PAVIA
(lat. Ticinum; Papia nei docc. medievali)
Città della Lombardia, capoluogo di provincia, posta lungo il corso del fiume Ticino.Al nome lat. di Ticinum, derivato da quello del fiume e attestato per tutta l'età romana, a partire dall'Alto Medioevo fu affiancato quello di Papia, di origine e significato discussi, che finì con il prevalere, dando origine all'attuale denominazione della città.
Probabilmente fondata come colonia nell'89 a.C., Ticinum divenne municipium nel 49 a.C. in seguito alla concessione della cittadinanza romana alla Gallia Cisalpina. Della città antica, P. conserva il tracciato viario a insulae quadrate di m 80 ca. di lato - disposte attorno agli assi di Strada Nuova (cardo maximus) e di corso Cavour-corso Mazzini (decumanus maximus) - e la sottostante rete fognaria, tuttora in uso, approntata in mattoni e dotata di cunicoli voltati. Gli scarsi ritrovamenti non restituiscono l'immagine della città romana quanto l'assetto urbano e la descrizione dei primi decenni del sec. 14° di Opicino de Canistris (Liber de laudibus civitatis Ticinensis), che ricorda le strade lastricate di pietra e la possente cinta muraria. In assenza di importanti resti romani di superficie, la presenza di edifici pubblici può essere rievocata grazie a colonne, capitelli e altri elementi architettonici utilizzati nel Medioevo come elementi di reimpiego.Alla caduta dell'Impero romano, P., come Verona, fu designata dagli Ostrogoti quale seconda capitale dopo Ravenna: la posizione geografica di P., importante nodo di comunicazioni terrestri e fluviali, incise sul ruolo storico della città medievale, capitale del regno longobardo, franco e italico. Mentre scarsissimi ritrovamenti si riferiscono all'età gota, l'incidenza dell'operato di Teodorico sul tessuto urbano della città tardoantica sussiste in riferimento al ricordo (Anonimo Valesiano, 12, 71) di lavori compiuti nel palatium, nell'anfiteatro, nelle terme, sulle mura; il solo segno tangibile resta l'epigrafe dedicatoria, incisa su di un pezzo romano di modesta fattura (Pavia, Civ. Mus.), dei lavori fatti eseguire tra il 528 e il 529 da Atalarico nell'anfiteatro.I primi edifici religiosi, sorti presso le aree cimiteriali extraurbane, soprattutto a N e a E, si documentano in relazione a edifici posteriori, a eccezione della chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio, a pianta cruciforme, ascritta al sec. 5°, ma fondata dal primo vescovo Siro nel terzo venticinquennio del sec. 4°, e ubicata nella zona cimiteriale nordoccidentale, nella quale furono ritrovate numerose iscrizioni datate tra il sec. 4° e il 6° (Panazza, 1955). Ancora nel settore nordoccidentale sorgeva la chiesa dei Ss. Nazario e Celso, eretta dal terzo vescovo Evenzio (381-397), da cui avrebbe poi preso nome. La questione della prima cattedrale, in passato identificata con la chiesa cimiteriale dei Ss. Gervasio e Protasio, è controversa, poiché l'esistenza di una cattedrale intramuranea, con articolazione a chiesa gemina e battistero aggregato, è attestata all'inizio del sec. 9° (Prelini, 1880, pp. 248, 256) e fu ripresa nella ristrutturazione di età romanica: la restituzione di una cattedrale intramuranea paleocristiana viene proposta sulla base dell'articolazione romanica della chiesa di S. Stefano, a cinque navate scandite da colonne, probabile ricalco di una chiesa del sec. 5°, e in relazione a un passo di Ennodio (Vita Epiphanii, 101-103) sulla distruzione di P. nel 476, nel quale si fa riferimento a due chiese contigue e intramuranee (utraeque ecclesiae), una delle quali è detta maior. Indizi per la continuità della produzione di materiale laterizio si ricavano dai tegoloni con il bollo del vescovo Crispino - Crispino I (451-466) o Crispino II (521 ca.-541 ca.) -, mentre alla fine del sec. 7° il vescovo Damiano (680-711) fece costruire l'episcopio e un impianto termale, probabilmente riservato ai chierici.Caduta nelle mani dei Longobardi dopo tre anni di assedio, dall'età di Rotari (636-652) P. fu capitale politica del regno. Soprattutto per il primo tempo dell'occupazione, la presenza dell'insediamento longobardo nel settore orientale della città, contiguo al palatium, viene riferita alla dislocazione della cattedrale ariana, esaugurata nel 680 con la dedicazione a s. Eusebio, al ricordo della faramania, conservato nel toponimo Foro Magno (Bullough, 1966, pp. 95-96), al rinvenimento in quest'area delle sepolture sicuramente identificabili come longobarde. Se le strutture pubbliche cadevano in disuso, elementi di continuità con la tradizione antica si identificano nella persistenza del reticolo viario - le poche interruzioni delle strade romane sembrano essere iniziative regie o favorite dal re - e del sistema fognario, e nella ripresa di forme antiche nelle chiese e nei mausolei di fondazione regia. Il numero degli edifici chiesastici, patrocinati dai re longobardi o dai loro familiari, crebbe durante il regno di Rotari e soprattutto in seguito alla conversione ufficiale alla fede cattolica durante il regno di Pertarito (661, 671-688; Hudson, 1987, p. 248 ss.); l'ubicazione di nuove fondazioni ecclesiastiche a ridosso delle mura suggerisce la sussistenza di vaste aree non edificate, di pertinenza del fisco regio longobardo. Come altre città dell'Italia settentrionale, anche la capitale del regno longobardo fu probabilmente interessata da fenomeni di ruralizzazione - pare confermarlo lo scavo dell'area del Broletto -, ma la città altomedievale sembra avere mantenuto l'estensione di quella romana con episodi di incremento entro zone marginali in relazione alla fondazione di monasteri, documentata in specie nel settore occidentale presso aree contigue alla cinta urbica, mentre l'insediamento di celle e xenodochi, di enti ecclesiastici e monasteri di altre città è attestato soprattutto dopo la caduta del regno longobardo. Entro un contesto urbano largamente lacunoso, soggetto a radicali, successive trasformazioni, le emergenze architettoniche superstiti hanno carattere inevitabilmente frammentario, ma la restituzione del tessuto architettonico e dell'apparato decorativo di età longobarda si affida comunque a testimonianze lapidee ed epigrafiche assai significative.Dopo la caduta di P. nelle mani di Carlo Magno nel 774, il suo ruolo di capitale politica e amministrativa si rinsaldò con la monarchia carolingia e nel periodo di instabilità politica seguito allo sfaldamento dell'impero; dal secondo quarto del sec. 9° l'accresciuta importanza della città è documentata dalla frequente proclamazione di capitolari e dalla convocazione di sinodi ecclesiastici.Tuttavia, mancano riferimenti diretti al palatium, una struttura polifunzionale di straordinaria rilevanza monumentale e di notevole espansione, vicina, secondo Paolo Diacono (Hist. Lang., V, 36; VI, 6), alla chiesa di S. Romano e alla porta Palacense, eretta o ristrutturata da re Pertarito incorporando un arco augurale romano alla conclusione orientale del decumano massimo; scarni indizi documentari, di incerta interpretazione, lasciano intendere che "il palazzo e il suo giardino occupassero l'estrema fila orientale di insulae da corso Garibaldi a sud e a nord fino a via Spallanzani" (Hudson, 1987, p. 245). Dopo l'incendio provocato dagli Ungari nel 924, che distrusse quarantaquattro chiese (Hudson, 1987, pp. 278-279), il palatium fu restaurato da re Ugo di Provenza (924-947) e da Lotario II (948-950). I