peccato [plur. anche peccata]
Le occorrenze del termine nell'accezione più comune di " colpa verso Dio " sono, ovviamente, più numerose nella Commedia; ma se ne ha qualche esempio anche nelle altre opere.
Spesso si allude a un p. generico: così in Rime XCIII 13, dove si parla di una donna d'ogni peccato netta / come angelo che stia in paradiso, o in Cv II I 7 è vero... che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. Nel Purgatorio, Manfredi confessa di aver commesso ‛ orribili ' p., che tuttavia la misericordia divina gli permette di espiare (Pg III 121); analoga indulgenza merita, come afferma Beatrice, il comportamento di D. (XXXI 41), mentre non sembra lasciar adito a speranze quello di Carlo di Valois, il quale, nelle previsioni di Ugo Capeto, in Italia non terra, ma peccato e onta / guadagnerà (XX 76). Cfr. ancora XXVIII 128, Pd VII 79, XIX 75. Si aggiunga Fiore CXXXVI 8 I' sì vogli' esser confessato / d'ogne peccato che m'è avvenuto, ma il contesto ha un suo tono tutto particolare (è Malabocca che si confessa a Falsembiante); e così CVIII 11, CLIII 7.
La forma femminile plurale in -a, preciso ricalco del neutro latino, si ha in If V 9 e in Pd XXII 108 io piango spesso / le mie peccata; inoltre nella traduzione di un passo del Vangelo di Giovanni (" agnus Dei... qui tollit peccatum mundi ", 1, 29), che compare in Pg XVI 18 e Pd XVII 33.
Altrove il termine indica colpe ben determinate (in Cv I XII 10 se ne legge un breve elenco, che ricorda per la cadenza quello di If XI 57 ss.: D. le definisce inumani peccati, Cv I XII 11): dal peccato de la prevaricazione del primo uomo, cioè la " trasgressione della legge " da parte di Adamo (Cv IV V 3; è il peccato antico di Pd VI 93, e cfr. Mn II XI 1), a quello di sodomia (If XV 108), o a quello di frode, che Guido da Montefeltro sta per commettere, assurdamente già ‛ lavato ' in anticipo da papa Bonifacio (XXVII 109). Anche i lussuriosi fanno un accenno preciso al loro p. (Pg XXVI 82); e altrettanto forse può dirsi per Stazio, che afferma: la colpa che rimbecca / per dritta opposizione alcun peccato, / con esso insieme qui suo verde secca (XXII 50: il qui è un riferimento diretto al girone in cui scontano la pena avari e prodighi).
Il baratto, cioè l'" inganno ", è il p. di Falsembiante, la calunnia quello dello stesso Falsembiante e di - Malabocca (Fiore XCII 7 e CXXXIII 6). Si aggiungano due luoghi affini: Falsar tal saramento è san peccato, " senza colpa " (XXXVII 1), e non è peccato / chi si spergiura (CLX 12).
Nel sintagma ‛ far p. ' il valore di " colpa " si attenua di molto o scompare del tutto, sostituito da quello di " errore ". Si veda Vn XV 6 9 (ripreso al § 9; cfr. ‛ peccare ', al § 8): Peccato face chi allora mi vide, / se l'alma sbigottita non conforta. Barbi-Maggini notano: " Espressione forte, eguale a quella del son. Se' tu colui ", dove infatti si legge (XXII 15 10): Lascia piangere noi e triste andare / (e fa peccato chi mai ne conforta); e così Fiore XIII 11, e CXLII 8 Gran peccato faresti / se 'l su' presente tu gli rifusassi.
Ancora senza implicazioni di carattere morale, in Cv III IV 7: se l'uomo è del corpo da sua nativitade laido... dovemo vituperare la mala disposizione de la materia onde esso è fatto, che fu principio del peccato [" difetto ", " errore "] de la natura (un concetto analogo in Mn II II 3). Con diverso valore, in Rime LXXXIII 8 i' canterò... / contra 'l peccato [" viziosa abitudine ", Contini], / ch'è nato in noi, di chiamare... / tal ch'è vile e noioso / con nome di valore. Infine, Fiore CCVIII 7 a Pietà ne prese gran peccato, " se ne afflisse molto " (Petronio). V. anche PECCA; Peccare.
La nozione di peccato in Dante. - Il tema del p. occupa un posto particolare in D., che conosce bene s. Agostino e la sua interpretazione pessimistica della storia umana, viziata dal p. di Adamo. La Commedia non è che un modo nuovo e gentile di scrivere un De Virtutibus et vitiis, come tanti autori medievali - in modo particolare Alano di Lilla - nel quale si è voluto vedere un precursore del poeta. In certo modo l'Inferno costituisce una lunga nomenclatura di colpe, concretizzate in personaggi storici. Per avere una visione d'insieme della materia, bisognerà perciò riferirsi alle trattazioni dei vari p., difetti e vizi. In questa sede cercheremo soprattutto di porre in rilievo alcune idee generali.
