angoscia di un’aggressione fisica o di un terremoto.
Da quanto abbiamo considerato si deduce però che spesso le angosce sono, in misura variabile, un intreccio tra verità e fantasia. Non è possibile in tal caso risalire dal livello descrittivo della situazione o della cosa di cui un individuo ha timore al significato profondo, e magari ricostruire la storia privata del ‘trauma’ che ha causato l’insorgere di questo piccolo o grande sintomo. Come per i sogni – o, visto che si parla di paure, per gli incubi – il contenuto manifesto non è sufficiente, se non a grandi linee, a informarci sulla personalità del sognatore. Molti, per es., possono avere paura del buio; questa inquietudine ancestrale, comune sia all’uomo primitivo sia agli uomini delle società evolute di tutti i tempi e di tutti i Paesi, ai piccoli come ai grandi, potrà di volta in volta assumere sfumature di significato molto personali. Il buio può essere spaventoso per un bambino piccolo che sta per addormentarsi e che vive il sonno come un nero abisso in cui si può sprofondare per sempre; un ragazzino più grande, invece, può immaginare creature minacciose (ladri, assassini ecc.) che lo spiano nelle tenebre, concrete proiezioni delle sue fantasie aggressive. Nell’età adulta, infine, il timore del buio è una sorta di residuo dell’epoca arcaica; oppure assume significati nuovi, come la resistenza a lasciare emergere alla coscienza dei desideri sessuali o aggressivi rimossi. È in questa dimensione infera dell’inconscio che abitano le fantasie inconfessabili, i desideri proibiti, le fantasie e gli impulsi più violenti. Per quel che riguarda la vita quotidiana, il nostro ‘io’ funziona dunque come una sorta di ‘filtro’ che lascia passare solo in misura minima i contenuti psichici, la gran parte dei quali rimane invece ‘fuori scena’ e si manifesta soltanto a sprazzi attraverso i sogni, i lapsus, i sintomi nevrotici.
D’altronde, è inevitabile che alla radice di tutte le nostre sofferenze, quanto più a fondo si scava, si trovino sempre gli stessi, eterni drammi: l’invidia, la gelosia, l’ambivalenza di odio-amore, il conflitto tra la regressione e la crescita, le paure primordiali. Affermare che a sintomi diversi possa corrispondere lo stesso problema e – per contro – che uno stesso sintomo possa essere connesso a significati inconsci pressoché infiniti, non è un artificio retorico, ma una conseguenza obbligata della complessità secondo la quale il confine tra normalità e patologia non solo, come abbiamo detto, è confuso e sfumato, ma per di più è in continuo, dinamico mutamento. La relativa enigmaticità delle paure non è dunque un fatto contingente, legato all’inadeguatezza dei nostri strumenti interpretativi; bensì una costruzione ‘difensiva’ e un elemento costitutivo della paura stessa. L’invenzione dell’‘uomo nero’ o di un’altra simbolica minaccia è una sorta di compromesso tra conscio e inconscio, secondo il quale il terrore può avere accesso ai livelli superiori della psiche, ma solo in maschera. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il sintomo è sempre una formazione di compromesso tra il dire e il non dire – a noi stessi e agli altri – qualcosa che di per sé, finché non si sono maturati strumenti psicologici adeguati, fa ancora più paura.
Impossibile, dunque, formulare in assoluto una linea guida su come comportarsi rispetto alle paure nevrotiche, stabilire quando debbano essere affrontate facendo appello alle forze dell’io, oppure richiedano un intervento psicoterapeutico specifico. Comunque, se le rassicurazioni formali sono inutili e le interpretazioni premature sul senso recondito sono controproducenti, è addirittura nocivo tentare di imporne d’autorità il ‘superamento’. Con tali mezzi talora la fobia può anche sparire, ma il problema è sapere a che prezzo ciò avvenga; per es., il complesso nevrotico che aveva trovato la sua valvola di scarico nella fobia può essere costretto a trovare altre strade, a costruire altri sintomi più gravi e invalidanti.
Per contro, è anche vero che quando la lotta interiore contro i piccoli o grandi demoni dell’inconscio è autoimposta, quale che sia il bilancio di vittorie e sconfitte, può essere un modo di rafforzare il carattere e l’autostima.
