Abstract
La voce analizza la disciplina del peculato mediante profitto dell’errore altrui, nella sua evoluzione storica, nella sua fisionomia attuale e nell’interpretazione resane da giurisprudenza e dottrina.
La figura di cui all’articolo 316 c.p. – immutata in seguito alla l. 26.4.1990, n. 86, salva l’eliminazione della pena pecuniaria – affonda le sue radici nella fattispecie di cui al secondo comma dell’articolo 170 del codice Zanardelli del 1889, che tuttavia la qualificava come figura particolare e meno grave della concussione. Si trattava, in particolare, di una forma di concussione implicita negativa (consistente nel fatto del pubblico ufficiale che «riceva indebitamente ciò che non è dovuto»), realizzata cioè non mediante una condotta volta a far insorgere attivamente nella vittima un’erronea convinzione, ma attraverso il mero approfittamento di tale stato soggettivo del privato e punita con la reclusione da uno a cinque anni, oltre alla multa e alla sanzione accessoria temporanea. La descrizione di questo reato in termini di ipotesi qualificata di concussione – con il relativo inasprimento sanzionatorio – è quindi significativa. Il disvalore della fattispecie risiedeva infatti nella componente di prevaricazione realizzata dal soggetto qualificato, nell’esercizio delle proprie funzioni, nei confronti del privato. La norma mirava pertanto a garantire non solo l’integrità patrimoniale del privato del cui errore il pubblico agente si approfittasse, ma anche il buon andamento dell’azione amministrativa, evitando che l’esercizio di una pubblica funzione potesse rappresentare per il soggetto qualificato un’occasione di indebito arricchimento a danno dei cittadini.
Valorizzando la valenza appropriativa delle condotte di ricezione e ritenzione, e di contro l’assenza, in tale figura, di alcuna induzione da parte del soggetto attivo – elemento cardine invece della concussione – il legislatore del 1930 ha qualificato più correttamente la fattispecie come «peculato», sia pur in forma particolare. Le peculiarità della figura, che la distinguono dalla norma di cui all’art. 314 c.p., risiedono infatti nell’assenza di un possesso preesistente per ragione di ufficio, e per il valore determinante che nella struttura della fattispecie assume l’errore in cui versa il terzo.
Il bene giuridico tutelato si identifica anche qui con l’interesse al perseguimento esclusivo, da parte dell’agente, dell’interesse pubblico affidato all’amministrazione di appartenenza, nonché con l’imparzialità dell’azione amministrativa, intesa – in funzione di limite al buon andamento – come amministrazione della cosa pubblica secondo i canoni della giustizia sociale, senza che mai nell’adempimento dei propri compiti la p.a. avvantaggi se stessa a danno dei cittadini, né alteri il loro diritto di partecipazione alla vita politica, economica e sociale dello Stato. Compreso nello spettro di tutela della norma, sia pur in posizione più specifica – nel senso chiarito in relazione al peculato ex art. 314 c.p., alla cui voce si rinvia – è anche l’interesse alla integrità dell’altrui patrimonio, rispetto ad abusi della funzione pubblica che tale interesse pregiudichino, valendosi dell’errore in cui versi il terzo.