soli indizi sulla sua articolazione si ricavano dalla breve descrizione (838 ca.) di Agnello di Ravenna (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 94), che cita una laubia con un mosaico raffigurante Teodorico a cavallo, e dai riferimenti alle strutture entro le quali erano redatti i diplomi imperiali e i placiti regi; l'assenza di tracce materiali si correla all'abbattimento, fino alle fondamenta, voluto dai pavesi nel 1024, perché nessun imperatore osasse risiedere all'interno della città. In quell'occasione fu rimossa dall'ingresso del palatium e trasferita sulla piazza del duomo la statua equestre romana (oggi scomparsa), in bronzo, di un imperatore a cavallo, detta del Regisole, trasferita a P. dall'Esarcato in età liutprandea o carolingia.Nonostante la scarsità dei riferimenti documentari, è stato ipotizzato un incremento della densità degli edifici tra la metà del sec. 9° e la metà dell'11° sulla base della diminuita estensione degli appezzamenti di terreni in vendita (Hudson, 1987, pp. 263-269). L'espansione economica della città altomedievale si documenta in relazione agli obblighi verso la Camera Regis (Honorantiae civitatis Papiae, ca. 1020; Brühl, Violante, 1983, pp. 16-27) dei mercanti di Venezia, Salerno, Gaeta e Amalfi e alla regolamentazione dei traffici con l'area francese e anglosassone. Anche se, a detta di Opicino de Canistris (Gianani, 19762, p. 182), un secondo muro fu ricostruito dal vescovo Giovanni - Giovanni II (m. nel 911) o Giovanni III (m. nel 924) -, si ipotizza che la cinta muraria sia stata ampliata tra il 1130 e il 1140.Nel corso del sec. 11° sembra che il potere politico risiedesse soprattutto nelle mani del conte palatino piuttosto che del vescovo e i primi segnali relativi alle istituzioni comunali si ravvisano nel riferimento ai cives maiores et minores del 1084 e nell'arbitrato consolare del 1112, mentre i diritti comunali furono concessi nel 1164 da Federico I Barbarossa (Vaccari, 1956; Settia, 1992, pp. 20-21). Una terza cerchia di mura con espansioni settentrionali e orientali, sostanzialmente ricalcata dal tracciato delle fortificazioni spagnole, fu eretta nel corso del sec. 12°, sicuramente prima del 1198, poiché in quell'anno un'iscrizione ora ai Civ. Mus. (Peroni, 1975, p. 85) ricorda, oltre all'edificazione della sede civica, anche l'approntamento di fortificazioni (fossato di Campo Camino e porta di S. Maria in Pertica). Le porte che si aprivano nel terzo muro erano a S la porta del ponte Nuovo e la porta Calcinara, a E la porta di S. Giustina e la porta Palacense, a O la porta Marica, a N le porte di S. Stefano, di S. Vito e di S. Maria in Pertica; di esse rimangono a S porta Calcinara, molto rimaneggiata, e porta del ponte Nuovo (od. Porta Nuova).Se è stata di recente avanzata l'ipotesi che la primitiva sede comunale si trovasse a N presso la porta del palatium (nell'od. piazza Petrarca), il nucleo più antico del palazzo Comunale, eretto negli anni 1197-1198, si identifica con l'ala meridionale del complesso del Broletto; l'articolazione a corte si configurò attraverso successivi accorpamenti dell'ala settentrionale e forse di quella orientale nel 1236 per cessione del vescovo Rodobaldo Cipolla (1230-1254; Vicini 1995, pp. 9-15), mentre a O il palazzo del vescovo sussisteva fino al sec. 16° in contiguità con le absidi della cattedrale. La residenza del conte palatino era forse posta a S di S. Maria del Popolo e la zecca si trovava a N-E del Broletto. Dagli inizi del sec. 14° si documenta l'utilizzo del campanile della cattedrale da parte del Comune, poiché Opicino de Canistris ricorda che alcuni uomini erano stipendiati dal Comune per il funzionamento delle campane (Gianani, 19762, p. 228).Nel corso del sec. 13° l'espansione urbana, connessa allo sviluppo delle attività commerciali e artigianali, non si documenta in relazione a significativi resti di edifici religiosi; i primi insediamenti degli Ordini mendicanti, di comunità di Umiliati e di ospitali si localizzano a ridosso delle mura urbiche, qualificando aree urbane in formazione.Verso N-E, presso la chiesa di S. Maria Annunciata, raffigurata nella sinopia trecentesca con la veduta della città di P. nel castello Visconteo, è stata identificata la prima sede dei Francescani, ricordata dal 1234 (Vicini, 1985, p. 7); anche se tale insediamento extramuraneo fu abbandonato definitivamente solo nel 1289, quando sopraggiunsero i Carmelitani, l'Ordine ebbe presto una sede interna, contigua alle mura, poiché nel 1270 il riferimento a un Sanctum Franciscum veterem (Mazzilli Savini, 1996, pp. 450-452) sottintende la costruzione di una nuova chiesa. Intorno al 1256 le Francescane si stanziarono nell'angolo sudoccidentale della città presso il monastero benedettino, ormai decaduto, di S. Agata in Monte; anche gli altri due più tardi conventi delle Clarisse si stabilirono presso porte urbiche: S. Chiara la Reale, fondato da Bianca di Savoia nel 1379-1380, si trovava di fronte alla chiesa dei Frati Minori, oltre l'antica porta di S. Vincenzo al Muro, e a S-E, presso la porta di S. Giustina, S. Clara occupava l'insediamento della prima fondazione cistercense femminile di S. Maria de Ortis, citata per la prima volta nel 1244 (Mazzilli Savini, 1993, p. 31). Verso S, un insediamento si era sviluppato già dal sec. 12°, oltre il ponte, presso l'ospedale della chiesa di S. Maria in Betlemme, mentre dopo il 1288 l'insediamento urbano dei Domenicani poté attestarsi sull'asse del Broletto, a S del palazzo del Popolo. Presso la chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro, accanto ai Canonici Regolari della Congregazione di Santa Croce di Mortara (prov. Pavia), si stabilirono nel 1327 gli Eremitani, che iniziarono la costruzione di un nuovo chiostro. Il contesto urbano e i ritmi della vita cittadina agli inizi del sec. 14° sono dettagliatamente restituiti da Opicino de Canistris, che dà conto anche delle consuetudini civili e religiose.Dopo il conseguimento della Signoria nel 1359 da parte di Galeazzo II Visconti, che nel 1361 fondava lo Studio generale, un'organica pianificazione urbanistica rivitalizzò il tracciato viario ad quadratum della città romana attraverso il raddrizzamento e ampliamento della strada Nuova (l'antico cardo maximus) nel 1375 e con la creazione, sull'antico foro di fronte al Broletto, di una piazza, avviata con l'acquisizione di una vasta area dei Beccaria e dilatata progressivamente ad assetto porticato, già presente nella casa di Nicolino de Diversi, maestro delle entrate ducali. Mentre a S, tra il 1350 e il 1354, veniva ricostruito il ponte Coperto da Giovanni da Ferrara e Jacopo da Cozzo, a N fu edificato tra il 1360 e il 1370 il castello Visconteo, collegato alla certosa dal parco, racchiuso entro un perimetro murato con profondi fossati. Quest'ultimo prendeva forma attraverso i provvedimenti del 1383 con la preclusione dell'attraversamento della Cittadella e il tracciato, lungo il lato esterno, di una strada per Milano, connessa a una porta occidentale (porta Nuova di Milano), e in tangenza orientale del Naviglio (Vicini, 1996). Con l'assunzione del titolo di vicario imperiale, Gian Galeazzo Visconti (1375-1402) affermava il ruolo prestigioso della Signoria viscontea con un grandioso programma politico e importanti interventi edilizi, tra cui il completamento del grande parco visconteo e la realizzazione, a partire dal 1399, della certosa.
