Abstract
La voce analizza la disciplina del peculato (art. 314 c.p.), come novellata dalla legge 26.4.1990, n. 86, che, in particolare, ha eliminato la modalità distrattiva di realizzazione della condotta; ha abrogato l’art. 315 c.p. – con il conseguente assorbimento della malversazione nella sfera di rilevanza dell’art. 314 – ed ha autonomamente normato il peculato d’uso.
1. Soggetti e interesse tutelato
Il peculato, anche (e soprattutto) in seguito alle modifiche apportate dalla l. 26.4.1990, n. 86 – in particolare: l’eliminazione della modalità distrattiva di realizzazione della condotta; l’abrogazione dell’art. 315 c.p. e il conseguente assorbimento della malversazione nella sfera di rilevanza dell’art. 314; l’autonoma incriminazione, all’ultimo comma dell’art. 314 c.p., del peculato d’uso – è un delitto plurioffensivo, incentrato sull’abuso del possesso qualificato (Cass. pen., 9.6.2010, n. 26476; Cass. pen., S.U., 25.6.2009, n. 38691). Esso tutela quindi, da un lato, come bene strumentale, l’interesse collettivo alla massima aderenza all’interesse pubblico dell’azione amministrativa e la sua imparzialità, lesa da condotte dei suoi stessi organi. volte a strumentalizzare il possesso fondato sulla ragione di ufficio e ad alterare l’ordine di destinazione dei beni pubblici (o privati in mano pubblica), così determinando disfunzioni nella gestione della cosa pubblica (artt. 54 cpv., 97 e 98, co. 1, Cost.). Dall’altro lato, la norma mira a tutelare, quale bene finale, l’integrità delle risorse patrimoniali necessarie alla realizzazione dei fini istituzionali da parte degli enti pubblici; così da garantire il rispetto della destinazione pubblicistica, o comunque originaria, dei beni mobili di cui il soggetto qualificato dispone per la cura esclusiva dell’interesse generale. Tale ultimo profilo consente poi di annoverare il peculato tra i delitti che “comunque offendono il patrimonio”, con conseguente applicabilità delle circostanze comuni previste dagli artt. 61, n. 7, e 62, n. 4, c.p.
Trattasi di reato proprio, realizzabile come tale soltanto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio. Naturalmente sono possibili concorrenti nel reato anche persone prive di tali qualifiche, non richiedendosi che l’autore materiale della condotta sia il pubblico agente, che potrebbe quindi in tale ipotesi avvalersi dell’aiuto materiale dell’intraneus (Cass. pen., 6.5.1992, in CED Cass. pen., 12564; Cass. pen., 25.2.1992, in CED Cass. pen., n. 11743). Inoltre, alla fattispecie non si applica l’art. 360 c.p., secondo cui la cessazione della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, al momento della realizzazione del fatto, non determina l’insussistenza del reato, qualora esso si riferisca all’ufficio, o rispettivamente, al servizio esercitati. Nel caso in esame, infatti, la cessazione della qualifica determina necessariamente il venir meno del carattere qualificato del possesso, ovvero del nesso funzionale tra il possesso della cosa o del denaro e l’ufficio o servizio esercitati. È tuttavia sufficiente il possesso qualificato (per ragione di ufficio o servizio) della cosa, non rilevando che l’appropriazione si sia consumata dopo la cessazione dall’esercizio della funzione da parte dell’agente (Cass. pen., 12.2.1999, in CED Cass. pen., n. 23744). Inoltre, ai sensi dell’art. 322 bis c.p., devono oggi ritenersi possibili soggetti attivi del reato anche i funzionari e i membri degli organi e delle istituzioni della UE. La categoria dei soggetti passivi comprende poi, oltre alla p.a., anche i privati (la cui tutela era prima della l. n. 86/1990 assegnata alla figura della malversazione di cui all’abrogato art. 315), di cui sia leso un interesse patrimoniale.
