Pavia
Pavia, già preziosa alleata dell'Impero nel periodo delle lotte comunali della seconda metà del sec. XII, dimostrò ancora la sua fedeltà alla dinastia sveva quando il 22 luglio 1212 accolse calorosamente, riconoscendo legittima la sua aspirazione alla dignità imperiale, il giovanissimo Federico II; in quell'occasione il puer Apuliae, proveniente da Genova dopo essere passato per Asti e il territorio del Monferrato, era giunto in città, nel tentativo di sfuggire ai milanesi e ai piacentini favorevoli all'imperatore in carica Ottone IV. La breve permanenza di Federico II, che si protrasse sino al 28 luglio, rappresentò l'inizio di un rapporto di fedeltà e di alleanza duraturo, rinsaldatosi sempre di più nel tempo e rinvigorito nei continui contrasti tra i comuni dell'Italia settentrionale e l'Impero, nel corso dei quali Pavia sperimentò una politica di parte imperiale che la vide sovente isolata, o con alleati di scarso rilievo, rispetto agli altri comuni. La stessa sera del 28 luglio un reparto in armi di pavesi accompagnò il futuro imperatore in un'avventurosa cavalcata verso il fiume Lambro, riuscendo fortunosamente a sfuggire a un agguato di milanesi e piacentini; gli alleati cremonesi scortarono poi Federico II, il quale da Cremona si diresse verso Mantova e Verona per raggiungere la Germania alla conquista della corona imperiale (Settia, 1995, p. 145).
Pavia, città capitale del Regno nell'Alto Medioevo, anche nel periodo successivo si era sempre trovata in stretta dimestichezza con il potere regio e aveva stabilito un saldo rapporto di alleanza con i sovrani di Svevia grazie al noto privilegio di Federico I datato 8 agosto 1164, che confermava al comune pavese la giurisdizione su diverse località e circoscrizioni ecclesiastiche, ripartite in zone geografiche tra loro omogenee, precisamente la Lomellina, le terre tra Pavia e Milano (Campanea Papiensis) e l'Oltrepò, mutando una situazione di diritto ma non di fatto; da tempo infatti esso esercitava "un sicuro dominio" sulle terre elencate. Può meravigliare che nel diploma non si parli esplicitamente di un "territorium Papie" strutturato e neppure di confini precisi che lo definiscano, mentre in altri casi, riferibili a città diverse, si riscontra l'espressione "comitatus et districtus"; tale omissione potrebbe indicare in realtà la tacita concessione a espandersi ulteriormente in ogni direzione (Settia, 1992, p. 128). È riconosciuto al comune l'esercizio della potestà legislativa in quanto Federico I, oltre al diritto di autogoverno consolare, condizionato dal giuramento di fedeltà all'imperatore, e accanto ai poteri impositivi e a quelli giurisdizionali, alcuni dei quali spettanti precedentemente ai conti palatini, riconosce ai pavesi "omnes suos bonos usus et bonas consuetudines".
Il privilegio di Enrico VI del 7 dicembre 1191 ripropone in linea di massima il contenuto di quello del 1164, anche se presenta interessanti e significative novità: precisa infatti che i consoli eserciteranno il potere dentro e fuori la città, in tutto il vescovado e comitato di Pavia, con l'ulteriore specificazione "et omnia alia loca terre Papie"; non solo, per la prima volta rende un esplicito riferimento ai poteri normativi esercitati dal comune di Pavia, conferendo ai pavesi tutti gli usi e le consuetudini che essi erano soliti avere al tempo di Federico I e che i rettori della città avevano statuito in accordo con il consiglio e non in contrasto con le leggi imperiali.