I meccanismi di difesa
La paura è una reazione difensiva, ma – in un preciso paradosso – a fronte di tale stato d’animo spiacevole, nel tentativo di cancellarlo o almeno padroneggiarlo, si mobilitano ulteriori meccanismi difensivi psicologici, prevalentemente ‘inconsci’, privi di efficacia reale nei confronti delle minacce esterne o interne, poiché possono solo tenere a bada la sensazione soggettiva penosa. Quanto più ci sentiamo impotenti, tanto più facciamo ricorso a tali meccanismi. Lo scongiurare l’emozione spiacevole è inutile, se non dannoso sul piano di realtà, perché non mette in moto reazioni autenticamente protettive. Il vantaggio apparente ha sempre un costo in ordine alla capacità di valutazione. Per es., lo svenimento causato da una paura violenta e improvvisa è la più massiccia delle strategie difensive, perché ci sottrae radicalmente alla consapevolezza della situazione inquietante, ma ci consegna inermi al pericolo.
Sono numerose le operazioni psicologiche che si possono mobilitare a livello inconscio e preconscio per far fronte alle paure della quotidianità.
Possiamo brevemente ricordare la scissione – tenere separate dentro di sé due o più aree affettive o cognitive della mente –; la proiezione – mettere fuori di sé ciò che è sgradevole, per es. pensando «non sono io a essere aggressivo, ma è l’altro che è ostile nei miei confronti» –; la rimozione – ricacciare nell’inconscio la rappresentazione intollerabile –; l’isolamento – circoscrivere nel tempo e nello spazio il pensiero nocivo, e così via. Tali meccanismi sono aspecifici, genericamente orientati a evitare il ‘dispiacere’; sono noti e attivi da sempre (Freud e i suoi seguaci li hanno solo individuati e nominati) e sussistono nella psicologia dell’uomo moderno. Tuttavia l’esperienza psicoanalitica mostra che – quali che siano le paure vecchie o nuove con le quali ci si deve confrontare – è però cambiato il modo in cui vengono affrontate dal versante difensivo.
Nelle organizzazioni nevrotiche, ma ancor più nella vita quotidiana, prevale a vasto raggio un particolare tipo di difesa: il diniego. Come se molti di noi portassero il segno del modo in cui fin da piccolissimi sono stati educati a fronteggiare ansie e paure, il dire «non è niente», «non è successo niente» può essere una modalità rapida ed efficace con la quale si tenta di arginare le reazioni emotive penose dei figli. Si tratta perlopiù di un ‘microdiniego’ abituale, che tratta il trauma – sia pure il microtrauma – come non esistente, non avvenuto, che provoca nella relazione interpersonale e intrapsichica un cortocircuito tra affetto e pensiero. Blocca l’eruzione dell’angoscia nella psiche del bambino; ma è l’esatto contrario della funzione genitoriale del contenimento: cioè dell’accogliere, elaborare e restituire come tollerabili fantasie ed emozioni sconvolgenti. Se invece gli adulti a loro volta non sanno contenerla, la paura verrà scissa ed espulsa fuori dal rapporto e dalla mente.
Troppo spesso purtroppo grandi e piccoli oggi sono dominati dalle stesse minacce e dalle stesse paure. Per i bambini c’è però il danno in più di essere esposti a tali meccanismi quotidiani proprio nel periodo in cui dovrebbero organizzare le distinzioni tra realtà esterna e realtà interna, tra pericoli che vengono da fuori e pericoli che vengono da dentro, tra pensieri tollerabili e intollerabili. Evidentemente, il problema del modo in cui la società affronta le paure dei più giovani si inscrive nell’assai più ampio contesto del sottile sfacelo della funzione adulta nella nostra epoca; cioè della difficoltà che hanno genitori e insegnanti a sostenere un conflitto sano, a imporre norme e limiti; in sintesi, a favorire lo sviluppo del Super io e della struttura. Il Super io svolge infatti la funzione normativa e punitiva, ma anche quella protettiva. Il disconoscimento dell’autorità e delle differenze generazionali troppo spesso ha neutralizzato la funzione punitiva superegoica, ma al contempo ha smantellato anche quella educativa e protettiva, lasciando nelle piccole mani dei bambini il compito – immane – di costruire da soli un argine ai loro impulsi aggressivi e distruttivi, nonché alle loro paure.
Non c’è da stupirsi, allora, se al diniego si accostano altri meccanismi difensivi più o meno efficaci, quali le strategie controfobiche, l’erotizzazione della paura, l’evitamento, l’identificazione con l’aggressore, la regressione all’ambiguità eccetera. L’elemento comune, purtroppo, è l’impoverimento affettivo della persona e la fragilità della struttura.