2. Oggetto materiale
Oggetto materiale del reato sono il denaro o la cosa mobile. Espressione, quest’ultima, che indica ogni entità materiale, suscettibile di essere trasportata da un luogo a un altro secondo la sua funzione, così da ricomprendere anche le cose mobili registrate o “mobilizzate”, in seguito alla loro separazione dalla cosa immobile cui erano legate. Si estende anche al delitto in esame il principio di equivalenza alle cose mobili dell’energia elettrica e di ogni altra energia che abbia valore economico (art. 624, co. 2, c.p.): si pensi all’uso a fini privati delle linee telefoniche dell’ente pubblico. Più complessa la questione relativa alla configurabilità del peculato in relazione alle energie lavorative che, in quanto attinenti alla e promananti dalla persona, non sarebbero, come tali, suscettibili di appropriazione, non potendosi ipotizzare l’appropriazione del soggetto che tali energie produce. Diversamente, la giurisprudenza, soprattutto meno recente, ha ravvisato gli estremi del peculato nella condotta del pubblico agente che, avvalendosi della propria funzione, distolga dallo svolgimento delle attività inerenti la pubblica mansione dipendenti le cui energie utilizzi invece a fini privati (Cass. pen., 29.3.1990, Del Vecchio, in Cass. Pen., 1992, 1517; Cass. pen., 18.1.2001, Cassetti, in Riv. pen., 2002, 87). L’orientamento più recente ravvisa invece, in casi simili, più correttamente, gli estremi dell’abuso di ufficio, sussistendone gli ulteriori requisiti (Cass. pen., 9.6.2010, n. 35150; Cass. pen., 15.4.2009, n. 25537; Cass. pen., 7.6.2001, Orfeo, in Guida dir., 2000, fasc. 31, 69; Cass. pen., 13.5.1998, Agnello, in Giust. pen., 1999, II, 318). Importante poi precisare come la cosa oggetto di appropriazione debba presentare un sia pur minimo valore economico, o comunque una qualche utilità per l’agente (Cass, 10.10.2000, in CED Cass. pen., n. 218338; Cass. pen., 20.10.2000, in CED Cass. pen., n. 217366; Cass. pen., 30.5.2001, in CED Cass. pen., n. 219021; Cass. pen., 11.11.2004, in Dejure; contra, ad es., Cass. pen., 23.4.2007, n. 24677, ibidem). Più complessa, invece, la questione relativa al peculato su cose in sé prive di valore, ma suscettibili di essere in seguito utilizzate con profitto per l’agente, rispetto alla quale un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene sussistenti gli estremi del delitto, sottolineando come il valore della cosa non debba essere necessariamente intrinseco ad essa, potendo invece derivare dal suo successivo utilizzo (ad es. Cass. pen., 29.10.1988, D’Amato, in Cass. Pen., 1990, 50; Cass. pen., 19.1.2000, in CED Cass. pen., n. 215320; Cass. pen., 12.6.2007, n. 30154, in Dejure). A tale orientamento si è obiettato tuttavia, non a torto, che il profitto derivante all’agente dalla riutilizzazione della cosa in tal caso consegue a una condotta autonoma, distinta ed ulteriore rispetto all’appropriazione, di modo che, se non sussistono gli estremi del peculato per l’irrilevanza del valore della cosa, l’agente potrà eventualmente rispondere ad altro titolo (ad es., ai sensi degli artt. 476 o 640 c.p.) per il comportamento illecito ulteriore (cfr., ad es., Cass. pen., 30.5.2001, Ioia, in Riv. pen., 2001, 1038 ).
