Peccato e filosofia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il secolo XII costituisce un momento di svolta nella storia della concezione del peccato. Sullo sfondo di un rinnovato umanesimo e in parallelo a una evoluzione della penitenza che va scoprendo i nuovi territori della coscienza, Pietro Abelardo propone una nuova definizione di peccato che individua la colpa unicamente nel consenso interiore dato all’inclinazione al male.
Agostino d’Ippona
Il peccato dei progenitori e la punizione divina
La città di Dio, Libro XIV
I primi esseri umani cominciarono a essere cattivi in segreto, per poi cadere in disobbedienza scoperta. Non sarebbero giunti all’azione cattiva, se l’avesse preceduta la cattiva volontà. E della cattiva volontà quale poté essere l’inizio, se non l’orgoglio? Inizio di ogni peccato infatti è l’orgoglio; e cos’è l’orgoglio, se non desiderio di un’elevazione distorta? È infatti un’elevazione distorta quella per cui si abbandona il principio a cui la mente deve attenersi, per farsi ed essere in qualche modo il proprio principio. Ciò avviene per un eccesso di compiacimento di se stessi; e ci si compiace di se stessi quando si abbandona il Bene immutabile che dovrebbe piacere più di se stessi […]. L’uomo non ebbe dunque riguardo per il comando di Dio, suo Creatore, che l’aveva fatto a propria immagine, lo aveva posto al di sopra di tutti gli animali, lo aveva stabilito nel paradiso, lo aveva fornito abbondantemente del necessario al suo benessere, non lo aveva oppresso con molte, gravi e difficili prescrizioni ma con una sola, semplicissima e leggerissima, aveva fornito un sostegno salutare alla sua obbedienza ricordando a quella creatura ch’Egli era il Creatore, e servire a Lui liberamente era nel suo interesse. Perciò seguì una giusta condanna. Per essa l’uomo, che sarebbe divenuto spirituale anche nella carne, diventava carnale anche nella mente; nel suo orgoglio era piaciuto a se stesso, e la giustizia di Dio lo lasciava a se stesso. Ma nemmeno padrone assoluto di se stesso, bensì in dissidio anche con se stesso e in potere di colui a cui col peccato aveva ceduto. Invece della libertà che aveva sfrenatamente bramato, gli toccava una dura e infelice servitù. Aveva voluto morire nello spirito e sarebbe morto, come non avrebbe voluto, nel corpo; aveva disertato la vita eterna e sarebbe stato condannato anche alla morte eterna, se la Grazia non l’avesse liberato.
A. d’Ippona, La città di Dio, trad. it. di C. Carena, Torino, Einaudi-Gallimard
Pietro Abelardo
Il peccato sta solo nel consenso
Conosci te stesso o Etica
Tutte queste considerazioni sono state da noi introdotte affinché qualcuno volendo sostenere che ogni diletto carnale è peccato non dica che lo stesso peccato è aggravato dall’azione, quando uno traduca il consenso dell’animo nell’atto concreto, così da macchiarsi non solo per il consenso al male ma anche per la bruttura dell’azione; quasi che ciò che avviene al di fuori, nel corpo, possa contaminare lo spirito. Un’azione qualsiasi pertanto non ha nulla a che vedere con un aumento del peccato; niente può in alcun modo inquinare l’anima, se non ciò che procede dall’anima, vale a dire il consenso, che solo abbiamo detto che è peccato; non la volontà che lo precede o l’azione che lo segue […]. Io penso poi che nessuno ignori quanto spesso le azioni che non si devono compiere si fanno senza peccato: quando per esempio vi si sia indotti per violenza, o si commettano per ignoranza; come nel caso in cui una donna, subendo violenza, sia costretta a giacere col marito di un’altra o in cui uno, comunque ingannato, vada a letto con una donna che ritiene sua moglie; o come nel caso in cui uno uccida per errore un tale, credendo di doverlo uccidere in funzione di giudice. Non è pertanto peccato desiderare la donna d’altri o giacersi con lei, ma piuttosto acconsentire a simile desiderio o a simile azione.