Le nuove forme delle paure
Fino a una decina di anni fa la fobia della scuola era un problema abbastanza raro, difficile da diagnosticare perché era spesso camuffato da disturbi fisici (mal di stomaco, di pancia ecc.). Uno sguardo attento poteva però cogliere alcune caratteristiche individuali e familiari significative, quali un rapporto ambivalente di dipendenza dalla madre, un temperamento ipersensibile del bambino, talora un segreto familiare angoscioso. Oggi invece assistiamo a un sensibile aumento dei casi di cosiddetta paura della scuola che però si manifestano in modo diverso rispetto al passato. Innanzitutto – seppure il disturbo continui a prevalere tra i maschi – sta crescendo la percentuale delle femmine; inoltre, questi bambini dichiarano esplicitamente fin dagli anni delle elementari, il loro rifiuto di andare a scuola. È un dato oggettivo inquietante che registrano i neuropsichiatri infantili, gli psicologi, gli insegnanti. Nella maggior parte dei casi non si tratta della classica fobia, ma di un sintomo sempre più generico e sfuggente di evitamento della situazione fonte di ansia. Così, il non voler andare a scuola può esprimere ‘semplicemente’ il ricusare di confrontarsi con le normali difficoltà della vita; non nasce da angosce superlative, ma proprio dalle banali incombenze e dalle minime fatiche della quotidianità: svegliarsi a un’ora precisa, arrivare puntuali, stare attenti in classe, misurarsi con altri ragazzini. In una parola, esprime la ripulsa della realtà e della crescita.
Rientra appieno nel nostro discorso sulle paure una patologia attualmente molto frequente, o meglio molto frequentemente diagnosticata: l’attacco di panico. Tale etichetta viene attribuita a individui adulti e apparentemente ben integrati, che però episodicamente vengono assaliti da una sensazione improvvisa e devastante di paura, accompagnata da un imponente corredo di disturbi fisici (pallore, tremore, palpitazioni, spasmi respiratori, sensazione di morte imminente ecc.) che insorgono al momento di affrontare banali esperienze quotidiane, come uscire da soli o guidare l’automobile. Talora il panico si configura come paura anticipatoria di non poter essere soccorsi nel momento di un eventuale futuro pericolo (paura della paura). In realtà, il cosiddetto attacco di panico è un concetto descrittivo generico e superficiale, che mette un’etichetta di ‘malattia’ al più ovvio e generale dei segnali della paura: la crisi acuta di angoscia («attualità del nulla» lo definisce severamente lo psichiatra e psicoanalista Mario Rossi Monti). In effetti è un sintomo generico dietro il quale ci può essere di tutto: dalla nevrosi lieve e occasionale, ai più seri disturbi della personalità; dal conflitto rimosso dell’isteria, alla regressione alle paure senza forma e senza nome dei momenti arcaici dello sviluppo.
L’attacco di panico è uno dei modelli di riferimento del paradigma descrittivo-nosografico di una certa attuale psichiatria e della sua deriva organicista, che così cristallizza il malessere a un livello primitivo ‘biologico’, che non può essere né discusso, né elaborato. L’assunto di fondo è che il panico sia biologicamente diverso dall’ansia e che tale differenza sia comprovata dalla risposta a uno specifico trattamento psicofarmacologico. Purtroppo, la ‘fortuna’ di un approccio consimile avviene con la precisa collusione dei pazienti, poiché il riduzionismo va incontro alle difese di chi preferisce riconoscersi affetto da una sindrome predefinita, piuttosto che affrontare la fatica di guardarsi dentro e cercare di capire il senso delle proprie paure o delle proprie infelicità.
Più in generale, è d’altronde noto quanto la cultura attuale privilegi lo ‘stile’ classificatorio sintomatico e, di conseguenza, lo sbrigativo rimedio farmacologico, che eludono la presa di coscienza dei contenuti profondi. In questi termini, ogni sintomo finisce per rappresentare una ‘malattia’ e si individuano così entità patologiche fittizie come l’attacco di panico, appunto, o come la sindrome da affaticamento cronico o il disturbo dell’umore stagionale.
Lo stesso discorso critico vale in ordine a un’altra dilagante diagnosi della contemporaneità, quella della sindrome post traumatica da stress; una terminologia pretenziosa e pseudoscientifica basata sulla constatazione che chi ha subito eventi traumatici, quali un grosso spavento, ovviamente ne patisce le conseguenze anche a distanza di tempo, con un penoso e persistente stato di insicurezza e malessere.