Gli edifici altomedievali superstiti risultano esigui rispetto al novero ricordato dalle fonti; la testimonianza delle quarantaquattro chiese danneggiate dagli Ungari collima con i riferimenti documentari (Settia, 1987, pp. 89-90): le tracce esistenti o documentate si incidono con straordinaria evidenza entro il tracciato regolare dell'impianto romano o si correlano alle aree cimiteriali extraurbane in relazione alle prime testimonianze cultuali cristiane. È questo il caso della chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio, nella quale la scansione planimetrica cruciforme di ispirazione ambrosiana e la buona qualità dei paramenti murari - quello dell'arco trionfale forse connesso al restauro del vescovo Epifanio (466-497) - consentono di recuperare il segno della continuità con la tradizione architettonica paleocristiana. Mentre mancano precisi riferimenti storici e archeologici sulla prima fase della cattedrale e sulla prima chiesa intramuranea dei Ss. Cosma e Damiano, della cattedrale ariana - ricordata da Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 42) al tempo di Rotari - permane l'emiciclo absidale a semicerchio oltrepassato, esternamente poligonale, ritessuto nell'articolazione della cripta romanica insieme con alcuni capitelli, in origine forse pertinenti a brani dell'arredo liturgico longobardo; sulla base dell'impianto planimetrico e della tessitura muraria si può istituire un raffronto con la chiesa di S. Alessandro a Fara Gera d'Adda (prov. Bergamo), eretta tra la fine del 6° e gli inizi del 7° secolo. Per la costruzione della chiesa di S. Giovanni, corrispondente all'od. S. Giovanni Domnarum, forse eretta da Gundeberga intorno al 652, il racconto di Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 47) fa emergere il riferimento alla committenza materna della chiesa monzese, seguita nella titolazione e nelle larghe donazioni; poco si sa della funzione antica della chiesa, che ebbe dapprima quella sepolcrale in relazione alla sepoltura della stessa Gundeberga, e solo più tardi quella battesimale. Si è ipotizzato (Vicini, 1987, pp. 331-334) uno schema centrale in relazione alla funzionalità liturgica originaria o, sulla base di una tarda testimonianza iconografica, un impianto basilicale tripartito associato a una rotonda, vicino a quello di Saint-Pierre a Ginevra, ma nessun sicuro accertamento archeologico può essere riferito alla chiesa, al di là del ritrovamento di laterizi circolari (suspensurae), della presenza di murature antiche entro la cripta attuale e di una struttura circolare davanti alla facciata attuale della chiesa.In continuità con la tradizione tardoantica, la regina Rodelinda promosse intorno al 677 la costruzione del suo mausoleo, ricordato con il nome di S. Maria in Pertica dall'annessa area cimiteriale, nella quale sorse anche la cappella di S. Adriano, mausoleo di Ansprando (m. nel 712) e del figlio Liutprando (m. nel 744). Collegata a un portico con destinazione funeraria da cui provengono le epigrafi del duca franco Audoaldo e della regina Ragintruda (Pavia, Civ. Mus.), la chiesa, distrutta ma riproposta da uno schizzo di Leonardo con settore centrale ottagonale (Parigi, Inst. de France, B., c. 55v), viene documentata da più precise restituzioni settecentesche e ottocentesche: il nucleo centrale esagonale, ritmato da colonne e coperto da esile tamburo e alta cupola, si connetteva a un corridoio anulare decagonale a nicchie perimetrali. Nel monastero di S. Maria alle Cacce, eretto probabilmente a opera di Ragimperto, re nel 700, e di sua figlia Epifania, la modulazione parietale esterna ad arcate cieche su lesene e finestre a doppio rincasso sperimenta soluzioni strutturali attestate nel contesto bresciano e la scansione dell'impianto basilicale di ascendenza ravennate si salda con la conclusione orientale triabsidata, raccordata fin dall'origine alla cripta sottostante, nella rispondente terminazione orientale e nella giunzione al corridoio occidentale a nicchie.La tipologia dell'aula unica triabsidata è attestata a P. dall'importante ritrovamento dell'oratorio di S. Michele alla Pusterla, all'interno del monastero di S. Maria Teodote (od. Seminario Vescovile), oltre che dalle chiese di S. Felice e dalla prima fase di S. Maria Gualtieri, del tardo 10° secolo. Nell'oratorio di S. Michele la determinazione della zona presbiteriale si affida ai resti murari e alla localizzazione delle basi della recinzione, cui appartenevano i plutei in passato collegati al c.d. sarcofago di Teodote (Pavia, Civ. Mus.), mentre la restituzione dell'apparato decorativo si integra anche con il complemento di brani dell'intonaco e della decorazione ad affresco. La chiesa di S. Felice viene correlata al monastero femminile fondato da Desiderio (757-774), Adelchi e Ansa, dedicato al Salvatore e a tutti gli apostoli e quindi a S. Maria Regina, ricordato nel 760 e nel 771; le arcate cieche della parete meridionale presentano una morfologia assortita che segnala una prima fase costruttiva - in genere ascritta all'età carolingia, ma forse connessa a un assetto di età longobarda, simile a quello di S. Salvatore a Sirmione - e un secondo momento, corrispondente all'addizione occidentale, caratterizzata da monofore strombate. La cripta declina la giunzione tra il corridoio articolato a nicchie e la conclusione triabsidata orientale, sottolineata da setti murari a stretti passaggi, quasi a esplicitare un'embrionale organicità pur attraverso la connessione additiva dei vani.Intorno al Mille, l'unitaria aggregazione del vano della cripta si coglie a S. Giovanni Domnarum anche attraverso lo svolgimento incerto del sistema voltato e la giunzione, di sapore ancora altomedievale, del corridoio occidentale. L'articolazione parietale ad arcate cieche è documentata a P. anche nelle porzioni superstiti del diaframma settentrionale e del muro mediano della chiesa a cinque navate di S. Stefano, con proposte cronologiche incerte e differenziate per i due settori murari (secc. 8° e 10°), che sembrano identificare una fase precedente l'edificazione della torre Civica e la ricostruzione romanica della cattedrale gemina. Nei decenni intorno al Mille, il piccolo campanile di S. Michele prefigura l'articolazione della torre campanaria romanica nella progressione delle specchiature sottolineate da fasce decorative in cotto e intonaco conformato a incavi attorno alle monofore.Nei primi decenni del sec. 11°, l'esplicitazione del lessico architettonico romanico e la registrazione di requisiti strutturali innovativi si evidenziano nella costruzione della torre civica (crollata nel 1989), concepita come struttura autonoma di pianta quadrata, secondo una formulazione tipica delle torri campanarie padane. L'organizzazione parietale era scandita da cinque specchiature coronate da archetti binati nei due registri inferiori, corrispondenti a una prima fase costruttiva, probabilmente anteriore al campanile di Pomposa (prov. Ferrara), e da una sola specchiatura con una frangia di dieci archetti pensili nei piani successivi. Se la presenza dell'abside sul lato orientale, a documentare una valenza funzionale devozionale disattesa fin dall'origine, caratterizza altri campanili padani, la scala in spessore di muro può essere annoverata tra i requisiti strutturali più innovativi del contesto lombardo della prima metà dell'11° secolo. Ai decenni centrali del sec. 11° possono essere ascritte le chiese suburbane a tre navate di S. Pietro in Verzolo, S. Martino Siccomario e le chiese urbane di S. Marino e la chiesa del monastero cluniacense di S. Maiolo, certamente successiva alla cappella donata a Cluny nel 967 dal vescovo Gaidolfo. La progressiva, consapevole elaborazione del lessico architettonico romanico della cripta di S. Eusebio e della chiesa di S. Maria Gualtieri, consacrata nel 1096, si documenta attraverso la definizione di campate a sistema uniforme, la sezione complessa dei pilastri e l'estensione del sistema voltato a tutto l'edificio chiesastico.A S. Michele, in assenza di tracce materiali della chiesa delle incoronazioni del regnum Italiae - probabilmente solo Federico I Barbarossa fu incoronato nell'edificio attuale nel 1155 -, il ruolo prestigioso è documentato, oltre che dall'officiatura di un importante collegio di Canonici, dalla singolare fisionomia architettonica dell'edificio, dall'impiego di arenaria e calcare proveniente dalle colline dell'Oltrepò e dallo straordinario corredo scultoreo. Sull'impianto cruciforme della chiesa, l'applicazione del sistema alternato definiva in origine due grosse campate centrali con volte a crociera costolonate, duplicate anche nell'articolazione in alzato a configurare i matronei; l'innesto del transetto voltato a botte, quasi un autonomo corpo trasversale, si connette al nodo del tiburio e allo sviluppo del presbiterio e dell'abside. L'armonica articolazione interna si evidenzia nella matura e diversificata applicazione del sistema voltato, nella raffinata elaborazione delle membrature e nel sistema complesso delle scale in spessore di muro, quasi vitale espansione di una struttura unitariamente concatenata, ma anche strumento funzionale al transito e alla manutenzione dell'edificio. Quanto all'organizzazione parietale esterna, vincolata al tracciato viario, la stratificata modulazione plastica interessa tutta la compagine della facciata a capanna sia nell'articolazione dei portali strombati sia nella definizione delle fasce orizzontali e dei contrafforti.L'assetto planimetrico a sistema alternato di S. Michele era ripreso nella distrutta chiesa di S. Giovanni in Borgo con significative consonanze strutturali nella sezione dei sostegni, nello sviluppo dei matronei, nella tipologia delle volte costolonate rialzate in chiave e del tiburio, ma con la variante delle absidi laterali in spessore di muro e del transetto non emergente oltre le pareti laterali delle navate. Entro assetti planimetrici a sistema uniforme, l'espansione di corpi trasversali non emergenti si registra non solo in relazione al nodo del tiburio, ma anche in corrispondenza della prima campata occidentale a S. Pietro in Ciel d'Oro, consacrata nel 1132, e della prima e della quarta campata di S. Maria del Popolo, secondo cadenze che caratterizzano anche il duomo di Novara ed edifici dell'area mosano-renana. Il disegno di Opicino de Canistris (Roma, BAV, Pal. lat. 1993, c. 2v) ripropone l'unitaria compagine della cattedrale doppia pavese, ricostruita nei primi decenni del 12° secolo. La scansione omogenea delle campate e la sostanziale congruenza degli interassi erano declinate in relazione allo schema tripartito di S. Maria del Popolo, la chiesa invernale, e all'articolazione di cinque navate in S. Stefano, la chiesa estiva, forse vincolata a un precedente assetto paleocristiano: con incidenza meno risentita rispetto alle testimonianze milanesi, il fenomeno della rivitalizzazione di strutture paleocristiane e altomedievali si documenta a P. anche nelle chiese dei Ss. Gervasio e Protasio e di S. Eusebio.Nella seconda metà del sec. 12°, assetti tripartiti a sistema uniforme - chiese di S. Maria in Betlemme, S. Zeno, S. Mostiola, S. Teodoro, Ss. Primo e Feliciano - esplicitano la fedeltà a moduli costruttivi consolidati, quali l'introduzione di volte a crociera costolonate, di corpi trasversali non emergenti e di diaframmi occidentali a capanna, mentre si incrementa la sottile elaborazione del paramento laterizio e dell'apparato decorativo, impreziositi dall'inserzione di bacini ceramici policromi.Estremamente frammentarie sono le testimonianze dell'architettura civile databili entro l'arco cronologico fin qui considerato. Al di là di lacerti murari incisi da monofore o da portali, le torri rappresentano i segni più eloquenti di un'attività edilizia che connotava in misura incisiva il panorama architettonico della P. medievale. Lo stato degli studi assai lacunoso, non solo per l'ambito pavese, ma in generale per tutta l'Italia padana, va riferito anche alla scarsità di sicuri riferimenti documentari: le indagini storiografiche si sono indirizzate negli ultimi anni sul problema dell'origine del modello della torre urbana, tradizionalmente connessa a tipologie sviluppate nell'ambito dei castelli del contado e al fenomeno dell'inurbamento della nobiltà rurale, sicuramente correlabili all'origine, alla funzione, alla contestualità urbana e sociale, cui le turres laicorum erano in origine legate.Se nei primi decenni del sec. 13° la persistenza di moduli tardoromanici ma anche la capacità di sperimentare varianti e risoluzioni diversificate si registrano nella chiesa vallombrosana di S. Lanfranco, a navata unica e transetto emergente, e nella chiesa di S. Lazzaro nei pressi di P., ad aula unica absidata, la sperimentazione di moduli gotici si evidenzia nell'ala meridionale del Broletto, una struttura rettangolare articolata da un portico a due navate con piloni circolari in pietra e capitelli cubici e da una sovrastante aula illuminata da trifore entro arcate, secondo moduli costruttivi che sarebbero stati propri dei broletti padani. Un nuovo corpo di fabbrica della sede comunale fu eretto sul lato opposto verso N ed è restituito dalla sinopia trecentesca nel castello Visconteo nella scansione del portico su pilastri quadrangolari e di bifore al primo piano; acquisizioni di terreni vescovili consentirono il collegamento tra i due corpi di fabbrica esistenti attraverso una nuova ala orientale e determinarono lo svolgimento dell'edificio su tre lati del cortile retrostante la cattedrale, occupato dal palazzo episcopale soltanto in corrispondenza del settore occidentale. Tra le scarse testimonianze dell'architettura monastica duecentesca, la parete orientale del presbiterio della chiesa cistercense femminile di S. Maria de Ortis (od. S. Clara) risulta connessa alla tradizione tardoromanica nella modulazione del contrafforte