PAVIMENTO
Lungo tutto il corso del Medioevo si perpetuarono in larga misura le tecniche tradizionali di pavimentazione degli edifici pubblici e privati ereditate dall'Antichità e la decorazione dei piani di calpestio risulta spesso uno degli elementi qualificanti degli edifici religiosi, di quelli profani e delle residenze degli esponenti delle classi più elevate.
Alle soglie del sec. 6° la decorazione pavimentale appariva orientata verso linee di sviluppo differenziate all'interno dell'area dell'antico Impero romano: alla particolare intensità produttiva dei territori affacciati sul Mediterraneo si contrapponeva infatti una sua graduale rarefazione nelle regioni più settentrionali o comunque più distanti dalle linee costiere.La forma decorativa ovunque di gran lunga più diffusa era quella del mosaico, cui tuttavia si affiancava in molti casi l'opus sectile geometrico, per lo più marmoreo, considerato di maggior pregio e secondo solo alle stesure a grandi lastre omogenee di marmi bianchi o venati. Non mancavano infine forme pavimentali assai più modeste, a lastrame di pietra o in laterizio, destinate ad ambienti secondari o a edifici di ambito rurale, lontani dalle vie di approvvigionamento dei materiali più pregiati. La circolazione di schemi, modelli e, talora, di maestranze fa sì che per quest'epoca appaia poco adeguata una rigida suddivisione tra Oriente e Occidente, alla quale sembra piuttosto preferibile l'evidenziazione di aree omogenee per scelte stilistiche o tematiche. Le invasioni barbariche e l'interruzione dei contatti culturali che esse comportarono possono essere in gran parte responsabili della rarità, se non dell'assenza, di mosaici pavimentali nell'Europa centrosettentrionale: ben poche sono le testimonianze che giungono, talora solo in via ipotetica, al sec. 6°, come per es. le semplici stesure a riquadri contenenti animali delle basiliche di Hemmaberg e di Teurnia, in Austria, gli originali pannelli geometrici di un ambiente del complesso episcopale di Ginevra e soprattutto le nuove decorazioni musive che, forse ancora nel sec. 6°, arricchivano le grandi ville rurali della Tarda Antichità (Mienne-Marboué, Saint-Rémy-la-Varenne, nella valle della Loira).In area iberica le testimonianze più tarde (metà del sec. 6°) sono concentrate nelle Baleari: nell'isola di Maiorca, le basiliche di Santa María e di San Peretò, la prima con scene figurate tratte dalla Genesi; nell'isola di Minorca, quelle di Illeta de Rei e Es Fornàs de Torellò, con precise tangenze con l'ambiente giudaico palestinese. Vi sono inoltre strette analogie con la produzione nordafricana, nel repertorio decorativo e per la presenza di mosaici funerari.Ben più ricco, variato e articolato, nonché legato a una secolare tradizione, è il panorama offerto dall'Africa settentrionale, ove la riconquista giustinianea del 533 segnò un momento di indubbia ripresa costruttiva e decorativa: i mosaici sussistono soprattutto in basiliche cristiane, ma anche in edifici profani e sinagoghe, confermando l'esistenza di una sola koinè artistica, al di là di differenze religiose o di committenza. Caratteristica comune è la preferenza per i tappeti essenzialmente geometrici (talvolta anche in opus sectile) o geometrico-vegetali, estesi all'intera superficie delle navate (Cartagine, basiliche di Dermech I e Bir el-Knissia); sinusoidi di acanto con cesti di frutta e animali marini o uccelli (chiesa di el-Mouassat; mosaico dalla sinagoga di Hammam Lif, oggi a New York, Brooklyn Mus.); raffigurazioni simboliche, come la croce, spesso gemmata, o coppie di animali - cervi, agnelli o pavoni - ai lati di un cantaro (mosaico dalla chiesa di La Skhirra, Sfax, Mus. Archéologique; mosaico dal battistero Henchir Sokrine, Lamta, Mus.; mosaico dalla chiesa di Henchir Ounaïssia, Sbeïtla, Mus.); più rare sono le scene figurate.La superficie musiva spesso si stendeva in modo continuo anche sulle strutture liturgiche dell'edificio, come nella vasca battesimale di Kelibia (Tunisi, Mus. Nat. du Bardo). Vanno infine ricordati i mosaici funerari, soprattutto della Tunisia (molti conservati a Tunisi, Mus. Nat. du Bardo), spesso parte essenziale del pavimento delle basiliche (rivestivano anche tombe in elevato), scanditi dall'epitaffio, dal chrismon, da figure simboliche o da immagini del defunto.Nella Tripolitania, uno dei mosaici pavimentali più celebri decorava la basilica giustinianea di Sabratha: da un monumentale cespo di acanto si snodano due tralci di vite intrecciati che rivestono quasi tutta la navata centrale, alla cui estremità orientale si staglia un pavone con la ruota distesa. I motivi geometrici delle navate laterali ricordano molti mosaici tunisini ma anche ravennati (S. Vitale, basilica di S. Severo a Classe, villa di età teodoriciana di Meldola), tanto da suggerire concreti rapporti tra l'area adriatica e quella nordafricana.La vitalità delle maestranze attive in Africa settentrionale, riconducibili a più botteghe, forse anche itineranti, sembra ormai accertata fino agli inizi del sec. 7° (scene di caccia in una casa di Kelibia). Agli interventi giustinianei in Cirenaica, territorio mai sottratto all'impero ma trascurato nel sec. 5°, si ricollegano i mosaici pavimentali delle basiliche di Qaṣr el-Lebia, Apollonia, Cirene e Rās el-Hilāl, un gruppo omogeneo per schema compositivo e stile (probabilmente opera di una stessa bottega), cronologicamente ancorato alla data 539-540 della chiesa orientale di Qaṣr el-Lebia. Qui, entro un reticolo ortogonale definito da motivi a intreccio, si dispongono variatissime figure animali, personificazioni, raffigurazioni simboliche e architettoniche. A Qaṣr el-Lebia, come a Cirene e ad Apollonia, si trovano inoltre, nelle cappelle laterali o nelle navate, stesure a 'pseudo-émblema', con scene di caccia o motivi nilotici legati al repertorio palestinese.Un'area che riveste particolare importanza per la continuità di una scuola, con varie botteghe locali, nei secc. 6°-8°, è quella dell'od. Giordania (v.), che offre stesure musive straordinarie per conservazione, esuberanza decorativa e ricchezza di temi iconografici, anche figurati, e soprattutto per i dati storici che contengono (iscrizioni indicanti la cronologia, i nomi dei vescovi, dei committenti e degli artefici).Fra i centri di maggiore rilievo va ricordata in primo luogo Gerasa (od. Jarash), cui si affianca Madaba, con i numerosi edifici civili e religiosi, decorati in gran parte al tempo