Pedagogia
di Maria Corda Costa
Pedagogia
sommario: 1. Introduzione. 2. Definizioni. 3. Positivismo, herbartismo e pedologia. 4. La reazione al positivismo. 5. Gli apporti della psicologia. 6. ‛Scuole nuove', attivismo, sperimentalismo. 7. Claparède e Dewey. 8. Pedagogia ed educazione tra le due guerre. 9. Pedagogia e scienze dell'educazione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La caratteristica saliente (ove sia effettivamente possibile identificarne una) della pedagogia nel XX secolo è che in essa si allenta il rapporto di dipendenza nei confronti del pensiero filosofico in senso proprio, e si accentuano invece i rapporti, da un lato, con altre componenti della cultura (scienze biologiche e scienze umane) e, dall'altro, con i problemi più strettamente legati all'organizzazione politicoeconomica. Per quest'ultimo aspetto il fenomeno dell'educazione di massa, per cui un numero imponente di individui dai 3 ai 18 anni viene educato e istruito in strutture prevalentemente pubbliche, propone esigenze e soluzioni profondamente nuove rispetto al secolo precedente. Il rapporto tra strutture economiche, sociali, politiche, e organizzazioni della cultura (intesa quest'ultima in senso sempre più ampio) si presenta nell'ambito dei problemi educativi assai più stretto e complesso di quanto non appaia in altri settori. Il pedagogista appare sempre meno come il filosofo morale che propone un ideale d'uomo ed eventualmente i mezzi con cui tale ideale può essere perseguito, mentre si presenta piuttosto come colui che organizza un campo di competenze scientifiche, e particolarmente delle cosiddette scienze sociali, nell'ambito di una visione storicamente determinata dall'evoluzione della società civile e delle strutture politiche. Tale tipo di organizzazione non può prescindere, inoltre, da un riscontro puntuale con le forme in cui la società realizza i suoi modi d'intervento e il suo funzionamento.
A questa prima caratteristica della pedagogia del nostro secolo occorre aggiungerne un'altra: la necessità di riportare a strutture organizzate anche i cosiddetti processi di educazione permanente, di cercare cioè di inserire i processi di formazione continua (di cui peraltro ogni epoca si è preoccupata) in apposite strutture organizzate, sempre più necessarie, anche in questo caso, per il gran numero di soggetti cui si rivolgono e per le accresciute esigenze di riqualificazione professionale.
Un ulteriore allargamento di ambiti deriva dalla portata educativa attribuita alle stimolazioni nella primissima infanzia che, studiata nell'ambito di scuole psicologiche diverse, diventa centrale nel processo educativo e comporta una serie di provvedimenti sul piano istituzionale (organizzazione di asili nido, scuole per l'infanzia, ecc.). Ma qui l'aspetto innovativo consiste nell'ampiezza realizzativa e nell'approfondimento scientifico delle caratteristiche dell'esperienza infantile, piuttosto che nell'individuazione del tema, già sviluppato, anche su base attuativa, durante il XIX secolo, da personalità assurte a larghissima fama come Fr. Fröbel, R. Owen e, in Italia, F. Aporti.
Da queste considerazioni si può dedurre anche quale sia il senso di un allargamento del discorso pedagogico oltre i confini nazionali. Sino al sec. XIX si poteva parlare di un ‛universalismo' della pedagogia connesso a un'identificazione filosofica di valori, e si poteva quindi ipotizzare una sostanziale validità ditali valori e dunque della pedagogia indipendentemente da determinazioni spazio-temporali; oggi invece l'espressione ‟in the twentieth century, one world" (J. L. Frost, 1966), riferita ai problemi dell'educazione, identifica piuttosto la problematica dell'educazione di massa in un mondo unificato da comuni esigenze tecnologiche, da spinte democratico-partecipative, dalla diffusione dei beni essenziali, pur nella spaventosa sperequazione della loro distribuzione.
Nessun discorso pedagogico è quindi possibile oggi in un qualsiasi paese dell'Europa occidentale se esso non tiene conto, per es., anche delle esigenze educative del Terzo Mondo, o delle evoluzioni politico-pedagogiche della Cina. Detto questo, è altrettanto vero che esiste anche una specificità di problemi in rapporto alle diverse situazioni che impone di tener presenti le particolari caratteristiche delle situazioni educative dei diversi paesi: fasce di età e scolarizzazione, strutture professionali, ecc. Di qui il pericolo, per la pedagogia di questo secolo, da un lato di provincializzarsi e decadere in didattica spicciola (tale anche ove si tratti di didattica ‛di Stato'), dall'altro di indugiare in astratte elaborazioni teoriche, astratte non solo in rapporto al contingente esistenziale, ma altresì alle elaborazioni culturali di altri settori, sia scientifici sia umanistico-sociali.
2. Definizioni
Esaminare quindi che cosa si debba intendere per ‛pedagogia' nell'ambito di un discorso sul XX secolo significa essenzialmente delineare, cercando di evitare riduzionismi eccessivamente schematici, quali siano stati i rapporti tra i grandi momenti dell'evoluzione politica e i tentativi di riflessione più o meno analitica e sistematica, nei processi formativi, con uno speciale accento posto sul ‛sociale'.
Anzitutto qualche cenno sull'uso e la portata del termine nel suo significato più generale. In Italia il termine ‛pedagogia' ha un suo generico significato denotativo e si presenta come un termine di largo uso (ricco tuttavia di ambiguità, almeno per gli ultimi due secoli), riferito alla riflessione, a livello teorico più o meno astratto, sui fenomeni di formazione e di educazione, comprendendo in essi anche quelli più specificamente riguardanti l'istruzione. Naturalmente tale riflessione va considerata estesa anche ai cosiddetti valori, alle finalità determinate in sede filosofica o morale, alle norme intese come principio cui indirizzare la condotta. Ovviamente il prevalere (talvolta in modo esclusivo) del primo o del secondo significato dipende dall'impostazione di pensiero da cui il discorso parte, e dal nesso che quindi si stabilisce tra finalità e metodi proposti. Indipendentemente da come tale problema venga risolto, è però subito evidente come esista una fondamentale ambiguità nell'uso italiano del termine pedagogia che, se da un lato implica una ‛riflessione su', dall'altro si riferisce ai fatti, ai procedimenti educativi, al di fuori della riflessione teorica che si opera su di essi a vari livelli. È interessante notare che analoga ambiguità si ritrova, in inglese, non nel termine pedagogy, ormai praticamente scomparso, ma in education, che significa sia educazione, formazione, istruzione, sia riflessione più o meno sistematica sui fenomeni inerenti a tali attività. L'uso francese del termine pédagogie in questo secolo ha avuto una sua identificazione da parte di E. Durkheim (Nouveau dictionnaire de pédagogie et d'instruction primaire, 1911) che definisce la pedagogia come una ‟teoria pratica" che orienta e guida l'attività di chi ha il compito di educare traendo tali orientamenti da una riflessione sui fenomeni educativi, senza peraltro costituire una ‟scienza dell'educazione" (come era stata definita da H. Marion nella precedente edizione dello stesso dizionario), e senza potersi neppure confondere con l'educazione stessa. E bene inoltre tener presente che durante questo secolo il termine pédagogie assume in francese anche un significato assai vicino a quello che ha in italiano il termine ‛didattica' (ad esempio pédagogie de la lecture, didattica della lettura). Analogo invece all'ambito denotativo del termine italiano ‛pedagogia' appare quello tedesco Pädagogik, forse caratterizzato da una maggiore accentuazione dell'aspetto ‛riflessione teorica' e da una minore confusione con il termine Erziehung (educazione).
