PAUSANIA (Παρσανίας)
2°. - Autore della Periegesi della Grecia (Περιήγεσις τῆς ῾Ελλάδος): con questo titolo l'opera era già nota a Stefano di Bisanzio e non vi è, quindi, motivo di mutarlo in quello di Hellenikà, come è stato proposto. Lo scrittore nacque probabilmente nella Lidia, nei dintorni di Magnesia sul Sipilo o, per lo meno, dimorò a lungo nella regione (v, 13, 7), di cui mostra conoscenza estesa (ii, 22, 3; vii, 24, 13; viii, 17, 3): sembra confermarlo anche il patriottico orgoglio con cui parla della costa occidentale dell'Asia Minore e della colonizzazione greca (vii, capp. 2-5 s.). L'identificazione con lo scrittore omonimo, autore di un libro sulle fondazioni (κτίσεις), forse da identificare con Pausania di Damasco, o con altri scrittori dello stesso nome non sembra provata. L'opera è divisa in dieci libri; tale partizione era già nota a Stefano che, una sola volta, per evidente errore, cita il libro xi. Fu scritta tra l'età di Adriano e quella di Marco Aurelio: infatti, P. parla di Adriano come di un suo contemporaneo (i, 5, 5) e l'avvenimento più recente ricordato è l'incursione dei Costoboci, i quali giunsero ad Elatea tra gli anni 169 e 18o d. C. (x, 34, 5). La Periegesi, come ci è giunta appare mancante del proemio e della fine: inizia con la descrizione dell'Attica dal Capo Sunio e termina bruscamente con quella della Locride occidentale e di Naupatto. Che P. avesse intenzione di descrivere anche la Locride Opunzia, sembra desumersi da un suo accenno (ix, 23, 7), né si può escludere l'intenzione di trattare le parti settentrionali della Grecia e le isole; particolarmente descrive Egina (ii, 29, 2; 30, 5); ricorda i suoi viaggi a Rodi (iv, 31, 5), in Tessaglia (iv, 35, 9), in Epiro (i, 13, 3; 17, 5; vii, 21, 2; viii, 23, 5). Infine, ricordiamo che nell'età di P. la vera e propria ῾Ελλάς cominciava dall'Epiro (Dion. Per., Orb. desc., v. 399) e che lo scrittore afferma esplicitamente di voler descrivere πάντα... τὰ Ελληνικὰ (i, 26, 4). Si è, perciò, indotti a ritenere che il disegno primitivo fu forse realizzato solo in parte.
I singoli libri, i cui sottotitoli sono indicati da P. stesso, furono pubblicati in anni successivi e durante uno spazio di tempo non piccolo. Infatti, nel libro i non si fa cenno dell'odèion che Erode Attico innalzò in memoria della moglie Regilla, morta nel 160-161 d. C., ma l'odèion è ricordato nel libro vii (20, 6), mentre nel i libro è menzionata la ricostruzione dello Stadio che fu iniziata dallo stesso Erode, forse nel 143 d. C. Ne risulta che il primo libro (Αττικὰ) fu scritto tra il 143 e 161 d. C., il il libro (Κορινϑιακὰ) fu scritto alcuni anni dopo il viaggio di P. nell'Argolide, viaggio che ebbe luogo nel 163. Meno sicura è la data del iii e iv libro (Λακωνικά; Μεσσηνιακα); mentre, dei due libri, concernenti l'Elide, il v e vi (᾿Ηλιακῶν α΄ β΄), il v fu scritto nel 174 d. C. (v, 1,2); negli anni successivi furono composti gli altri quattro libri, vii-x (᾿Αχαικὰ; ᾿Αρχαδικά; Βοιωτικά; Φωκικά): il x sembra posteriore di qualche anno al 175 d. C. La successione nella stesura ed edizione dei singoli libri è confermata dalle numerose aggiunte e correzioni che P. apporta alla sua opera: ad esempio, nel libro viii (5, i) corregge l'opinione che aveva espresso precedentemente (i, 42, 6) sul regno di Oreste in Acaia; altrove (viii, 8, 5), nota che durante il tempo nel quale ha atteso all'opera, il suo atteggiamento scettico rispetto alle credenze ed ai miti si è attenuato e, già prima, nel libro iii (ii, 2), aveva risposto con enfasi ed impeto alle critiche ed obiezioni che gli erano state mosse, critiche ed obiezioni evidentemente rivolte ai libri già editi. Anche l'esame complessivo dell'opera attesta la lunga elaborazione: nel libro i è evidente l'esitazione nella scelta dell'ordine da seguire. Infatti, mentre per Atene, P. segue rigorosamente l'ordine topografico, abbandona quest'ordine per il resto dell'Attica e lo riprende solo nella descrizione della Via Sacra, che menava ad Eleusi. Più sistematica è la descrizione negli altri libri: ad ognuno è premessa la storia della regione; quindi l'autore, seguendo la via più breve, si dirige dalla frontiera alla capitale e nel caso di Olimpia e di Delfi, ai due grandi santuarî; alla città o santuario è premessa una breve notizia storica e dopo si inizia la descrizione dei monumenti. Terminata questa descrizione, P. segue le vie che legano la città principale con gli altri centri della regione e con le frontiere e, dopo avere esaurito il percorso delle vie, oltrepassa la frontiera, passando nella regione adiacente. Infine, tutta la Periegesi è ordinata secondo due itinerarî, ambedue partenti da Atene, l'uno diretto verso il Peloponneso, l'altro verso la Grecia centrale.