Due sono i temi essenziali da tener presenti: il primo riguarda il p. definito e descritto in sé stesso o nei suoi effetti. Peccare significa, essenzialmente, abbandonare l'unità per la molteplicità e la dispersione. Mn I XV 1-3 riprende in proposito un tema caro a Plotino e a s. Agostino. Un altro modo, comune tra i mistici del XII secolo, di descrivere il p. è quello mediante la nozione di dissimiglianza. L'uomo, peccando, cancella la propria somiglianza con Dio: egli entra in regione dissimilitudinis passando dalla luce alla tenebra. Attraverso il p., specifica D., l'umana creatura... era partita e disformata (Cv IV V 3).
Quanto alla propria origine, il p. deriva da una volontà non tesa al bene supremo ma volta alle creature. Una traccia dell'adagio medievale " peccatum est aversio a Deo et conversio ad creaturas " la si ritrova in Pg XVII 85-102. A spiegare questa deformazione dell'amore ci sono tre cause principali: l'orgoglio, l'invidia e la collera (vv. 113-123).
La spiegazione della dialettica del p. di Pg XVIII 55-69 è la risultante di uno schema di s. Gregorio ‛ aristotelizzato ' nel XIII secolo. I primi moti perversi della sensibilità nascono dalle differenti conoscenze e pulsioni umane, ma senza colpa da parte nostra: p. ci sarà solo se consentiremo liberamente a quei moti malsani e lasceremo scientemente che il nostro amore si diriga verso il male. Ogni morale trova il suo fondamento nel libero arbitrio.
Il secondo tema riguarda il p. nella storia del mondo. Il p. ha una propria consistenza primordiale in quanto il rifiuto del bello amore già esiste in Adamo, attraverso cui fu trasmesso a noi: a lapsu primorum parentum ... diverticulum fuit nostrae deviationis (Mn I XVI 1). Riprendendo l'Epistola ai Romani (5, 12) D. ricorda come tutti gli uomini sono peccatori in Adamo e come solo Cristo può salvarli (Mn II XII 1-3). Com'è spiegato in Pd VII 85-120, dopo la prima colpa due soltanto erano le vie attraverso cui l'uomo poteva ritrovare la sua innocenza: o Dio perdonava la colpa, o l'uomo tentava da sé di risarcirla. Ma data la sua assoluta incapacità, ecco che il Figlio di Dio si è incarnato per riscattarci (cfr. anche Mn II XII e Pd VII 25-63). Per portare a compimento questa redenzione e rendere gli uomini capaci dell'amore vero, Dio volle costituire due grandi strumenti d'azione: il potere ecclesiastico e quello politico, cum ista regimina sint hominum directiva in quosdam fines (Mn III IV 14).
Il peccato nella storia delle idee. - Dato il richiamo a s. Paolo e l'utilizzazione di s. Agostino e s. Tommaso, si potrebbe dire che in qualche modo la teologia dantesca del p. è classica. Occorre tuttavia notare, ora che conosciamo meglio la storia delle idee morali, che D. in realtà si colloca nell'ambito di una scuola (i profeti e il Vangelo) contraria alle idee della filosofia greca classica, come pure alla concezione del tabù, che appare in alcuni libri del Vecchio Testamento e in numerosi popoli primitivi.
Debitore com'è dei Greci, D. avrebbe potuto attutire l'impatto cristiano sulla nozione di peccato. La mitologia greca, salvo il caso di sacrilegio (come ad es. la profanazione di un tempio), non concepisce il p. come una rottura d'amore o di contatto con un dio. Gli dei greci non sono morali, sono persino francamente malvagi. Nelle tragedie lo scacco umano è spesso spiegato con una cattiva azione di un dio che agisce direttamente o incita gli uomini a far del male. Certamente i grandi filosofi greci hanno una nozione più alta del divino, ma tale trascendenza implica l'esistenza dell'‛ atto puro ' che non si occupa degli uomini e, di conseguenza, non si preoccupa dei loro peccati. L'unico punto di riferimento per un p. potrebbe essere l'idea stoica di natura, ma è pur sempre una natura impersonale. C'è infine il ‛ paradosso socratico ' per cui gli uomini non sono malvagi ma semplicemente ignoranti. Per renderli morali e impedire errori (non già colpe in senso stretto) è sufficiente mostrare loro che il vero bene consiste nella virtù.
Tracce di questo intellettualismo greco sono certamente esistenti in D., specie in quell'incoercibile ricerca della felicità attraverso una volontà concepita come " voluntas ut natura ". Talvolta anche in D. il p. viene interpretato assai più in chiave d'ignoranza e di errore che non di debolezza e concupiscenza.
Tuttavia due elementi - tratti dai profeti d'Israele e dal Vangelo - gl'impediscono di cedere completamente all'intellettualismo greco di cui si è detto. Il primo è costituito dall'insistenza sul tema del libero arbitrio e dell'impegno volontario: se l'uomo pecca non è perché si sbaglia ma perché, assai lucidamente, preferisce le creature a Dio; spesso la debolezza sta nella sensibilità che trascina la volontà secondo un processo che D. confessa di non comprendere. Ma per quel tanto che la volontà non è intervenuta, la colpa non sussiste. Non siamo peccatori per atti che ci sono estranei o che ci vengono imposti, ma per l'impegno personale; o piuttosto per il disimpegno, dal momento che - e questo è il secondo elemento - l'uomo non è peccatore di fronte a sé, di fronte agli uomini o di fronte alla natura; egli è peccatore di fronte a Dio dal momento che ne ha rifiutato l'amore mostratogli in Cristo. Come si vede, D. si è rifatto a una concezione la più personalistica del p.: esso si colloca tra due persone ed esiste solo grazie a una presa di posizione personale.