con cornici multiple a dente di sega, ma anche a moduli compositivi e costruttivi cistercensi nella disposizione triangolare delle aperture nel coro e nella formulazione del contrafforte avvolgente.La piena ed esplicita manifestazione del linguaggio gotico si evidenzia in S. Francesco, alla cui costruzione si riferiscono le donazioni del 1267, 1277 e 1286, mentre per il laborerium del 1239 rimane il dubbio di una possibile connessione con la primitiva fondazione extraurbana (Mazzilli Savini, 1996, p. 451). In conformità con le normative dell'Ordine, l'impianto cruciforme della chiesa aggrega al settore occidentale, ritmato da piloni circolari e coperto a tetto, il capocroce, nel quale la salda giunzione delle campate quadrate è sottolineata dall'omogenea copertura a volte archiacute, innervate da costoloni torici; la connessione tra le due parti è sottolineata dalla dislocazione della prima campata voltata entro il corpo longitudinale. Si tratta di un'architettura "'figurativa', che cioè sente lo spazio quale rappresentazione, quale concreta ('attuale') figurazione drammatica", mentre all'esterno moduli decorativi della tradizione locale sottolineano "la cristallina scansione lineare delle superfici, in ritmo ascendente" (Romanini, 1964, pp. 101-102).Nella chiesa domenicana di S. Tommaso - il cantiere poteva essere aperto intorno al terzo decennio del sec. 14°, ma i documenti relativi alle fasi costruttive si riferiscono soprattutto ai decenni tra il 1388 e il 1478 - venne ripreso l'assetto della chiesa di S. Francesco nella formulazione del capocroce voltato a cinque campate e nell'innesto sul corpo longitudinale tripartito, coperto al centro da un soffitto piano e da volte a crociera laterali, mentre all'esterno si evidenzia l'utilizzo di moduli decorativi tardoquattrocenteschi.Nel castello Visconteo, la cui costruzione fu avviata da Galeazzo II nel 1361, la formulazione a dimora signorile è esplicitata dalla progettazione modulare ad quadratum, attribuita a Bernardo da Venezia, dalla limpida scansione parietale esterna, illuminata da una doppia sequenza di bifore, e all'interno dalla concatenazione dei loggiati: quello meridionale mantiene l'originaria scansione a quadrifore, cui furono sovrapposte in corrispondenza del lato orientale monofore polilobate, ascritte a un architetto-scultore vicino a Jacobello dalle Masegne.In seguito alla demolizione della loro primitiva sede voluta da Galeazzo II Visconti intorno al 1364, i Carmelitani promossero la costruzione della chiesa di S. Maria del Carmine, nella quale la successione delle campate centrali, duplicate lateralmente nelle navate minori e cappelle, si salda al transetto non emergente e al coro; anche l'espansione del sistema voltato è segnata da un lucido tracciato ad quadratum attribuito a Bernardo da Venezia, "nella rinnovata razionalità lucida di cui appare nutrita la sua saldissima ritmica lineare" (Romanini, 1964, p. 424), che traspare, pur con significative varianti, nel progetto della certosa.
Tra le scarsissime testimonianze ascrivibili al sec. 6°, i due plutei provenienti da S. Giovanni in Borgo e da S. Pietro in Ciel d'Oro, oggi ai Civ. Mus., presentano strette affinità con manufatti di provenienza ravennate o orientale nella declinazione semplificata e decorativa del clipeo centrale lemniscato con il chrismon. Agli albori del sec. 7° un cambiamento radicale del linguaggio figurativo e la rottura, almeno temporanea ma di portata rivoluzionaria, con la tradizione tardoantica si evidenziano nei capitelli reimpiegati nella cripta romanica di S. Eusebio, che risultano comunque estremamente problematici nel contesto della scultura altomedievale longobarda e nel più vasto contesto europeo. Nei capitelli a foglie lisce, ma soprattutto in quelli a incavi triangolari alternati in doppio ordine, la declinazione di cadenze geometrizzanti, forse esaltate da risalti cromatici ora perduti, sembra ispirata alle risoluzioni espressive di una tecnica guida come l'oreficeria alveolata.Il ruolo preminente della città capitale e il risveglio culturale che caratterizzano l'ambito della corte da Cuniperto (688-700) a Liutprando spiegano il condensarsi della produzione plastica di alto livello qualitativo nei decenni che intercorrono tra la fine del 7° e la metà dell'8° secolo. Per la committenza liutprandea, le fonti restituiscono, quale riferimento normativo, intenti di recupero classicheggiante, esplicitati per il palazzo di Corteolona (nei pressi di P.) dagli scarsi resti del complemento decorativo - si può citare la testa di agnellino ai Civ. Mus. -, dall'arrivo, ricordato dalle iscrizioni, di marmi preziosi da Roma per la costruzione delle terme, in realtà poi utilizzati per la chiesa palatina di S. Anastasio, poco fuori Pavia. Il riferimento all'Antico è assunto in piena consapevolezza e si matura in forme di vitale rinnovamento in relazione a orientamenti culturali già esperiti nel corso del 7° secolo. Forme zoomorfe e fitomorfe, mutuate dalla tradizione antica e per lo più depurate da sedimenti naturalistici, sono proposte in varianti di formulazione geometrizzante: per la tematica decorativa, ma anche per la stesura lineare e calibrata, si ravvisa un'ispirazione classicheggiante, pur vincolata da una sensibilità astrattizzante, convenzionalmente denominata 'rinascenza liutprandea'. Tra le testimonianze più significative della plastica di età liutprandea si annoverano le lastre con i pavoni e i mostri alati, oggi ai Civ. Mus., provenienti dal monastero della Pusterla e identificate, in seguito alla restituzione della struttura dell'oratorio di S. Michele alla Pusterla (Peroni, 1972), con i plutei della recinzione presbiteriale; la calibrata struttura compositiva delle lastre viene restituita dal percorso duttile della trama lineare e da unitari percorsi cordonati, rispetto ai quali il fondo risulta condizionamento attivo, secondo cadenze vicine alla lastra di S. Cumiano (Bobbio, Mus. dell'Abbazia di S. Colombano), ai frammenti bresciani e cividalesi: viene così definito "un mondo figurativo inedito, basato sull'estrema sensibilità espressiva di una linea duttile, di straordinario potere astrattivo" (Romanini, 1969, p. 254).Al declino, nel corso dell'Alto Medioevo, della produzione di sarcofagi in pietra - tra il sec. 4° e il 10° si conservano a P. solo il sarcofago del protovescovo Siro (Ss. Gervasio e Protasio) e il coperchio del c.d. sarcofago di Adelaide (m. nel 931) ai Civ. Mus. - fanno riscontro significative attestazioni di lapidi funerarie che contrassegnavano sepolture probabilmente terragne entro strutture architettoniche di fondazione regia, sulle quali non si hanno informazioni, come la cappella di S. Adriano presso S. Maria in Pertica o il sacello di S. Salvatore. Il legame con l'ornamentazione plastica coeva si evidenzia nell'armonica connessione tra l'iscrizione e la fascia decorativa e nella modulazione plasticamente contenuta e assimilata