L'impianto generale del diploma di Federico II del 29 agosto 1219, concesso da Hagenau "civitati Papie totique communi et universo eius populo", ricalca l'atto del 1191, pur con non trascurabili variazioni territoriali, in quanto le località indicate sono centoquindici, contro le novantanove del diploma precedente; le stesse concessioni si ritrovano nei due privilegi, di fatto meramente ripetitivi, concessi a Pavia a conferma dei precedenti da Federico II dopo l'incoronazione imperiale, precisamente il 29 novembre (o il 1o dicembre) 1220 e nel maggio 1232. I diplomi sanzionavano ufficialmente il dominio pavese sui luoghi elencati, e quindi sul territorio da essi delimitato, anche se tale dominio, effettivo nel momento della concessione imperiale, doveva subire probabili variazioni a seconda delle diverse fortune politiche e militari contingenti; sicuramente, comunque, nel loro complesso essi consentono di determinare il contado pavese nella sua massima estensione, e proprio ai diplomi federiciani si farà ancora riferimento in età successiva, quando, sotto i Visconti, Pavia e il suo territorio saranno collegati al titolo comitale. Le concessioni espresse nel diploma del 1219 riguardano le modalità dell'autogoverno cittadino, la potestà giurisdizionale e civile anche in grado d'appello, l'esercizio della volontaria giurisdizione, la capacità impositiva, lo svolgimento delle attività che oggi potremmo definire di polizia, la facoltà di attribuire la qualifica notarile, e il godimento degli iura regalia che la città "habet vel tenet vel habere vel tenere consuevit"; per quanto concerne più in particolare il potere normativo, Federico II, rivolgendosi ai pavesi "nobis et imperio semper fidelibus", riconosce l'autonomia normativa della legislazione statutaria comunale, pur espressa con la locuzione "usus et consuetudines": non solo concede la legittimazione delle consuetudini pavesi, ma enuncia chiaramente che le norme di diritto municipale devono essere discusse dal consiglio di credenza ed emanate da governanti eletti "in concordia civitatis", presentandosi come la precisa espressione della "voluntas communis Papie" (Dezza, 1995, p. 107).
Nel caso pavese l'imperatore sembra ormai rinunciare a interferire sull'effettività dell'esercizio locale di numerosi poteri pubblici, come pure a recuperare di fatto una serie di diritti e prerogative: privilegia scelte politiche diverse, riaffermando un primato ideologico duramente provato nei decenni precedenti e cercando di assicurare la solidità e la compattezza di un fedele e prezioso alleato quale il comune di Pavia, nella prospettiva certa di una lotta diplomatica e militare nell'Italia padana quanto mai lunga e complessa. È ancora del 29 agosto 1219 il diploma datato a Spira con cui Federico II ordinava la restituzione ai pavesi di Vigevano e del ponte sul Ticino, occupati dai milanesi, e la riconsegna di cinque località dell'Oltrepò già assegnate ai piacentini nel maggio 1217 col trattato di Campomorto, "in archiepiscopatu Mediolani", che poneva fine, almeno momentaneamente, ai lunghi contrasti tra Pavia e Piacenza, accanto alla quale erano schierate diverse città, tra cui la stessa Milano.
Federico II instaurò un rapporto privilegiato non solo con la città, ma anche col suo vescovo, il piacentino Folco Scotti eletto nel 1216 quando particolarmente intense erano le lotte tra i comuni dell'Italia settentrionale, specialmente tra Pavia e Piacenza; il ruolo svolto dal presule nell'opera di mediazione, ruolo avallato anche dal pontefice Onorio III, può far risultare non del tutto azzardata l'ipotesi che i pavesi, nel momento della sua nomina, siano stati condizionati, in qualche misura, da motivazioni di opportunità politica, in base alle quali un vescovo 'piacentino' poteva rappresentare un tramite di collegamento e di intesa tra le due città antagoniste. Sicuramente una forte intesa si creò tra l'imperatore e il presule Folco Scotti, che tra il 1219 e il 1220 in più occasioni figura tra i testimoni quando il sovrano emana dei diplomi e che ottiene dallo stesso importanti deleghe per dirimere controversie di natura politica; si ha la sensazione che il rapporto di Federico II con Pavia e con Folco in realtà esprimesse i due aspetti di un'unica strategia in quanto, in quel momento, il vescovo costituiva l'elemento di raccordo e il referente autorevole che poteva contrastare le dinamiche disgreganti e in qualche modo arginare la profonda crisi istituzionale in cui si dibatteva il comune.
All'inizio del Duecento la parte popolare, organizzata nella società di S. Siro, si era accostata al ceto dei milites nella partecipazione alla guida politica della città. Le magistrature particolari di classe, consoli e podestà sia dei milites sia dei populares, divennero già nel primo decennio del sec. XIII l'espressione di organizzazioni di carattere politico e militare, e in quanto tali dettavano legge nel territorio urbano e nel contado; l'unità politica del comune si frantumava, al punto che ben presto la crisi istituzionale che vedeva opposti gli schieramenti sociali scoppiò apertamente. In questo contesto si collocano i due diplomi di Federico II del 28 giugno e del 28 luglio 1220 indirizzati al presule pavese: con il primo il sovrano affidava a Folco Scotti la cura della città sino al prossimo arrivo del suo cancelliere, il vescovo Corrado di Metz, nominato nella curia solenne di Francoforte il 27 aprile dello stesso anno, ordinandogli di placare le discordie che la travagliavano e di ricondurla "sub pacis remedio"; un mese dopo egli confermava tale incarico, e precisava altresì di aver inviato a Pavia una lettera "tam militie quam populo", con l'obbligo di obbedire e collaborare con il presule nel difficile compito che gli era stato affidato. Nel testo dei diplomi non compare dunque per Folco il titolo "rector communis Papie"; egli stesso si qualifica invece come tale (in quanto "d. Federicus, Dei gratia Romanorum rex semper augustus et rex Sicilie, nobis commiserit curam et custodiam Papiensis civitatis") in un documento del 10 agosto, con cui stabilisce che si costruisca una strada entro il territorio di Stradella e che si tenga ogni martedì un mercato in Montalino.