Con ciò stesso D. si trovava al riparo dalla concezione ‛ tabù ', talvolta ancora riscontrabile nel Medioevo (e senza dubbio in epoca moderna) in ambienti popolari. Tabù è un termine polinesiano che designa un oggetto o un fatto ‛ interdetto ', ‛ impuro '. Freud lo rese popolare quando rilevò che per i primitivi un oggetto tabù è sacro e dannoso al tempo stesso. Chi tocca un oggetto tabù è impuro e passibile di pena anche se non lo ha fatto deliberatamente o ha compiuto il prioprio atto con intenzione buona. Ai tempi di Cristo i Farisei moltiplicavano le purificazioni rituali in quanto potevano aver toccato un sepolcro senza saperlo o un oggetto contaminato da una donna in periodo mestruale, o aver mangiato un alimento impuro. Cristo fa notare (Matt. 15, 17-20) come l'impegno morale può venire solo dal ‛ cuore ' di una persona: l'‛ impuro ' non può contaminare un uomo, lui malgrado. In questo Cristo collima con le proteste dei profeti contro i p. collettivi (vedi Ezech. 18) o alcuni tabù. Simili ‛ interdetti ' rimontano molto in là e sono il segno di una struttura primitiva che sopravvive e che lotterà a lungo (forse ancor oggi) contro una concezione personalistica del peccato. Così, nel Vecchio Testamento vediamo che la rimozione di un morto - dovere di pietà familiare (Lev. 21, 1-3) e addirittura opera di beneficenza (Tob. 2, 1-9; 12, 12) - rende impuri attraverso il contatto con il cadavere (Num. 19, 11; Lev. 21, 1-4). Per una donna sposata aver dei figli è un onore (I Reg. 1, 6), eppure ogni maternità la rende impura (Lev. 12). Il levita Oza (v.) tocca l'arca (II Reg. 6, 6-7) per impedire che cada ed è ritenuto colpevole di grave colpa per aver toccato un oggetto tabù. Nel Medioevo, malgrado la rivelazione cristiana, questa concezione è sopravvissuta nella morale popolare. Alcuni penitenziali, ad esempio, continuano a considerare tabù le manifestazioni della vita sessuale e qualsiasi contatto con il sangue. Ma D., troppo buon conoscitore di teologia e dotato di una troppo alta concezione della persona umana, fu ben lontano dal cadere in simile stravaganza.
Bibl. - Studi generali: T. Deman, voce Péché, in Dictionnaire de Théologie catholique, XII 1, Parigi 1933, 140-275; ID., Le sens du p. et sa perte dans le monde actuel, in " Lumière et Vie " n. 5, agosto 1952; H. Rondet, Notes sur la théologie du p., Parigi 1957; M. Oraison, F. Coudreau e altri, Le péché, ibid. 1959; P. Delhaye, A. Celin, e altri, Théologie du péché, ibid. 1960.
Dottrina biblica. Studi generali: A. Gelin, Les idées maîtresses de l'Ancien Testament, Parigi 1950, 64-72; P. Heinisch, Teologia del Vecchio Testamento, Torino-Roma 1950, 273-288; W. Grundmann, voce ἀμαρτάνω, in G. Kittel-G. Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, I, Brescia 1963, 715-862; E. Beaucamp, Le problème du péché dans la Bible, in " Laval Théologique et Philosophique " XXV (1969) 88-114. Vecchio Testamento: A.-M. Dubarle, Les sages d'Israël, Parigi 1946, 8-9, 173-177; ID., Le p. originel dans la Genèse, in " Revue Biblique " LXIV (1957) 5-34. Nuovo Testamento: B. Rigaux, L'homme du p. dans Saint Paul, in " Ephemerides Theologicae Lovanienses " VI-(1929) 5-22; F. Prat, La théologie de Saint Paul, Parigi 1949³8, 1229-242, 252-264; II 66-80; J. Bonsirven, Théologie du Nouveau Testament, ibid. 1951, 72-80, 277-284; L. Cerfaux, Le Christ dans la théologie de Saint Paul., ibid. 1954², 105-116.
Teologia del p.: T. Deman, Réflexions sur la théologie du péché, in " Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques " XXII (1928) 640-659; C. Journet, Le péché comme faute et comme offense, in Trouble et lumière. Études Carmélitaines, 1949; O. Lottin, Morale fondamentale, Parigi 1954 (cap. VII, La vie pécheresse); A. Landgraf, Dogmengeschichte der Früscholastik, IV, Die Lehre von der Sünde und ihren Folgen, Ratisbona 1955; D. O'Callaghan, Sind and repentance (Papers of Maynooth Union Summer School), Dublino 1966; S. Bonaventure, Breviloquium, 3: La corruption du péché, a c. di P. Delhaye e L. Hamelin, Parigi 1967; P. Schonenberg, Theologie der Sünde, Einsiedeln 1967.
Problemi moderni sul p.: L. Beirnaert, Sens de Dieu et sens du péché, in " Revue d'Ascétique et de Mystique " XXVIII (1952) 289-304; J. Lacroix e altri, Morale sans péché? Recherches et débats, Parigi 1955; ID., Monde moderne et sens du péché (Semaine des Intellectuels Catholiques), 1956; U. de Piove, Il senso del p. nell'uomo d'oggi, in " Palestra del Clero " (1968) 911-922.