Può essere utile sapere che, nelle discipline accademiche, alla fine dell'Ottocento prevalse in Francia l'uso del termine science de l'éducation (mentre pédagogie si usò per l'insegnamento impartito nelle scuole normali), in Germania prevalse l'uso di Pädagogik (e fu insegnamento diffuso in otto università), nel mondo anglosassone prevalse il termine education ma anche science and art in teaching. In Italia la prima cattedra, istituita nel 1858 a Torino nell'ambito della Facoltà di lettere e filosofia, si chiamò Antropologia e Pedagogia; si ebbero poi anche abbinamenti diversi, tra cui il più noto quello di Filosofia morale e Pedagogia, nella cattedra ricoperta all'Università di Roma nel 1874 da Antonio Labriola.
Queste brevi considerazioni concernono l'uso del termine pedagogia lungo l'intero arco di questo secolo; ma l'analisi dello sviluppo storico dei contenuti e dell'elaborazione concettuale dei fenomeni educativi mostrerà come al termine pedagogia se ne sostituiscano spesso (e non è naturalmente un puro fatto terminologico) altri. Oggi si parla spesso di ‛scienze dell'educazione', ma non come semplice plurale di ‛scienza dell'educazione' (A. Bain, Education as a science, 1879) largamente usato nella seconda metà dell'Ottocento, e neppure come sostitutivo del termine pedagogia, poiché con ‛scienze dell'educazione' si intende un complesso di scienze che non si identificano immediatamente con la pedagogia e spesso hanno un loro autonomo campo di indagine e un loro autonomo, se pur spesso in fieri, statuto epistemologico. Si sta verificando, nell'ambito pedagogico, un fenomeno di utilizzazione sempre più ampia delle scienze naturali e sociali. A questo riguardo vedremo più avanti quale sia il punto di arrivo dell'evoluzione per cui l'uso del termine pedagogia tende a diventare meno frequente via via che aumenta l'uso del termine ‛scienze dell'educazione'; tale risultato deriva da un processo di pensiero che comincia proprio all'inizio di questo secolo, pur affondando le sue radici nel secolo scorso. Questa evoluzione può essere scandita in tre grandi periodi in rapporto allo sviluppo storico-politico: un periodo che va dall'inizio del secolo alla vigilia del primo conflitto mondiale, un periodo che va dalla prima guerra mondiale alla fine della seconda e un terzo che giunge ai nostri giorni.
3. Positivismo, herbartismo e pedologia
Nel periodo che va dalla fine dell'Ottocento alla vigilia della prima guerra mondiale si consuma quella che da molti storici del pensiero e della cultura è stata definita la crisi del positivismo. Il positivismo, pur nell'estrema varietà di interpretazioni di cui è stato oggetto nella storiografia filosofica del XX secolo, si è venuto configurando sempre più come un indirizzo, una corrente, in senso molto lato, che permea la cultura europea in stretta connessione con l'ascesa della borghesia industriale legata all'espansione e all'incremento della produzione capitalistica. Tale indirizzo è caratterizzato da una valutazione altamente positiva della produzione, dei metodi e dei risultati delle scienze della natura; da una, se pur generica, tendenza al trasferimento ditali metodi nell'ambito delle scienze umane; da un atteggiamento ottimistico rispetto alle possibilità che si offrono all'uomo di cambiare il mondo secondo un'interpretazione evolutiva finalizzata al progresso; dal tentativo di coordinare e sistemare gli approcci al reale in una visione unitaria del reale stesso, tanto da cedere alla tentazione di rigide e frettolose costruzioni metafisiche. Tale valutazione positiva della scienza entra in crisi con il superamento delle concezioni scientifiche ed epistemologiche della fine del secolo. Ovviamente l'incrinarsi di tali certezze fa vacillare altresì la fiducia nella possibilità di trasformare il mondo ricostruendone l'architettura sociale. Le prime costruzioni positivistiche che crollano in seguito a tale crisi sono le facili metafisiche di segno materialistico o sociologico, che rappresentano il punto più debole di questo orientamento di pensiero.
Quali aspetti del positivismo avevano avuto le più aperte e complesse valenze pedagogiche? Anzitutto la fiducia nella possibilità di costruire una pedagogia con caratteristiche di scienza. Non per tutti gli autori tale caratteristica si identificava con una riduttiva costruzione di canoni metodologici per ogni settore della formazione umana, né tutti gli autori tendevano a identificare tale formazione con i processi di istruzione (ma certo quello che A. Gabelli indicherà come la ‟formazione dello strumento testa" risulterà essere il compito prevalente). Tutto questo era però spesso legato a valori (ad esempio quelli dell'umana convivenza identificati dal liberalismo democratico) che non venivano sottoposti a critica, ma accettati, in modo più o meno esplicito, in quanto emergenti da orientamenti politici definibili come progressisti. Trasferiti sul piano educativo, tali ideali di libertà di pensiero, di libertà civile e politica, la cui realizzazione comportava di fatto l'apertura alle forme democratiche, costituirono lo sfondo generale della visione pedagogica del positivismo nei vari paesi.
In questa situazione generale, caratterizzata da una pedagogia fortemente dominata da quello che genericamente abbiamo chiamato positivismo, un posto importante spetta alle concezioni pedagogiche che in Germania, e anche in Italia, a opera di Labriola, si ispirano all'herbartismo. In esse si può identificare una strutturazione concettuale più solida e filosoficamente più compatta della metodologia didattica e insieme una sensibilità più aperta per i problemi della formazione morale, un'attenzione più moderna verso quella che oggi si chiamerebbe la formazione della personalità. Tuttavia, anche per l'herbartismo si può parlare di una pedagogia concepita come scienza, e anche per esso il termine scienza si lega a concezioni scientifiche ottocentesche, scarsamente consapevoli delle strutture e dei limiti metodologici della scienza stessa e fondamentalmente ottimistiche per quanto riguarda gli effetti di attività didattiche ed educative tecnicizzate.
Sulla base della fiducia nella possibilità di costruire una educazione come scienza, furono elaborate quelle ‛pedagogie' che i pensatori positivisti - convinti di poter modificare la realtà per realizzare in essa i fini perseguiti intellettualmente - quasi sempre proposero come base di riforme istituzionali a raggio più o meno ampio. La situazione educativa richiedeva d'altra parte interventi politici urgenti, poiché nei paesi industrializzati la diffusione dell'alfabetizzazione di massa, l'esigenza di provvedere alla formazione professionale sia di operai specializzati sia di quadri intermedi (anche nelle zone rurali, in rapporto ai nuovi modi di produzione e alle nuove tecniche), la necessità, legata a queste esigenze, di una formazione adeguata degli insegnanti ponevano sul tappeto problemi difficili e complessi, anche per l'impegno economico che essi comportavano per lo Stato. Lo Stato, infatti, con lo sviluppo della burocrazia e le conseguenti necessità di una sua specifica preparazione, ebbe bisogno di una massa crescente di individui forniti di competenze specifiche. Il problema dell'educazione divenne il problema della scuola, dell'intervento dello Stato e degli enti pubblici in questo settore e si complicò e intrecciò, soprattutto nei paesi cattolici, con la questione dei rapporti con la Chiesa.