P. Abelardo, Conosci te stesso o Etica, trad. it. di M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1976
Tommaso d’Aquino
Il peccato, la ragione, la legge
La Somma teologica, Vol. XI
Rispondo: Dalle cose dette in precedenza è evidente che il peccato non è altro che un atto umano cattivo. Come pure è evidente che un atto è umano perché volontario: sia esso volontario perché emesso dalla volontà, come la volizione e l’elezione; sia perché comandato dalla volontà, come gli atti esterni del parlare o dell’agire. Ora, un atto umano deve la sua cattiveria al fatto che manca della debita misura. D’altra parte la misura per qualsiasi cosa si desume da una regola, scostandosi dalla quale la cosa diviene sregolata. Ora ci sono due regole della volontà umana: una prossima e omogenea, l’altra invece è la regola prima, cioè la legge eterna, che è come la ragione di Dio. Ecco perché Agostino nella definizione del peccato incluse i due elementi: il primo, che costituisce la sostanza dell’atto umano, ed è come l’elemento materiale del peccato: “parola, azione o desiderio”; il secondo invece, che è come l’elemento formale del peccato, costituisce la ragione stessa di male: “contro la legge eterna”.
Tommaso d’Aquino, La Somma teologica, Bologna, ESD, 1984
Nonostante la novità della definizione abelardiana, testimoniata dalle reazioni violente che suscita soprattutto negli ambienti monastici, quella definizione prende le mosse e, nello stesso tempo, anche le distanze da una dottrina del peccato da tempo consolidata che risale nei suoi punti fondamentali ad Agostino.
Per Agostino il peccato è un atto della libera volontà dell’uomo che si allontana (aversio) dal bene divino per volgersi (conversio) ai beni mondani. Un atto mancato della volontà che non rispetta l’ordine voluto da Dio, determinato da un amore disordinato che preferisce l’inferiore al superiore, il mutevole all’immutabile, il sensibile allo spirituale, le creature al creatore. Tale è stato il peccato dei progenitori, i quali, per superbia, cioè per un amore disordinato rivolto più a se stessi che a Dio, vollero essere come dèi; cedendo alla tentazione diabolica trasgredirono, per loro libera scelta, un esplicito comando divino e furono puniti con la perdita della perfezione originaria. Quel primo peccato non è però solo l’archetipo di quelli successivi; leggendo il racconto della Genesi alla luce del versetto paolino secondo cui “come per la disobbedienza di un solo uomo i molti sono stati costituiti peccatori, così per l’obbedienza di uno solo molti saranno resi giusti” (Rm. 5, 19), Agostino ritiene che il peccato del primo uomo e della prima donna si trasmetta attraverso la generazione a tutti gli uomini sia come colpa sia come pena. Questo significa che ogni singolo uomo, in quanto tale, è colpevole del peccato dei progenitori e come loro punito da Dio: debole nel corpo e nell’anima, sottoposto alla morte e alle malattie, preda del dolore e dell’ignoranza, costretto al lavoro per sostentarsi e, soprattutto, servo della concupiscenza della carne, un desiderio disordinato e incontrollabile che lo spinge ulteriormente al peccato. Il peccato originale è così posto all’origine della storia dell’umanità e della vita di ogni uomo divenendo l’origine di una catena di peccati che solo dopo l’Incarnazione e l’istituzione dei sacramenti gli uomini possono sperare di interrompere prima del Giudizio finale che, sulla base dei peccati commessi, separerà definitivamente i salvati dai dannati.
L’idea del peccato come atto della libera volontà dell’uomo, unita a quella di una colpevolezza originaria, la necessità dell’Incarnazione e dell’azione della grazia per la remissione dei peccati, il ruolo fondamentale della concupiscenza carnale che, sottraendo l’atto generativo a qualsiasi controllo da parte della volontà, diventa nello stesso tempo segno del peccato e veicolo della sua trasmissione: da questi punti fondamentali della dottrina agostiniana del peccato prende le mosse la riflessione medievale sulla colpa.
Una prima risposta, sul piano dell’esperienza più che della dottrina, al quadro delineato da Agostino viene dai monaci. La scelta di rinunciare al mondo e intraprendere un cammino di privazione e di ascesi al fine di ripristinare, per quanto è possibile in questa vita, la perfezione originaria si presenta come un modo, esemplare ed elitario nello stesso tempo, per espiare i peccati, limitare la servitù della concupiscenza e sottrarsi alla necessità del peccato.