Ulteriore requisito dell’oggetto materiale del reato è l’ “altruità”; qualifica risultante dalla unificazione delle fattispecie – distinte prima della novella del 1990 – della malversazione a danno di privati e del peculato, che si rifletteva nella distinzione tra appartenenza o meno del denaro o della cosa mobile alla p.a. Ora, la centralità che nella dinamica della fattispecie assume l’abuso del possesso, induce a riferire il concetto di altruità a una categoria di situazioni di appartenenza della cosa fondate su ogni vincolo, determinatosi in ragione del possesso funzionale, che legittimi o imponga alla p.a. di disporre della cosa, a prescindere dalla titolarità, su di essa, della proprietà o di altro diritto. La questione si presenta più complessa invece in relazione all’altruità del denaro, ravvisandosi gli estremi del peculato nell’appropriazione, da parte del pubblico agente, del denaro riscosso per conto della p.a. (Cass. pen., 31.3.2003, in CED Cass. pen., n. 224573; Cass. pen., 20.1.2004, in CED Cass. pen., n. 229766; Cass. pen., 12.2.2005, in CED Cass. pen., n. 230878; Cass. pen., 9.6.2004, in CED Cass. pen., n. 229743). A diversa soluzione dovrebbe pervenirsi nel caso in cui il denaro sia ricevuto originariamente a proprio titolo da parte dell’agente, salva la sussistenza di una successiva obbligazione nei confronti della p.a. (ad es., Cass. pen., 20.12.2000, in CED Cass. pen., n. 217594; contra: Cass. pen., 31.1.2005, in CED Cass. pen., n. 231474).
Ai fini della sussistenza del delitto, è necessario che il pubblico agente abbia, della cosa o del denaro oggetto di appropriazione, il possesso o comunque la disponibilità, per ragione dell’ufficio o servizio svolti. Il riferimento espresso alla disponibilità è stato aggiunto dalla novella del 1990, sulla scorta di una giurisprudenza che aveva escluso la possibilità di intendere la nozione di possesso in chiave civilistica, richiedendosi quindi il corpus possessionis e l’animus possidendi in capo al soggetto attivo. Si riconducevano quindi alla nozione di possesso rilevante ai fini dell’art. 314 c.p. anche le situazioni di possesso mediato da parte del pubblico agente, caratterizzate cioè dalla disponibilità meramente giuridica del denaro o della cosa (detenuti invece da altri) da parte del pubblico funzionario, il quale tuttavia avrebbe potuto ottenerne la detenzione materiale in virtù di un provvedimento di propria competenza (v., ad es., Cass. pen., 9.2.1989, Pileri, in Cass. pen., 1990, 1058; Cass. pen., 6.6.1990, Di Salvo, ibidem, 1992, 1225; successivamente alla riforma v. ad es., Cass. pen., 3.8.2001, Ottaviano, in Guida dir., 2001, fasc. 35, 83). Si è quindi ritenuta in un certo senso pleonastica l’ulteriore tipizzazione espressa, da parte della novella del 1990, della disponibilità, quale forma della relazione giuridica tra il pubblico agente e l’oggetto materiale del reato, certamente ricompresa dal diritto vivente nell’accezione di possesso intesa come possibilità per l’agente di disporre della cosa, al di fuori dell’altrui sfera di controllo, in ragione di una situazione di mero fatto o della funzione giuridica svolta nella p.a. (Cass. pen., 8.1.2010, n. 3327); ma indubbiamente la riforma ha cristallizzato definitivamente in norma l’acquisizione giurisprudenziale. La relazione giuridica tra l’agente e l’oggetto è poi ulteriormente qualificata dalla caratterizzazione giuridica del potere di cui sia titolare l’agente, fondandosi l’art. 314 sull’idea dell’abuso del possesso qualificato, appunto, dalla ragione dell’ufficio o del servizio. Quanto al contenuto di tale requisito, la giurisprudenza prevalente preferisce un’interpretazione ampia, comprensiva anche delle ipotesi in cui il possesso si fondi su mere prassi o consuetudini invalse nell’ufficio, e più in generale tutti i casi in cui il possesso derivi dalla (e si legittimi in ragione della) funzione o del servizio pubblici, esercitati dall’agente, ravvisandosi così gli estremi del delitto anche in presenza di un possesso meramente occasionale, dovuto a motivi contingenti (ad es., Cass. pen., 13.5.2009, in CED Cass. pen., n. 20952; Cass. pen., 15.4.2003, in CED Cass. pen., n. 227140; contra: Cass. pen., 4.3.2003, in CED Cass. pen., n. 224051; Cass. pen., 11.3.2003, in CED Cass. pen., n. 224051). Altro indirizzo accede invece a un’interpretazione della norma tesa a richiedere in capo all’agente una condizione di disponibilità della cosa traente origine e legittimazione dall’esercizio della funzione pubblica svolta e riconducibile alla competenza d’attribuzione propria (cfr. Cass. pen., 23.9.2010, in CED Cass. pen., n. 39363; contra: Cass. pen., 22.6.2010, in CED Cass. pen., 27738 e, in dottrina, Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 1988, 191; Flick, G., Il delitto di peculato. Presupposti e struttura, Milano, 1971. 178).