Queste esigenze di intervento pratico-politico accentuarono le caratteristiche ‛tecnico-scientifiche' della pedagogia, la quale finì spesso per ridursi a ‛metodo d'insegnamento' o per presentarsi come una scienza pratica, simile alla medicina. Ma se il rapporto tra aspetto teorico e aspetto pratico (pedagogia ed educazione) apparve sempre più come uno dei nodi fondamentali che la pedagogia, in modo più o meno obiettivo e con motivazioni più o meno coscienti, doveva proporsi e risolvere, lo scorcio del XIX secolo vide altresì accentuarsi il rapporto tra azione educativa e conoscenza dei soggetti, come oggi vengono chiamati, in età evolutiva.
Il tentativo che più di ogni altro realizzò l'accostamento tra psicologia e pedagogia fu quello della fondazione della ‛pedologia'. La parola apparve per la prima volta nel titolo di una tesi di laurea presentata all'Università di Jena e pubblicata nel 1894 da O. Chrisman: Paidologie, Entwurf zu einer Wissenchaft des Kindes (Pedologia, schizzo di una scienza dell'infanzia). Secondo l'autore, la pedologia avrebbe avuto il compito ‟di raccogliere tutto ciò che riguarda la natura e lo sviluppo del fanciullo e riunirlo in un tutto sistematico". L'opera (che aveva la prefazione di W. Rein, massimo rappresentante dell'herbartismo pedagogico) tendeva a mettere in luce la necessità di uno studio dell'evoluzione del fanciullo nel contesto ambientale reale, dagli aspetti strettamente psicologici a quelli antropologici, dagli aspetti normali a quelli anormali, da quelli dei bambini civilizzati a quelli delle aree primitive.
Balenavano quindi in quest'opera alcune esigenze cui successivamente psicologia dell'età evolutiva, psicologia sociale, antropologia culturale, ecc. risponderanno, ai fini di una connessione tra le scienze dell'educazione.
Il tentativo ebbe un'enorme fortuna, la pedologia si diffuse nei paesi francofoni, in Russia, nel mondo anglosassone, in America, e si pensò da parte di alcuni che il termine pedagogia sarebbe entrato in crisi. E. Blum, nel Vocabulaire technique et pratique de la philosophie (a cura di A. Lalande, 1926), concludeva la voce pédologie giustificando l'utilizzazione da lui fatta di tale termine con la difficoltà di usare il termine ‛psicologia del fanciullo', equivoco e pericoloso, e quello ‛pedagogia', che ‟implica un'arte, implica preoccupazioni finalistiche e normative che nulla hanno da spartire con l'istituzione di leggi scientifiche". Il progresso delle scienze psicologiche e le nuove impostazioni pedagogiche (se pure, queste ultime, da punti di vista tra loro fortemente differenziati) determinarono invece, con ritmi diversi nei diversi paesi, un progressivo spostamento di approccio che portò all'abbandono e del termine e della concezione a esso sottesa. Per alcuni versi le istanze che avevano dato luogo alla pedologia si rivolsero verso impostazioni sperimentalistiche, per altri verso integrazioni psicopedagogiche e sociopedagogiche di vario segno. Il termine pedologia è oggi praticamente scomparso.
4. La reazione al positivismo
‟La fine del positivismo fu segnata dalla crisi della scienza che gli epigoni romantici salutarono come una sua bancarotta. Ed era piuttosto crescita di estensione e di vigore. Giacché ciò che entrava in crisi era la metafisica scientifica, il meccanicismo ingenuo e il determinismo semplificatore" (v. Banfi, 1950). In campo pedagogico ciò significò la crisi del concetto di pedagogia come corollario della filosofia morale dei diversi pensatori, che si fossero o no proposti il problema dell'educazione. Alla ricca, diversificata, sfuggente (per contorni e contenuti) filosofia del XX secolo non corrisponde più una pedagogia con caratterizzazioni strettamente simmetriche. Alla definizione delle carattenstiche e dei compiti della pedagogia collaboreranno, d'ora in poi, anche studiosi o pensatori la cui formazione non è filosofica in senso stretto, o non lo è affatto, come nel caso di alcuni psicologi. Ritornando alla valutazione banfiana, possiamo cercare di analizzare i modi e gli autori attraverso i quali procede e si afferma un rinnovarsi del sapere scientifico, l'arricchirsi e l'approfondirsi dei presupposti metodologici delle scienze, lo svilupparsi delle nuove scienze (le scienze umane o sociali) con una loro autonomia o no, e comunque con una loro presa di coscienza metodologica.
Appare subito chiaro che la crisi del ‟determinismo semplificatore" ha comportato una notevole spinta a riproporre il problema della riflessione sulla forma, sui limiti, sull'importanza dell'educazione: una riflessione che poteva anche non essere organicamente legata a un pensiero filosofico sistematico. È abbastanza caratteristico comunque il fatto che pensatori che ebbero un ruolo significativo in quel periodo, rispetto ai problemi dell'educazione, non andarono mai oltre un sano buon senso di tono conservatore. Tipico il caso di È. Boutroux (Questions de morale et d'éducation, Paris 1895), il quale identifica la pedagogia con qualcosa che cerca di ‟[...] sostituire metodi sapienti e artificiali" all'educazione naturale fatta di ‟buon senso", ‟tatto", ‟affezione", riflessione equilibrata e fondata sull'osservazione e l'esperienza. Né si può trarre una definizione più chiara dal complesso della sua operetta, che in sostanza si presenta come un centone di precetti moralistici, di affermazioni ottimistiche sullo sviluppo infantile, di contraddittori elogi da un lato dell'educazione delle cose, dall'altro della tradizione pedagogica umanistica.
Di pedagogia non trattò direttamente neppure un altro dei filosofi più significativi della reazione al positivismo: M. Blondel. La sua filosofia dell'azione, lontana per tanti versi dal contemporaneo pragmatismo americano, si presenta legata a un profondo senso dell'immanenza del soprannaturale nell'animo dell'uomo, a un continuo richiamo all'interiorità dello spirito come luogo in cui si realizzano i valori. Sono queste le esigenze e i motivi ispiratori anche dell'opera di L. Laberthonnière, che rappresenta la migliore espressione del modernismo in campo pedagogico. Al concetto di educazione rivolta a una nuova coscienza morale fa riscontro il concetto della pedagogia come ‟un' arte [...] che è opera completa e complessa, dove è impegnato a un tempo tutto l'essere di chi educa e tutto l'essere di chi è educato, opera di vita, varia, flessibile e progressiva come la vita" (in ‟Annales de philosophie chrétienne", novembre 1903). La pedagogia per Laberthonnière trarrà vantaggio dalla didattica (che però conserva carattere strettamente strumentale e di neutralità rispetto ai fini educativi) e dalla psicologia sperimentale, sempre che anch'essa abbia un puro carattere strumentale, e soprattutto non pretenda né di individuare fini, né di trasferire i suoi metodi d'indagine alla pedagogia, che è arte rivolta allo spirito, non scienza rivolta agli oggetti naturali. Una parte consistente all'interno della pedagogia non può avere neanche la sociologia, ‟le cui pretese si ostentano rumorosamente attorno a noi". La pedagogia non rifiuterà quindi l'aiuto delle scienze, ma esse saranno subordinate all'identificazione di valori che a loro volta non devono essere attinti intellettualmente, ma ‟vissuti soprannaturalmente", determinati dalla nostra volontà e dalla grazia divina.