Il p. presso i filosofi e le altre religioni: C. Moeller, Sagesse grecque et paradoxe chrétien, Parigi 1950; A. Jagu, Les philosophes grecs et le sens du péché, in P. Delhaye e altri, Théologie du péché, Parigi-Tournai 1960, cap. IV.
Peccato degli angeli. - Secondo quanto gl'insegna la fede cristiana D. crede che numerosi angeli (i demoni o diavoli), che con a capo Lucifero peccarono ai primordi della creazione (v. DEMONOLOGIA, pp. 368-369), continuano a commettere p. e sono puniti da Dio per l'eternità.
La specie del primo p. di Lucifero secondo D. s'identifica con quella del primo p. dei diavoli inferiori. Se egli ritiene che il loro primo p. fu di ‛ superbia ' non intende però indicarne la categoria quando chiama i demoni perversi (VE I II 4; cfr. Pd XXVII 26), rei (If III 42), nemici di Dio (v. 63), apostatae Potestates (Ep XI 4), ribelli / … a Dio (If III 38-39), e il loro duce impius (Ep VII 3). Invece, oltre a chiamarlo 'l primo superbo (Pd XIX 46; cfr. pure If VII 12), porta Lucifero come esempio di superbia punita (Pg XII 25-27) e quando spiega di proposito il suo p., lo definisce superbir, opponendolo alla ‛ modestia ' degli angeli fedeli (Pd XXIX 55-60).
Potrebbe sembrare che colui che fu nobil creato / più ch'altra creatura (Pg XII 25-26) abbia peccato di tradimento contro Dio in quanto supremo benefattore; posto nel cerchio infernale ove qualunque trade in etterno è consunto (If XI 66), nella zona dei traditori dei propri benefattori, esso è presentato come chi contra 'l suo fattore alzò le ciglia (XXXIV 35; cfr. anche Pd IX 128). Ma dato che la distribuzione nell'Inferno dantesco non è secondo lo schema cristiano dei sette vizi capitali (come invece nel Purgatorio: cfr. Pg XVII 91-139), ma secondo la tripartizione d'incontinenti, violenti e fraudolenti (If XI 16-90), i superbi sono suddivisi in vari cerchi (Capaneo nel terzo girone del VII cerchio, XIV 63-64 e XXV 15; Vanni Fucci nella settima bolgia dell'VIII cerchio, XXV 13-15; i giganti a guardia del IX cerchio, XXXI 7-145; cfr. vv. 91-92 e Pg XII 28-36).
Nell'affermazione che Michele vinse il superbo strupo (If VII 11-12 si potrebbe avvertire un'eco della teoria dello pseudo-Enoc, accolta da parecchi padri prima del sec. V (cfr. Beraza, pp. 224-225, nrr. 434-439), secondo cui i demoni peccarono di ‛ lussuria ' con donne; qualche dantista vi ha scorto la parziale accettazione dell'opinione emendata di Duns Scoto (Oxon. II 6, 2, ediz. Vivès XII 361b e 364a-b; Rep. par. II 6 2 [XXII 624a]), secondo cui il primo e il secondo stadio del processo peccaminoso dei diavoli fu di ‛ lussuria spirituale '. Infatti l'ipotesi che strupo derivi dal basso latino ‛ stropus ' e significhi " mandria ", " schiera spregevole ", è scartata generalmente dai commentatori, dopo che il Parodi (v. STUPO) dimostrò che il vocabolo è metatesi di ‛ stupro ', lussuria congiunta a violenza. Tuttavia ‛ stupro ' può anche indicare in senso figurato la sola ribellione di Lucifero contro Dio. Va al riguardo notato che i padri attribuivano il p. di lussuria ai demoni quando li concepivano corporei, mentre D. li ritiene puri spiriti (Cv II IV 2 e XIV 9-11, III II 14, IV 9 e VII 5; Pd XXIX 22-33); Duns Scoto ritenne lussuria spirituale solo gl'inizi del processo peccaminoso, D. dicendo che Michele fece giustizia del superbo strupo, si riferisce piuttosto al termine; nessun'altra affermazione dantesca fa pensare a un primo p. di lussuria spirituale, e tanto meno carnale, dei diavoli.
Lucifero è 'nvidia prima (If I 111), il suo livor insidia sempre gli uomini (Ep VII 3), la sua 'nvidia è tanto pianta (Pd IX 129). Per qualche dantista queste espressioni, soprattutto la prima, riproporrebbero l'opinione, molto diffusa fra i primi padri della Chiesa (cfr. Mangenot, p. 375; Beraza, p. 323, nr. 634), secondo cui il primo p. del diavolo fu di ‛ gelosia ', specialmente nei riguardi dell'uomo. Invece per D., secondo la teoria comune dopo il V secolo, i demoni peccarono d'invidia solo dopo la caduta dal cielo, e soprattutto quando tentarono i nostri progenitori, secondo le parole di Sap. 2, 24 " Invidia autem diaboli mors introivit in orbem terrarum ". D. infatti, quando parla di 'nvidia e di livor, del diavolo, si riferisce alla cupidigia scatenata nel genere umano (If I 94-111) e alle insidie tese agli uomini (Ep VII 3-4); afferma inoltre che gli uomini piangono la 'nvidia di Lucifero (Pd IX 129) e che soffrono per il p. originale dei progenitori (Ep V 18, Pg XXIX 23-30 e Pd XIII 38-39).