L'ordine topografico che forma la trama dell'opera ha diffuso la convinzione che intento di P. sia stato quello di scrivere una guida, un manuale di viaggio per i visitatori che, come sappiamo, si recavano al suo tempo numerosi in Grecia. Ma fu osservato che, oltre alla descrizione dei monumenti, delle cose viste (ϑεωρήματα), non solo l'opera contiene numerosi excursus (λόγοι), ma che questi predominano in essa. Alcuni mal si adattano al carattere di una guida, come ad esempio quando, narrando di Elice, distrutta da un terremoto, P. si ferma sull'argomento dei terremoti e dei segni tellurici che li accompagnano (vii, 24, 7-13) o quando descrive la cultura del baco da seta presso i Seres, probabilmente i Cinesi (vi, 26, 6-8). Se ne è concluso che lo scrittore (analogamente a quanto si crede di poter affermare dagli scarsi frammenti pervenutici per gli altri periegeti) abbia avuto unicamente lo scopo di soddisfare interessi antiquarî, inquadrandoli nella cornice fittizia di una periegesi, di scrivere, cioè, una ποντοδαπὴ ἱστορία o, addirittura, secondo una recente ipotesi, una storia e topografia della Grecia, una ἀρχαιολογία τῆς ῾Ελλαδος. Benché, invero, P. una volta accenni esplicitamente ai suoi lettori (iii, 18, 10) e benché il suo fine principale sia quello di erudire - lo afferma chiaramente nella digressione sulla Sardegna, dicendosi indotto ad essa dalla scarsa conoscenza che i Greci avevano dell'isola (x, 17, 13) non si comprende perché, pur accettando le osservazioni esposte, si debba assolutamente escludere che P. abbia avuto di mira anche uno scopo pratico, quello di guidare i visitatori per i monumenti della Grecia. Non si spiegherebbe altrimenti perché egli abbia insistito con tanta frequenza nell'indicare le distanze fra le varie località e, soprattutto, perché, come è stato da tempo dimostrato, abbia posto a base della sua descrizione l'antica rete stradale della Grecia. Questo scopo non viene nemmeno escluso dagli intenti letterarî, rivelati dallo stile. P. modella la sua prosa, secondo una moda abbastanza diffusa nel suo tempo, su quella di Erodoto: del tutto infondata appare l'ipotesi che egli abbia tratto ispirazione da Egesia di Magnesia, il rappresentante tipico della retorica asiatica. Ma nel tentativo di comporre prosa d'arte, P. non riesce a raggiungere la limpida fluidità del modello; il suo stile sovente manca di ritmo e armonia e, per l'evidente sforzo di variare la frase, diventa oscuro e contorto, lasciando troppo spesso scorgere la fatica nella ricerca e nella disposizione delle parole. Solo qualche volta questo stile si eleva a maggiori altezze: così, nella descrizione dell'empio assalto dei Galati a Delfi (x, 23) o nella descrizione della morte di Aristodemo (iv, 13, 5).