L'antintellettualismo di Laberthonnière, che pure resta nell'ambito dell'ortodossia cattolica, è notevolmente distante dall'impostazione prevalente invece nel neotomismo, che così forte ripresa aveva avuto nella seconda metà dell'Ottocento nella teologia cattolica ufficiale (enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, 1879). Di quest'ultima impostazione, prevalentemente intellettualistica e con larghe aperture verso il progresso della scienza, diventa centro di diffusione l'Istituto di Filosofia dell'Università Cattolica di Lovanio, che avrà notevole influenza sullo sviluppo della pedagogia cattolica lungo tutto il XX secolo.
Il rifiuto delle impostazioni filosofico-metodologiche legate alle conquiste delle scienze della natura e l'opposizione nei riguardi delle nuove ‛scienze umane', in particolare della psicologia, sono gli elementi caratteristici di tutta la cultura idealistica del XX secolo e soprattutto di quella particolare corrente dell'idealismo che fu l'attualismo italiano. Le sue intelaiature concettuali schematiche e totalizzanti ignorarono o rigettarono la ricca problematicità dell'esperienza individuale e sociale, ed esso rimase sostanzialmente estraneo agli acuti problemi della crisi sociale e politica cui il mondo andava incontro. Ne derivarono atteggiamenti e concezioni che in Italia portarono sul piano politico a una corresponsabilizzazione, a livelli diversi, nell'opera di conservazione e talvolta di reazione che la classe dirigente operò e che sfociò nell'avvento del fascismo. Questa impostazione ebbe importanti riflessi anche nel settore pedagogico.
L'attacco idealistico per una riformulazione del concetto di pedagogia avvenne essenzialmente su due direttive: la polemica contro il ‛rozzo' naturalismo e il rigetto della dimensione didattica non solo nei suoi eccessi schematici, ma altresì nel suo significato più profondo di organizzazione dell'insegnamento-apprendimento.
Di questa reazione al positivismo, che fu insieme anche reazione all'herbartismo, è massimo rappresentante Giovanni Gentile. Alla definizione del concetto di pedagogia Gentile dedica uno dei suoi primi scritti, una memoria pubblicata nei ‟Rendiconti della Regia Accademia dei Lincei", nel 1900, dal titolo Il concetto scientifico della pedagogia. In essa polemizza contro la concezione herbartiana della pedagogia come scienza filosofica in quanto applicazione dell'etica, legata nello stesso tempo a una conoscenza della psicologia; rifiuta inoltre il concetto della pedagogia come arte, come scienza normativa, come scienza pratica e, per la prima volta, afferma esplicitamente che ‟la pedagogia coincide puntualmente con la scienza o filosofia dello spirito", si risolve cioè nella filosofia.
Nel primo volume di Pedagogia come scienza filosofica, (1913), forse la sua massima opera, Gentile riprende il discorso in modo più ampio e la parte centrale del volume è dedicata appunto al concetto di pedagogia. Appare qui evidente il senso antipositivistico del rifiuto di identificare una scienza dell'uomo, quale la pedagogia dovrebbe essere, con l'antropologia o la psicologia: non con la prima, poichè ‟dell'uomo fa una specie, ancorchè la suprema e privilegiata, tra le specie animali"; non con la seconda, perchè tratta i fenomeni psichici ‟con gli stessi criteri e metodi delle scienze naturali". Viene qui brevemente svolta anche la polemica antiherbartiana. A Herbart infatti si rimprovera di ‟riunire ecletticamente psicologia ed etica nel concetto di pedagogia", dopo aver concepito psicologia ed etica ‟l'una fuori dell'altra, l'una come la scienza della pura causalità psichica, l'altra come scienza dei fini". È necessario, per Gentile, superare tale dualismo: ‟non c'è fatto che non sia l'instaurazione d'un valore, né causa che non sia posta dal suo effetto, né natura che non si spiritualizzi, né necessità che non sia la stessa assoluta autodeterminazione dello spirito (autoctisi).
Allora non c'è più una psicologia e un'etica tra cui scegliere: c'è la filosofia, e si impone il concetto che la pedagogia è la filosofia" (ibid., p. 129). In questa concezione non trova posto evidentemente la necessità di individuare metodologie specifiche: ‟il problema educativo dell'unità da instaurare tra la mentalità del discente e la materia in sé dell'insegnamento non ha ragion d'essere". I problemi cioè della didattica, riferiti alla metodologia dell'insegnamento, non esistono; esiste invece un ‟processo genetico della cultura", in cui lo spirito del maestro e quello dell'allievo si identificano. Al termine ‛didattica' Gentile attribuisce un significato diverso (e dà il titolo Didattica al secondo volume del Sommario di pedagogia, nuova edizione riveduta della Pedagogia come scienza filosofica): la didattica ‟[...] empiricamente parlando, si potrebbe definire una teoria della ‛scuola'; la quale evidentemente è una forma speciale, concreta, determinata dell'educazione" (v. Gentile, 1932, vol. Il, pp. 17-18). Nell'ambito di questa trattazione sulla didattica Gentile inserisce tutti i problemi cui la pedagogia si era nelle varie epoche trovata di fronte: maestro e scolaro, didattiche speciali, cioè riferite alle singole discipline, l'interesse e lo sforzo, i castighi e così via.
Alla pedagogia gentiliana corrispose, dieci anni dopo la sua teorizzazione, lo sforzo realizzativo dell'omonima riforma della scuola, che pur attraverso fraintendimenti, spaccature, difficoltà, pose in atto la volontà di conservazione in senso elitario sviluppata dal fascismo specie nella sua fase iniziale. Non è qui il luogo di presentare i diversi aspetti ditale riforma (che pure ebbe notevoli pregi di organicità e coerenza) e della sua evoluzione. E però importante verificare come il concetto di pedagogia, quale era stato teorizzato, sia stato ‛tradotto', per così dire, nelle istituzioni. Venne istituito un canale specifico per la formazione degli insegnanti primari denominato Istituto Magistrale e non più Scuola Normale; in esso, organizzato per 7 anni con un curriculum prevalentemente umanistico, ebbe posto la pedagogia insegnata insieme alla filosofia su basi storiche, mentre scomparvero l'insegnamento della psicologia e i diversi tipi di tirocinio professionale.