Trattasi di reato proprio, come tale realizzabile unicamente dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio (Cass. pen., 12.2.1999, in CED Cass. pen., n. 23744). Alla fattispecie non si dovrebbe applicare peraltro la disciplina di cui all’art. 360 c.p., che prevede che la cessazione della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, al momento della realizzazione del fatto, non determina l’insussistenza del reato, qualora esso si riferisca all’ufficio, o rispettivamente, al servizio esercitati. Nel caso in esame, infatti, la cessazione della qualifica dovrebbe determinare necessariamente il venir meno del carattere qualificato del possesso, ovvero del nesso funzionale tra il possesso della cosa o del denaro e l’ufficio o servizio esercitati; requisito, questo, che costituisce il carattere fondativo del delitto in esame. La giurisprudenza ha tuttavia precisato – in relazione al peculato, ma con argomento estensibile al peculato mediante profitto dell’altrui errore – che, ai fini della configurabilità del delitto, è sufficiente il possesso qualificato (per ragione di ufficio o servizio) della cosa, non rilevando che l’appropriazione si sia consumata quando l’agente non eserciti più la funzione pubblica (Cass. pen., 12.2.1999, in CED Cass. pen., n. 23744), applicando così tuttavia proprio la disciplina di cui all’art. 360 c.p. Inoltre, ai sensi dell’art. 322 bis c.p., introdotto dalla l. 29.9.2000, n. 300, devono oggi ritenersi possibili soggetti attivi del reato anche i funzionari e i membri degli organi e delle istituzioni della UE, ivi compresi anche i funzionari comandati dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso gli organi UE, che vi esercitino funzioni corrispondenti a quelle proprie dei pubblici agenti inseriti nel ruolo di organi comunitari; i membri e gli addetti ad enti costituiti sulla base del diritto comunitario, primario o derivato, ed in generale coloro che, nell’ambito di altri Stati membri della UE, svolgono funzioni corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio.
Il reato è suscettibile di realizzazione attraverso le condotte alternative della ricezione o della ritenzione indebite di denaro o utilità, da parte del pubblico agente, per sé o per un terzo. La ricezione indica l’accettazione, con contestuale appropriazione, della cosa offerta erroneamente dal soggetto passivo. La ritenzione allude invece alla omessa restituzione di quanto ricevuto, nella consapevolezza intervenuta in capo all’autore, successivamente alla ricezione, del suo carattere indebito e, correlativamente, della doverosità della restituzione. Il discrimine tra le due condotte si riflette quindi anche sul profilo soggettivo, e sul momento di acquisizione della consapevolezza, da parte del pubblico agente, del carattere indebito della dazione. Lungi dal rappresentare un mero pleonasmo, quindi, l’avverbio «indebitamente» che qualifica la ricezione come la ritenzione, potrebbe svolgere una funzione selettiva della rilevanza penale del fatto, escludendola in relazione alla ricezione di cose dovute al p.u. uti privatus, non potendo in tal caso ravvisarsi il carattere indebito della accettazione o della ritenzione del bene, richiesto dalla norma (Seminara, S., sub art. 316, in Comm. breve Dir. Pen. Crespi-Stella-Zuccalà, Padova, 2003, 892-897; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 1988, 196; Fornasari, G., Peculato, in Bondi, A.-Di Martino A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 140, il quale tuttavia sottolinea giustamente come a tale conclusione si sarebbe pervenuti anche in assenza dell’avverbio, in virtù dell’applicazione della scriminante dell’esercizio di un diritto, di cui all’art. 51 c.p. Per la tesi della superfluità dell’avverbio, sia pur con ulteriori osservazioni e opportune distinzioni, cfr. Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Artt. 314-335 bis cod. pen., Commentario sistematico, II ed., Milano, 2006, 56).
Controversa è la questione della possibilità di ricondurre alla nozione di “terzo” beneficiario della condotta dell’agente anche la p.a. di appartenenza. Alla tesi positiva – secondo cui gli interessi alla imparzialità e al buon andamento dell’azione amministrativa sarebbero comunque pregiudicati dalla ricezione di utilità non dovute alla p.a., in ragione di abusi dei suoi funzionari (Fornasari, G., op. cit., 140) – si obietta infatti che il disvalore di tale condotta potrebbe se del caso ricondursi alla figura dell’abuso di ufficio, ma non a quella di cui all’art. 316 (e tantomeno di cui all’art. 314 c.p.), che nel richiedere l’appropriazione, peraltro indebita, della cosa, presuppone una situazione di alterità tra pubblico funzionario e p.a. (Romano, M., op. cit., 56).
