pazzia
Il termine non presenta molte occorrenze nelle opere machiavelliane; tanto più se considerato nella sua valenza politica – che è quella che qui interessa. Un cenno va fatto a termini non di per sé affini, ma avvicinabili a p. in articolazioni e accezioni particolari: ciò può valere, per es., per impeto (→ riscontro), al quale, in alcuni casi, può essere ricondotta anche l’idea dell’imprevedibilità, dell’agire istintivo e irriflessivo: a qualcosa insomma che, presupponendo un comportamento non conforme a ‘prudenza’ o ‘saviezza’, potrebbe essere accostato all’idea di p., nel senso testimoniato dal giudizio di Filippo Maria Visconti in Discorsi II xxv 15, a proposito delle «pazzie de’ Fiorentini» che «gli avevano fatto spendere inutilmente due milioni d’oro», dove ‘pazzie’, sul piano politico-diplomatico, vale a segnalare comportamenti inaffidabili, ondivaghi e imprevedibili (ma sulla ‘p. dei Fiorentini’, citati a esempio di ‘repubblica debole e male risoluta’, soggetta perciò a scelte incongruenti, cfr. il giudizio di Imbault Rivoire signore de la Bâtie, generale francese al tempo dei casi di Arezzo del 1502 – in Discorsi I xxxviii 18 –, che fece «intendere ai Fiorentini come egli erano matti e non s’intendevano delle cose del mondo»). L’idea di p. come articolazione particolare dell’istintività è richiamata in un famoso quanto precoce giudizio sul comportamento di papa Giulio II che, prima di divenire caso esemplare di principe ‘impetuoso’ (versus ‘rispettivo’) in Principe xxv, era stato appunto connotato incisivamente nei Ghiribizzi al Soderino (1506) come uomo dal comportamento politicamente incontrollabile, estraneo a ogni parametro di ‘misurabilità’ razionale (efficacemente espressi dall’immagine degli strumenti di misura del peso e della lunghezza lineare: «Questo papa [...] non ha né stadera né canna in casa», Lettere, p. 137).
Con più precisi contorni ideologici (non senza l’eco di una diretta polemica), il tema della p. va collegato al tradizionale giudizio negativo sul comportamento del popolo, sul quale grava l’accusa (un topos del pensiero classico) di essere incostante e contraddittorio. M. lo affronta soprattutto in Discorsi I lviii, consapevole che la sua tesi (La moltitudine è più savia e più costante che uno principe) lo espone, per la sua eccentricità, al biasimo dei più («volendo difendere una cosa la quale [...] da tutti gli scrittori è accusata», I lviii 6). Al centro della tesi machiavelliana è l’idea che un comportamento dettato dalla ‘saviezza’ non dipende da fattori caratteriali e psicologici, ma ‘legali’: è ‘savio’ chiunque (sia esso popolo o principe) è «regolato dalle leggi» (non è «sciolto», che è come dire ‘assoluto’ [absolutus], svincolato da ogni forma di obbligo e di controllo: situazione che lo espone all’espressione incontrollata, e perciò distruttiva, delle sue passioni). Il termine saviezza presuppone naturalmente, come suo contrario, pazzia: ed è una dicotomia che rimane sottintesa per tutto il ‘discorso’, ma esplicitata nella parte conclusiva: «un principe che può fare ciò ch’ei vuole è pazzo; un popolo che può fare ciò ch’ei vuole non è savio» (§ 34). La polemica machiavelliana contro la «commune opinione» (§ 17) non è evidentemente rivolta solo agli auctores, ma anche agli ottimati fiorentini (i ‘savi’, secondo una denominazione diffusa che incrociava il dato puramente sociale con il giudizio qualitativo), e trova puntuale riscontro negli scritti guicciardiniani, e in particolare nella redazione definitiva dei Ricordi, dove il nesso popolo/pazzia (irrazionalità; assenza di controllo; imprevedibilità comportamentale) trova il tono della diretta invettiva: «Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità» (redazione C, 140). Da notare che il termine «stultizia» (usato in Discorsi III ii 2 come perfetto sostitutivo di pazzia) ricorre anche in Discorsi I xliv – che richiama, pur alla lontana, il problema del comportamento della moltitudine, e la sua capacità di elaborare forme efficaci di condotta politica (come indica il titolo: Una moltitudine sanza capo è inutile [...]).
Su un diverso piano va considerata la p. simulata, posta al centro di un capitolo dei Discorsi (III ii: Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia), che analizza un episodio avente per protagonista Lucio Giunio Bruto, il fondatore della Repubblica romana e primo console di Roma (509 a.C., secondo la datazione tradizionale). Bruto, per non essere eliminato dal ‘tiranno’ Tarquinio il Superbo si finge pazzo, risultando così innocuo. L’episodio (desunto da Livio I lvi) è collocato da M. all’interno di una problematica di sapore evidentemente fiorentino (nel problema del rapporto con i ‘tiranni’ Medici), come sembra suggerire nel testo l’accenno all’opinione di «alcuni», che consigliano di non essere tanto vicini ai principi da essere coinvolti nella loro rovina, né tanto lontani da non poter approfittare della loro caduta: una riflessione non esente da riflessi pratici, ben presente, anche nei suoi risvolti ‘medicei’, in Francesco Guicciardini, Ricordi, redazione C, 98-101 e 103. L’episodio liviano (come indica Bettini 2000, pp. 53-54) richiama un antichissimo motivo antropologico, quello della simulazione della p. in vista della vendetta o della riuscita politica, già biblico (David presso la corte di Achis, Samuele xxi 12-15) e frequente nel mondo classico (Solone in Plutarco, Vita di Solone viii; l’imperatore Claudio in Svetonio, Vita di Claudio xxxviii); e che ritornerà in William Shakespeare (che nella p. [madness] di Amleto ci sia «method» è colto da Polonio fin dal secondo atto), ma spesso incrociato con motivi dei folk-tales: nell’episodio qui considerato ben rilevabili nell’interpretazione delle parole dell’oracolo da parte di Bruto (il regno sarebbe toccato a chi per primo avrebbe ‘baciato la madre’), che «simulò cadere per baciare la terra [che è appunto ‘madre’ degli uomini], giudicando per quello avere favorevoli gl’Iddii a’ pensieri suoi» (§ 4): eco di un’aneddotica dai contorni favolistici, che presuppone una forma ambigua o ossimorica di pazzia/saggezza, in grado di reinterpretare abilmente la realtà sulla base di imprevedibili e acuti meccanismi analogici.
Bibliografia: M. Bettini, Bruto lo sciocco, in Id., Le orecchie di Hermes, Torino 2000, pp. 53-105.