Pazzi di Valdarno
Famiglia nobile; araldisti e genealogisti dei secoli XVI e XVII attribuirono origini comuni a questa consorteria feudale prevalentemente ghibellina e alla omonima casata guelfa fiorentina; tuttavia, l'esame della documentazione archivistica che riguarda i P. di Valdarno ha indotto i più recenti storici di Firenze e i cultori di araldica fiorentina a pensare il contrario, e che, anzi, essi siano da considerare consanguinei dei Donati e degli Ubertini. I cronisti (Malispini, CLXXXIX; Compagni, I 7, 8, 10; II 28; III 11, 14; Marchionne, CXLVIII, CDV, DXLIX, DLXI) li ricordano fra i nobili feudatari della media valle d'Arno, dove furono signori di terre e di castelli incombenti sul corso del fiume dalle pendici occidentali del Pratomagno.
Molti di essi si conservarono fedeli al ghibellinismo anche dopo le vittorie conseguite dalla fazione avversaria a Benevento e a Tagliacozzo; con una scelta politica rischiosa e non più tempestiva, ma in certa misura obbligata per dei dinasti di contado che dovevano difendersi dall'espansione territoriale di Firenze guelfa. Per i ripetuti interventi nella lotta politica cittadina a favore dei loro compagni di Parte, e più ancora per le incessanti scorrerie attuate a danno dei traffici fiorentini, i P. si attirarono frequenti bandi e spedizioni punitive organizzate dal comune - documentati da numerosi atti emanati dagli organi del governo fiorentino, così come dai magistrati criminali della città; - nella seconda metà del Duecento Firenze li considerava nemici ancora tanto forti e pericolosi da acconciarsi (nel 1269 e nel 1270) a sopportare sacrifici di sangue e di denaro pur di poterli snidare dai loro fortilizi di Ostina e di Pian di Mezzo (detto anche Pian tra Vigne), onde rendere sicuri i loro commerci lungo la valle dell'Arno. E se nel 1280 ne ammise alcuni a sottoscrivere la pace tra le fazioni, rinnovò, tuttavia, il bando contro Guglielmo, divenuto, nel 1275, fiero capo dei ghibellini bolognesi. Più tardi, costui sarebbe ritornato in armi contro Firenze, sollevando i ghibellini di Arezzo, insofferenti della dominazione fiorentina (1287), e partecipando alla battaglia di Campaldino (1289); qui egli preferì morire sul campo, insieme con due nipoti, piuttosto che arrendersi ai nemici.
I ripetuti insuccessi non fiaccarono, però, la capacità offensiva dei P., così che Firenze fu indotta, sul volgere del sec. XIII, a edificare le cinte murate di San Giovanni - sulla riva sinistra dell'Arno - e di Castelfranco di Sopra - sulle pendici del Pratomagno -, per facilitare in quelle terre l'asilo (e quindi la liberazione dai vincoli feudali) ai servi dei P. e degli altri dinasti del contado circonvicino, e per meglio vigilare dalle mura il territorio circostante e le vie di comunicazione verso Roma. In tal modo fu possibile contenere e gradualmente ridurre l'irruenza dei P., la cui offensiva antifiorentina finì per assumere, nell'ormai ordinato strutturarsi del sistema politico-territoriale ed economico regionale, l'aspetto di esasperante quanto infruttuoso brigantaggio piuttosto che di contrapposizione politico-militare valida sul piano ideale. Anche se venivano sempre meglio contenuti dalla supremazia di Firenze sulla Toscana centrale, mentre le loro possibilità economiche e militari erano coinvolte nella generale crisi delle minori formazioni feudali, i P. continuarono ciononostante a intervenire con qualche efficacia nei contrasti tra le fazioni cittadine e nelle relazioni tra Firenze e i comuni rivali. Nel 1301 essi si allearono con i Bianchi, e ciò valse a essi la condanna da parte del podestà Cante de' Gabrielli; nel 1337 Firenze, insignoritasi di Arezzo, li bandì anche da quella città, obbligandoli a starne lontani per dieci anni, pena la condanna per ribellione; ma poco più tardi essi erano ancora una volta accanto ai grandi Fiorentini impegnati nel tentativo (1340) a danno dei liberi ordinamenti comunali; così come, nella seconda metà del Trecento, alcuni di essi sarebbero stati presenti in armi sotto le bandiere delle formazioni politiche avversarie di Firenze; di Pisa, cioè, e dei Visconti. L'ultimo ricordo di uno di questi P. si riferisce a un Gaspare, militante nel 1405 proprio fra le schiere pisane nell'ultima difesa di quella repubblica contro Firenze.
La stirpe dei P. di Valdarno non si può, tuttavia, considerare estinta con la morte di questo personaggio, perché la diaspora conseguente ai bandi aveva già nel Due-Trecento obbligato parecchi di loro a prendere dimora in altre città toscane, ove assunsero cognomi diversi, inserendosi nei nuovi ambienti politico-sociali in cui erano venuti a trovarsi. In Siena, sullo scorcio del XIII secolo, un Cino di Ugo P. ottenne il diritto di cittadinanza e diede origine alla casata dei Cinughi, ancora oggi fiorente in quella città. Essa porta come secondo cognome quello dei P. e ha per stemma uno scudo inquartato e controinchiavato d'oro e di rosso.
D. e i commentatori della sua opera ricordano più volte i P. di Valdarno con espressioni e in situazioni che risentono notevolmente del disprezzo ormai prevalente agl'inizi del sec. XIV nei loro confronti in seno alla classe dirigente fiorentina, che li considerava banditi fuori legge - per quanto temibili essi fossero - piuttosto che avversari degni di rispetto sul piano politico-militare. In If XXXII 68-69 il poeta immagina d'incontrare fra i traditori Uberto (Alberto) Camicione (v.) e Carlino di Ciupo (v.); il primo uccisore a tradimento del nipote - o, comunque, prossimo parente - Ubertino (secondo l'Anonimo, il Lana, L'Ottimo e Benvenuto), oppure (secondo il Del Lungo) di un Ubertini di Valdarno, anch'egli suo lontano parente, al fine di usurparne beni e domini feudali; il secondo traditore dei Bianchi, nell'interesse dei quali presidiava il castello di Pian tra Vigne che, invece, consegnò ai Neri il 15 luglio 1302, allo scopo d'ingraziarsi la fazione vittoriosa per ottenerne il perdono politico e la revoca dei bandi che lo avevano colpito (Villani VIII 53). A questa consorteria appartenne anche Ranieri (Rinier Pazzo, v.), morto nel 1280, che D. incontra fra i violenti contro il prossimo (If XII 137).
Bibl. - Brevi sintesi della vicenda genealogica di questi feudatari sono in G.G. Warren lord Vernon, L'Inferno, ecc., II, Documenti, Londra 1862, 454-455, e in Scartazzini, Enciclopedia 1454-1457. Sui Cinughi, cfr. la genealogia di G. Cecchini, nella Enciclopedia storico-nobiliare, di V. Spreti, II, Milano 1929, 468. Per l'inserimento dell'attività politico-militare dei P. di Valdarno nella storia di Firenze e della Toscana, cfr. G. Capponi, Storia della repubblica di Firenze, I, Firenze 1875, 189, 196; Davidsohn, Storia, passim. Sui P. di Valdarno ricordati da D., cfr. I. Del Lungo, Dal secolo e dal poema di D., altri ritratti e studi, Bologna 1898. Per la tesi circa le origini di questa consorteria, si vedano le opere degli eruditi citate a proposito dei P. di Firenze.