Indubbiamente, P. si è servito largamente di fonti più antiche: oltre ad Erodoto, Ecateo, Ellanico, Tucidide, Senofonte, attinge largamente agli storici dell'età ellenistica, tra cui Polibio (viii, 30, 8) e, principalmente, a Mirone di Tebe e Riano di Bene in Creta per la guerra messenica (iv, i, 6; 6, 1-15; 17, 10). Larga è la sua conoscenza dei poeti greci da Omero a quelli tardi, come Apollonio Rodio (ii, 12, 6) e Euforione (ii, 22, 7; x, 26, 8); raramente, però, ricorda i poeti tragici o comici: più frequentemente menziona Eschilo, una sola volta Sofocle (i, 28, 7) ed Aristofane (v, 5, 3), mentre di Euripide ricorda solo il cenotafio e la statua ad Atene, (i, 2, 2 e 21, 3). Naturalmente conosce i periegeti più antichi, ma non li nomina mai; ‛proprio in base a questo atteggiamento, alcuni studiosi hanno ritenuto che gran parte della sua Periegesi derivi da Polemone di Ilio, le cui opere erano nel Il sec. d. C. largamente note. È stato addirittura affermato che la descrizione di Atene e dell'Attica, quella di Delfi e di Olimpia, la trattazione dell'Arca di Kypselos siano state direttamente copiate da Polemone o, al più, integrate con reminiscenze di altre letture e ricordi proprî. Tale opinione è fondata principalmente sul fatto che P. nomina raramente monumenti posteriori al sec. IV; ma fin dal i libro (i, 39, 3) afferma che non intende includere e descrivere tutti i monumenti, ma limitarsi a quelli che a lui sembravano degni di menzione. In ciò egli si mostra ancora nella scia 4ella concezione classicistica, sorta nella cultura neo-attica dominante nel tardo ellenismo. Inoltre, più interessanti per lui appaiono i monumenti connessi con la religione ed il culto; la ricca fioritura degli edifici profani, uno dei caratteri precipui dell'età ellenistica trovava, quindi, scarsa eco nel suo animo. Del resto questo atteggiamento non è peculiarità del solo P., ma è comune ad altri scrittori antecedenti o contemporanei (ad esempio Luciano non nomina mai artisti posteriori al IV sec. a. C.) ed è perfettamente consono ad uno spirito conservatore quale era quello di Pausania. Gli argomenti, dunque, che sono stati finora addotti, non provano affatto che le descrizioni del periegeta siano uniformate pedissequamente a modelli più antichi, i quali, ad ogni modo, dovrebbero essere esclusi, sia per la descrizione di Corinto, che fu ricostruita nel 44 a. C. (ii, 2, 6-5, 1), sia per quella dei lavori promossi da Adriano ad Atene (i, 18, 6-9). Infine, la comparazione con gli scarsi frammenti di Polemone, a noi giunti, mostra la completa indipendenza di P. e se si notano alcune coincidenze con altri scrittori, ad esempio con Strabone, queste coincidenze si spiegano agevolmente considerando che ambedue descrivevano le stesse località.
Ancora meno fondata appare l'accusa, che spesso è stata rivolta a P., di scarsa attendibilità, affermando che le descrizioni non sono derivate da vera e propria autopsia. P. non manca di avvertire più volte che non ha potuto vedere questo o quel monumento: ci dice, infatti, che non ha visitato il santuario di Eurinome perché questo santuario era aperto una volta all'anno (viii, 41, 5) e che per la stessa ragione non ha visto la statua di Artemide a Iampolis (x, 35, 7), mentre fu più fortunato per il simulacro della Mater Dindymènè a Tebe (ix, 25, 3). Neppure è decisiva l'osservazione che nella Periegesi il porto del Pireo è descritto come fiorente (i, i, 2 ss.), mentre era stato distrutto da Silla, perché si dimentica che tra l'epoca di Silla e il tempo di P. erano trascorsi più di due secoli e che la descrizione è confermata dai ritrovamenti e dagli scavi archeologici. D'altra parte, che lo scrittore sia talvolta incorso in errori, non si può negare: così, ad esempio, errata è la descrizione della costa intorno ad Ermione (ii, 34, 8 ss.) e delle vie che collegavano Lepreo alle altre città dell'Elide (v, 5, 3). Ma questi errori derivano o da imprecise descrizioni di un terreno molto complicato o, forse, da poco accurata stesura degli appunti di viaggio.