Maestri nella lotta contro tentazioni e vizi, i monaci hanno insegnato, meglio di altri, a conoscere i peccati mostrandone la dinamica psicologica, la varietà, i reciproci legami. Tutta monastica è l’invenzione del più fortunato sistema di classificazione dei peccati, i sette vizi capitali. Elaborato presso i monaci orientali, importato in Occidente da Giovanni Cassiano, ulteriormente rinnovato da Gregorio Magno, il sistema si compone di sette vizi principali (vanagloria, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria), capeggiati da un vizio “principalissimo”, la superbia, e a loro volta posti a capo di numerosi vizi secondari. Rappresentato ora attraverso l’immagine di una milizia guidata da un capo, da cui dipendono sette luogotenenti e una folta schiera di soldati semplici o attraverso l’immagine di un albero dalla cui radice si dipartono sette rami principali che producono altre ramificazioni colme di innumerevoli foglie, fiori e frutti, il sistema dei vizi capitali offre al disordinato universo della colpa un ordine al contempo gerarchico e genealogico che consente di collocare ogni peccato in un punto preciso della gerarchia del male individuandone con precisione origini, conseguenze e gravità. Per questo motivo, molti secoli dopo la sua invenzione, il settenario conosce una nuova fortuna fuori dalle mura monastiche: nel momento in cui la confessione individuale dei peccati diventa un obbligo per tutti i fedeli, come decreta il concilio lateranense IV del 1215, quell’antica lista di vizi, affiancata ma mai completamente sostituita da un’altra autorevolissima lista, quella dei dieci comandamenti, si rivela lo strumento più diffuso, presso confessori e penitenti, per classificare e valutare i peccati.
Sul piano della dottrina, la tradizione monastica, da Gregorio Magno a Bernardo di Clairvaux e Guglielmo di Saint-Thierry, si colloca in una linea di sostanziale continuità con Agostino. Diverso il caso di Anselmo d’Aosta, che approfondisce e in parte rivede alcuni aspetti della dottrina del vescovo di Ippona, in particolare in relazione ai concetti di volontà e libertà. Per Anselmo, che definisce la libertà come “potere di conservare la rettitudine della volontà per la rettitudine stessa” (De libertate arbitrii, 3, in Opera, I, ed. F.S. Schmitt, Seccovii, 1938), cioè come il potere di rispettare il dovere morale (e dunque la volontà divina) in quanto tale e non in vista di altro che non sia quello stesso dovere, il peccato, a partire da quello originale fino all’ultimo dei peccati personali, consiste nel venir meno di questa rettitudine cioè in un movimento della volontà orientato non dal dover essere ma dall’utilità personale (commodum), in uno scarto insomma tra la volontà propria e quella di Dio.
Rispetto alla concezione agostiniana del peccato i cambiamenti più rilevanti riguardano il tema del peccato originale. Anselmo riprende e approfondisce le tesi di Agostino sulla colpevolezza di tutta l’umanità in Adamo e sulla necessità dell’Incarnazione, ma rivede profondamente il ruolo che Agostino assegnava alla concupiscenza nel determinare la natura e realizzare la trasmissione della colpa originaria nei discendenti di Adamo. A partire dalla definizione del peccato come mancanza di rettitudine della volontà, cioè di giustizia, segue infatti da parte di Anselmo l’affermazione della indifferenza morale degli appetiti carnali e quindi la negazione dell’identità tra concupiscenza e peccato originale. Inoltre l’insistenza sulla dimensione interiore e volontaria della colpa, unita a una solida concezione realista sul piano dell’ontologia, in base alla quale la natura di ogni singolo uomo è compresa in quella di Adamo, lo inducono a negare la possibilità che gli uomini siano contaminati dal peccato nel momento della generazione. L’atto sessuale che genera un nuovo essere umano è certamente un canale di trasmissione della colpa, ma un canale neutro (“nel seme dell’uomo non c’è più peccato di quanto ce ne sia nello sputo o nel sangue”, De conceptu virginali et de originali peccato, 4, in Opera, II, 1940), poiché la concupiscenza che necessariamente dopo il peccato originale accompagna quell’atto nulla aggiunge alla natura già peccaminosa della colpa che trasmette.