dei vescovi Giovanni (metà del sec. 6°) e Sergio (seconda metà del sec. 6°): dal c.d. palazzo Bruciato e dalla sala dell'Ippolito, con raffigurazioni del mito euripideo e con le personificazioni cristianizzate di Roma, Madaba e Gregoria, alla chiesa c.d. della Carta, il cui p. era costituito da una vera e propria carta geografica a mosaico dell'antica Palestina, da Tiro e Sidone al delta del Nilo, che culmina nella veduta a volo d'uccello di Gerusalemme.Anche il celebre complesso del santuario di Mosè sul monte Nebo conserva un gran numero di mosaici del sec. 6° (chiese di S. Giorgio e di Lot e Procopio, cappella del prete Giovanni, chiesa di Kaianos, tutte nell'od. villaggio di Khirbat al-Muḥayyat), che mostrano, all'interno di ricche cornici, tappeti con scene di caccia su registri sovrapposti (basilica del santuario di Mosè) oppure girali di vite o di acanto animati da scene campestri. Schemi compositivi analoghi presentano i mosaici delle chiese di Um al-Raṣāṣ, databili alla fine del sec. 6° (chiese dei Leoni e del vescovo Sergio) e all'8° (chiesa di S. Stefano). Quest'ultimo esempio attesta la vivacità produttiva, ancora in epoca omayyade, di maestranze al servizio sia della comunità cristiana sia della committenza islamica (residenze e castelli). Nel mosaico di S. Stefano compaiono anche ventotto vignette architettoniche relative a città della Palestina e dell'Egitto, in coerenza con una tradizione di ambito siropalestinese attestata già nel sec. 5° e testimoniata in Giordania nelle chiese di S. Giovanni Battista e dei Ss. Pietro e Paolo di Gerasa, e ancora nel 634-635 nella chiesa di S. Giovanni a Khirbat al-Samra, nel 717-718 nella chiesa di al-Quwaysma (Amman) e nel 719-720 nella chiesa sull'acropoli di Ma῾in.Un quadro cronologico così esteso non sembra trovare uguale riscontro, se non in rari casi, nell'area palestinese e nella Fenicia, per le quali, nel sec. 6°, la distribuzione dei temi decorativi prevedeva spesso nelle navate laterali dei tappeti continui di motivi geometrici e in quella centrale tralci vitinei abitati da animali e figure umane intente a lavori agricoli (mosaici della scuola di Gaza, chiese di Horvat Be'er She'ma e Beth Shean), come nella zona di Madaba. Il grandioso complesso musivo della basilica di Qabr Hiram, presso Tiro, del 575 (Parigi, Louvre), arricchisce questo tema di base con le personificazioni delle Stagioni, dei Mesi e dei Venti. Oltre alle raffigurazioni dei Mesi - disposti intorno a un tondo con il Sole e la Luna nel monastero della Kyria Maria a Beth Shean (568-569) - nelle sinagoghe palestinesi era diffuso il tema dello Zodiaco (Beth Alpha) intorno al carro del Sole, affiancato da oggetti liturgici e in particolare dalla Tōrāh e dalla mĕnorāh. Alla varietà iconografica e ai complessi schemi geometrici si contrapponeva una resa stilistica semplificata e bidimensionale, specialmente delle figure umane e animali.Nel territorio siriaco la produzione musiva del sec. 6° proseguì nella tradizione del secolo precedente, utilizzando con qualche mutamento il medesimo repertorio: composizioni di grandi animali (su sfondo di piccoli motivi desunti dall'arte tessile) disposti in registri e intervallati da alberi fruttiferi, non più legati a un contesto unitario come nei grandi mosaici con scene di caccia del 5° secolo. Esempi datati (mosaici dalle basiliche di Oum Hartaine, del 500, e di Houad, del 568, entrambi a Damasco, Mus. Nat.; chiesa episcopale di Apamea, del 533) permettono di seguire questa linea di gusto oltre la fine del sec. 6° (basilica di Ma'rata). Un significativo limite cronologico si ha nel 722, nel mosaico della chiesa di S. Giorgio a Dayr al-Adas, oggi conservato nella cittadella di Bosra, con scene di caccia e una singolare carovana di cammelli, che attesta in piena età omayyade un legame con la tarda produzione della regione di Madaba. Nella Siria settentrionale non oltrepassano invece i primi decenni del sec. 6° gli ultimi mosaici di Antiochia - c.d. Caccia Worcester (suddivisa tra Worcester, MA, Art Mus.; Honolulu, Acad. of Arts; Antakya, Hatay Müz.), personificazioni della Ktisis e di Gea entro un tappeto di foglie ricoperte di frutti (Antakya, Hatay Müz.) -, mentre solo ipoteticamente è stato attribuito all'inizio del secolo il mosaico proveniente da un edificio non identificato di Sarrîn (nell'antica Osroene; Aleppo, Nat. Mus.), con scene mitologiche (ratto di Europa, Eracle e Auge, Afrodite marina). Recenti scoperte nella regione di Ḥamā e ad al-Bara documentano infine anche il gusto per le raffigurazioni architettoniche.Talora a fianco del mosaico, ma più spesso in sostituzione di esso, si incontrano ampie stesure in opus sectile geometrico a piccoli elementi (o a piccolo modulo), articolate in pannelli campiti con variatissimi motivi policromi entro un'intelaiatura di fasce di marmo bianco. Questo tipo di pavimento, già noto in età precedente, conobbe un notevole successo in età giustinianea nella Siria settentrionale, da Apamea (chiesa episcopale e chiesa ad atrio) a Ruṣāfa (tetraconco e Santa Croce), dal martyrium di Qal῾at Sim῾ān (basilica est) alla stessa Antiochia (villa di Yakto; terme F) e a Seleucia Pieria (tetraconco).L'isola di Cipro, legata per molti versi all'area siriaca (mosaici della chiesa A di Peya, di età giustinianea), conserva alcune tra le più splendide testimonianze di opus sectile geometrico dell'età protobizantina negli edifici di Salamina (basilica di Kampanopetra), Karpasia (Haghios Philon), Kurion (basilica episcopale), Pafo (basilica della Chrysopolitissa).Pavimentazioni marmoree analoghe caratterizzano anche l'area microasiatica, sia con esempi più articolati (chiese di Korykos, Meriamlık, Qartamin) sia con stesure di tipo più comune (chiese di Xanto, Cnido, Sebaste di Frigia) anche di eccezionale estensione, come il pavimento di oltre novanta pannelli del ginnasio di Sardi. Un caso a sé è costituito dal sectile giustinianeo della basilica di S. Giovanni a Efeso, che mostra, forse per la prima volta, il motivo dei cerchi annodati, prezioso riferimento per delineare il quadro della formazione del sectile mediobizantino, meglio percettibile nell'area costantinopolitana.Anche se la capitale bizantina ha conservato in effetti solo poche testimonianze dell'età giustinianea, il loro livello qualitativo è sufficiente a confermare il carattere elitario dell'arte pavimentale della città. Dai monumenti superstiti, ma soprattutto dalle fonti, in