Che P. abbia molto viaggiato non solo in Grecia, ma anche in Asia Minore ed in Italia, appare largamente provato dalla Periegesi: ha visto il lago di Tiberiade e il Giordano (v, 7, 4), forse Gerusalemme (viii, 16, 5); ha visitato l'Egitto (i, 42, 3; ix, 16, I e 36, 5), buona parte dell'Italia con la Campania, il Lazio e Roma (ii, 27, 4; iv, 35, 12; v, 2, 6; viii, 7, 3 e 46, 5; x, 5, ii). Non vi è, quindi, alcun motivo per negare i suoi viaggi in Grecia e l'autopsia dei monumenti. Del resto, il fatto stesso che P. riporti sovente opinioni di guide locali, che trascriva iscrizioni, sottoponendole in qualche caso a critica, conferma la diretta visione. Indubbiamente, il suo interesse si rivolge principalmente ai monumenti del passato; di rado, e più frequentemente verso la fine dell'opera, introduce una rapida nota sulla vita dei suoi tempi (ad esempio: vii, 21, 14; ix, 19, 3) o dedica un breve accenno al paesaggio (ad esempio: viii, 7, i). Per tutto ciò che riguarda la religione, si mostra di spirito conservatore, perfettamente acquiescente alle idee correnti nel suo tempo, anche se la passione di antiquario lo induce a fermarsi su notizie di divinità o di culti da tempo tramontati: una sola volta (vii, 23, 7 ss.), forse riecheggiando opinioni altrui, a proposito di Asklepios e del padre Apollo, azzarda una interpretazione razionalistica sulla loro essenza. Appunto perciò colpisce il suo atteggiamento scettico nei riguardi degli Inferi (ad esempio: ii, 36, 7; iii, 25, 5). Come nelle credenze religiose, così si dimostra conservatore nei riguardi dell'arte figurativa. In genere, egli è sobrio di lodi, limitandosi a ricordare fuggevolmente artisti ed opere d'arte, aggiungendo spesso che queste sono degue di esser viste o, al più, rafforzando la frase con un avverbio (μάλιδτα). I motivi della sua ammirazione si limitano di solito (ad esempio: viii, 25, 5) alla grandezza (μέγεϑος) e alla abilità (τέχνη). Tra i pittori, pregia, per la varietà e bellezza delle immagini, Polignoto di Thasos (x, 31, 12), del quale menziona sovente le opere tacendone il nome (i, 15, i; 17, 2; 18, i; 22, 6; ix, 4, 2). Afferma che Nikias è il migliore (ἄριστος) dei pittori di animali (i, 29, 5); degli altri pittori si contenterà di ricordare solo i quadri e il nome: così per Apelle (ix, 35, 6), Euphranor (i, 3, 4) e Protogenes (i, 3, 5). Maggiore attenzione dedica alle sculture: quelle arcaiche, nonostante le forme - egli afferma - esprimono efficacemente l'idea del divino (ii, 4, 5), però le sue preferenze si concentrano sulla scultura attica: infatti, per dimostrare la valentia di Onatas, dichiara che egli non è secondo a nessuno degli scultori atticì (v, 25, 12). Tra costoro, il primo posto è assegnato a Fidia; ne descrive accuratamente lo Zeus in Olimpia, dicendo che le dimensioni dell'immagine nulla aggiungevano alla impressione che la vista della statua provocava nello spettatore (v, ii, 9) e che l'opera più bella dello scultore era la Lemnia (i, 28, 2). Degli scolari di Fidia, ricorda più volte con lodi Agorakritos e Alkamenes; ma nomina senza commento le opere dei grandi scultori del IV sec., di Skopas, di Prassitele, di Lisippo. Raramente, menziona gli scultori ellenistici, ad eccezione dei discepoli di Lisippo e tra le sculture contemporanee, solo - e più per la magnificenza della tecnica che per altro - lo Zeus Olömpios, eretto da Adriano ad Atene (i, 18, 6). Per l'architettura P. accentua la sua ammirazione per le imponenti vestigia della civiltà più antica della Grecia (ii, 25, 8; ix, 28, 2) e queste vestigia lo inducono a biasimare i suoi compatrioti che ammiravano i monumenti stranieri e trascuravano i proprî (ix, 36, 5). Ammira la bellezza e il taglio dei blocchi, con cui erano costruiti i propilei dell'Acropoli (i, 22, 4), la simmetria del teatro di Epidauro, non inferiore a quello di Megalopoli, pur di proporzioni maggiori, ed ai magnifici teatri romani (ii, 27, 5), l'armonia dei templi di Bassae e Tegea (viii, 41, 8; 45, 5). Se ricorda monumenti più tardi, come lo stadio ateniese (i, 19, 6), è principalmente per il largo uso di marmo pentelico. In conclusione anche qui il suo interesse si rivolge agli edifici religiosi o comunque connessi al culto e la sua preferenza per l'arte sino al sec. IV appare costantemente legata al concetto che Atene, in quell'epoca, rappresentò il simbolo della maggiore altezza spirituale, declinata solo quando la Grecia diventò preda dei Macedoni.
