peccato
Dal lat. peccatum, der. di peccare «peccare». Condotta umana qualificabile come negativa dal punto di vista religioso, cioè in riferimento non solo ad altri esseri umani, ma anche al divino. Nella religione dell’antico Egitto, assiro-babilonese, greca e romana, il p. (violenza contro i congiunti, avidità, menzogna, mancanza di rispetto del rito) lacera la comunità ed esige espiazione. Nelle religioni dualistiche (zoroastrianesimo, mandeismo, manicheismo) il p. dipende dall’ignoranza e il suo superamento, non a tutti accessibile, richiede purificazione fisica e spirituale. L’opposto dell’islam (che significa lett. «devozione») è il p. come infedeltà all’unico Dio e disobbedienza alla legge. Nell’induismo e nel buddismo alla base del p. vi sono l’affermazione di sé, l’odio, l’ira; il taoismo accentua la corrispondenza tra il p. e il male fisico, mentre per il confucianesimo fondamento del p. è la «disumanità» (bu ren). Nelle religioni africane e dell’America Centrale (Aztechi, Maya) la liberazione dal p., collegato all’impurità del corpo, richiede previamente una confessione pubblica. Nella Bibbia ebraica (Pentateuco, Profeti, Agiografi) il p. – qualificato in senso generale come ra’ in quanto opposto al tov («bene»), ossia le misure divine – viene diversamente denominato in relazione ai singoli casi: per es., con la radice ht’ si indica un’azione il cui risultato è negativo, con la radice sgh un’azione compiuta non intenzionalmente, con la radice psh’ un’azione che implica rottura o rivolta. Nella letteratura rabbinica (Midrash, Kabbalah), nel pensiero ebraico medievale e moderno, come nei testi biblici, la questione del p. si intreccia con quelle della libertà umana, della sofferenza del giusto, della presenza di Dio nel mondo, dell’era messianica, dell’immortalità dell’anima. Il p. è per l’ebraismo contingente e secondario rispetto al bene anche quando esso, posto al centro dell’attenzione, viene classificato, ricondotto all’«istinto cattivo» (Talmud babilonese, Suk 52b), considerato entro la storia del popolo. Nel cristianesimo il p. viene assunto come punto di partenza della salvezza: nei Vangeli sinottici Gesù chiama a sé prevalentemente coloro che hanno commesso il p., annunciando loro il perdono e la loro appartenenza al Regno e invitando alla fede; il Vangelo di Giovanni (1, 29) considera Gesù come colui che, privo di p., libera dal p. il mondo; Paolo procede nelle sue lettere dalla critica del p. e dalla richiesta di purificazione (I Lettera ai Tessalonicesi, 4, 3-8) alle idee del legame tra p. e morte e del superamento del p. attraverso la fede in Cristo (I Lettera ai Corinzi, 15, 20-22) fino alle nozioni del p. originale «entrato nel mondo» a causa di Adamo (Lettera ai Romani, 5, 12-14), cui funge da termine correlativo la «legge» (6, 7-13), e della «giustificazione» mediante la passione e resurrezione (8, 31-34). Nella teologia cristiana – dai padri della Chiesa fino agli scolastici – il problema del p. è discusso in connessione con i temi della natura del p. di Adamo, dei vari tipi di p., del rapporto tra intelletto e volontà, della libera scelta umana e della predestinazione divina. I teologi della Riforma (Lutero, Melantone, Calvino, Zwingli) pongono a fondamento del p. la mancanza di fede, spostando l’accento dalle opere all’interiorità di chi le compie. Il Concilio tridentino (1545-63) accentua invece il valore dei sacramenti come mezzi di salvezza dal p.; arminiani, sociniani, neologi, razionalisti e i filosofi illuministi dei secc. 17° e 18° si opporranno alla visione di un uomo che sfugge al p. solo mediante l’adesione a una Chiesa o per fede in Cristo, pur riprendendo il concetto del p. come colpa contro gli uomini e Dio. Con Rousseau il p. si trasformerà nella conseguenza negativa di una cultura e di una società che dovrebbero essere profondamente rinnovate affinché l’uomo sviluppi la sua libertà e moralità.