La pedagogia continuò a essere insegnata (ma non più abbinata ad altre discipline) nelle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero; in queste ultime fu istituito addirittura un corso di laurea in Pedagogia, con un piano di studi molto rigido che non prevedeva nessuna materia di tipo pedagogico oltre la pedagogia e la psicologia (insegnamento peraltro solo annuale). La pedagogia non fu prevista come disciplina necessaria alla preparazione degli insegnanti secondari. A livello istituzionale ufficiale il concetto di pedagogia come scienza filosofica ebbe dunque un suo puntuale riscontro, e non ne trassero certo giovamento la sua autonomia e il suo raccordo con i processi di messa a punto culturale che nel frattempo si andavano svolgendo nei vari paesi del mondo.
Il discorso gentiliano fu ripreso da Giuseppe Lombardo Radice, anche se con caratteristici aspetti intimistici e coscienziali nati da un profondo radicamento nella sua esperienza di insegnante e dalla sua partecipazione ai problemi dell'educazione quali si presentavano nel concreto delle situazioni scolastiche.
I concetti di educazione, di pedagogia, di didattica vengono sviluppati da Lombardo Radice secondo i criteri indicati da Gentile nel suo scritto del 1900, ma - come nota E. Garin - l'inflessione particolare dell'idealismo di Lombardo Radice manifesta ‟non soltanto un'acuta consapevolezza di difficoltà di ogni sorta, ma anche l'impossibilità di risolvere in una formula e in una condanna tutta la cosiddetta rinascita idealistica: e le oscillazioni di Lombardo Radice si manifesteranno come una tensione feconda suscitata dall'esperienza concreta dei problemi scolastici e delle loro esigenze pratiche in urto con i quadri teorici generali. La superiore onestà dell'uomo, mentale e morale, che non si smentì mai, gli impedì di eludere con espedienti verbali le difficoltà reali: per questo tradusse a livello teorico le contraddizioni e ne alimentò il proprio discorso" (in ‟Riforma della scuola", 1968, XIV, 8-9, p. 82).
Nel 1910, nel saggio Il concetto della educazione e le leggi della formazione spirituale, richiamandosi alla ‟opportunità della battaglia che in questo momento storico della cultura italiana occorre ingaggiare contro la pedagogia tradizionale, insincera e formalistica", e accusando ‟l'agnosticismo ed il sensismo volgari del positivismo", dichiarava esplicitamente di rifarsi al Gentile del Concetto scientifico della pedagogia negando la possibilità di considerare la pedagogia ‟come disciplina distinta della filosofia dello spirito". E qualche pagina più avanti: ‟La pedagogia è perciò in realtà critica di singoli atti, circostanziati storicamente, fatti al lume della filosofia; in definitiva è ‛politica scolastica' nel campo delle leggi scolastiche, ‛critica d'arte' nel campo dell'educazione artistica (valutazione per es. di libri di lettura, di esercizi scolastici diretti alla formazione del linguaggio ecc.); critica scientifica nel campo degli insegnamenti scientifici (di nuovo: esame di programmi e di libri, discussione tecnica sulla gradualità degli esercizi, ricerca dei concetti elementari, cioè capaci di generare i più complessi); ‛predicazione', ‛apostolato', nel campo dell'educazione morale ecc. Insomma la pedagogia è educazione nel senso largo di questa parola: dalla politica, dallo studio delle condizioni sociali di un popolo e dei suoi bisogni storici, alla compilazione di un abbecedario". Rifiuto quindi di una pedagogia come ‟scienza di norme" e rifiuto di un empirismo tendente a frantumare l'attività e la persona umana in una serie di momenti e di attività particolaristici (e di questo rifiuto è testimonianza anche una recensione, pubblicata in appendice al saggio citato, al libro di S. De Dominicis, Scienza comparata dell'educazione, 1908). E in conseguenza di ciò polemica aspra contro quell' ‟abominevole cosa [che è] un programma di pedagogia per futuri maestri cioè per gli allievi delle scuole, purtroppo, ‛normali' (cioè di norme!)". Compare in questo saggio quindi l'intuizione secondo cui il raccordo con la realtà storica e in qualche modo esperienziale supera la risoluzione e identificazione di pedagogia e filosofia, se pur in modo ancora inconscio e indistinto.
Nelle Lezioni di didattica (Palermo 1913) il discorso filosofico diventa problematizzazione di singole attività, riflessione su esperienze concrete, ‟filosofia vissuta nella rievocazione critica dell'opera didattica". Nel 1926 Lombardo Radice scriveva: ‟Noi facciamo dunque e dobbiamo fare della pedagogia, ricca di filosofia. Anche se non è pura speculazione, come critica pedagogica". Questo concetto di pedagogia, anche se teoricamente forse poco rigoroso, finisce per vedere nella riflessione organica, ma non totalizzante, sui problemi concreti, sulle esperienze storicamente determinate, l'ancoraggio più saldo per l'opera educativa, e non esclude l'apertura verso le esperienze culturali che andavano maturando in Europa e altrove. Da questo punto di vista l'evoluzione dell'atteggiamento culturale e politico, se non del pensiero filosofico, di Lombardo Radice, e il suo progressivo distacco da Gentile, nel corso degli anni venti, furono inequivocabili e definitivi.
5. Gli apporti della psicologia
Trattando delle nuove concezioni educative affermatesi nei primi anni del secolo, va tenuto presente anzitutto il contributo che alle nuove prospettive pedagogiche diede la psicologia nel periodo compreso tra l'ultimo decennio del XIX secolo e il primo decennio del XX. La psicologia si definisce come campo d'indagine specifico, che deve costruirsi metodi adeguati, e accentua la sua distanza da un lato da una psicologia ancora legata alla filosofia, dall'altro soprattutto dalla corrente maestra della psicologia tedesca che, con G. Fechner, H. Helmholtz, W. Wundt, aveva aperto la strada alla psicologia sperimentale. Verso la fine dell'Ottocento cominciano a emergere nell'ambito degli studi psicologici le problematiche connesse all'evoluzionismo darwiniano. L'importanza che Ch. Darwin, in opposizione allo schematismo empiristico, attribuì ai fattori innati rispetto all'apprendimento attraverso l'esperienza, non lo portò affatto a trascurare l'esame del secondo, ma piuttosto a porre l'esigenza di approfondire lo studio delle interazioni (anche sul piano psicologico) tra soggetto e ambiente, e quindi a porre il problema di quali siano il valore, il limite, le caratteristiche dell'‛adattamento' dell'uomo, in quanto soggetto attivo, all'ambiente: ‟Darwin ha dato alla psicologia gli ampi concetti di ‛aggiustamento' e di ‛adattamento' e ha considerato l'uomo un essere attivo, mirante al raggiungimento di scopi, orientato verso il mondo esterno e il cui comportamento costituisce in misura notevole un mezzo con cui far fronte ai problemi posti dall'ambiente fisico e sociale. Insieme all'idea di ‛riuscita' o ‛insuccesso' di un aggiustamento adeguato, tale concezione dinamica del comportamento rappresentò qualcosa di completamente nuovo" (R. Thomson, 1968).