La spiegazione della dinamica del p. di superbia è data da D. due volte. Di tutti i diavoli è affermato: divinam curam perversi expectare noluerunt (VE I II 4); di Lucifero è detto: per non aspettar lume, cadde acerbo (Pd XIX 48). Come si vede, i due passi sono molto sintetici, tuttavia risulteranno nel loro specifico significato se considerati alla luce della problematica agitata dagli scolastici e di quanto dice D. della conversione degli angeli buoni (XXIX 61-66).
Secondo D., innanzi tutto i demoni inferiori peccarono di superbia come Lucifero, soggiacendo al suo influsso (vv. 55-56). Essi vollero conseguire il fine soprannaturale (la visione beatifica) senza il proporzionato aiuto divino e prima del tempo stabilito: non si umiliarono ad attendere divinam curam e quel lume (cfr. VE I II 3-4 e Pd XIX 40-57) che invece gli angeli buoni desiderarono (XXIX 61-66). Questo aiuto comprendeva non solo il ‛ lumen gloriae ' ma anche la grazia santificante; tutti gli angeli furono creati senza di essa e la ricevettero solo i buoni nel momento della loro esaltazione alla visione beatifica (vv. 64-66; v. GERARCHIA ANGELICA).
Tra la creazione degli angeli e l'espulsione dei demoni dal cielo trascorsero pochi istanti (una ‛ ventina ': Pd XXIX 49-51). È da pensare che, per D., prima dell'espulsione il processo peccaminoso durò più istanti e fu composto di più atti. Nel Medioevo infatti il primo p. dei demoni era concepito secondo la trama analoga e inversa della conversione degli angeli buoni; questa per D. fu costituita da un atto iniziale di modestia (vv. 58-60) e da un altro completivo di apertura dell'affetto a ricevere da Dio la grazia (vv. 61-66). Concependo il processo peccaminoso composto di più atti e di più istanti si spiegano più facilmente anche gli angeli neutrali (v.).
Riguardo ai p. posteriori alla caduta dal cielo, D. rappresenta i demoni dotati di volontà cattiva e sempre tesa al male (Pg V 112; cfr. anche If XXIII 16). L'amore in loro è del tutto spento e perciò filosofare non possono nel senso di amare la verità (Cv III XIII 2); tra loro non si amano ma si offendono (per es. If XXI 122-123 e XXII 96) arrivando sino alla lite (vv. 134-135 e XXIII 4-9); tuttavia conservano sempre la concordia nel fare il male (per es. XXI 76-77 e 100-102, XXII 40-42) prestandosi aiuto (vv. 145-150) per essere più efficienti nel nuocere. I loro p. sono di diverse specie e per la diversità di essi sono distribuiti in vari cerchi infernali: se tentarono per invidia i nostri protoparenti (I 111 e Pd IX 129) tendono tuttora continue insidie agli uomini (Ep VII 3). Commettono più p. dei trapassati (If XXIII 143), specialmente menzogne (v. 144) e frodi (XXX 117), e si gloriano delle tentazioni in cui inducono i mortali (Ep XI 3), della gravità dei propri p. (If III 42) e dei nostri (Pd XXVII 26-27).
L'inserimento dei p. nel piano divino è ammesso anche per i diavoli. Se possono ribellarsi a Dio, ciò avviene solo nei limiti da lui stesso consentiti, mentre devono sottostare ai suoi espressi comandi. Per questo si arrendono nell'udire che il viaggio di D. è voluto da Dio (If III 88-97, V 16-24, VII 1-15 e XXI 64-105). Se cercano di ribellarsi, vengono ridotti all'impotenza con uno speciale intervento divino (cfr. VIII 112-116 e XIV 43-45 con IX 94-106) e non appena ricorrono al sotterfugio per eludere la volontà di Dio (XXI 106-114 e XXIII 127-142), subiscono uno scacco (vv. 1-57).
La pena dei demoni è commisurata al loro peccato. Circa la cosiddetta ‛ pena del danno ' i demoni, per il loro primo p., furono cacciati del ciel (If IX 91) e caddero giù da esso (VE I II 4, If VIII 83 e XXXIV 121, Pg XII 25-27, Pd XXVII 26-27), senza conseguire la visione beatifica come invece gli angeli fedeli (XXIX 49-63; cfr. anche XIX 46-48). Ora, in essilio de la superna patria, soffrono la privazione della beatitudine de lo 'ntelletto ... privazione... amarissima e piena d'ogni tristizia (Cv III XIII 2). L'assegnazione degli ex Serafini al nono cerchio infernale (cfr. If XXXIV 46-51 e Pd IX 78) e degli ex Cherubini all'ottavo (If XXVII 113; v. GERARCHIA ANGELICA) indica che i demoni soffrono differente grado di pena in ragione della diversa gravità del loro primo p., e che la diversità di esso dipende dalla loro differente perfezione naturale.