4. La condotta
Prima della soppressione – con la novella del 1990 – della modalità distrattiva di realizzazione della condotta, alla tesi secondo cui essa avrebbe indicato una particolare forma di appropriazione, caratterizzata dal requisito della destinazione finalistica anziché dalla mera ritenzione, si opponeva l’altra, alla cui stregua si sarebbe dovuto individuare nell’appropriazione una particolare forma di distrazione, e quindi di destinazione della cosa a finalità diverse da quelle assegnate dalla p.a. (v. Pagliaro, A., Il peculato prima e dopo la riforma, in Atti del primo Congresso Nazionale di diritto penale, I delitti contro la pubblica amministrazione dopo la riforma – Il nuovo codice di procedura penale ad un anno dall’entrata in vigore, Napoli, 1991, 57 ss). Vi era poi chi ravvisava nei due comportamenti un elemento comune – la fase genetica di sottrazione della cosa alle finalità istituzionalmente stabilite – pur nel quadro di una sostanziale autonomia degli stessi (Scordamaglia, V., Peculato, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 556 ss.). Circa il concetto di distrazione, se un orientamento vi riconduceva i soli casi di distrazione per finalità esclusivamente private, quello prevalente nella giurisprudenza di legittimità attribuiva rilievo ad ogni forma di destinazione della cosa diversa da quella prestabilita da leggi, regolamenti o istruzioni vincolanti. L’indirizzo intermedio attribuiva poi rilievo, oltre ai casi di distrazione per finalità esclusivamente private, anche alle ipotesi di distrazione della cosa verso finalità pubbliche sì, ma estranee agli scopi istituzionali di cura specifica dell’interesse generale, perseguiti dall’ente. Tanto la prima posizione, quanto quella intermedia, miravano ad evitare che la valutazione del giudice penale potesse estendersi oltre i limiti del sindacato esterno sulla discrezionalità amministrativa o tecnica della p.a., per intervenire sui profili del merito amministrativo (sottratti, si sa, persino al vaglio del giudice amministrativo, salvo i casi di giurisdizione estesa, appunto, anche al merito). Ulteriore esigenza sottesa a queste posizioni – in particolare alla più restrittiva – nonché alla riforma del 1990, era quella di evitare interpretazioni così ampie della nozione di distrazione, tali da ricondurre al peculato ipotesi di abuso del possesso il cui marginale disvalore le rendeva inidonee a pregiudicare realmente l’imparzialità e il corretto andamento dell’azione amministrativa, apparendo in alcuni casi sufficiente finanche la mera responsabilità contabile.