Pochi decenni dopo Anselmo, una nuova, e più radicale, presa di distanza dalla tradizionale concezione del peccato avviene a opera di Pietro Abelardo. L’impostazione di fondo resta quella agostiniana dell’interiorità della scelta morale (non a caso l’Etica, scritta da Abelardo tra il 1138 e il 1139, ha come sottotitolo il motto socratico Conosci te stesso), tuttavia la concezione del peccato, che lì è elaborata, radicalizza al tal punto quell’impostazione da entrare in conflitto con alcune tesi fondamentali della dottrina agostiniana della colpa.
Il peccato, per Abelardo, consiste nell’atto interiore che si colloca tra la tendenza naturale a compiere un’azione malvagia e quella azione malvagia effettivamente compiuta, e cioè nel consenso interiore che l’uomo consapevolmente dà alla sua inclinazione al male. Con questa definizione Abelardo distingue il peccato sia dal vizio, considerato una debolezza dell’anima che, dopo il peccato originale, appartiene alla natura dell’uomo alla stregua di un qualsiasi difetto fisico, sia dall’azione peccaminosa, che non aggiunge nulla in termini di peccato al consenso che l’ha generata. Non c’è insomma nessun peccato nel corpo e nell’esteriorità, e anche l’interiorità è in buona parte innocente: non sono peccaminosi gli impulsi, i desideri e nemmeno la volontà, colpevole è solo l’assenso che viene dato a quegli impulsi, a quei desideri, a quelle volontà di compiere il male. L’uomo che ne uccide un altro in preda all’ira, il monaco che, costretto a un rapporto sessuale, prova piacere non compiono peccato; lo compie invece chi acconsente al desiderio della donna altrui pur senza riuscire a possederla. Il consenso è dunque condizione nello stesso tempo necessaria e sufficiente perché ci sia peccato. Ma se il consenso al male è individuale e soggettivo, universale e oggettiva è invece l’individuazione, demandata a Dio e alla sua legge, di ciò che è considerato male. Il consenso, precisa infatti Abelardo, è “il disprezzo di Dio e l’offesa a lui recata” (Etica, tr. Mario Dal Pra, 1976).
Le conseguenze di questa presa di posizione di Abelardo rispetto alla concezione tradizionale del peccato sono numerose e tutte dirompenti. L’idea che l’azione esteriore non implichi in nessun modo una colpa, oltre a comportare una netta distinzione tra peccato e reato, costituisce una presa di posizione molto netta all’interno del dibattito sul sacramento della penitenza: da un lato si oppone a una concezione legalistica e tariffaria della colpa che associa ogni peccato alla violazione di una norma e alla relativa sanzione senza tenere conto delle intenzioni del peccatore, dall’altro affida pressoché esclusivamente al dolore interiore del penitente la funzione di cancellare una colpa che è solo interiore. D’altro canto, l’idea che il vizio non sia peccato ma solo naturale inclinazione contrasta la secolare convinzione di una colpevole corruzione del corpo e dell’anima cui porre rimedio attraverso la mortificazione della carne, la fuga dal mondo e l’ascesi, come insegnavano a fare i monaci. Infine, l’idea che ci sia peccato solo là dove c’è consenso consapevole e soggettivo a peccare fa sì che, da un lato, si sostenga l’impossibilità del peccato d’ignoranza, proclamando così l’innocenza di quanti, ignari che la crocefissione del Cristo comportasse disprezzo per Dio, commisero quell’atto; e che dall’altro si neghi la possibilità per gli uomini di partecipare alla colpa dei progenitori rifiutando così uno dei capisaldi della concezione agostiniana del peccato, quello della trasmissione per via generativa del peccato originale.