Quanto alla ‛ pena del senso ', D. assegna in misura ridotta ai diavoli tormenti per il primo peccato. I demoni, più che puniti, divengono tormentatori delle anime dannate, anche se l'assegnazione ai diversi cerchi è regolata dall'affinità del p. diabolico al corrispondente p. umano. Tuttavia Lucifero è rappresentato oppresso da tutti i pesi del mondo (Pd XXIX 57; cfr. pure If XXXIV 110-111), confitto da mezzo 'l petto in giù nella ghiaccia (v. 29), piangente e gocciante pianto e sanguinosa bava (vv. 53-54); il fondo dell'Inferno lo divora / ... con Giuda (XXXI 142-143). Una tale rappresentazione, che attribuisce un corpo immenso a Satana - ritenuto teologicamente puro spirito - è mera immaginazione artistica (cfr. A. Valensin, pp. 51-52); ma un tormento del genere, pur se non ci rende certi della destinazione di Lucifero alla pena del ghiaccio per l'eternità (come sembrerebbe da If XI 64-66) e non a quella del fuoco, presuppone almeno la concezione teologica di una ‛ pena del senso ' per il primo peccato.
I demoni sono sottoposti da D. alla ‛ pena del senso ' anche per le colpe commesse dopo la caduta dal cielo. Cerbero ad esempio, per aver cercato di opporsi a un decreto divino, fu incatenato così strettamente da portarne nelle membra ancora i segni (IX 97-99). Simili invenzioni poetiche sono sorrette da un'affermazione teorica che assume il valore di un'idea teologica: i diavoli, per il p. di ribellione agli ordini diretti di Dio, hanno avuto più di una volta aumentata la pena fin da ora (vv. 94-96). Così D. suppone che, fino al giudizio finale, i diavoli, contrariamente agli uomini dannati, con i loro p. accumulano nuovi demeriti e subiscono un immediato aumento di pena.
La considerazione dell'ambiente dottrinale è necessaria per l'esatta comprensione e valutazione del pensiero dantesco. Dopo il V secolo era opinione comune tra i cristiani che i diavoli, puri spiriti, all'inizio avessero tutti peccato di orgoglio (cfr. Mangenot, pp. 358, 375-376; e Pesch, pp. 254-255, n. 399). Gli scolastici in genere convenivano sull'idea che il p. di Lucifero influì su quello dei suoi inferiori (per es. Bonaventura Sent. II V 2 2, ediz. Quaracchi II 152a-154b; Tomm. Sent. II VI 1 2, ediz. P. Mandonnet, Parigi 1929, II 163-164; Sum. theol. I 63 8). Non erano però d'accordo se il suo p. di orgoglio fosse identico a quello degli altri demoni: Tommaso (Sum. theol. I 63 3 e 8 ad 2), e con lui D., lo affermava, mentre la Summa theologica attribuita ad Alessandro di Hales (II II 72, 93 e 102 ad 1, ediz. Quaracchi III 89a-90b, 111a-112b e 129a) e Bonaventura (Sent. II V 1 2 e 2 1 [II 148a-152b]) lo negavano. Altro motivo di disaccordo era l'atto particolare di superbia compiuto da Lucifero e dagli altri demoni. Spesso uno stesso maestro presentava più spiegazioni, accennando a preferenze oppure ritenendole egualmente probabili. La spiegazione di D. appare un mosaico le cui tessere hanno diversa provenienza. Circa l'idea di un processo peccaminoso avvenuto in più istanti e costituito da più atti, egli si allontana da Tommaso e conviene con i più illustri maestri francescani (v. ANGELO: Angeli neutrali). L'affermazione di una tensione dei demoni verso la beatitudine soprannaturale è sulla linea di Alessandro di Hales (Glossa in quatuor libros Sententiarum II 2 18, 5 3 e 8, ediz. Quaracchi II 19-20, 45 e 48; Sum. theol. II II 72 e 73 ad 3 e ad 5-6 [III 89a-90b e 91b]) e di Bonaventura (Sent. II V 2 1 [II 150a-152b]), mentre Tommaso (Sum. theol. I 63 3 e 8 ad 2) preferiva riporre l'atto di orgoglio nel rifiuto di quella beatitudine. Ancora contro Tommaso (Sent. II IV 3 [II 136-139]; Sum. theol. I 62 3) e contro Alberto Magno (Sent. II 3 12, ediz. Borgnet XXVII 82a-85b; Sum. theol. I 18 1 [XXXII 227b]), ma con Pietro Lombardo (Sent. II 5, ediz. Quaracchi 1971, I 351-354) e con Bonaventura (Sent. II IV 1 2 e XXVII 1 3 [II 132a-134b, 659a-661b]) è l'opinione - allora più diffusa (cfr. quanto dicono gli editori quaracchiani di Bonaventura Opera omnia II 134b-135a) - che i demoni non possederono mai la grazia santificante e avevano bisogno di essa e del ‛ lumen gloriae ' per elevarsi alla visione beatifica. D'altra parte col porre il p. di superbia nello specifico rifiuto o nella noncuranza dell'aiuto soprannaturale D. accetta un'opinione ritenuta probabile, sebbene non preferita, da Tommaso (Sum. theol. I 63 3 resp.). Alessandro di Hales (Glossa in quatuor libros Sententiarum II 2 nr. 18, 5, nrr. 3 e 8 [II 45 e 48]; Sum. theol. II