particolare Procopio (De Aedificiis) e Paolo Silenziario (Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae), si deduce il predominio delle stesure a grandi lastre di marmo proconnesio (Santa Sofia, basilica A di Beyazit, S. Eufemia, le scomparse S. Giovanni all'Hebdomon e S. Michele in Anaplo) accostate in modo da disegnare con le venature, così come avveniva sulle pareti, raffinati giochi di simmetria. Era presente il mosaico, anche se attestato solo da scarsi lacerti decontestualizzati e soprattutto dal pavimento del peristilio del Grande Palazzo imperiale, un unicum, problematico sia per l'individuazione delle maestranze sia per la definizione cronologica, ritenuto ormai, pur se non unanimemente, opera dei primi decenni del sec. 6°: entro una splendida cornice a girali d'acanto, con frutti, animali e maschere fogliate di sapore classico, si dispongono su un fondo bianco scene di caccia e di genere, lotte di uomini e animali, suggerimenti architettonici, resi tutti con sorprendente naturalismo e solida plasticità, che contrastano con l'inattesa assenza di qualsiasi intento spaziale nella composizione d'insieme, in una sintesi senza confronti. Nella capitale bizantina era infine presente l'opus sectile geometrico (edificio absidato tra la Kalenderhane Cami e l'acquedotto di Valente), che sembra conservare proprio a Costantinopoli e nella sua area di influenza un ruolo preminente in forme nuove, che alle rigide geometrie sostituiscono man mano linee curve e sinuose annodature (frammento di pavimentazione del mausoleo annesso alla S. Eufemia, oggi nell'esonartece della Santa Sofia; Kalenderhane Cami). Se si accettano le proposte di datazione ai secc. 7° e 8°, tali esempi dimostrano una vitale continuità e contengono già le coordinate che sarebbero state dominanti nei secoli successivi con ben più ampia diffusione e varietà.Più lineare è il quadro della decorazione pavimentale in Grecia e nei Balcani: grazie alle indagini archeologiche dell'ultimo cinquantennio, sono venuti alla luce numerosi mosaici e sectilia (basiliche cristiane e annessi, ma anche ville e strutture private), prodotti da varie botteghe che, proseguendo in una tradizione fiorente già nei secc. 4° e 5°, svolsero la loro attività anche nel 6° secolo. Di gran lunga più diffusi sono i tappeti geometrici, talora di grande complessità, come nelle isole del Dodecaneso (basiliche di Coo e Scarpanto); tra gli schemi in uso predominano intrecci o meandri che isolano campi quadrati od ottagonali occupati da varie figure animali (basiliche greche di Delfi e Tebe, in Beozia; Aighion ed Ermioni, nel Peloponneso; chiesa di Lin, in Albania; chiese di Caričin Grad, in Serbia; case di Sparta e Megalopoli, nel Peloponneso). Sembrano accertati sia la circolazione di maestranze sia l'uso di libri di modelli: compaiono infatti soluzioni pressoché identiche a grande distanza (pannelli con pavoni e cervi affrontati di una casa di Ermioni e della basilica di Sughia a Creta). Sono più rare, ma ancora attestate all'inizio del sec. 6°, le composizioni figurate di maggiore impegno, come i Mesi di una casa a Tebe (Tebe, Archaeological Mus.), il thíasos bacchico e le scene di caccia al falcone della c.d. villa del Falconiere ad Argo (Argo, Archaeological Mus.) o l'insolito gruppo delle tre Grazie di una casa di Megalopoli. Ancor più rara è la figura umana nelle chiese, documentata nelle scene di caccia nella basilica 'a transetto' di Caričin Grad e in due figure maschili identificate con i Dioscuri nella basilica A di Nicopoli, che, insieme al vicino pannello con l'immagine simbolica della Terra e dell'Oceano, ben si inseriscono nella più generale concezione cristiana del cosmo, concretamente formulata proprio nel 6° secolo.Accanto al mosaico ebbero notevole fortuna anche nell'area ellenica le stesure in opus sectile geometrico, meno complesse e ardite di quelle siriache e cipriote ma pur sempre di pregio, come attestano i pavimenti delle chiese di Filippi, Edessa, Heraclea Lyncestis, Stobi, Nea Anchialos, ma anche di Rodi, Coo e Samo. Verso la fine del sec. 6°, il diradarsi delle testimonianze ben corrisponde alla precaria situazione di un territorio pressato prima dagli Unni e poi dagli Slavi. Un caso interessante è comunque quello del pavimento in opus sectile della basilica di Gortyna a Creta, di recentissima scoperta, sovrapposto al mosaico giustinianeo nell'età di Eraclio (610-641), tarda testimonianza di un clima artistico di alto livello.Nell'area adriatica, fino ai centri istriani di Parenzo e Pola, domina l'influenza di Ravenna, ove i mosaici (c.d. palazzo di Teodorico, S. Vitale, S. Michele in Africisco, S. Apollinare in Classe, S. Severo in Classe) sono segnati dal gusto prevalente per essenziali stesure geometriche, con limitati inserti animati, ove domina l'effetto decorativo bidimensionale e antinaturalistico di astratti motivi 'a rapporto infinito', con rare composizioni di natura vegetale, quali tralci di acanto o di vite che si snodano da un cantaro (S. Vitale, S. Severo in Classe). Si discosta nettamente da questa linea di gusto uno dei mosaici, attribuiti al pieno sec. 6°, recentemente rinvenuti proprio a Ravenna nel c.d. palazzetto bizantino di via D'Azeglio, al cui centro campeggia un émblema figurato con la Danza dei geni delle stagioni.Più isolata, anche se ancorata alla tradizione aquileiese, è la situazione di Grado; l'estesa pavimentazione della S. Eufemia (seconda metà del sec. 6°), con lunghe corsie di tappeti geometrici, esemplifica la pratica, diffusa nelle Venezie, dell'inserimento nell'intelaiatura geometrica di tabelle contenenti le iscrizioni con le dediche di donatori di tratti pavimentali.L'influenza ravennate raggiunse inoltre i principali centri della costa adriatica: a Pesaro (ove nella cattedrale un clipeo sorretto da aquile contiene l'iscrizione di Iohannes, patricius e magister militum inviato da Giustiniano), ad Ancona (S. Maria della Piazza) e a Fermo (cattedrale), fino alla Puglia, dove più evidenti sono anche i contatti con la vicina Grecia (mosaico sotto la cattedrale di Bari) e più sensibile l'apertura verso il Mediterraneo orientale e l'Africa (S. Leucio di Canosa).Roma, come Costantinopoli, occupa un posto a sé e si distingue per una linea decorativa esclusivamente marmorea, da tempo consolidata, che nel sec. 6° e all'inizio del 7° si concretizzò in due tipologie diverse ma coesistenti anche in uno stesso contesto: l'opus sectile geometrico