alla fluenza continua del tralcio vitineo: si possono ricordare le lastre di Cunincperga, Ragintruda, Audoaldo, ma soprattutto l'altissima qualità delle lastre provenienti da S. Agata in Monte (Pavia, Civ. Mus.). Nei capitelli, a lisce foglie angolari, croce centrale e volute piegate a ricciolo, provenienti dalla distrutta chiesa di S. Giovanni in Borgo, oggi ai Civ. Mus., e in quelli reimpiegati nell'ex monastero di S. Cristina a Santa Cristina e Bissone, nei pressi di P., la suggestione del modulo antico è ripensata in termini lineari e astrattizzanti, correlabili a esperienze del sec. 7°, ma gli elementi costitutivi sono realizzati attraverso una cordonatura morbida, che caratterizza, con più evidenti spunti plastici, le lastre tombali e i plutei della prima metà dell'8° secolo.Per la scultura in pietra, il trapasso verso l'età carolingia sembra scorrere nel segno della continuità di moduli stilistici e procedimenti esecutivi, segnati da tematiche di tenore più astrattizzante e da una modulazione più tagliente, mentre nel corso del sec. 9° temi 'anorganici' sono prevalentemente giocati entro la maglia dell'intreccio nastriforme o sulla trama di cerchi annodati o intersecati a nastri di andamento diagonale. Le tre arche nella cripta della chiesa di S. Felice, probabilmente connesse all'arrivo di reliquie orientali donate da Ottone II (973-983) al monastero in cui visse e morì la figlia Felicita, sono eccezionali testimonianze della tipologia della mensa-altare e della cassa delle reliquie, mentre l'ornamentazione a incavi geometrizzanti si lega forse alla diffusione attardata della tecnica a intarsio in area bizantina.Se il passaggio tra sec. 10° e 11° è segnato dall'ornamentazione di sapore altomedievale di alcuni capitelli e dagli elementi decorativi in cotto del campanile di S. Michele, durante il sec. 11° soltanto alcuni capitelli, di incerta datazione, sono stati connessi alla definizione del dettaglio architettonico, che anche a P. è affidata all'utilizzo di materiale laterizio. Se l'impiego della pietra per l'elaborazione delle membrature architettoniche si documenta dalla fine del sec. 11°, la prima definizione del linguaggio romanico si identifica tradizionalmente in un gruppo di capitelli fogliati da S. Maria del Popolo, oggi ai Civ. Mus., sui quali pesa tuttavia il dubbio di una formulazione arcaicizzante, e nei capitelli di S. Pietro in Ciel d'Oro con animali e poche figure umane, paratatticamente disposte su due registri e individuate da un compatto plasticismo. La data di consacrazione del 1132 di S. Pietro in Ciel d'Oro viene riferita alla facciata e al portale, nei quali si riconoscono elementi tipici delle facciate pavesi del sec. 12°: pur con varianti legate alla contiguità urbana, l'intavolatura delle facciate pavesi del sec. 12° si esplicita nella formulazione a capanna, nell'associazione tra l'intelaiatura architettonica in pietra, la compagine muraria in mattoni e l'inserzione di bacini ceramici policromi, nella partizione orizzontale mediana e nella profonda strombatura dei portali, compresa entro un coronamento cuspidato in S. Pietro in Ciel d'Oro e in S. Giovanni in Borgo o entro la sequenza di sette arcate cieche in S. Stefano, forse per la prevista aggregazione di un protiro.Uno spazio d'ambito contratto e il ruolo storico della basilica possono parzialmente motivare la straordinaria declinazione della facciata di S. Michele e il suo plasticismo, traspirante anche nella vitale connessione con il piano di fondo, "quasi fosse uno spartito fitto di pentagrammi, alla loro volta variati da gruppi di capricciose legature" (Peroni, 1980, p. 124). All'esterno le figure di angeli e vescovi nelle lunette e sulla sommità dei portali risultano evidenti rispetto alla prevalente commistione di figure umane e bestiali, di elementi vegetali, di uomini al lavoro, cavalieri, cacciatori e viandanti; all'interno della chiesa il tema del peccato e della redenzione è presente soprattutto verso E e talvolta in posizione giustapposta, come nel caso dei capitelli con il Sacrificio di Caino e Abele e la Morte del giusto. Una datazione tra il 1120 e il 1130 è stata proposta sulla base dello stretto legame con l'architettura e di un linguaggio figurativo connotato dalla "maturazione della tradizione lombarda di radice comascomilanese nella direzione dell'eleganza narrativa e della sofisticata e calibrata retorica del panneggiare che sono proprie di Nicolò e della sua cerchia" (Peroni, 1996, p. 93).Nelle sculture di S. Giovanni in Borgo, oggi ai Civ. Mus., un altissimo livello qualitativo caratterizza sia la calibrata e raffinata modulazione plastica dei capitelli attribuiti al Maestro dei Draghi sia la vivace propensione narrativa del Maestro degli Arieti. La struttura dei portali di S. Michele veniva ripresa in S. Stefano, con la variante dell'angelo con le colombe e l'albero della vita nella lunetta del portale sinistro, e nel portale di S. Maria del Popolo (Pavia, Civ. Mus.). Se in S. Maria in Betlemme segnali di continuità si evidenziano nella facciata e i moduli decorativi zoomorfi o vegetali dei capitelli di una tenuta plastica semplificata e irrigidita, durante la seconda metà del sec. 12° l'intelaiatura dei portali diventa più scarna e tagliente e la decorazione plastica non sottolinea le fasce capitellari, prevalentemente connotate dalla formulazione cubica.Tra le scarse testimonianze ascrivibili al sec. 13° si annoverano i capitelli a crochets dell'ala meridionale del Broletto e di aperture finestrate di edifici civili conservati in modo frammentario, mentre nel corso del sec. 14° la cultura pavese si aggiorna sulle novità introdotte a Milano da Giovanni di Balduccio intorno alla metà del secolo. Gli Eremitani intesero legittimare la loro presenza in S. Pietro in Ciel d'Oro promuovendo importanti lavori nel convento e fecero approntare tra il 1362 e il 1382 un'arca marmorea per le reliquie di s. Agostino, conclusa allo scadere del secolo. Nell'impianto architettonico, mutuato dall'arca di S. Pietro Martire in S. Eustorgio a Milano, la zona inferiore è scandita dalle figure delle Virtù, degli apostoli e dei santi, caratterizzati da un panneggio irrigidito e da una certa durezza dei tratti fisionomici; anche nei registri superiori la connessione con la cultura toscana si accompagna a una più salda e sommaria delineazione delle forme di marca campionese. All'ambito della cultura campionese, e in particolare ai modi di Bonino da Campione, sono legate le statue, stilisticamente omogenee, di S. Biagio, ora nella chiesa dei Ss. Primo e Feliciano, S. Teodoro nella chiesa omonima, S. Ambrogio nel palazzo Vescovile, S. Agostino (Pavia, Mus. di Archeologia del Dip. di Scienze dell'Antichità dell'Univ.) e il paliotto d'altare di S. Michele del 1383, sulla cui fronte sono raffigurati entro riquadri S. Ennodio, S. Eucladio e S. Michele al centro con il committente, il canonico pavese Giovanni di Sangregorio.