Si tratta in realtà di due deliberazioni legislative (statuti), la cui particolarità risiede nel fatto che il vescovo riconosce di legiferare in nome del comune di Pavia, ma per autorità regia, e dichiara inoltre di aver interpellato non il consiglio di credenza bensì, più genericamente, i sapientes e il comune di Pavia; una procedura anomala, quindi, che può essere interpretata come il segno di un momento di crisi e di debolezza della struttura comunale. Infatti il documento del 10 agosto contiene inseriti i due diplomi e una lettera di Corrado di Metz del 6 agosto: in essa il cancelliere imperiale, preoccupato per le di-scordie interne alla città, auspica ai pavesi "dilectis imperii fidelibus" di poter stare "in pace et tranquillitate consueta" e comunica di aver affidato la cura della città al presule; dopo aver specificato i contenuti della giurisdizione, ordina loro di obbedirgli "tamquam rectori nostro". Solo in questo atto Folco Scotti è indicato quindi esplicitamente come rettore del comune di Pavia, anche se i poteri a lui attribuiti da Federico II corrispondevano di fatto a tale incarico; lo stesso cancelliere imperiale, il 25 agosto, confermando l'ordinanza per Stradella e Montalino, precisava: "secondo quanto ordinato dal vescovo di Pavia, per autorità regia, e nostra, e del comune di Pavia, quando esercitava tale incarico"; i poteri e le funzioni conferiti al vescovo nel momento di grave dissidio tra milites e populares erano quindi già cessati (Forzatti Golia, 2002, pp. 247-252).
Recenti studi sul notariato pavese hanno permesso, in base alla testimonianza di documenti inediti riguardanti la spaccatura all'interno della societas dei notai nel gennaio 1218, di anticipare almeno di due anni, rispetto alla data prima riconosciuta del 1220, la crisi istituzionale del comune; in quell'occasione i consoli presero infatti decisamente posizione a favore di una delle fazioni, la maiorsocietas, attribuendo ai suoi membri la gestione in esclusiva delle funzioni di scriba Communis et scriba iusticie (Barbieri, 1990, pp. 142-143). Se consideriamo in base a tali presupposti i poteri attribuiti da Federico II a Folco Scotti nel 1220 e la sua partecipazione alla politica pavese praticamente subito dopo l'elezione, possiamo forse concludere che l'intervento regio in realtà sanzionava e dava veste giuridica a una situazione di fatto già esistente.
Con un diploma indirizzato ai consoli, ai podestà e ai comuni italiani Federico II nel 1220 condannava "statuta ecclesiasticae libertati preiudicantia"; la difesa dei privilegi ecclesiastici era ribadita anche nella Constitutio generalis dello stesso anno: le disposizioni regie esprimevano una comunità di intenti con la politica papale, in particolare si adeguavano al IV concilio lateranense, che con esplicite norme legislative aveva ribadito il diritto a una condizione privilegiata della Chiesa, sia nel campo tributario sia in quello giurisdizionale. All'inizio del sec. XIII la partecipazione alla guida politica cittadina della classe popolare organizzata nella società di S. Siro, che si affiancava al ceto dei milites, si era espressa in un indirizzo politico ostile alla Chiesa, la cui presenza, soprattutto per il rilievo economico e giurisdizionale dei numerosi enti ecclesiastici, aveva inciso profondamente nelle strutture di governo cittadino, oltre che nella compagine sociale. La tendenza dell'autorità civile a violare la giurisdizione ecclesiastica e assoggettare a tributi il clero, che con l'introduzione degli estimi divenne una prassi consolidata, aveva trovato modo di esprimersi, se pure con carattere di straordinarietà, già nel periodo della crisi istituzionale del comune, in particolar modo dopo il 1220 (Forzatti Golia, 1995, pp. 152-153); da quell'anno non abbiamo più menzione di Folco Scotti sulla scena politica pavese e troviamo invece una serie di attestazioni riguardanti i contrasti tra gli organi comunali e la Chiesa cittadina, che raggiunsero il loro apice nel novembre 1224, quando il vescovo e il suo clero si trovavano in esilio "per la difesa della libertà ecclesiastica". Non sappiamo per quanto tempo i chierici pavesi siano rimasti lontani dalla città; sicuramente il presule si trovava a Pavia il 29 dicembre 1226, come risulta attestato da un documento del monastero di S. Pietro in Ciel d'Oro, anche se ormai la crisi istituzionale aveva pesantemente deteriorato i rapporti delle strutture comunali con la Chiesa.