a piccolo modulo entro pannelli e il mosaico marmoreo a grandi tessere con elementi di opus sectile che creano semplici disegni geometrici o grandi fiori a quattro o più petali (S. Maria Antiqua, S. Clemente, S. Lorenzo f.l.m., battistero Lateranense). Denominatore comune è anche la scelta cromatica - riassunta in una quadricromia data dai due porfidi rosso e verde, dal giallo antico e dai marmi bianchi - che accompagna le pavimentazioni romane dall'età neroniana alla fine del Medioevo.Per molte delle aree culturali citate, al sec. 7° avanzato corrisponde una battuta d'arresto nello sviluppo della decorazione pavimentale. Tuttavia, studi recenti, nuovi ritrovamenti e più aggiornate analisi archeologiche e storiche permettono di tracciare un quadro più unitario e di individuare segni tangibili di continuità sia in Oriente, come è stato evidenziato per l'area costantinopolitana, sia in Occidente, ma con caratteristiche ed esiti stilistici, tecnici e di gusto decorativo fondamentalmente diversi, tanto da suggerire ora una separazione tra i due percorsi, orientale e occidentale, coerente fino alla fine del Medioevo.I confini dell'impero bizantino nelle età macedone e comnena (secc. 9°-12°) si erano gradualmente ristretti all'area greco-balcanica e a quella microasiatica, dove dunque si concentrano le numerose testimonianze del nuovo stile pavimentale mediobizantino. Salvo eccezioni, gli esempi greci, costantinopolitani e dell'Asia Minore sembrano appartenere alla stessa koinè artistica che privilegiava composizioni marmoree di grandi lastre o dischi e di fasce in opus sectile geometrico di vivace policromia, che seguono e sottolineano geometrie curve e annodature (molto diffusa è la caratteristica forma del quincunx), in armonia con l'andamento centralizzato delle nuove tipologie architettoniche cruciformi a cupola (v. Architettura).Il repertorio dei motivi geometrici si ricollega in gran parte a quello in uso nei sectilia dei secc. 5° e 6°, arricchito da originali soluzioni: frammentazione dei moduli di base e inserimento di figure animali, pure in sectile, soprattutto in ambito greco. Per la fase iniziale di questo stile manca una sicura cronologia e il panorama costantinopolitano è purtroppo affidato in gran parte alle fonti scritte, quali la Vita Basilii o le Omelie di Leone VI (886-912), che in più luoghi si soffermano, come già nell'epoca giustinianea, a celebrare lo splendore delle variegate superfici marmoree. Comunque, tra la seconda metà del sec. 10° e l'11° si collocano gli esempi più significativi sia nella capitale (area del palazzo del Bukoleon, S. Giovanni all'Hebdomon), sia in Asia Minore (Santa Sofia e chiesa della Dormizione di Nicea, S. Nicola di Myra), sia nell'area greca (chiesa della Theotokos e katholikón del monastero di Hosios Lukas, monasteri della Grande Lavra e di Iviron sul monte Athos, Nea Moni di Chio). Il ruolo esclusivo di Costantinopoli si manifesta ancora una volta con esempi di altissimo livello, come quelli del S. Giovanni di Studios e soprattutto del Cristo Pantokrator (1118-1124), ove intarsi figurati finissimi si coordinano in complesse iconografie legate allo Zodiaco e a episodi della Vita di Sansone.Nei secoli seguenti, gli esempi greci si modificano per la compresenza, in alcuni casi, di opus sectile e di mosaico (chiesa delle Blacherne ad Arta, monastero di Sagmata, chiesa della Metropoli a Mistrà), mentre l'area microasiatica è ancorata alla tradizione, sia nelle zone periferiche (Santa Sofia di Trebisonda, della seconda metà del sec. 13°) sia nella capitale stessa, dove la raffinata pavimentazione della chiesa di S. Salvatore di Chora (inizi del sec. 14°), articolata in vaste campiture di lastre marmoree policrome bordate da fasce in sectile, ritorna al gusto essenziale per il pregio del materiale marmoreo in sé stesso, quasi a chiudere un ideale percorso iniziato molti secoli prima.È nell'Italia nordorientale che vengono indicati alcuni segni di continuità, dopo la rarefazione del 7° secolo. Si tratta di pochi casi, disseminati in un lungo arco di tempo: da un lato i sectilia con la bicromia bianco-nero di S. Maria foris portas a Castelseprio (forse del sec. 7°) e di S. Maria in Valle a Cividale (sec. 8°), dall'altro i mosaici del battistero di Callisto, sempre a Cividale (Mus. Cristiano), e quelli dell'abbazia di S. Maria Maggiore a Gazzo Veronese (prov. di Mantova), di S. Michele Arcangelo a Cervignano del Friuli e di S. Ilario a Venezia (sec. 8°-9°; Venezia, Mus. Archeologico), questi ultimi con una resa grafica dalle linee incerte, talora disgregate, e un'essenzialità cromatica in bianco-nero. Il tradizionale repertorio paleocristiano si rinnovò sia con l'inserimento di motivi a intreccio (talvolta strettamente connessi agli stilemi della contemporanea scultura decorativa) sia con la presenza di figure di animali fantastici, preludio del repertorio in uso nel pieno Medioevo.Si giunge così a contatto con l'età carolingia, quando iniziò una ben definibile e cospicua produzione pavimentale, articolata per vaste zone con spunti diversi, spesso decisamente creativi, e unificata da un intenzionale recupero della tradizione. Non è facile individuare le prime espressioni di questa evidente e diffusa ripresa, caratterizzata in più casi dal concreto reimpiego di porzioni di sectilia antichi. Si può supporre che il pavimento marmoreo, con prevalenza di porfidi, del presbiterio di S. Maria in Cosmedin a Roma - dell'età di papa Adriano I (772-795) - sia l'esempio superstite di un più vasto insieme, che trova poco più tardi espressioni mature nella Cappella Palatina di Aquisgrana, a Saint-Germain di Auxerre e nel duomo di Colonia. Mentre per Roma e per la regione immediatamente circostante l'esperienza adrianea, e comunque carolingia, sembra concludersi nel sec. 9° con pochi esempi (S. Prassede, S. Giorgio in Velabro, Ss. Quattro Coronati e quello eccezionale dell'abbazia di Farfa), nell'Europa centrosettentrionale e in particolare nell'area germanica un'analoga tipologia pavimentale pose le basi per la ricca produzione dei secoli seguenti.Parallelamente, fin dal sec. 9°, in Francia e Catalogna si ripresero le fila della tradizione antica soprattutto nella tecnica musiva, utilizzando e trasformando il repertorio geometrico paleocristiano (Saint-Hilaire-le-Grand a Poitiers, Saint-Quentin, cripta di Saint-Martial a Limoges, Sainte-Croix a Orléans, basilica di Terrassa). Tra i secc. 10° e 11° sono