Il legislatore del 1990 ha comunque soppresso dalla disposizione il riferimento alla distrazione quale possibile modalità di realizzazione della condotta, salvo poi ricondurne la rilevanza, in presenza degli ulteriori presupposti, all’abuso d’ufficio, secondo la volontà del legislatore storico. Valorizzando la volontà del legislatore del 1990, un orientamento ritiene oggi inquadrabili nell’art. 314 solo le ipotesi di abuso del possesso realizzate attraverso l’appropriazione in senso stretto della cosa o del denaro, riconducendo invece la distrazione a fini diversi da quelli stabiliti all’art. 323 (Seminara, S., sub artt. da 314 a 316, in Comm. breve Dir. Pen. Crespi-Stella-Zuccalà, Padova, 2003, 892 ss.). Diversamente conclude chi, privilegiando l’objectiva voluntas legis, ravvisa quale conseguenza della novella del 1990, una riespansione del concetto di appropriazione, tale da ricomprendere anche la distrazione quale peculiare forma della prima, sul paradigma dell’art. 646 c.p. In favore di questa tesi deporrebbe peraltro l’espressa incriminazione del peculato d’uso, espressivo di una peculiare forma di distrazione – sia pur momentanea – e non di appropriazione. Sarebbe tuttavia possibile ipotizzare una soluzione intermedia, che pur senza legittimare l’irragionevole disparità di trattamento tra abuso del possesso qualificato dovuto ad appropriazione o rispettivamente a distrazione della cosa o del denaro – disparità derivante dall’adesione alla tesi che fa leva sulla volontà del legislatore storico – tenga comunque conto della intervenuta eliminazione del riferimento alla distrazione. Si ascriverebbero allora all’art. 314 anche le forme di distrazione ricollegabili all’appropriazione, quali casi di sviamento dai fini tipici per scopi privati, in alcun modo riconducibili alla funzione amministrativa (Cass. pen., 17.4.2007, in CED Cass. pen., n. 28645), trattandosi anche in tal caso di sottrazione della cosa alle finalità di interesse generale alla cui cura è adibita l’azione amministrativa, in favore di interessi privati; deviazione ad-proprium della risorsa comune, quindi. Tale tesi lascia tuttavia in certa misura perplessi, nella misura in cui rischia di ricondurre ancora una volta, in contrasto con l’intenzione del legislatore del 1990, la distrazione nella sfera dell’art. 314 c.p., anziché – ove ne ricorrano, ovviamente, gli estremi – dell’ abuso di ufficio. Diversamente, dovrebbero ricondursi all’art. 323 – sussistendone i requisiti ulteriori – le forme di distrazione a fini diversi da quelli prestabiliti, ma comunque di rilievo pubblico.
Quanto ai casi di distrazione con finalità diversa da quella prescritta, ma comunque compatibile con le attribuzioni istituzionali dell’ente, si manifestano perplessità in ordine alla rilevanza penale di tali condotte, insuscettibili peraltro di integrare finanche gli estremi dell’abuso d’ufficio. La condotta tipica del peculato consiste quindi nell’esercizio di atti dispositivi sul denaro o sulla cosa, incompatibili con il titolo giustificativo del possesso o della detenzione, così da realizzare un comportamento uti dominus sull’oggetto, sul quale altri possano vantare un diritto (di proprietà o altro diritto reale o personale di godimento) dal contenuto o dai poteri prevalenti rispetto a quelli riconducibili alla relazione giuridica che intercorra tra il pubblico agente e la cosa (o il denaro). Il comportamento uti dominus potrà poi consistere nell’appropriazione tout court o nella utilizzazione a fini privati della cosa, sottratta quindi alle finalità di interesse generale alla cui cura sia adibita l’azione amministrativa. La condotta appropriativa presenta comunque due aspetti: uno negativo, o di “espropriazione”, teso a negare il diritto altrui (di proprietà o altro diritto reale o personale di godimento, dal contenuto e dalla forza prevalenti rispetto al titolo del possesso del pubblico agente) sulla cosa, e uno positivo, o di “impropriazione”, volto ad istituire un rapporto di fatto con la cosa con un’interversio possessionis. Ciò non significa che, ai fini della sussistenza dell’appropriazione, sia necessaria l’inclusione della cosa nella sfera patrimoniale dell’agente, ben potendo al contrario integrare gli estremi del reato anche il comportamento uti dominus, incompatibile con il titolo del possesso in capo al pubblico agente, che in quanto subordinato a fini di profitto altrui, consista nella messa a disposizione della cosa in favore di altro soggetto privato, nei limiti di una classica ipotesi di concorso di persone nel reato.