II 72 e 73 ad 3 e ad 5-6 [III 89a-90b e 91b]) e Bonaventura (Sent. II V 2 1 [II 151b-152b]) riponevano invece l'atto di superbia nell'ambizione di conseguire la beatitudine senza meriti e senza rendere servigi ad alcuno. Nell'individuare il p. degli angeli nell'impazienza per non aver atteso l'aiuto divino, D. riflette la teoria di un discepolo di Pietro Lombardo, Pietro di Poitiers, il quale (Sent. II 4, in Patrol. Lat. CCXI 945-946), sebbene non usi ancora la precisione del linguaggio teologico dei secoli seguenti, sostenne che gli angeli - creati senza la " gratia cooperans ", capace di dar loro la possibilità di meritare e conseguire la beatitudine celeste - peccarono perché, pur potendo " exspectare usque dum daretur eis gratia cooperans qua possent proficere ", tuttavia " non exspectaverunt quod exspectare possent " e pertanto " de propria voluntate peccaverunt ". Anche per Alberto Magno (Sent. II 5 3 [XXVII 114a-b]; cfr. anche Sum. theol. II 21 1 [XXXII 258b]) e Duns Scoto (Oxon. II 6 2 nr. 13 [XII 359a]) i demoni peccarono perché non vollero " exspectare ". Il primo tuttavia si riferiva all'attesa dell'acquisto dei meriti, il secondo all'attesa del tempo stabilito da Dio; mentre Pietro di Poitiers si riferiva all'attesa dell'aiuto soprannaturale, inteso anche come grazia santificante (cfr. pure Sent. II 4-5, in Patrol. Lat. CCXI 949 e 953); egli, seguendo il suo maestro (Pietro Lombardo Sent. II 5 3-6 [I 352-354]) e precedendo Bonaventura (Sent. II V 3 1 e dub. 2 [II 154a-156b e 158b]), parla di " grazia cooperans ", mentre D. nel Paradiso preferisce parlare di lume (XIX 48) e di grazia illuminante (XXIX 62; al v. 65 parla solo di grazia perché considera l'aiuto soprannaturale sotto l'aspetto particolare di fattore meritorio di un'azione); la diversità di linguaggio e di accentuazione si spiega tra l'altro con il clima del concilio di Vienne (1311) che, pur riferendosi agli uomini, proclamò la necessità del " lumen gloriae " per la visione beatifica (Denzinger-Umberg Enchiridion symbolorum nr. 475).
Era dottrina della stragrande maggioranza dei teologi - a eccezione di pochi (fra cui Duns Scoto) - che i diavoli peccassero continuamente accrescendo i loro demeriti (cfr. editori quaracchiani di Bonaventura Opera omnia II 180a-b; Vacant, pp. 1236-1237); così pure opinione comune era la concordia dei demoni nel fare il male (per es. Tomm. Sum. theol. I 109 2 ad 2; Vitale di Four Quodlibeta III 3 2, ediz. F.M. Delorme, Roma 1947, 105-106) e il loro gloriarsi dei p. propri e di quelli umani (cfr. editori quaracchiani di Bonaventura Opera omnia II 165b), mentre era insegnamento fondato sulla Scrittura quello della loro soggezione a Dio (cfr. Mangenot, pp. 331-334). Al contrario fu Guglielmo d'Auvergne (cfr. Mangenot, p. 391. Cfr. pure Vitale di Four Quodlibeta ur 3 2, ediz. cit., p. 106) contro il parere degli altri scolastici (per es. Bonaventura Sent. II VI 3 2 ad 1 [II 169a]; Tomm. Sum. theol. I 109 2 ad 2) ad asserire che i demoni giungessero ad alterchi fra loro. Solo parte degli scolastici, fra cui Bonaventura (Sent. II VII 1 1 2 resp. e ad 1 [II 179a-b]) diversamente da Tommaso (Sum. theol. I 63 2), sostennero infine che gli spiriti maligni commettevano anche altre specie di peccati oltre quelli di superbia e d'invidia.
Per il primo p. (secondo la dichiarazione del IV concilio Lateranense del 1215 [cfr. Denzinger-Umberg, op. cit., nr. 429], eco di altri interventi ecclesiastici) i demoni furono condannati a una " pena perpetua ", e pertanto furono almeno privati della visione beatifica restando tali per l'eternità. Gli scolastici, con la loro interpretazione di Is. 14, 12-15, Luc. 10, 18 e Apoc. 12, 3-13, insegnavano che questa pena del danno si era attuata, e quasi materializzata, con l'espulsione dei diavoli dall'Empireo in cui erano stati creati (per es. Pietro Lombardo Sent. II 6 2-3 [I 355-356]; Sum. theol. attribuita ad Alessandro di Hales II II 127 e 129 [III 144a-145b]). Sempre basandosi sulla Scrittura (per es. II Petr. Epist. 2, 4; Iuda Epist. 6), affermavano che i demoni per il loro primo p. furono inoltre condannati a tormenti esterni (per es. Bonaventura Breviloquium VII 6 [V 287a-288b]); però non tutti ne avevano una certezza di fede: alcuni infatti (come riferisce Bonaventura Sent. IV XLIV 2 3 2 resp. [IV 934a]) spiegavano questi tormenti come sofferenze immaginarie (Durando da Saint-Pourçain, quasi coevo di D., li riduceva alla pena del danno; cfr. Richard, p. 107).