chiaramente individuabili, senza soluzione di continuità, le nuove tendenze della decorazione pavimentale: per es. a Ravenna (opus sectile nella cripta di Santa Croce; mosaici, con inserti di grandi animali, in quella di S. Francesco o a S. Vitale), a Reims (mosaici nella cattedrale con intrecci a grande modulo) e nella chiesa di Valentine (presso Arnesp, in Aquitania, con libera rielaborazione di motivi geometrici).Già nei primi decenni del sec. 11° si concretizzarono due delle principali linee decorative della piena età medievale. Ben circoscritte alle coste medio e alto adriatiche sono le pavimentazioni che sposano ampie stesure in opus sectile geometrico, spesso dominate da incisive grandi rotae di triangoli annodate tra loro, a riquadri di mosaico puramente decorativo o con variate figurazioni animali: aquile, grifoni, basilischi. Dagli esempi più antichi di Aquileia (presbiterio della basilica patriarcale), dell'abbazia di Pomposa e della chiesa di Carrara Santo Stefano (prov. di Padova), tutti databili entro la prima metà del secolo, si passa alle opere mature del sec. 12°, come Ss. Maria e Donato a Murano, S. Marco e S. Zaccaria a Venezia; si distacca in parte, per l'assenza di figurazioni, il pavimento del duomo di Torcello (S. Maria Assunta), tradizionalmente datato al 1007 e di recente posticipato al 12° secolo. Si può collegare a questo gruppo, pur trattandosi di un tappeto esclusivamente musivo, l'originale pavimento di S. Maria del Mare, nell'isola di S. Nicola (Tremiti; 1045 ca.), che alterna campiture geometriche a pannelli con grandi animali (cervi, elefanti e aquile), dominati al centro della navata da un grifone entro un quincunx redatto con motivo a zig-zag.Sempre a partire dall'inizio del sec. 11° prese avvio il capitolo più straordinario della decorazione pavimentale medievale, quello dei tappeti musivi figurati, che, insieme alla scultura per molti versi a essi parallela, divennero parte integrante dell'arredo dell'edificio: dalla Francia all'Italia centrosettentrionale e alla Puglia, il suolo delle chiese si popolò di immagini grandiose che guidavano il fedele in un ideale cammino di redenzione. Episodi dell'Antico Testamento si accompagnavano a temi legati alla cosmografia e al trascorrere del tempo, evocato dai segni dello Zodiaco, dalle personificazioni dell'Anno, dei Mesi, delle Stagioni e dei Venti, che riecheggiavano in altra forma le pavimentazioni del sec. 6°; accanto a raffigurazioni tratte da cicli letterari, storici e leggendari, come quelli di Alessandro o di Artù, trovarono posto le figure allegoriche dei Vizi, delle Virtù o delle Arti liberali. Non mancavano poi scene di caccia o di battaglia e soprattutto figure di animali fantastici presenti quasi ovunque, per lo più racchiusi entro clipei ma anche disseminati nei tappeti musivi a campire spazi di risulta. Le fonti di ispirazione per una materia iconografica così ricca e variata sono individuabili sia in campo letterario (bestiari, trattati enciclopedici e di morale) sia in campo figurato, soprattutto nella miniatura e nei tessuti, specie orientali, come le stoffe rotate bizantine o islamiche. A questo multiforme repertorio, culturalmente abbastanza omogeneo, corrispondono, come è naturale, realizzazioni differenziate per aree, talora dipendenti da radicate tradizioni decorative locali.Significativo è nel Sud della Francia il caso dei pavimenti di Saint-Sever e Sorde-l'Abbaye (entrambi nel dip. delle Landes e databili alla fine del sec. 11°-inizi del 12°), che replicano composizioni vegetali tardoantiche, oppure quello del battistero di Valence (dip. Drôme), con figure animali entro riquadri, da alcuni studiosi ritenuto ancora del sec. 6° piuttosto che medievale. I numerosi pavimenti francesi sembrano concentrarsi nel corso del sec. 12°: tra i centri più significativi erano Reims, ove il perduto pavimento musivo di Saint-Remi racchiudeva, nel suo vasto programma iconografico, quasi tutti i temi sviluppati singolarmente altrove, e Lione, ove il pavimento di Saint-Irénée, perduto ma noto da disegni, illustrava episodi della vita del santo eponimo. Scenari fantastici con lotte di animali e cavalieri rivestono la zona absidale delle chiese di Lescar (dip. Pyrénées-Atlantiques) e Gânagobie (dip. Alpes-de-Haute-Provence), esempi rispettivamente databili al 1115-1141 e al 1122-1124, mentre vasti tappeti di circoli con raffigurazioni zoomorfe, modulati su stoffe preziose forse di ambito ispanico, occupano la navata della chiesa di Saint-Genès di Thiers (dip. Puy-de-Dôme) e si distendevano davanti all'altare della chiesa di Ripoll in Catalogna. Nella Francia settentrionale occupa un posto di rilievo il pavimento di Saint-Denis, con le figurazioni dei Mesi e il ritratto entro un medaglione a fondo d'oro del monaco Alberico inginocchiato in preghiera. Molto diffuso era inoltre il mosaico funerario, di antica tradizione, come quello di Guglielmo di Fiandra nella chiesa di Saint-Bertin a Saint-Omer (dip. Pas-de-Calais), del 1109, o quello del vescovo Frumauld (1173-1184) nella cattedrale di Arras.Accanto ai pavimenti musivi, in minor misura, sia in Francia sia in Catalogna, sono da segnalare pavimenti in opus sectile geometrico di disegno semplice ma con forti contrasti cromatici, come nell'abbaziale di Saint-Benoît-sur-Loire (dip. Loiret) o nella cattedrale di Tarragona e nella chiesa di Santa Maria di Alaó (fine del sec. 12°). Tale tipologia decorativa si configura come un vero e proprio stile pavimentale nell'area germanica, con continuità dall'età carolingia a quella ottoniana e romanica (St. Cäcilien, St. Severin e St. Pantaleon di Colonia, cattedrali di Worms, Magdeburgo, Halberstadt, Minden); la scelta cromatica è austera, con prevalenza di calcari neri, e crea semplici motivi geometrici articolati intorno a motivi stellari. Parallelamente, già a partire dalla metà del sec. 12°, vennero elaborate nelle abbazie cistercensi, in Francia (Cîteaux, Fontenay, Pontigny, La Bénisson-Dieu), in Svizzera (Bonmont), ma anche in Ungheria e in Inghilterra, diverse tipologie di pavimentazioni a piastrelle di terracotta verniciate (v. Cistercensi). Nel corso del sec. 13° si affermano gradualmente i carrelages bicolori (per lo più a disegno giallo su fondo rosso) con piastrelle decorate a incrostazione di argille (cattedrale di Angers, abbaziale di Grandselve, sala capitolare della cattedrale di Bayeux), che dall'Ile-de-France alla Borgogna e alla Normandia