L’identificazione con l’aggressore è una modalità difensiva tutt’altro che nuova, esplorata già dalla figlia di Freud, Anna (1895-1982), e ancora prima di lei da Sandor Ferenczi (1873-1933). Indica un’operazione inconscia secondo la quale, a fronte di un nemico che ci terrorizza, tendiamo ad assumere le sue caratteristiche: così un bambino impaurito dai cani può giocare a ringhiare e mordere, oppure può prediligere come maschera di carnevale i costumi di eroi minacciosi. Così si può, almeno parzialmente, spiegare anche il sadismo di custodi e carcerieri nei confronti delle persone in loro balìa: diventare colui che incute terrore libera il soggetto dall’inquietante fantasia di poter essere la vittima. Molte volte oggi, nel caso delle violenze di gruppo nelle età adolescenti e preadolescenti, nel cosiddetto bullismo scolastico, si può intravedere il meccanismo dell’identificazione con l’aggressore, che azzera la possibilità dell’empatia e del senso di responsabilità nei confronti del compagno più debole che è aggredito.
È molto frequente inoltre nelle nostre società occidentali avanzate una subdola modalità di disfunzione della coppia che possiamo denominare (Amati Mehler 1989) come agorafobia-claustrofobia del rapporto. Sono uomini e donne alla perenne ricerca di un rapporto amoroso, che dichiarano la loro sofferenza nella condizione di solitudine, ma che poi – non appena il legame si approfondisce e si stringe – sono preda di un impulso opposto di fuga. Trascorrono così la vita ad avvicinarsi e poi a fuggire dall’oggetto d’amore, in una oscillazione perpetua – che non produce alcun cambiamento nella struttura della personalità – tra la paura dell’abbandono e la paura dell’intimità. Rientrano in questa sempre più ampia categoria gli amori infelici, non corrisposti, oppure le separazioni e i divorzi a catena, che i protagonisti, a livello di coscienza, vogliono attribuire alla sfortuna.
Da ascrivere nella categoria delle nuove forme della paura anche quella delle malattie, in particolare la paura del cancro. L’ipocondria – pura angoscia di morte – è una forma morbosa antichissima, ma attualmente ha assunto una diffusione subdola e pervasiva, alimentata purtroppo proprio dai progressi della tecnologia medica e dagli esami clinici e di laboratorio che mirano alla prevenzione. Paradossalmente, ad affollare gli ambulatori deputati alla diagnosi precoce non sono i veri pazienti a rischio, ma gli ipocondriaci, che assillano i medici con domande, dubbi e infinite ripetitive paure. Sono avidi di indagini e di esami di laboratorio che li tranquillizzino (solo per poco) di non avere nulla. Il paradosso è che talora si affannano intorno a un male fittizio, mentre negano qualche altro sintomo davvero preoccupante. Il meccanismo inconscio è quello di angosciarsi preliminarmente, per poi farsi tranquillizzare dal medico e godere di una tregua dall’ansia; per poi ricominciare da capo, cambiando il sintomo e magari il terapeuta, ma non il meccanismo. Spostando l’angoscia su un qualche malanno immaginario – terribile ma eccezionale – che viene di volta in volta scongiurato, riescono a rimandare il vero problema: la consapevolezza di essere mortali. Per tali ragioni si pensa che l’ipocondria sia l’estremo baluardo del narcisismo, che tenta di negare la realtà ineluttabile della morte.
Infine, gli esperti di psicopatologia sanno che ancor più problemi, paradossalmente, hanno quegli individui apparentemente spavaldi che non hanno paura di nulla, e che quindi si espongono continuamente ai pericoli reali; non perché siano molto coraggiosi, ma perché hanno bisogno, per motivi nevrotici, di negare le proprie emozioni inquietanti. Sono coloro che ricorrono al cosiddetto meccanismo difensivo controfobico, infliggendo a sé stessi la continua sfida di sport estremi, di prove fisiche di coraggio. Rientra in questa categoria la ricerca di situazioni rischiose che spinge talora gli adolescenti senza alcuno scopo concreto (per es., il correre sul bordo di un precipizio o il superare i limiti di velocità in autostrada) a effettuare una sorta di ‘rito di passaggio’ autarchico, che però non conduce ad alcun cambiamento di stato verso l’età adulta e che quindi non può che ripetersi all’infinito. Anche i bambini possono usare il meccanismo controfobico, esponendosi apparentemente impavidi ai pericoli, delegando ai genitori il compito della protezione reale.