Tra le pene destinate a tormentare i demoni il fuoco ‛ reale ', sulla base di Matt. 25, 41 e Apoc. 20, 9-10, occupava il posto principale (per es. Bonaventura Sent. IV XLIV 2 2-3 [IV 925a 935b]), anche se mancava una decisione ufficiale della Chiesa sulla ‛ realtà ' di esso (cfr. A. Michel, p. 2218). Sebbene, allora, il fuoco metaforico venisse comunemente escluso, Bonaventura (Sent. IV XLIV 2 2 1 resp. [IV 926a]) alla questione " utrum [in Inferno] sit ignis verus " premetteva: " ad hanc quaestionem videatur temerarium respondere, quia Scriptura eam non determinat, nec doctor praecipuus Augustinus explicat, sed magis relinquit insolutam " (per alcuni padri e qualche scolastico contrari o dubbiosi, cfr. Michel, pp. 2200-2207 e 2212-2213). Di fatto tra i tormenti positivi infernali venivano considerati anche il ghiaccio (secondo un'interpretazione di Iob 24, 19) e gli altri elementi; mentre era concessa l'ipotesi che qualche categoria di dannati soffrisse solo per il ghiaccio (per es. Bonaventura Sent. IV XLIV 2 2 2 ad 1-2 [IV 928b]; per altri cfr. Richard, p. 108) e che la Scrittura, con il termine " fuoco ", intendesse questi altri tormenti (per es. Bonaventura Sent. IV XLIV 2 2 2 resp. e ad 1-2 [IV 928a-b]; Tomm. Sum. theol. III Suppl. 97 1 ad 1).
Per giudicare la descrizione dantesca dei demoni quali li immagina durante il viaggio, si deve tener presente che fino al sec. VI fu opinione comune il differimento della loro ‛ pena del senso ', soprattutto di quella causata dal fuoco, a dopo il giudizio universale (cfr. Michel, p. 2208). Infatti la Scrittura parla dei tormenti degli spiriti maligni come ‛ riserbati ' per il giudizio (II Petr. Epist. 2, 4; Iuda Epist. 6; cfr. Matta 8, 29 e 25, 41). Questa tesi fu man mano abbandonata (cfr. B. Latini Tesoretto 589-590: tutti i demoni dopo il peccato " piovvero... in fuoco sempiterno "); ma ancora Bonaventura (Sent. II VI 2 2 [II 165a-166b]) la riteneva " probabilior " e Tommaso (Sum. theol. I 64 4 ad 3) giudicava quella contraria solo " melius... dicendum ".
Per le colpe commesse dopo l'espulsione dal cielo, Duns Scoto (Oxon. II 7 nr. 28 [XII 408a-b]) negò l'aumento delle pene perché negò che quelle colpe comportassero nuovi demeriti. Invece gli altri scolastici generalmente ammettevano l'aumento dei tormenti, rimandandolo però a dopo il giudizio universale (per es. Alessandro di Hales Quaestiones disputatae " antequam esset frater " XL 12-13, ediz. Quaracchi II 688; Sum. theol. II II 183 [III 196a-b]; Bonaventura Sent. II VI 2 2 ad 3 [II 166b]; Tomm. Sum. theol. III Suppl. 89 8). Solo in Pietro di Poitiers (Sent. II 4, in Patrol. Lat. CXXI 951) abbiamo ritrovato il pensiero di D.: " Semper crescit poena diaboli sicut et culpa... et magis punietur post diem iudicii ".
Bibl. - Si vedano le note bibliografiche in calce alle voci Angelo; Demonologia; Lucifero. In particolare: C. Galanti, Osservazioni sulla pena dei custodi nell'Inferno dantesco, Ripatransone 1878, 25-41; C. Pesch, De Deo creante et elevante, Friburgo in Brisgovia 1914; G. Busnelli, Natura dell'anima umana secondo D. e le sue fonti, in " La Civiltà Cattolica " LXXII (1921) 212; B. Beraza, De Deo creante, Bilbao 1921, 224-225, 323, 434-439; A. Vacant, Angélologie de s. Thomas d'Aquin et des scholastiques posterieurs, in Dictionnaire de Théologie Catholique, I, Parigi 1923, 1236-1237; E. Mangenot, Démon, ibid. IV, ivi 1924, 331-334, 358, 375-376, 391; M. Richard, Enfer, ibid. V, ivi 1924, 107-108; A. Michel, Feu de l'enfer, ibid. 2200-2208, 2218; F. Laurenzi, La D.C. con note e saggi d'analisi estetica, I, Lanciano 1929, 329; S. Bersani, Dottrine, allegorie e simboli della D.C., Piacenza 1931, 275-277; E. Jallonghi, Il misticismo bonaventuriano nella D.C., Città di Castello 1935, 214-222; A. Valensin, Le christianisme de D., Parigi 1954, 51-52; U. Donati, Lucifero nella D.C., Roma 1958, 20-21, 27-28; G.L. Solano, Lo stato di via e di termine degli angeli secondo D., in " Sapienza " XXI (1968) 388-400.