Il contesto pavese conserva scarsissime testimonianze della pittura murale altomedievale, e dai frammenti superstiti non è consentito dedurre concreti suggerimenti per la restituzione del ricco apparato decorativo che scarni indizi documentari segnalano in relazione a chiese ed edifici pubblici altomedievali. La stessa imponenza delle sedimentazioni storiche entro il tessuto urbano della città motiva anche per il sec. 11° l'assenza di cicli di affreschi, riflessi di una produzione figurativa che si deve presumere intensa in relazione alla ripresa dell'attività costruttiva che caratterizzò i decenni successivi al Mille.Agli inizi del sec. 12° l'articolazione strutturale romanica della chiesa di S. Maria Gualtieri si collega a una straordinaria integrazione pittorica, segnale di una stratificata scansione spaziale oltre che di importanti messaggi escatologici e salvifici. Nel semicatino dell'abside meridionale troneggia il Cristo cui si inchinano s. Michele e s. Raffaele e sull'arcata trionfale due angeli ad ali spiegate erano probabilmente connessi a un clipeo centrale. Sulle prime due volte orientali della navata centrale, nelle quali gli spigoli sono incisi da un cordone a foglie e da fasce rettilinee e la chiave è sottolineata da un clipeo, sono raffigurati i flagelli che si abbattono sull'umanità al suono delle sette trombe. Sono chiaramente leggibili l'angelo con l'incensiere (Ap. 8, 3-4) del clipeo orientale e, nella seconda volta, entro il clipeo l'aquila (Ap. 8, 12) che annuncia le sciagure legate al suono delle trombe degli ultimi tre angeli, sulla vela orientale la salita delle locuste dal pozzo dell'abisso (Ap. 9, 1-12), su quella opposta i cavalieri destinati a uccidere un terzo dell'umanità (Ap. 9, 13-19). L'illustrazione di Ap. 8, prende avvio dall'immagine dell'angelo di fronte all'altare, direttamente correlata alla reale collocazione dell'altare della chiesa, come nel battistero del duomo di Novara e a Saint-Hilaire-le-Grand di Poitiers. È improntata a Novara la concentrazione tematica degli angeli tubicini, che in altri cicli coevi sono selezionati entro programmi iconografici che vedono dipanarsi episodi tratti da altri capitoli dell'Apocalisse. A P. la scansione unitaria del modulo compositivo, derivata da Novara, viene dinamicizzata, secondo un andamento chiastico, dalla conformazione stessa delle vele ed è arricchita da spunti narrativi correlabili ad altri cicli, come quello del portico di Saint-Savin-sur-Gartempe.La decorazione pittorica nella cripta della chiesa di S. Giovanni Domnarum sottolinea la scansione del sistema voltato attraverso rigide marginature lineari, celebrando santi della chiesa pavese. Attorno a clipei con Cristo e angeli, si identificano S. Gregorio e S. Siro, S. Evenzio e S. Teofilo e due santi guerrieri, mentre in una nicchia del lato sud è raffigurato l'episodio in cui Giovanni Battista addita Gesù agli apostoli. L'intelaiatura compositiva delle figure frontali viene irrigidita dalla definizione ispessita dei contorni, documentando intorno alla metà del sec. 12° o poco oltre la ripresa, senza significative varianti, di modelli prodotti in ambito lombardo; alcune figure meno integrate da rifacimenti, come quella di S. Evenzio, palesano tuttavia una trama cromatica più diradata rispetto alla generale modulazione pittorica rigida e corsiva. La declinazione più vivace della scena del Battista ricorda il frammento con il combattimento di due soldati armati di spada del palazzo episcopale di Novara, datato alla metà del sec. 12°, che risulta tuttavia caratterizzato da una grafia più esperta e tagliente.Nell'edicola aperta entro la testata del transetto meridionale di S. Michele, le membrature architettoniche sono evidenziate dalla decorazione ad affresco; sulla volta sono raffigurati busti di profeti e angeli, sulla parete di fondo la Dormitio Virginis. Il tema non è frequentemente rappresentato nella pittura romanica occidentale e trova un sicuro precedente lombardo nella cripta di S. Pietro al Monte a Civate (prov. Lecco), con varianti relative al dimensionamento accresciuto dell'animula della Vergine, nella sua collocazione entro un sudario retto da angeli e nella connessione con Cristo che scende dal cielo; la scansione calibrata e intensa del racconto e il fluire lineare del panneggio evidenziano il ricordo di affreschi lombardi degli inizi del sec. 12°: si pensi a quelli sulla parete meridionale dell'oratorio dei Ss. Salvatore e Ilario a Casorezzo (prov. Milano) o alle miniature di una Bibbia della metà del sec. 12° (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.48 inf.).La presenza di preziosi tessellati policromi all'interno delle chiese romaniche è ricordata da Opicino de Canistris (Gianani, 19762, p. 216), e S. Michele conserva il mosaico pavimentale del presbiterio con la sequenza dell'Anno e dei Mesi, il Labirinto circolare con il combattimento di Teseo e il minotauro al centro, la lotta di Davide e Golia a sinistra e a destra un campo di acque marine. Un complesso programma iconografico, che connette il mito antico nell'interpretazione cristiana all'exemplum biblico e al tema cosmologico dei Mesi, viene declinato con eleganti risoluzioni formali e con l'utilizzo di tessere cromaticamente differenziate, alcune tratte da porfidi antichi. Nella grande composizione a fasce concentriche proveniente dalla navata centrale di S. Maria del Popolo, le raffigurazioni della Fides e della Discordia, ispirate alla Psychomachia di Prudenzio, del Lupus e del Corvus sono connesse a un repertorio ornamentale di straordinaria ricchezza decorativa e risultano vicine al mosaico del Camposanto della cattedrale di Cremona, mentre nelle Storie di s. Eustachio dalla navata sud, prossime ai mosaici della chiesa di S. Colombano di Bobbio, il partito lineare risentito risulta prevalente rispetto a graduazioni cromatiche contenute (Pavia, Civ. Mus.).Durante la seconda metà del sec. 12° si intensificarono gli echi della cultura bizantineggiante; negli affreschi che decorano le volte della cripta di S. Eusebio, con la Vergine con il Bambino al centro, simboli degli evangelisti e busti di santi, si evidenziano il procedimento di vistosa semplificazione degli accostamenti cromatici e la sottolineatura dell'ordito lineare del panneggio attraverso tratti ispessiti delle ombre.Nel corso del sec. 13°, le testimonianze superstiti configurano un panorama frammentario, che elude una precisa definizione della sostanza