L'evoluzionismo diede anche impulso alle impostazioni di psicologia comparata e al raccordo della psicologia con le altre scienze biologiche, e analizzò inoltre le differenze che i singoli individui presentano nell'ambito della stessa specie, e il rapporto tra tali caratteristiche individuali e la loro sopravvivenza sulla base della selezione naturale. Queste tre prospettive di indagine furono accolte dalla psicologia, se pur a livelli e in forme diverse, e attraverso la psicologia confluirono nel discorso pedagogico e in innovazioni educative, in linee di sviluppo che sono state tra le più feconde e durature della pedagogia del XX secolo sino ai nostri giorni. Esse non solo costituirono gli assi fondamentali per l'evoluzione del concetto di educazione, ma proposero altresì nuovi modi di prospettare il significato della riflessione sui problemi educativi, e quindi il rapporto tra pedagogia e scienze dell'educazione.
Dalle problematiche di matrice evoluzionistica cui abbiamo accennato derivano, nel periodo a cavallo tra i due secoli, alcune prospettive culturali, destinate a influire notevolmente sull'evoluzione del pensiero pedagogico nel suo rapporto con le scienze umane. Anzitutto nacque in quegli anni la ‛psicologia dell'età evolutiva' (due opere fondamentali furono Mental development in the child and the race, 1895, dello psicologo americano J. M. Baldwin, e Adolescence: its psychology, 1904, dovuta anch'essa a un funzionalista americano, G. St. Hall). Di notevole importanza per l'orientamento del discorso pedagogico furono anche altri due filoni d'indagine. Il primo e quello che individua il concetto di personalità: Baldwin (Social and ethical interpretation in men tal development, 1897) esamina tale concetto nella prospettiva dell'adattamento alla società, mentre l'inglese W. McDougall lo adombra in un complesso e non sempre chiaro tentativo di integrazione di elementi caratterologici, disposizionali, cognitivi, e insieme di fini proposti.
L'altro filone di indagine è quello che punta alla determinazione delle caratteristiche individuali non solo in termini di differenze qualitative, ma di differenze misurabili attraverso comportamenti determinati. Il primo impulso all'uso di metodi quantitativi e statistici nella psicologia era stato dato dall'inglese Fr. Galton, che formulò i primi test consistenti in compiti da eseguirsi con o senza apparecchi specifici. L'americano J. McK. Cattell, che era stato allievo di Wundt a Lipsia, e poi per breve tempo assistente di Galton in Inghilterra, si occupò intorno al 1890 - anno in cui pubblicò Men tal tests - dell'elaborazione e del perfezionamento di questi reattivi o test mentali (sarà questo il termine universalmente adottato). I test, traducendo in termini quantitativi alcuni risultati di processi mentali, permettevano di individuare alcune costanti, tradurle in leggi matematicamente formulabili e verificabili e stabilire rapporti tra loro. Era in sostanza un avvicinamento della metodologia usata nella psicologia a quella usata nelle altre scienze della natura, con un'impostazione aperta e critica, anche se strumentalizzabile nelle sue applicazioni pratiche e soggetta a possibili degenerazioni se usata e impostata con scarsa intelligenza e apertura all'esperienza e al rinnovamento. Le verifiche dei test di Cattell fatte qualche anno dopo da un suo allievo alla Columbia University, il Wissler, furono abbastanza deludenti. Contemporaneamente a queste elaborazioni, si ebbero quelle del francese A. Binet che nel 1905, su incarico del Ministero della Pubblica Istruzione, pubblicò assieme a Th. Simon una famosa scala di test per la selezione di bambini subnormali da educare in apposite scuole.
Il rapporto tra psicologia e pedagogia conobbe il suo momento più fecondo con il ‛funzionalismo': movimento che ebbe come patria elettiva gli Stati Uniti d'America e che fu caratterizzato da un'impostazione filosofica pragmatista e strumentalista. Dai funzionalisti, dei quali abbiamo già citato Hall e Baldwin, e ai quali si può aggiungere, in parte, anche W. James, fu messa specialmente a fuoco la problematica dell'adattamento dell'uomo all'ambiente, inteso sia come ambiente naturale sia come ambiente sociale. In un saggio di J. R. Angell, The province of functional psychology (in ‟Psychological review", 1907, XIV, pp. 61-91), si afferma essere il funzionalismo ‟la psicologia delle operazioni mentali in opposizione alla psicologia degli elementi mentali", l'orientamento di pensiero che si rivolge a studiare la mente ‟nel suo compito fondamentale di mediazione tra l'ambiente e i bisogni dell'organismo" e che ‟riconosce e sottolinea il significato essenziale della relazione mente-corpo per una giusta e comprensiva valutazione della stessa vita mentale".
Evidentemente tale problematica aveva uno dei suoi sbocchi naturali in una nuova impostazione del discorso pedagogico. Di questa nuova impostazione furono massimi rappresentanti J. Dewey, il più autorevole e fecondo dei pedagogisti del XX secolo, ed É. Claparède, il primo esponente autorevole di quella scuola di Ginevra che ha compiuto il maggiore sforzo in Europa per una ridefinizione dei fini e delle caratteristiche della pedagogia.
Al di fuori delle impostazioni e correnti psicologiche sin qui accennate si sviluppò invece il pensiero e l'opera di Maria Montessori, che portò profonde innovazioni nel campo della formazione e dell'insegnamento per la seconda infanzia: in particolare metodologie e tecniche per il bambino normale vennero desunte da quelle adottate nei tentativi di rieducazione dei bambini subnormali o culturalmente svantaggiati (rifacendosi per i primi alle iniziative di J. M. G. Itard ed E. Séguin). La Montessori affermava che ‟da oltre dieci anni [...] anche la pedagogia, come già fece la medicina, tende ad esulare dai campi puramente speculativi, per fondare le sue basi sulle indagini positive dell'esperienza. La psicologia fisiologica e sperimentale che, da Weber e Fechner al Wundt, è venuta organizzandosi in una scienza nuova, sembrerebbe destinata a fornire quel substratum di preparazione, che l'antica psicologia metafisica forniva alla pedagogia filosofica. E anche l'antropologia morfologica, applicata allo studio fisico degli scolari, appariva quale un altro robusto cardine della nuova pedagogia" (v. Montessori, 1909, p. 5). A queste affermazioni, che implicherebbero una subordinazione del discorso pedagogico alle conoscenze scientifiche (e le citazioni rivelano anche l'adesione e il rispetto per concezioni che ormai a più avvertiti psicologi apparivano in qualche modo rozze e povere) ne seguono altre che rivelano invece l'esigenza di un coinvolgimento, nella costruzione della concezione pedagogica, dell'insegnante come osservatore attivo in una realtà educativa ‟che permetta le libere manifestazioni naturali del fanciullo".
È vero che questa esigenza di liberazione si traduce in una serie di prescrizioni ‛liberanti' minuziose e talvolta artificiose di ‛disciplina alla libertà'; ma, nonostante tutto, resta l'impressione che la Montessori abbia sentito l'esigenza di una nuova concezione dinamica capace di aderire all'esperienza vissuta piuttosto che irrigidita in una serie di dati atomizzati da recepire e classificare. Questa esperienza vissuta e ‛trasformativa', alla quale la Montessori fa riferimento, precisa quale sia il suo debito verso Itard, il medico otologo francese che aveva avuto in cura il famoso selvaggio dell'Aveyron, e verso Séguin, un educatore che si era dedicato alla cura di bambini subnormali. Viene così posta in rilievo anche la dimensione ‛pratica', non solo dell'educazione, ma della riflessione su di essa, cioè della pedagogia, e non tanto nel senso di una finalizzazione pratica a posteriori della conoscenza, quanto in quello di un rovesciamento funzionale del rapporto teoria-pratica nella riflessione sul processo educativo.