Diversamente dalla formulazione contenuta nell’art. 314, la disposizione in esame qualifica l’oggetto materiale del reato come «denaro o altra utilità», con evidenti affinità rispetto alla figura della concussione, da cui storicamente il peculato mediante profitto deriva. Se la nozione di denaro ricomprende sia le monete metalliche che i biglietti di Stato o di banca, aventi corso legale in Italia come all’estero, più complessa è la lettura del significato normativo della locuzione «altre utilità». Da un primo orientamento si considera una mera svista la diversa dizione normativa utilizzata, rispetto a quella prescelta per l’art. 314, riconducendo quindi alla suddetta locuzione anche le cose mobili (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 196; Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, in Marinucci, G.-Dolcini, E., diretto da, Trattato di diritto penale, pt. spec., I, Padova, 2001, 263; più articolata e problematica invece la tesi di Cagli, S., Peculato e malversazione, in Dig. pen., IX, Torino, 1995, 349). A tale tesi si obietta tuttavia, a ragione, la possibilità di ricondurre a tale nozione anche servizi o utilità comunque diverse dalle cose mobili, nella loro materialità, normalmente patrimoniali ma non necessariamente tali, così da valorizzare la diversa espressione normativa adottata dal legislatore, anche alla luce delle peculiarità che caratterizzano la figura in esame (Romano, M., op. loc. ultt. citt., che, al rilievo secondo cui un limite alla rilevanza del concetto di utilità deriverebbe dal fatto che la condotta deve necessariamente avvenire nell’esercizio delle funzioni o del servizio, risponde che ciò non esclude la rilevanza di un’utilità non incorporata in una cosa mobile; Fornasari, G., op. cit., 140).
Più tenue rispetto alla forma che assume nel contesto dell’art. 314 c.p. – ove si richiede che il possesso della cosa si fondi sull’esercizio della funzione e sia riconducibile alla sfera di competenza, sia pur intesa in senso lato, del pubblico agente – si presenta qui il legame tra la condotta e la qualifica pubblica dell’autore, esigendosi la mera contestualità del comportamento all’esercizio della funzione o del servizio. Ai fini dell’art. 316 è quindi necessario, ma anche sufficiente, che il privato corrisponda il denaro o l’utilità al pubblico agente in quanto egli stia contestualmente esercitando la funzione o il servizio pubblici, ovvero, nel caso della ritenzione, che la disponibilità del bene da parte dell’autore dipenda dalla funzione o dal servizio esercitati.
Limite interno alla rilevanza dell’errore in cui versi il soggetto passivo è la sua preesistenza, il suo essere cioè non determinato (o almeno, non intenzionalmente determinato) dal pubblico agente, potendo altrimenti ravvisarsi gli estremi, in presenza degli ulteriori requisiti richiesti, della concussione per induzione (Cass. pen., 31.5.1996, Del Piano, in Guida dir., 1996, fasc. 32, 77, nonché, sebbene in relazione all’affine figura del peculato militare mediante profitto dell’altrui errore, Cass. pen., 3.11.2004, in CED Cass. pen., n. 230175. Osserva Romano M., op. cit., 52, che non rileva a tal fine la presenza o meno di un obbligo, in capo al pubblico agente, di correggere l’altrui errore di cui si avveda; obbligo di cui la norma presuppone evidentemente l’inadempimento). Oggetto dell’errore può essere sia la sussistenza dell’obbligo del privato alla prestazione, sia l’entità del dovuto (può cioè vertere sia sull’an sia sul quantum dell’obbligo della prestazione: Cass. pen., 10.3.1992, Vassena, in Cass. pen., 1994, 1855), ma può concernere anche la competenza e la legittimazione del pubblico agente alla ricezione di quanto effettivamente dovuto alla p.a. (Cass. pen., 12.7.1963, Cherubini, in Giust. pen., 1964, II, 383; Romano, M., op. cit., 53, rileva tuttavia che quando la p.a. di appartenenza – dunque l’ufficio dell’agente ovvero altro ufficio della stessa branca – sia realmente creditrice della prestazione, sorgerebbe comunque in capo all’autore – sul denaro o sulla cosa mobile – un possesso per ragione dell’ufficio o servizio esercitati, dal momento che egli agirebbe pur sempre in nome e per conto della p.a. – ipotesi comunque ammissibile limitatamente ai cd. uffici-organi, caratterizzati cioè dalla titolarità di un rapporto organico in capo all’agente, si potrebbe aggiungere). Ne conseguirebbe allora, in tal caso, la configurabilità quale peculato comune della condotta di ricezione o ritenzione in mala fede del denaro o della cosa, da parte del pubblico agente (Cass. pen., 13.10.1992, in CED Cass. pen., n. 191978).