Un rapporto di fedeltà e di stretta collaborazione appare invece sempre più consolidato tra Pavia e Federico II, che il 6 giugno dello stesso anno nomina podestà Villano Aldigheri, ferrarese, il quale giura di tutelare l'onore dell'imperatore e il felice stato della città, di eseguire gli ordini imperiali per mantenere la pace, di espellere gli eretici dalla città e dal suo distretto e di osservare le leggi dell'Impero "pro ecclesiastica libertate" (Soldi Rondinini, 1999, p. 35); per porre fine alle discordie civili che da un decennio sconvolgevano la città, nel luglio l'imperatore con un diploma dato a Parma, rivolgendosi ai pavesi come "speciales fideles imperii inter alios de Italia", decretava la soppressione di tutte le societates cittadine, tanto di popolari quanto di nobili, compresa quindi anche quella dei notai. Specificamente alla classe notarile si rivolge il diploma federiciano rilasciato a Caltagirone il 14 febbraio 1227 su richiesta del comune di Pavia, che annulla, per ciò che concerne l'organizzazione della professione notarile, le prescrizioni contenute nel decreto "pro societatibus dissolvendis" dell'anno precedente, al fine di evitare "i molti scandali" che potrebbero verificarsi per la falsificazione dei documenti; proprio tale provvedimento apre la strada alla ricostituzione del collegio dei notai nel 1229. Negli anni successivi il settore del diritto notarile vede in più occasioni l'intervento del comune pavese, finalizzato soprattutto a regolamentare l'attività di coloro che operano nell'ambito della burocrazia comunale; pare però opportuno menzionare anche un ulteriore provvedimento degli Svevi in proposito, quello di re Enzo del 1244, rivolto a reprimere gli abusi ricorrenti nelle nomine dei professionisti chiamati al servizio della città (Dezza, 1995, p. 136).
La grande e solenne dieta convocata da Federico II nel 1226 a Cremona per la pace con i comuni dell'Italia settentrionale in realtà non ebbe luogo, ma anche per quell'occasione mancata ritroviamo i pavesi, insieme ai cremonesi e ai parmensi, radunati con l'imperatore a Borgo S. Donnino (attuale Fidenza): ambiziosa lega imperiale che la propaganda delle città nemiche, come attestato dal titolo di un poemetto satirico inserito negli Annales Placentini di Giovanni Codagnello, ridimensionò a un semplice colloquio (Voltmer, 1999, p. 402). La vittoria di Cortenuova del 1237 fu anche una rivincita per Pavia: in quell'occasione, come scrisse Pier della Vigna, "la mirabile milizia pavese si vendicò dei Milanesi", anche se in realtà la vittoria imperiale non fece cessare la lotta con le città dell'Italia settentrionale, che si protrasse per oltre un decennio; la "città imperiale" veniva continuamente chiamata in causa per intervenire contro i nemici di Federico II, e anche le consuete rivalità con i comuni vicini assumevano un significato più complesso, dilatandosi e inserendosi nel quadro del grande scontro tra la parte ghibellina e quella guelfa (Settia, 1995, pp. 156, 177). "I più devoti tra i nostri devoti" sono chiamati i pavesi nel 1238 da Federico II, che l'anno successivo elogia "l'invitta fedeltà dei pavesi, nostri fedeli", mentre nel 1241 si rivolge loro definendoli come "sostenitori dell'impero contro la perfidia dei ribelli".
Sappiamo ben poco dei soggiorni di Federico II a Pavia: ricordiamo solo la già menzionata accoglienza riservatagli nel 1212, quando doveva ancora conquistare la corona di imperatore, e le ultime guerre da lui condotte, in particolare contro il marchese del Monferrato nel 1248; nel luglio di quell'anno si trasferì da Cremona a Pavia, dove si fermò almeno fino al 18: la sua folgorante e tormentata vicenda imperiale passava ancora una volta, prima del tracollo definitivo, attraverso la città che sempre gli era stata fedele.
fonti e bibliografia
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