5. Il peculato d’uso
Nell’introdurre, al secondo comma dell’art. 314, la fattispecie del peculato d’uso, il legislatore del 1990 intendeva eliminare la disparità di trattamento derivante dall’applicazione della stessa sanzione prevista per il peculato anche al mero uso momentaneo della cosa, seguito dalla restituzione. Vi è tuttavia chi ritiene tale obiettivo fallito, evidenziando come la nuova previsione abbia determinato la punibilità di condotte prima ritenute escluse dalla sfera applicativa della norma (Seminara, S., op. cit., 93). Quanto alla natura della fattispecie, un primo orientamento ne ravvisa il carattere circostanziale, in ragione della identità della condotta e dell’evento, laddove l’attenuazione del disvalore penale (e conseguentemente del carico sanzionatorio) riflessa nella degradazione del titolo del reato deriverebbe dall’immediata restituzione della cosa dopo l’uso, da parte dell’agente, con minore pregiudizio per l’interesse tutelato (ad es., Cass. pen., 16.1.1995, Baldi, in Dir. Proc. pen., 1995, 573). Da un’opposta prospettiva, che appare tuttavia più convincente, si argomenta la natura autonoma della fattispecie, fondata su di un comportamento (l’uso momentaneo) non riconducibile all’appropriazione, su di un momento consumativo distinto e coincidente con la restituzione della cosa e su una forma di dolo del tutto particolare, in quanto estesa alla volontà di restituzione della cosa (ad es., Cass. pen., 25.5.1994, Liberatore, in Cass. pen., 1995, 2894). Il limite cronologico del fatto e la particolare incidenza che la dimensione temporale assume nella dinamica della fattispecie (riflettendosi e sul profilo oggettivo, in forma di restituzione, e su quello soggettivo, in termini di oggetto del dolo) mutano infatti l’essenza della figura rispetto alla ipotesi comune di cu all’art. 314, co. 1, determinando quindi una fattispecie dalla prima autonoma e affine in più punti al furto d’uso.
La condotta tipica si caratterizza per l’uso “momentaneo”, da intendersi non come istantaneo, ma semplicemente non protratto nel tempo, secondo una valutazione da condursi in riferimento alla natura e alla destinazione della cosa. Correlato alla momentaneità dell’uso è poi il requisito – parimenti necessario ai fini dell’applicazione del secondo comma e non del primo comma dell’art. 314 c.p. – dell’immediata restituzione della cosa, che intervenga cioè trascorso soltanto il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la medesima restituzione, una volta cessato l’uso. Dalla contiguità cronologica della restituzione rispetto all’uso, consegue la necessità che, in seguito all’uso e alla sua cessazione, l’agente non compia, rispetto alla cosa, altre attività se non quelle strettamente funzionali alla restituzione. E se è vero che ai fini della sussistenza del peculato d’uso (e della correlativa esclusione del peculato comune) sono necessarie tanto la volontà di immediata restituzione, quanto la realizzazione di tale intenzione, non potrà rilevare la volontà originaria non seguita da restituzione. Il principio di personalità della responsabilità penale e il carattere normativo della colpevolezza inducono poi a concludere nel senso dell’affermazione del peculato d’uso (e non del peculato comune) anche nel caso di impossibilità sopravvenuta della restituzione, per causa non imputabile all’agente, non potendosi essa risolversi in una conseguenza negativa a carico di questi, analogamente a quanto affermato dalla Consulta con sent. 13.12.1988, n. 1085 (Cass. pen., 16.1.1995, Baldi, in Dir. proc. pen., 1995, 577).