L’approfittamento dell’altrui errore da parte del pubblico agente, richiesto dalla norma, implica necessariamente la consapevolezza, in capo all’autore, dell’errore in cui versi il privato (Cagli, S., Peculato e malversazione, cit., 349; Fornasari, G., op. cit., 141; Romano, M., op. cit., 53; contra: Pagliaro, A., Principi di diritto penale, pt. spec., I, Milano, VI ed., 1994, 92).
La norma di cui all’art. 316 c.p. presuppone in capo all’agente il dolo generico, il cui oggetto include, secondo le regole generali, tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico, ivi compresa la situazione di errore in cui versi il soggetto passivo. La qualificazione della condotta appropriativa come tesa a favorire l’agente stesso o un terzo non vale però a rendere il dolo specifico, ma rappresenta unicamente una particolare caratterizzazione della condotta (Romano, M., op. loc. ultt. citt. L’Autore precisa poi, sotto un diverso profilo, che ove l’altrui errore consista nel ritenere che il denaro o la cosa mobile siano dovuti al pubblico agente o al terzo, mentre in realtà sono dovuti alla p.a., la consapevole condotta appropriativa dell’agente realizzerebbe un peculato comune, sussistendo in tal caso, come si specificava innanzi, un “possesso per ragione dell’ufficio o del servizio” esercitati dal soggetto attivo).
Dovrà applicarsi il regime dell’errore sulle scriminanti (art. 59, co. 4, c.p.) in presenza di errore del pubblico agente sul carattere a lui dovuto, uti privatus, della prestazione corrisposta. In tal caso infatti, il soggetto attivo ritiene, pur erroneamente, sussistenti gli estremi della scriminante dell’esercizio di un diritto.
Trattandosi di reato istantaneo, il momento consumativo del peculato mediante profitto si identifica nella ricezione dell’indebito da parte del pubblico agente, ovvero nel momento in cui egli, successivamente alla ricezione, acquisisca la consapevolezza dell’altrui errore e della doverosità della restituzione della cosa, che pur omette. Relativamente alla ricezione si osserva poi che, in quanto tale condotta sottende ed indica un momento appropriativo, sarà in tal senso necessario un comportamento uti dominus, sebbene l’agente intenda beneficare il terzo o senz’altro lo faccia: è questo invero un fatto successivo alla già avvenuta consumazione, di per sé non rilevante (Romano, M., op. cit., 57). Quanto infine al tentativo, da ritenersi ammissibile, coinciderà secondo le regole generali con il compimento di atti idonei e diretti inequivocabilmente alla realizzazione del delitto, ed in particolare all’appropriazione da parte del pubblico agente che si giovi dell’altrui errore (Romano, M., op. loc. ultt. citt.; contra: Levi, N., Delitti contro la pubblica amministrazione, in Tratt. dir. pen. Florian, Milano, 1935, 238, secondo il quale la ricezione implicherebbe già consumazione e la promessa difetterebbe del carattere inequivoco necessario ai fini del tentativo, sebbene tale ulteriore affermazione appaia discutibile; analogamente, Fornasari, G., op. loc. ultt. citt.; Riccio, G., Amministrazione pubblica (delitti contro l’), in Nss.D.I., I, Torino, 1987, 563 ss.; Riccio, G., Peculato e malversazione, in Nss.D.I., XII, Torino, 1965, 747).