Edizioni: editio princeps di M. Musurus, Venezia 1516, cui seguì quella del 1583, edita a Francoforte e curata da G. Xylander e da F. Sylburg; tra le posteriori da ricordare quella di C. G. Siebelis, in 5 voll., Lipsia 1822-1828, riproducente anche la traduzione latina di R. Amasaeus, che fu edita la prima volta a Firenze nel 1551. Delle edizioni critiche, oltre a quella di Chr. Schubart-Walz, Lipsia-Londra 1838-9 e all'edizione di Fr. Spiro in tre volumi, Lipsia 1903, sono da ricordare l'edizione di H. Hitzig e H. Blümner in 3 volumi, Berlino 1896-1910 con ampio commento antiquario, topografico e storico. Il commento numismatico fu edito da Imhoof-Blumer, Gardner, in Journ. of Hellenic Studies, 1885, 1886, 1887. All'edizione inglese di J. G. Frazer in 6 volumi, Londra 1897 (2a ed. 1913) con commento, traduzione ed ampia introduzione (tradotta in francese da G. Roth e pubblicata col titolo: Sur les traces de Pausanias, Parigi 1923), è stato aggiunto un volume di tavole da A. W. van Buren, Graecia Antiqua - Maps a. Plans, Londra 1930, così nel v volume della Loeb-Edition, 1931-5, curata da W. H. S. Jones e H. A. Ormerod sono aggiunte carte geografiche e figure. Mediocri e poco fedeli sono le traduzioni italiane di A. Nibby, Roma 1817-1818 e di S. Ciampi, Milano 1826-1836. Edizione dell'Arx Athenarum a Pausania descripta, di O. Jahn-A. Michaelis, 35 ed., Bonn 1901.
Bibl.: U. Wilamowitz, in Hermes, XII, 1877, p. 365 ss.; B. Schöll, ibid., XIII, 1879, p. 472; H. Brunn, Kleine Schriften, III, p. 210 ss.; P. Hirt, De Fontibus Pausaniae in Eliacis, Diss., Greifswald 1878; M. Bencker, D. Anteil d. Periegese a. d. Kunstschriftstellerei der Alten, Diss., Monaco 1890; A. Kalkmann, P. de Perieget, Berlino 1886; W. Gurlitt, Ueber P., Gratz 1890; R. Heberdey, Die Reisen d. P., Vienna 1894; H. v. Prott, in Ath. Mitt., XXIX, 1904, p. i ss.; H. Pomtov, ibid., XXXI, 1906, p. 439 ss.; C. Robert, P. als Schriftsteller, Berlino 1909; E. Petersen, in Rhein. Museum, LXIV, 1909, p. 481 ss.; A. Trendelenburg, Pausanias Hellenika, Program, Berlino 1911; G. Pasquali, in Hermes, XLVIII, 1913, p. 161 ss.; E. Müller, in Arch. Anz., XXXVII, 1922, p. 352; M. Segre, in Historia, I, 1927, p. 202 ss.; II, 1928, p. 217 ss.; A. Giusti, in Athenaeum, VI, 1928, p. 391; VII, 1929, p. 475 ss.; L. Deicke, Quaestiones Pausanianae, Gottinga 1931; E. Schwartz, in Deutsche Literatur Zeitung, 1936, 2075; E. Pernice, in Handbuch d. Archäologie, p. 248 ss.; O. Regenberg, in Pauly-Wissowa, VII, Suppl., 1946, c. 1008 ss., s. v.