L’applicazione giurisprudenziale della fattispecie ha poi registrato controversie interpretative in relazione ad alcuni casi particolari. In primo luogo, è discusso se l’autonoma figura del peculato d’uso si riferisca soltanto a cose infungibili o di specie, dovendo di contro applicarsi la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 314 nel caso di abuso del possesso, mediante utilizzazione indebita, di cose fungibili o di genere. Prima della riforma del 1990, infatti, si riteneva esulassero dalla sfera applicativa del peculato le ipotesi di appropriazione o distrazione solo momentanea di cose infungibili, in assenza di violazione alcuna del vincolo di destinazione ad esse imposto, non ravvisandosi in questi casi gli estremi di una vera e propria appropriazione o distrazione, rilevante ai fini della norma. Nel solco di quest’orientamento, si sostiene pertanto oggi, da parte di alcuni, che la figura introdotta al secondo comma dell’art. 314 dalla l. n. 86/1990, si riferisca unicamente alle cose infungibili, riconducendo invece l’ipotesi relativa alle cose di genere (e in particolare il denaro) al primo comma dell’art. 314, non essendo in tal caso possibile la restituzione della medesima cosa oggetto di utilizzazione, ma solo del tantundem (ad es., Cass. pen., 21.5.2009, in CED Cass. pen., n. 27528; Cass. pen., 23.1.2003, in CED Cass. pen., n. 224060). A sostegno di tale conclusione si richiama inoltre l’assenza di un’esplicita menzione, nel testo del secondo comma dell’art. 314, del denaro, accanto alla cosa, sia pur nell’ambito di una formulazione ellittica della norma, con rinvio agli elementi fondamentali della fattispecie di cui al primo comma, e nonostante il denaro sia riconducibile comunque al genus delle cose mobili, al punto da risultare superflua la stessa duplice menzione dei due oggetti nel comma 1. Quest’interpretazione determina evidentemente un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti di ipotesi di reato connotate da un medesimo grado di disvalore, differenziate soltanto dalla natura – fungibile o meno – della cosa oggetto di utilizzazione. In questa prospettiva, quindi, il più grave trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 314, co. 1, deriverebbe necessariamente dalla natura fungibile della cosa e non dal maggiore pregiudizio arrecato all’interesse tutelato, rispetto al caso di uso momentaneo di cose infungibili. Al fine di evitare possibili violazioni dei principi di eguaglianza-ragionevolezza, personalità della responsabilità penale e proporzionalità tra reati e pene, è pertanto preferibile aderire all’interpretazione opposta, che riconduce all’art. 314, co. 2, anche i casi di uso momentaneo di cose fungibili, seguite com’è ovvio dalla restituzione del tantundem (Cass. pen., 19.4.1995, Greco, in Riv. pen., 1995, 896).
Ulteriore profilo controverso inerisce al cd. peculato telefonico, relativo cioè all’uso a fini personali del telefono (o i strumenti analoghi, come il fax, il computer, ecc)., di cui l’agente disponga per ragioni di ufficio o servizio. L’orientamento che ravvisa in tale ipotesi non un uso dello strumento, ma un’appropriazione degli impulsi elettrici che consentono la comunicazione, concludono, coerentemente – ma in modo alquanto formalistico – in favore del peculato comune (Cass. pen., 20.12.2010, in CED Cass. pen., n. 256; Cass. pen., 6.2.2009, in CED Cass. pen., n. 26595;Cass. pen., 1.2.2002, Chirico, in Foro it., 2002, II, 285). In questa prospettiva, si è poi ritenuta l’atipicità del fatto nei casi di sporadiche e brevi telefonate ovvero di comunicazioni occasionali, ma dovute a esigenze private di tale importanza, che il più difficile ricorso a strumenti di comunicazione diversi da quelli dell’ufficio o l’omessa comunicazione avrebbero inciso in maniera così profonda sulla continuità e/o qualità del servizio prestato, da recare un danno maggiore al buon andamento dell’azione amministrativa (Cass. pen., 22.9.2000, Sale, in Riv. pen., 2001, 256). Ravvisando invece nel caso del peculato telefonico non un’appropriazione di impulsi elettrici, ma una interversione momentanea del possesso dello strumento a fini privati, altro orientamento conclude per l’applicabilità dell’art. 314, co. 2, (Cass. pen., 18.1.2001, Veronesi, in Guida dir., 2001, fasc. 9, 68; Cass. pen., 25.5.2000, Mari, ivi, 2001, 419, sull’uso del fax; ravvisa poi il discrimine tra peculato comune e peculato d’uso nel carattere reiterato e, rispettivamente, occasionale e sporadico dell’uso del telefono, Cass. pen., 22.2.2006, n. 9077, in Guida dir., 2006, fasc. 24, 95). Preferibile, comunque, l’indirizzo teso a negare in radice la rilevanza penale dell’uso del telefono per conversazioni private – ferma ovviamente la responsabilità disciplinare e in genere extra-penale – non potendosi ravvisare in tale condotta gli estremi dell’appropriazione, neppure nell’accezione lata e poco pregnante di cui all’art. 314, co. 2 (Cass. pen., 20.4.2001, Trevisonno, in Riv. pen., 2002, 245). Quest’ultima tesi giurisprudenziale potrebbe tuttavia apparire eccessivamente categorica, almeno nella misura in cui non sembra considerare il problema dell’applicabilità al caso di specie – sempre ove ne ricorrano gli estremi – dell’abuso di ufficio.