L’art. 323 bis c.p., introdotto dalla legge n. 86 del 1990, prevede una circostanza attenuante speciale, applicabile ad alcuni delitti contro la p.a., tra i quali anche il peculato mediante profitto, in presenza di fatti di particolare tenuità, ma pur sempre tipici, e quindi non radicalmente privi di idoneità lesiva. Il parametro valutativo su cui si fonda l’applicazione dell’attenuante è il fatto nella sua interezza, e non solo alcuni suoi requisiti costitutivi, e pertanto potranno assumere rilievo a tali fini anche elementi diversi, quali ad esempio il valore della cosa o la natura e il tipo del collegamento tra il possesso e la pubblica funzione (Fornasari, G., op. cit., 134, che non condivide la tesi di Palazzo, F.C.-Tarquini, E., Peculato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 7, secondo cui la circostanza attenuante in esame potrebbe applicarsi unicamente qualora la cosa appartenga ad un privato e non alla p.a., opportunamente motivando la critica alla luce della volontà del legislatore del 1990 di equiparare le due ipotesi, prima distinte come malversazione e peculato). Quando poi la valutazione della particolare tenuità del fatto concerna elementi diversi dal danno patrimoniale, l’attenuante di cui all’art. 323 bis ben potrebbe concorrere con quella di cui all’art. 62, n. 4, c.p. (danno patrimoniale di speciale tenuità: così, ad es., Cass. pen., 18.1.2001, Campo, in Guida dir., 2001, fasc. 12, 101; e in dottrina, per tutti, Romano M., op. cit., 45; Fornasari, G., op. cit., 134. In generale, Cass. pen., 6.4.2005, in CED Cass. pen., n. 231040, precisa che l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., è subordinata, a prescindere dal rilievo che nel caso concreto assuma la circostanza di cui all’art. 323 bis c.p., alla sussistenza di und anno di “minima rilevanza”). Tale circostanza, come anche l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all’art. 61, n. 7, c.p., è infatti applicabile al peculato mediante profitto, il cui spettro di tutela include infatti al suo interno anche la dimensione patrimoniale.
È poi importante tracciare i confini che separano la sfera applicativa della figura in analisi da quelle cui nell’evoluzione storica della disciplina i legislatori hanno ritenuto di assimilarla, ovvero dalla concussione – dalla quale storicamente deriva, rappresentandone, nel codice Zanardelli, una ipotesi particolare – e dal peculato comune, cui il legislatore del 1930 l’ha affiancata.
Ora, il discrimine tra peculato mediante profitto e concussione per induzione si identifica nel fatto che, nel primo caso, l’errore altrui preesiste alla condotta dell’agente, che se ne avvale, non derivando in alcun modo dal comportamento di costui. La fattispecie in esame si distingue poi dal peculato comune per essere il possesso conseguente alla dazione del terzo che versi in errore, e non preesistente, nonché per il diverso valore che nella struttura della fattispecie assume il nesso funzionale tra condotta ed esercizio della funzione o del servizio da parte dell’agente (profilo su cui si rinvia a quanto già osservato in sede di analisi generale della fattispecie).
In ragione dell’eliminazione, da parte della l. 26.4.1990, n. 86, della pena pecuniaria prima prevista, la sanzione che residua per l’autore del peculato mediante profitto è la reclusione da sei mesi a tre anni. L’art. 322 ter c.p., introdotto dalla l. 29.9.2000, n. 300, dispone però che (anche) in caso di condanna per peculato mediante profitto si proceda obbligatoriamente alla confisca dei beni che ne costituiscano il prezzo o il profitto, o, qualora non sia possibile, alla confisca di beni, di cui l’autore abbia la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. È infine importante ricordare che, ai sensi degli artt. 58 e 59 t.u.e.l. (d.lgs. 18.8.2000, n. 267), alla condanna non definitiva per delitti quali, ad es., il peculato mediante profitto conseguono la ineleggibilità e la sospensione (la decadenza deriva invece dalla condanna definitiva) da alcune cariche pubbliche di natura politica (ad es., presidente della provincia, sindaco, assessore, consigliere provinciale e comunale) nell’ambito degli enti ad autonomia territoriale.
Art. 316 c.p.
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