Tutto questo non è per niente chiaro e perspicuo nell'opera della Montessori; si può dire anzi che tutte le volte che essa sembra prossima a sciogliere in questo senso le critiche alla definizione di pedagogia scientifica riportata prima, si diffonde invece in considerazioni di carattere spiritualistico. ‟Ora io credo - essa scrive - che dobbiamo preparare nei maestri più ‛lo spirito' che il meccanismo dello scienziato: cioè ‛l'indirizzo di preparazione' deve essere lo spirito, anziché il meccanismo" (ibid., p. 11); ‟cerchiamo di fondere in un'anima sola lo spirito di aspro sacrificio dello scienziato e quello di estasi ineffabile di un tale mistico, e avremo completamente preparato lo spirito del maestro" (ibid., p. 14). Non si tratta di semplici sfasature verbali, dato che la pedagogia montessoriana, nella sua più tarda evoluzione, si orienterà proprio in senso spiritualistico. Nonostante queste ambiguità e involuzioni, e indipendentemente dalla fortuna che i vari aspetti del complesso metodo montessoriano hanno avuto sino ai nostri giorni in tutte le parti del mondo per l'educazione dell'infanzia, è indubbio che lo sforzo della Montessori per la fondazione di una pedagogia scientifica costituisce un punto fermo dello sviluppo del concetto di pedagogia nella cultura occidentale. Bandito dal fascismo italiano e dal nazismo tedesco, il montessorismo fu accolto con favore sia nei paesi liberal-capitalistici sia nei paesi socialisti, se pur con valutazioni e prospettive diverse che non è qui il caso di analizzare.
6. ‛Scuole nuove', attivismo, sperimentalismo
È necessario, a questo punto, fare un breve excursus su quei movimenti di rinnovamento educativo che, pur contribuendo in modo solo mediato a trasformare il concetto di pedagogia, hanno svolto tuttavia un ruolo specifico nell'ambito della storia dell'educazione nel mondo occidentale. Si tratta delle cosiddette ‛scuole nuove' che sorsero in Europa tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento e rappresentarono il presupposto del movimento noto con il nome di ‛attivismo pedagogico' (movimento che trovò sostanza teorica nell'opera e nel pensiero di Dewey).
Tra le ‛scuole nuove' ricordiamo anzitutto quella di Abbotsholme nel Derbyshire, fondata nel 1889 da C. Reddie, che mirava, attraverso uno svecchiamento dei programmi e dei metodi e un'impostazione ‛antiaccademica', a collegare la pratica scolastica alla vita reale del ragazzo, per fare della scuola non un ambiente artificiale e libresco, bensì un luogo in cui attività intellettuali e attività pratiche siano congiunte come lo sono nella vita reale. Lo scopo della scuola dev'essere quello di ‟conseguire uno svolgimento armonico di tutte le facoltà umane [...]. L'uomo non è pura intelligenza, ma intelligenza congiunta con un corpo, e si devono formare altresì l'energia, la volontà, la forza fisica, l'abilità manuale, l'agilità" (E. Demolins, A quoi tient la superiorité des Anglo-Saxons, Paris 1897, pp. 56 ss.).
Analoga era l'ispirazione di Demolins, creatore dell'École des Roches, in Normandia, nel 1899. Era una scuola che accoglieva elementi dai 6 ai 20 anni in caseggiati sparsi in un'ampia proprietà campestre, in cui attività di osservazione, di gioco e manuali si svolgevano in un'atmosfera di naturale socializzazione, contemperate dallo studio per il conseguimento di un regolare diploma. Lo sforzo inteso a favorire il naturale svolgersi di interessi e di attitudini attraverso l'impegno in attività varie e formative fu una delle caratteristiche salienti di questa esperienza, che si rivelò tuttavia legata a strutture organizzative abbastanza complesse e costose e destinata pertanto a rimanere fruibile solo da un'élite.
Legate al modello scuola-convitto furono anche le Landerziehungsheime (Case di educazione in campagna) fondate nel 1898 a Ilsenburg, nel 1901 a Haubinda e nel 1904 a Biberstein da H. Lietz. In esse vigeva un'organizzazione patriarcale, con quanto di affettuosità e naturalezza, ma anche di autoritarismo velato, tale tipo di organizzazione poteva comportare. Nella prima fase, alle Case di educazione collaborarono anche P. Geheeb, che se ne allontanò per sviluppare tendenze più aperte e democratiche (la ‛Scuola dell'Odenwald', fondata a Oberhambach nel 1909), e O. Wyneken che, dopo essersi allontanato da Lietz insieme a Geheeb, si staccò anche da quest'ultimo per orientarsi verso concezioni romantico-libertarie che si opponevano all'intellettualismo herbartiano e in generale a un certo formalismo e conservatorismo tipici della Germania guglielmina, senza riuscire però a superare lo stadio di un'opposizione asistematica e a trovare uno sbocco educativo di tipo democratico ed egualitario.
Un orientamento diverso, se pur forse altrettanto legato alla crisi spirituale e politica della cultura e della pedagogia tedesche, presenta O. Kerchensteiner, il quale, proveniente dall'insegnamento, esercitò la sua opera di organizzatore e riformatore scolastico come consigliere e ispettore delle scuole di Monaco di Baviera dal 1895 al 1919. Pur affermando (in conformità alla filosofia dei valori di H. Rickert e W. Windelband) che i valori cui l'uomo deve rivolgersi sono valori di verità, di moralità e di bellezza, Kerchensteiner rivendicò tuttavia la necessità di educare i giovani a un confronto realistico con le cose attraverso il lavoro educativo, che è insieme lavoro fisico e lavoro spirituale ed è caratterizzato dal fatto di misurarsi nella realizzazione di un prodotto oggettivo. L'aver innalzato il concetto di lavoro alla dignità di strumento educativo non impedì a Kerchensteiner di conservare una visione dualistica delle strutture educative: da una parte il lavoro manuale per le scuole professionali, dall'altra il lavoro intellettuale per le classi superiori destinate alla ricerca accademica.
D'altra parte era impossibile un ripensamento del problema dell'educazione in termini più radicali; né il concetto di lavoro poteva essere inteso nella sua accezione naturalistica o sociologica. Secondo Kerchensteiner, nel soggetto che si sviluppa, la determinazione delle caratteristiche va orientata verso i valori oggettivi della cultura. In questo processo il maestro segue e plasma l'allievo, ma entrambi sono creatori di valori attraverso l'esercizio attivo, nella realtà sociale, culturale e politica che costituisce l'obiettività dello spirito. Questa visione dell'educazione portò Kerchensteiner (in armonia anche con il pensiero di E. Spranger, cui soprattutto nella fase della sua attività successiva alla prima guerra mondiale egli si ispirò) a concepire la pedagogia come una scienza dello spirito, lo collocò in posizione critica rispetto a suoi connazionali innovatori in senso scientifico-sperimentale e lo accostò piuttosto ad altri pensatori tedeschi del suo tempo, quali W. Dilthey e il suo allievo M. Fnscheisen-Köhler.