In una forma assai meno nociva e ‘morbida’, può appartenere alla categoria controfobica anche quella sorta di paura erotizzata di giovani e meno giovani per i film horror, che sembrano mettere lo spettatore alla prova di quanto riesce a sopportare di disgusto o spavento, nel breve e personalissimo intervallo tra l’angoscia e la noia. Forse costoro, per difendersi dalle esperienze penose, hanno costruito una corazza di apatia, di indifferenza, di inibizione degli affetti; e in questa forma passiva e virtuale tentano di solleticare le loro emozioni perdute.
Natura da proteggere, cultura da temere
Una fonte di paura collettiva realistica è quella che deriva dai disastri naturali, malauguratamente incombenti ora come nei secoli passati. Seppure le notizie delle catastrofi causa di morte e distruzione, nella maggior parte dei casi, non provengono dall’esperienza diretta ma dalle immagini dei notiziari televisivi, quanto più sono violente e crude tanto più assumono un incerto statuto di realtà.
In tempi remoti, nel tentativo di dare un senso alle sventure che si abbattevano sulle popolazioni, si immaginava che le eruzioni dei vulcani, i terremoti o i maremoti fossero la conseguenza delle malefatte degli uomini, che venivano puniti dagli dei onnipotenti. Era una fantasia angosciosa, ma in fondo così rimaneva un piccolo margine di negoziazione con la divinità: espiando, offrendo sacrifici, si poteva sperare di tenere a bada la minaccia e di prevenirla. Ai tempi nostri invece dobbiamo convivere con l’idea ancora più scomoda che il disastro non ha alcun senso soprannaturale e colpisce alla cieca. La scienza dovrebbe prendere il posto del pensiero magico-religioso; ma purtroppo nella maggior parte dei casi riusciamo solo a capire il ‘come’ delle sventure già avvenute e i nostri strumenti tecnologici preventivi si rivelano di scarsa efficacia, proprio come scarsamente convincenti e per niente consolanti risultano le spiegazioni scientifiche (per es., quelle sulla ‘grande onda’, tanto che la parola tsunami è diventata nel linguaggio comune l’emblema metaforico di ogni disastro).
Al di là di questi eventi eccezionali, la natura che conosciamo è quella urbana, controllata e addomesticata se non snaturata; aggredita e rapinata a livello planetario dallo sfruttamento incontrollato degli umani che distruggono foreste, fanno estinguere specie animali, inquinano le acque e l’atmosfera. Una natura da salvare come riscatto dalla perdita di quel bisogno di ‘appaesamento’ (del quale già scriveva, dal versante antropologico, Ernesto De Martino): non più inquietante e misteriosa, ma semmai fragile e precaria, più da proteggere che da temere. Di modo che ci sentiamo al tempo stesso corresponsabili e impotenti del disastro ecologico e alla paura si aggiunge il senso di colpa.
È così che il nostro ambiguo rapporto con la natura si coniuga con la grande paura della nostra epoca: il timore del futuro, o meglio che non ci sia futuro. A livello individuale, per così dire egocentrico, le preoccupazioni più frequenti e dominanti – stando a quanto riferiscono le inchieste sociologiche che così spesso vengono diffuse dai mezzi di informazione – sono quelle della povertà, della perdita del lavoro e del benessere, della vecchiaia e così via. Talora, la paura si declina in forme più semplici, fin dalle età infantili, come ansia dell’insuccesso e come senso di inadeguatezza di fronte alle difficoltà della vita. È interessante, a questo proposito, scoprire che – se si fanno interviste incrociate sulle paure infantili a genitori e figli – i bambini raccontano con grande spontaneità e immediatezza le loro angosce; padre e madre invece tendono a rispondere che i loro piccoli non hanno alcun problema, probabilmente per autorassicurarsi ed evitare sentimenti di colpa e di umiliazione. Si è di fatto ribaltata l’antica illusione secondo la quale un tempo erano i bambini a credere che i genitori non avessero paura di nulla.
In senso più ampio e collettivo, circola invece la paura del terrorismo, della guerra, del disastro atomico. Così, la paura dell’aggressività propria e altrui si va trasformando nell’angoscia generica e impersonale della violenza.