restarono fino alla fine del Medioevo la tipologia predominante.Più precoce rispetto alla Francia appare lo sviluppo del mosaico pavimentale medievale in Italia; entro la prima metà del sec. 11° si possono già collocare le stesure aniconiche a intrecci geometrico-vegetali, resi in grafica bicromia, di S. Giustina di Sezzadio (prov. di Alessandria) e di S. Nicolò al Lido di Venezia. L'area piemontese si distingue con un gruppo stilisticamente omogeneo ove la bicromia bianco-nero non si limita a delineare i contorni ma viene utilizzata per campire le figure, talora con effetto plastico, come nelle scene quasi antichizzanti, con animali fantastici e geni alati, del duomo di Acqui, del 1067 (Torino, Mus. Civ. d'Arte Antica), o nelle personificazioni dei Quattro fiumi e di Adamo ed Eva entro cornici a meandri e mura turrite del duomo di Novara. Eccezionale raffigurazione cosmografica è quella del S. Salvatore di Torino (Torino, Mus. Civ. d'Arte Antica), con la ruota della Fortuna circondata da cerchi annodati con coppie di animali simboleggianti la Terra e racchiusa da una serie di fasce ondulate alludenti all'Oceano, circondato dai Venti. Sulla stessa linea si pongono le composizioni del duomo di Aosta e del S. Savino di Piacenza, centrate sull'Anno che tiene tra le mani il Sole e la Luna. La trasposizione sul pavimento delle concezioni cartografiche è poi attestata anche in contesti laici, come conferma il poema dell'abate Baudri de Bourgueil, del 1100 ca. (Barral i Altet, 1987), che descrive la camera da letto della contessa Adele, figlia di Guglielmo il Conquistatore.Un altro impaginato decorativo molto diffuso è quello della serie di arcatelle su colonne, che possono ospitare le Virtù cardinali, come nell'abbazia di S. Benedetto al Polirone (prov. di Mantova), del 1154, o i Mesi, come a S. Colombano di Bobbio (prov. di Piacenza) e nel S. Michele di Pavia. Quest'ultimo mosaico conserva anche parte di un monumentale labirinto (documentato anche nel S. Savino di Piacenza), simbolo del difficile cammino dell'uomo attraverso gli inganni della vita terrena prima di giungere alla salvezza. Vivaci scene di battaglia (bibliche o più attuali) potevano disporsi in registri sovrapposti, come a Bobbio, o in riquadri, come nel S. Evasio a Casale Monferrato (1107) e nel S. Giovanni Evangelista di Ravenna (1213), che presenta la celebre cronaca illustrata della quarta crociata e della presa di Costantinopoli.Nella multiforme varietà dei tessellati padani coesistevano due linee di gusto, una legata alla bicromia bianco-nero del gruppo piemontese (S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese, in prov. di Mantova; Reggio Emilia, Mus. Civ. e Gall. d'Arte) e l'altra incline invece alla policromia più vivace ed espressiva (Bobbio, Pavia). La prima via venne seguita, pur se indipendentemente e in coerenza con le tradizioni locali, da un gruppo omogeneo di pavimenti toscani dei secc. 11°-12° - S. Trinita di Firenze (Firenze, Mus. Naz. del Bargello), S. Maria e S. Stefano di Arezzo (attualmente in deposito presso la cappella dell'ex-ospedale psichiatrico), S. Fabiano di Prato -, orientati su composizioni a cerchi contenenti raffigurazioni zoomorfe, chiaramente derivati da tessuti bizantini e islamici.La via del colore caratterizzò invece la produzione del basso Adriatico, che trova l'espressione più compiuta nel pavimento della cattedrale di Otranto, opera del maestro Pantaleone (1163-1165), la cui navata centrale è occupata da un gigantesco albero che ospita tra i suoi rami i soggetti più vari. Agli anni 1160-1180 si datano molti degli altri esempi pugliesi: cattedrali di Taranto, Brindisi, Giovinazzo e soprattutto di Trani, quest'ultimo stilisticamente legato a Otranto, ma anche al mosaico calabrese di S. Maria del Patir a Rossano. Di particolare interesse è anche l'altro pavimento calabrese di S. Adriano a San Demetrio Corone (prov. di Cosenza), con ampie stesure in opus sectile geometrico e figure animali campite a scacchiera, collegabili a produzioni altoadriatiche e mediobizantine della Grecia.Proprio alla tradizione bizantina si riallaccia in parte la terza linea decorativa dei pavimenti medievali italiani, cioè quella che convenzionalmente, anche se impropriamente, si denomina cosmatesca. Il ruolo di tramite viene generalmente indicato nel celebre pavimento dell'abbazia di Montecassino (1066-1071), noto da un disegno settecentesco e da una serie di frammenti rinvenuti dopo l'ultima guerra, che fu eseguito, stando alle fonti, da maestranze costantinopolitane. Alla complessa formulazione dei pavimenti cosmateschi contribuirono comunque altre componenti sia di più diretta provenienza bizantina sia di più remota matrice locale (sectilia romani a pannelli del sec. 6°-7°). Ne risultò una sintesi profondamente originale, caratterizzata da articolate composizioni geometriche che enfatizzano l'asse longitudinale dell'edificio con la presenza, accanto ai motivi ad annodature, di vaste stesure rettangolari a pannelli campite con motivi assai variati. Fortemente connotante è la presenza costante del porfido rosso, in forma soprattutto di grandi rotae, la cui valenza simbolica, collegata alla figura imperiale, non fu certo estranea al ruolo che esse assunsero nel cerimoniale, come per es. quello dell'incoronazione, documentato a partire dal pontificato di Pasquale II (1099-1118), ma ben attestato nei secoli precedenti sia a Roma sia soprattutto a Costantinopoli. Accanto alle istanze ideologiche, la disponibilità di materiale porfiretico fece sì che i pavimenti cosmateschi si sviluppassero in primo luogo a Roma e nel Lazio, per poi diffondersi, anche con varianti compositive e stilistiche, in altri centri dell'Italia centrale e meridionale. I riferimenti cronologici si avvalgono in molti casi dei dati offerti dall'arredo liturgico e architettonico eseguito parallelamente dai marmorari che li siglarono con le loro firme.Nel sec. 12° si collocano i primi esempi romani (S. Clemente, S. Crisogono, Santa Croce in Gerusalemme, S. Maria in Cosmedin, Ss. Quattro Coronati) e laziali (S. Andrea in flumine a Ponzano Romano, S. Anastasio a Castel Sant'Elia, S. Maria di Castello a Tarquinia, S. Maria Immacolata di Ceri e forse S. Ambrogio di Ferentino), abbastanza omogenei per schemi compositivi e repertorio, ai quali si possono aggiungere testimonianze più lontane e di probabile derivazione romana (duomo di Pisa) o collegate al gruppo dell'Italia meridionale (S. Nicola di Bari). I pavimenti duecenteschi romani (S. Lorenzo f.l.m., oratorio di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati, cappella del Sancta Sanctorum), cui si deve aggiungere quello della cripta della cattedrale di Anagni, modificano in parte le intelaiature partizionali, ponendo maggiormente l'accento su schemi centralizzati.In margine alla produzione romano-laziale si svilupparono varianti stilistiche originali sia in area campana sia nella Sicilia normanna. La prima si caratterizza per la notevole vivacità cromatica e per l'inserimento nel contesto geometrico di elementi marmorei figurati di semplice profilo (duomo di Sant'Agata dei Goti, cattedrale di Casertavecchia, ma anche duomo di Terracina, questi ultimi del sec. 13°). La seconda si collega da un lato agli esempi campani per la presenza di inserti figurati (S. Maria dell'Ammiraglio, o della Martorana, di Palermo), ma mostra dall'altro un sensibile influsso delle geometrie islamiche a linee spezzate (Cappella Palatina e S. Cataldo a Palermo, duomo di Monreale); elemento unificante è la presenza, incisiva più che altrove, del porfido rosso, che si armonizza con la scelta dei sovrani normanni per i loro sarcofagi.I pavimenti cosmateschi furono poi esportati anche lontano dall'Italia (abbazia di Westminster, 1268), ma restarono, soprattutto per il gusto cromatico, un fenomeno di matrice essenzialmente romana che ebbe una fortuna così duratura nel tempo da varcare i confini del Medioevo.
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Nonostante i dati specifici sui p. islamici risultino ancora frammentari, una divisione di massima può operarsi tra i territori occidentali (Vicino Oriente, Africa settentrionale, Spagna) e quelli più orientali (Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan). Nei primi i p. sono decorati con tecniche diverse a seconda dei luoghi e delle epoche e, accanto ai mosaici bicromi e policromi di tradizione romano-bizantina, rivisitati in una chiave ornamentale islamica, si colgono soluzioni decorative originali. Nei secondi prevale invece il costume orientale di p. disadorni da coprire con tappeti. L'analisi dei repertori figurativi e della loro resa stilistica ha peraltro evidenziato chiari riferimenti a questi ultimi anche nei casi del primo tipo.Le fonti riportano che, sull'esempio della Grande moschea di Medina, ricostruita dal califfo ῾Umar nel 638, anche quella di ῾Amr del Fusṭāṭ al Cairo (641-642) e i primi interventi omayyadi in più antiche moschee irachene, come a Bassora (665) e a Kūfa (670), presentavano p. in semplici acciottolati (ḥaṣā). Secondo al-Kindī (sec. 9°; Creswell, 1989, p. 15, n. 33), già nella ricostruzione della moschea di ῾Amr sotto Mu῾āwiyya (661-680) il vecchio acciottolato fu sostituito da un p. coperto con stuoie. Nella Grande moschea di Wāsiṭ, città fondata dal governatore dell'Iraq al-Ḥajjāj ibn Yūsuf nel 703-704, gli scavi hanno individuato tre diversi tipi di p.: quello del primo impianto era in mattoni teneri rossi (lato cm 23 o 30), posti in opera diagonalmente in malta gessosa e in file parallele ai lati dell'edificio; ai primi del sec. 10° risale il successivo, in mattoni cotti allettati in malta tenace, mentre alla fase più recente si riporta un p. in gesso. In linea con l'aulico programma decorativo di tutto l'edificio e con le tradizioni costruttive siriache, la Grande moschea di Damasco, fatta costruire da al-Walīd I (705-715), era invece pavimentata in lastre di marmo bianco.Poche sono le notizie circa il periodo abbaside. In Iraq era diffuso l'uso di p. in cotto: prima del citato intervento nella Grande moschea di Wāsiṭ, ne sono attestati a Raqqa (fine sec. 8°-inizi 9°), come per es. quello con mattonelle (lato cm 20) nel cortile di una piccola moschea posta all'esterno delle mura. In Iran molte delle antiche moschee avevano p. in terra battuta: così nella c.d. Ṭārī-Khāna di Dāmghān (750-789), nel primo impianto di tipo arabo della Masjid-i Jum῾a di Isfahan (772) e nella piccola moschea di Fahraj (sec. 9°). Nella moschea congregazionale di Sīrāf (815-825) il santuario era pavimentato in malta, mentre cortile e porticati erano ricoperti da blocchi quadrati di arenaria (lato cm 30-40); la corte di una delle moschee minori, databili dal sec. 9° al 12°, era invece rivestita da ghiaia.Nel Pakistan, ad al-Manṣūra, nel Sind, capitale degli Habbaditi dall'861 al 1025, quando fu conquistata da Maḥmūd di Ghazna, la Grande moschea aveva anche la sala di preghiera pavimentata in mattoni.Sempre in Pakistan, la moschea ghaznavide nel sito di Rājā Gīrā a Uḍergrām, nello Swat, in corso di scavo da parte della missione archeologica italiana, presenta, nel suo assetto definitivo (prima metà sec. 11°), un solido strato di terra battuta rossastra nel santuario, mentre la corte porticata è rivestita con lastre di schisto, materiale edilizio molto diffuso nella zona.Nelle province occidentali sembra sia stato adottato dal sec. 9° l'uso di rivestire i p. esterni di importanti edifici religiosi con intarsi marmorei policromi arricchiti da inserti di ceramica invetriata, secondo una tecnica che, comparsa nella Grande moschea di Kairouan, si diffuse nell'11° e 12° secolo. Questo gusto per la policromia caratterizza anche la Siria e l'Egitto in epoca mamelucca (1250-1517), quando i p. vennero realizzati in mosaico a tessere marmoree di varia misura; generalmente di forma triangolare, rettangolare o stellare, di colore giallo, rosso, nero e bianco, esse formano ampi disegni geometrici intorno a grandi dischi in marmo pregiato ricavati dal sezionamento di antiche colonne. Begli esempi sono al Cairo negli edifici religiosi di periodo bahrita (1250-1382), come le madrase di Ibn Qalāwūn (1285), di Sulṭān Ḥasan (1356-1361), di Sulṭān Barqūq (1386), i mausolei di Sulṭān Ashrāf Barsbay (1432) e di Qaytbay (1468-1495), e nella più tarda moschea burgjita di Qijmas al-Isḥāqī (1480-1481).Per quanto riguarda l'edilizia civile, nei c.d. castelli del deserto di epoca omayyade (661-750) ebbero grande diffusione i p. a mosaico (v. Mosaico; Grabar, 1973). A Khirbat al-Minyā (705-715), presso il lago di Tiberiade, in Palestina, si sono perfettamente conservati i mosaici pavimentali in un appartamento (bayt) nella zona sudoccidentale del palazzo. Un bordo a cerchi alternati a rombi incornicia, in un caso, il campo centrale, trattato con un intreccio di derivazione tessile che ripropone in maniera evidente l'idea di un