stilistica dei singoli episodi e della loro cronologia, al di là dell'appartenenza a una koinè espressiva polarizzata tra la fedeltà alla tradizione romanica e l'attrazione di morfemi bizantini rivitalizzati attraverso le redazioni veneziane. Si tratta di affreschi di carattere votivo - in genere la Vergine con il Bambino o figure di santi - isolati o accostati paratatticamente, collocati su piani bidimensionali ed entro fasce decorative declinate come semplici marginature rettilinee. Modalità linguistiche vicine agli affreschi di S. Giovanni Domnarum evidenzia la Madonna con il Bambino, proveniente da S. Maria del Popolo, oggi ai Civ. Mus., nella quale il legame con la pittura del sec. 12° è suggerito dalla corposa partitura cromatica e luministica, ben conservata in corrispondenza delle due figure genuflesse dei donatori; una datazione verso il sec. 13° si ricava dall'iconografia della Vergine che allatta, quasi un precoce e goffo precedente di uno schema che nel corso del Duecento impone una più affettuosa interazione tra la Madonna e il Bambino. La ripresa di moduli bizantini mediati attraverso Venezia caratterizza la Madonna con il Bambino sul primo pilone destro di S. Teodoro. Nelle due figure di S. Pietro e S. Paolo, nella stessa chiesa, l'innesto di formule bizantineggianti su di un sostrato linguistico locale si concretizza attraverso il tracciato irrigidito e ispessito dei risalti luministici e delle ombre. Un linguaggio ancorato ad astratti schematismi di lontana derivazione bizantina, già sperimentati nel secolo precedente, è evidenziato dagli affreschi posti nell'abside della chiesa di S. Lazzaro con il Cristo tra i simboli degli evangelisti e gli apostoli, nei quali morfemi e formule semplificate sono accordati all'impianto allungato delle figure e alla tessitura fitta del panneggio, proposto in sequenze rettilinee. Si segnala invece per l'alto livello qualitativo una figura acefala sulla fronte della cripta di S. Teodoro, una delle più raffinate riflessioni su modelli marciani per il rigore cristallino del panneggio costruito attraverso incastri triangolari.Tra il tardo sec. 13° e la prima metà del Trecento sono scarsissime le testimonianze pittoriche e tra di esse si possono ricordare una S. Agnese nel lato sud del presbiterio di S. Michele, in cui si riconosce un riflesso del Roman de Tristan (Parigi, BN, fr. 755) proveniente dalla biblioteca del castello di P., e l'affresco con la Madonna con il Bambino, due offerenti e due santi sulla parete del transetto nord della stessa chiesa, in cui si riflettono temi della pittura lombarda tra Lodi (Maestro di S. Bassiano a Lodi Vecchio) e Milano. Nell'ultimo quarto del sec. 14°, anche se non si conservano a P. significativi cicli di affreschi, la Madonna con il Bambino, oggi ai Civ. Mus., e la Presentazione al Tempio, già nella cappella Beccaria, ora sulla parete meridionale del presbiterio di S. Francesco, rivelano aggiornamenti sulle novità lombarde, dagli affreschi di Mocchirolo (Milano, Pinacoteca di Brera) a quelli di S. Maria Maggiore a Bergamo.Negli anni del ducato di Galeazzo II (1359-1378) contraddittori risultano gli indizi documentari, poiché, se la presenza a P. di Andrino d'Edesia attestava un alto livello culturale e nel 1365 giungeva a P. da Bologna Andrea de' Bartoli con alcuni compagni, nel 1366 Galeazzo chiedeva al duca di Mantova l'invio di pittori per la decorazione della sontuosa dimora ducale; si deve inoltre ricordare che nel 1380 il duca Gian Galeazzo, che nel 1396 avrebbe avviato la costruzione della certosa, chiedeva ancora al duca di Mantova di inviare pittori a Pavia (Codice diplomatico, 1937-1966, I, nrr. 6, 14). Tra le testimonianze frammentarie della prima campagna decorativa del castello si possono annoverare nel porticato la già citata sinopia con una veduta della città e alcune frammentarie raffigurazioni di armati a cavallo, nella cappella un busto di Cristo benedicente entro clipeo e una raffigurazione della Geometria (o forse della Prudenza) vicini ai modi di Andrea de' Bartoli, mentre sui piedritti dell'arcata che bipartisce la cappella i Ss. Stefano e Leonardo e l'affresco con S. Papa adorato da un devoto non sono ancora permeati della cultura internazionale presente nella miniatura lombarda dal 1365. Una svolta in questa direzione potrebbe essersi verificata nel monastero di S. Pietro in Ciel d'Oro in relazione alla presenza di Michelino da Besozzo nel 1388 e di Jean d'Artois; il Cristo nel sepolcro e la Madonna con il Bambino, in origine affrescati presso la cappella del castello e oggi ai Civ. Mus., sono stilisticamente vicini ai modi di Michelino da Besozzo, attivo tra il 1402 e il 1404. Tra i lavori eseguiti al castello verso la fine del Trecento rimane il ricordo di una camera detta degli specchi decorata con vetri graffiti e dipinti, una tecnica che si documenta per altaroli e reliquiari, ma frammenti di affreschi 'a tappezzeria' e motivi 'a compassi' possono essere ascritti alla stessa fase decorativa. Nelle figure di damigelle nella prima sala della pinacoteca del castello (Pavia, Civ. Mus.) si evidenziano echi delle figure femminili del taccuino di disegni di Giovannino de Grassi, presente a P. nel 1392 e attivo più tardi nella progettazione della certosa (Bergamo, Bibl. Civ. A. Mai, Cassaf. 1.21, già Delta 7-14), ma anche i modi di Gentile da Fabriano, di cui si conserva nei Civ. Mus. una delle prime opere, la tavoletta con la Madonna con il Bambino, s. Chiara e s. Francesco.Alla morte di Gian Galeazzo (1402), l'incertezza della situazione politica determinò l'allontanamento di molti artisti fino all'assunzione del titolo ducale da parte di Filippo Maria Visconti (1412-1447). Entro un panorama pittorico abbastanza differenziato si segnalano la Madonna con il Bambino e santi (Raleigh, North Carolina Mus. of Art, Kress Coll.) di un pittore vicino a Giovannino, il Maestro dell'Ancona Barbarava, cui sono stati ascritti tre affreschi votivi nella parete ovest del transetto destro di S. Maria del Carmine, mentre nel transetto sinistro della stessa chiesa i Ss. Cristoforo e Alberto carmelitano con committenti rivelano ancora, tra il quarto e il quinto decennio del Quattrocento, la connessione con Michelino da Besozzo, perdurante anche negli affreschi della chiesa di Silvano Pietra, non lontano da Voghera, e nell'oratorio di S. Giacomo della Cerreta presso Belgioioso (prov. Pavia).
Bibl.:
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