Paura e propaganda
È purtroppo consueto, in ambito sociopolitico, che le paure collettive vengano evocate, sfruttate, alimentate al servizio dei pregiudizi di parte. Individuare il nemico e il pericolo per poi proporsi come governanti salvifici contro lo straniero alle porte, il malato di mente, la miseria, il degrado dei valori ecc., è da sempre uno strumento cinico ed efficace di propaganda da parte di chi si presenta come garante della ‘sicurezza’ contro l’incertezza, il disordine e la criminalità. Poiché infatti le paure sono materia ad alto contenuto emotivo, è assai frequente che vengano indotte, evocate, rinforzate nelle comunità sociali da gruppi di potere che pretendono di essere coloro che contro quelle stesse paure offriranno rimedio e protezione.
La paura irrazionale della follia, per es., è in parte responsabile delle travagliate vicende in campo psichiatrico della l. 13 maggio 1978 n. 180, al conflitto, ancora irrisolto, circa il modo di soccorrere i pazienti e le loro famiglie, per cui di fatto non si è ancora trovato un equilibrio non ideologico tra rispettare e proteggere.
Il modo sano, onesto, socialmente utile di far fronte alle paure collettive, di contenere l’angoscia dei cittadini si basa evidentemente su provvedimenti realistici nei confronti dei pericoli; ma è anche preciso compito delle istituzioni informare senza nascondere. Capire, conoscere le cause e le potenziali conseguenze riduce l’ansia dilagante a fronte dell’ignoto, favorisce l’organizzazione psicologica di difese mature. Ma ciò presuppone un patto di fiducia tra cittadini e Stato. Gli esempi negativi sono purtroppo numerosi, ieri come oggi: le ‘esercitazioni antiatomiche’ in tempi di guerra fredda (denominate poi con satira feroce atomic cafè), quando si facevano accoccolare gli scolari sotto i banchi con le mani sopra la testa; l’attuale diffusa mancata informazione delle popolazioni a fronte della minaccia di terremoti, maremoti, alluvioni, valanghe e slavine.
Il modello positivo dovrebbe essere invece quello psicologico della rêverie della quale parla lo psicoanalista Wilfrid R. Bion (1897-1979) a proposito dell’atteggiamento di un buon genitore nei confronti di un bambino spaventato: prestare ascolto alle sue angosce senza forma e senza nome, accoglierle, elaborarle, e poi restituirle al piccolo in una dimensione tollerabile; senza negarle, ma costituendole di senso affettivo e cognitivo, favorendo così lo sviluppo di funzioni di controllo sugli impulsi e di fiducia nelle proprie risorse. Ma evidentemente non possiamo dare agli altri ciò che non abbiamo; e se non abbiamo sicurezze, serenità e certezze, non siamo in grado di trasmetterle né ai cittadini, né alle nuove generazioni.
In conclusione, le paure dei nostri giorni, che si esprimono nelle svariate forme individuali e collettive come angoscia dei ladri o dei pedofili, del terrorismo o della guerra totale, hanno il loro comun denominatore nella paura della violenza propria e altrui, che ha la sua radice oscura nell’angoscia trascendente e impersonale dell’aggressività umana. Si approda così inesorabilmente alla riflessione esistenziale sulla distruttività; un dilemma intorno al quale, fin dall’epoca di Freud, gli psicoanalisti hanno messo in campo i loro strumenti concettuali, tentando di trasformare un’angoscia privata in un interrogativo scientifico. Continuiamo a chiederci se sia possibile distinguere un’aggressività sana al servizio della vita, in contrapposizione a una aggressività malefica che alla vita si oppone; se esista in noi un’innata ‘pulsione di morte’, se la distruttività ne sia l’espressione fatale oppure sia la conseguenza – limitabile e contingente – delle frustrazioni della vita. Che sia un crimine o un destino, possiamo comunque concordare sul dato concreto che l’aggressività più pericolosa – per gli individui e per i popoli – è quella inconscia, con la quale non si può venire a patti.
Il ruolo della psicoanalisi nella società – se vogliamo incontrare dei veri interlocutori, e non solamente dei futuri pazienti – dovrebbe essere quello di facilitare il pensiero altrui senza sopraffare, senza allarmare, o peggio rassicurare superficialmente. Ma soprattutto si possono utilizzare gli strumenti psicoanalitici per tentare di rompere il rinforzo reciproco che sempre si stabilisce tra odio e paura.
Bibliografia
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