tappeto. Ad ῾Anjar (714-715), in Libano, sulla strada Beirut-Baalbek, in una grande sala che dava accesso alle terme, cerchi annodati alle losanghe che li contengono si dispongono entro un bordo a tripla treccia. Un motivo simile è nei mosaici pavimentali che decorano il complesso di Quṣayr ῾Amrā, in Giordania, a E di ῾Ammān, datato da Creswell (19692), come i precedenti, al califfato di al-Walīd I (705-715), ma assegnato a Yazīd III (744) da Grabar (1973). Qui la tecnica tradizionale del mosaico di pietra è arricchita dall'inserimento di tessere vitree.Scavi recenti a Qaṣr al-Ḥallābāt, in Giordania, hanno portato alla luce i p. musivi (prima metà sec. 8°) che decoravano tutti gli ambienti relativi alla ricostruzione omayyade di questo castrum romano. I pannelli a disegno geometrico sono conservati per lo più in modo frammentario e i due casi più completi presentano anche motivi figurati.Alla residenza principesca di Khirbat al-Mafjar (739-743), presso Gerico, in Palestina, è annesso un monumentale edificio termale nella cui vasta sala ipostila centrale sono stati trovati quasi intatti i mosaici pavimentali, composti da trentotto pannelli policromi, trentuno con disegni geometrici diversi e sette duplicati.P. in lastre di marmo rivestivano le sale d'apparato di Khirbat al-Minyā, di Quṣayr ῾Amrā, di Qaṣr al-Ḥayr al-Sharqī (Siria) e le stanze fredde annesse al bagno di Khirbat al-Mafjar. Qui la corte del palazzo era pavimentata con pietra calcarea locale; il vestibolo annesso agli appartamenti sul lato ovest e la cisterna del sirdāb presentavano una sorta di calcestruzzo (madda), mentre lastre di basalto formavano il p. dell'ipocausto delle terme.La tradizione dei p. a tessere litiche si ritrova in Africa settentrionale a opera di artigiani locali che ereditarono tecnica e stile decorativo dai predecessori romanizzati. In Tunisia, nei palazzi aghlabidi di Raqqāda (sec. 9°-10°) gli scavi hanno portato alla luce alcune sale pavimentate a mosaico (v. Aghlabidi). Di poco più tardo è il p. a mosaico policromo recuperato a Mahdia, tra le rovine del palazzo fatimide del 934-946 di al-Qā'im (v. Fatimidi).P. a intarsi di ceramica invetriata decoravano i palazzi fatimidi di Ṣabra Manṣūriyya, vicino a Kairouan, sia nelle sale interne sia nelle corti esterne. Qualche frammento ne è venuto alla luce anche nelle due sedi algerine degli Hammaditi (secc. 11°-12°), Bugia e la Qal῾a, dove, in diverse varianti cromatiche, sono particolarmente diffuse le combinazioni geometriche ottenute dall'incastro di stelle a quattro punte, esagoni a lati concavi e piccoli quadrati di congiunzione, oppure di croci e stelle a otto punte. In quest'ultimo caso, a volte, compaiono piccoli motivi dipinti a lustro metallico, tecnica che ne denuncerebbe un'origine mesopotamica, diretta o mediata dall'Egitto.A Madīnat al-Zahrā᾽, presso Córdova, città fondata dall'omayyade ῾Abd al-Raḥmān III nel 936 e sopravvissuta fino al 978-979, per i p. del palazzo venne utilizzata una tecnica mista, con mattoni giustapposti a conci di pietra bianca; la decorazione presenta generalmente motivi a scacchiera o a galloni di larghezza uniforme, ottenuti assemblando gli elementi ad angolo retto; vi si trovano anche p. a intarsio in ceramica smaltata. Nella Spagna di epoca successiva entrambe le tipologie confluirono nella tecnica c.d. almorrefa, frequente nelle chiese andaluse romanico-gotico-mudéjares, dove i mattoni vengono combinati con azulejos.Suggerimenti islamici vennero accolti dalla Sicilia normanna più o meno a partire dagli anni quaranta del 12° secolo. A Palermo, nella Cappella Palatina e nella chiesa di S. Cataldo i p. a grandi riquadri con fasce a mosaico in pasta vitrea, disposte intorno a tondi o rettangoli di marmo pregiato, sono di ispirazione bizantina, ma la decorazione geometrica a linee spezzate è di gusto islamico, trattata però in modo anislamico negli schemi compositivi conchiusi in sé (Gabrieli, Scerrato, 1979, pp. 339-340). Una maggiore adesione agli schemi compositivi islamici denunciano i tratti superstiti del p. del battistero di Pisa, eretto a partire dalla metà del sec. 12°, dove l'ornato appare dilatabile all'infinito e il motivo di base, derivato dal poligono stellare, si presta a varie possibilità di lettura.In Turchia, interessanti mosaici a tessere marmoree di diverse forme e colori sono stati trovati nella corte del palazzo artuqide di Amida (1203-1222), l'od. Diyarbakır.In Iraq, negli interventi omayyadi sui più antichi edifici palaziali di Kūfa (670) e di Wāsiṭ (703-704), non v'è traccia di p. riconducibili alla grande tradizione dei castelli del deserto. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce p. in mattoni che nel secondo caso sono simili, anche nella coloritura rossa, a quelli utilizzati nella Grande moschea della stessa città. Nel dār al-imāra di Kūfa, tre stanze della fase riconducibile a Ziyād b. Abīhi (seconda metà sec. 7°), che fece ricostruire anche la moschea, erano pavimentate con mattoni quadrati (lato cm 20-22). Tra gli interventi del primo periodo abbaside nello stesso palazzo, prima del suo abbandono verso la fine del sec. 8°, si annovera la sequenza di due p. nel grande cortile esterno, un primo in gesso e un secondo in laterizio. Quest'ultimo materiale fu diffusamente usato anche nei successivi edifici iracheni.Nella zona pubblica e cerimoniale del c.d. palazzo B di Raqqa (fine sec. 8°-inizi 9°) il cortile era in mattonelle di cotto (lato cm 40), mentre il grande vestibolo d'ingresso presenta un p. del tutto inconsueto in mattoni e, inseriti in un letto di stucco, piccoli cubi di vetro con faccia inferiore appena arrotondata e faccia superiore accuratamente lisciata. Mattonelle di cotto di misura inferiore (lato cm 24) si trovavano anche nel c.d. palazzo G nel portico di una corte rettangolare.A Samarra (836-883), i p. di cortili e stanze sia dei palazzi, come il Qaṣr al-Jass o l'edificio annesso alla moschea di Abū Dulaf, sia delle case più modeste, erano in mattonelle di cotto di dimensione variabile. Un ampio uso di p. in laterizio si registra anche ad al-Manṣūra, in Pakistan.Per l'edilizia ghaznavide, gli scavi condotti a Ghaznī, in Afghanistan, dalla missione archeologica italiana alla fine degli anni Cinquanta, nel palazzo di Mas῾ūd III (terminato nel 1111), hanno documentato p. realizzati in varie tecniche e in cui raramente sono presenti accorgimenti decorativi.
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