Le tesi più estreme della concezione abelardiana del peccato sono in parte respinte, come è il caso dell’innocenza dei crocifissori del Cristo, rinnegata dallo stesso Abelardo, in parte attenuate nella loro radicalità. Già nelle Sentenze di Pier Lombardo, composte nel 1155-1157 e poi divenute una sorta di manuale per i teologi universitari, viene riconosciuta sia l’importanza dell’azione esteriore nel determinare presenza e gravità del peccato sia la necessità, nella penitenza, di affiancare al momento centrale e tutto interiore della contrizione i momenti esteriori della confessione al sacerdote e della soddisfazione delle opere. Tuttavia, l’idea abelardiana che il peccato consista essenzialmente nell’intenzione che lo muove resta un punto saldo in tutte le successive riflessioni: per quanto diverse possano essere le posizioni dei teologi scolastici sull’intreccio di volontà, ragione, sensualità e circostanze esteriori che dà luogo al peccato, nessuno dubita che la nascita, e la remissione, di quell’atto avvenga all’interno nello spazio interiore e individuale della coscienza.
Nella riflessione dei teologi scolastici l’oggetto “peccato” è distinto in peccato originale e peccato attuale o personale. Per quanto riguarda il peccato originale, il dibattito si accende sull’identificazione agostiniana tra peccato originale e concupiscenza, più o meno radicalmente messa in discussione dalla ripresa della concezione anselmiana del peccato in termini di perdita della giustizia originaria, sul ruolo della concupiscenza nella trasmissione del peccato, sulla natura dei beni, naturali o soprannaturali, di cui gli uomini sono stati privati a causa del peccato. L’interesse di questi dibattiti, che presentano una grande varietà di argomentazioni, è molteplice: le diverse soluzioni proposte dai diversi maestri contribuiscono infatti non solo a definire temi squisitamente teologici, quali la qualità e l’estensione dell’azione della grazia, il ruolo dell’Incarnazione, l’innocenza del Cristo e della Vergine, ma intervengono anche su rilevanti questioni antropologiche, quali il rapporto tra anima e corpo, la funzione e il valore della sessualità, la possibilità e il grado di autonomia di un’etica naturale.
Per quanto riguarda il peccato attuale, di cui vengono analizzati in modo sistematico natura, cause, dinamica, effetti, gravità e classificazione, gioca un ruolo fondamentale la definizione di peccato, elaborata da Agostino (Contra Faustum, XXII.27, ed. I. Zycha, CSEL 25, Pragae-Vindobonae-Lipsiae, 1891) e trasmessa da Pier Lombardo (Sententiae, II, d. XXXV, c. 1, Ed. Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas, 1971), come “parola, azione o desiderio contrario alla legge divina”. Una definizione precisa nell’indicare le diverse modalità del peccato, ma sufficientemente duttile nel servire le diverse linee che percorrono la teologia scolastica.
Tommaso d’Aquino legge quella definizione in termini aristotelici e distingue nel peccato un elemento materiale, cioè la sostanza di cui quell’atto è fatto (desiderio, parola, azione), e uno formale, cioè la violazione della legge intesa come violazione della regola della ragione e, attraverso di essa, di quella forma di razionalità suprema che è la legge eterna di Dio. Come per Agostino, anche per Tommaso il peccato è un atto disordinato della volontà che non rispetta la legge di Dio, ma per Tommaso rispettare la legge divina vuol dire innanzitutto riconoscere con la ragione l’ordine dei fini, razionale e necessario, che Dio ha impresso al creato e quindi perseguire con la volontà il fine che deve essere perseguito senza scambiare, come accade nei peccati più gravi, il fine ultimo con i fini intermedi e senza, come accade in altri meno gravi, usare mezzi sbagliati per raggiungere il giusto fine. Diversa la lettura che di quella stessa definizione danno i teologi nominalisti del XIV secolo perché diverso è il senso e il valore che danno all’espressione “legge divina”.
Se per Tommaso quella legge si identifica con l’oggettiva razionalità del creato, per Duns Scoto e Guglielmo di Occam, quella legge è frutto di una volontà divina totalmente libera da ogni ordine e necessità. Solo Dio può decidere cosa è peccato e cosa non lo è perché solo Dio, nella sua libera volontà, può decidere cosa è legge. Storicamente la legge è quella che Dio ha dato agli uomini attraverso Mosè e il Cristo, dunque peccato è tutto ciò che costituisce trasgressione dei precetti del decalogo e di quelli evangelici; ma quei precetti sono in parte, o tutti, come si spinge a dire Occam, revocabili da una libera iniziativa della volontà divina