6. Elemento soggettivo
Il dolo costituisce requisito soggettivo tipico sia per il peculato che per il peculato d’uso, salva la diversità del relativo contenuto. Nel primo caso, infatti, la rappresentazione e la volontà si riferiscono all’appropriazione della cosa o del denaro, mentre nel secondo si estendono all’uso momentaneo e all’immediata restituzione dell’oggetto materiale. Comuni alle due figure sono invece gli ulteriori elementi relativi alla consapevolezza di negare, mediante la condotta, l’altrui diritto insistente sull’oggetto materiale, nonché la ragione di ufficio o di servizio che legittima il titolo del possesso. Parallelamente, l’errore di fatto sul fatto esclude il dolo appropriativo, al pari dell’errore su norme extra-penali risolventesi sul fatto, nella misura in cui impediscano all’autore di rendersi conto della qualifica rivestita, della ragione di ufficio o servizio che legittimi il possesso della cosa, o dell’idoneità della condotta a negare altrui diritti.
7. Rapporti tra norme
Il discrimine tra peculato e appropriazione indebita aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p., per aver commesso il fatto con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, si ravvisa essenzialmente nel fatto che nel secondo caso la cosa si trova nella disponibilità dell’agente intuitu personae e non per ragioni di ufficio o servizio (Cass. pen., 17.1.1989, Mandozzi, in Cass. pen., 1990, 833).
Circa i rapporti tra peculato e truffa aggravata ai sensi dell’art 61, n. 9, c.p., per aver commesso il fatto con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, il discrimine tra le figure si ravvisa nel fatto che ai fini dell’integrazione del secondo reato è necessario che l’impossessamento del bene sia successivo ed eziologicamente collegato alla condotta decettiva dell’autore, laddove il peculato presuppone la preesistenza del possesso, il comportamento ingannatorio potendo invece eventualmente essere finalizzato a celare l’appropriazione (relativamente alla truffa aggravata in erogazioni pubbliche, v. Cass. pen., 22.9.2004, in CED Cass. pen., 230376).
Fonti normative
Art. 314 c.p.
Bibliografia essenziale
Benussi C., I delitti contro la pubblica amministrazione, in Marinucci, G.-Dolcini, E., diretto da, Trattato di diritto penale, pt. spec., I, Padova, 2001, 170 ss.; Cagli, S., voce Peculato e malversazione, in Dig. pen., IX, Torino, 1995, 334 ss.; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 1988; Flick, G., Il delitto di peculato. Presupposti e struttura, Milano, 1971; Pagliaro, A., Il peculato prima e dopo la riforma, in Atti del primo Congresso Nazionale di diritto penale, I delitti contro la pubblica amministrazione dopo la riforma - Il nuovo codice di procedura penale ad un anno dall’entrata in vigore, Napoli, 1991, 57 ss.; Palazzo, F.C.-Tarquini, E., Peculato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990; Resta, F., I delitti di peculato, in Cadoppi, A-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., Trattato di diritto penale, pt. spec., II, I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 231 ss.; Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Artt. 314-335 bis cod. pen., Commentario sistematico, II ed., Milano, 2006, 3 ss.; Scordamaglia, V., Peculato, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 556 ss.; Seminara, S., sub artt. da 314 a 316, in Comm. breve Dir. Pen. Crespi-Stella-Zuccalà, Padova, 2003, 892 ss.; Stortoni, L., Delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, 95 ss.