Nel panorama delle ‛scuole nuove', e in particolare del cosiddetto ‛attivismo', un posto di rilievo occupa A. Ferrière, collaboratore, agli inizi della sua attività, di Lietz e poi animatore e coordinatore in proprio di numerose miziative e istituzioni. A lui si deve nel 1 899 la fondazione a Ginevra del Bureau International des Écoles Nouvelles al fine di ‟stabilire rapporti di reciproco aiuto tra le varie ‛scuole nuove', di raccogliere i documenti della loro vita, di valorizzare le esperienze fatte da questi laboratori della pedagogia dell'avvenire". Al gran numero di opere da lui scritte (le principali escono nell'arco di anni che va dal 1909 al 1942) non si può dire però che corrisponda una ridefinizione contestualmente chiara del concetto di pedagogia, e neppure di quello di educazione, nonostante quest'ultimo appaia più preciso e ricco per l'apporto di esperienze dirette. Ferrière tentò di conciliare nella sua idea di educazione, anche se in modo tutt'altro che chiaro, l'evoluzionismo biologico, filtrato attraverso Hall, con la filosofia bergsoniana, dalla quale mutuò soprattutto il concetto di ‛slancio vitale'.
Con una curiosa e non felice espressione egli scrisse: ‟se l'educazione è, rispetto ai fini che persegue, la nipote della filosofia, è invece, rispetto ai mezzi che usa, la figliola della biologia, nel senso lato di scienza della vita del corpo e di scienza della vita dello spirito" (L'école active, 1920). Detto questo, non si preoccupò poi eccessivamente di approfondire il significato da attribuire a tale filosofia e a tale biologia e la funzione del nesso mezzi-fini nell'opera educativa, e neppure di chiarire che, nella frase riportata, in fondo si trattava non tanto di educazione quanto di pedagogia o in generale di riflessione sui fenomeni educativi. Il discorso sull'educazione venne ripreso nel primo capitolo della stessa opera con rinnovato eclettismo: ‟Sia che noi diciamo con Schopenhauer: la volontà di vivere; o coi filosofi americani: di vivere meglio; sia che ripetiamo con Nietzsche: la volontà di potenza, o con Bergson: lo slancio vitale, noi [...] non facciamo che dare un nome a quell'energia che produce la vita, a quella organica come a quella spirituale, sia in rapporto al sentimento che all'intelligenza e alla volontà". Ma in contrasto con Bergson, che pure è forse il principale ispiratore del suo pensiero, Ferrière non concepisce l'energia della vita come un dinamismo ‛ateleologico', ma come qualcosa che ha il suo fine ‟nella volontà dell'essere vivente di accrescere le sue possibilità di vita, per vivere, per vivere sempre meglio, per non lasciarsi distruggere dalle forze avverse dell'ambiente o dal suo stesso simile".
E l'educazione, la cui forma ideale di realizzazione è la scuola attiva, deve mirare all' ‟infinito accrescimento di questa energia spirirituale, accrescimento non solo di quantità, ma soprattutto di qualità, nel contatto sempre più stretto coi valori universali e permanenti dello spirito". Il concetto di pedagogia, diversamente da quello di educazione, non andò mai molto più in là di quella prima ambigua formulazione che abbiamo riportato, e la sterminata quantità di riferimenti a quasi tutti i pedagogisti o psicologi contemporanei non contribuisce affatto a chiarirlo.
L'importanza di Ferrière nella storia dell'educazione va ricercata negli aspetti pratici e di diffusione al limite dell'apostolato della sua opera e dei suoi interventi; inoltre, come si è già detto, egli segna il punto di collegamento tra il movimento delle ‛scuole nuove' e quello definito della ‛scuola attiva' o ‛attivismo'. La distinzione non è facile né sul piano concettuale né su quello cronologico. Una distinzione generalmente accettata è quella per cui quando si parla di ‛scuole nuove' ci si riferisce a esperienze educative che non hanno un riscontro immediato nella riflessione teorica, mentre, quando si parla di ‛attivismo', ci si riferisce ad autori che impostano problemi, ipotesi o conclusioni, anche sul piano teorico, o addirittura sulla base di un preciso retroterra filosofico, come nel caso di Dewey. Secondo il lucido schema della pedagogista C. Metelli di Lallo (v., 1966), i punti di riferimento per una individuazione dell'attivismo possono essere così indicati: ‟la qualità scientifica della spiegazione della condotta infantile; la delineazione dell'obbiettivo di progresso sociale, determinante per la direzione dell'opera educativa; il dispositivo didattico messo a punto per rendere operativa la trasmissione tra l'esito dell'accertamento psicologico e il successo della intrapresa educativa, dentro e oltre la scuola". Quest'ultimo aspetto fornisce alcune caratterizzazioni largamente presenti nelle varie scuole attive.
Si possono inoltre citare come preminenti la tendenza a operare non nell'ambito delle scuole pubbliche o statali tradizionali, ma piuttosto in istituzioni con caratterizzazione e strutture particolari o addirittura nettamente extra o parascolastiche; il largo posto assegnato tra le attività didattiche al lavoro manuale; la ristrutturazione degli spazi fisici e l'arricchimento dei materiali educativi; il largo impegno in attività ludiche.
Queste caratteristiche appaiono però superficiali e improprie se considerate isolatamente e in effetti è avvenuto e avviene che esperienze educative che si limitano a caratteristiche di questo tipo, escludendo le altre sopra accennate, siano state e siano scambiate per ‛attivistiche', a tutto svantaggio di una seria valutazione del fenomeno attivistico in una prospettiva più ampia.
Tra le diverse prospettive emerse nel periodo precedente la prima guerra mondiale, di particolare interesse è quella sperimentale. Essa si riallaccia non solo alla psicologia sperimentale wundtiana, ma anche al rinnovato interesse per un metodo, strutturato su ipotesi-verifiche, che si andava prospettando in sede filosofica. Per opinione abbastanza concorde si considera come primo pedagogista ‛sperimentale' A. W. Lay (v., 1908 e 1909). Egli giunse alla nuova impostazione sulla base della sua esperienza di insegnante di scienze; in lui si individuano però chiaramente anche altre matrici culturali, quali la riflessione sulle scienze dello spirito del neocriticismo e dello storicismo tedesco, e la psicologia scientifica, in particolare della scuola di Lipsia. Tale formazione spinse Lay a vedere nella pedagogia sperimentale non solo il campo di applicazione delle scienze che le forniscono apporti originati, per così dire, all'esterno di essa, ma piuttosto una scienza autonoma, che ha sue problematiche, sue ipotesi, suoi procedimenti di verifica e sue finalità. Se le problematiche pedagogiche nascono in situazioni educative reali, anche i procedimenti pedagogici sperimentali non devono riprodurre situazioni in vitro, ma devono avvenire nel contesto delle situazioni scolastiche, con tutto il carico di interazioni sociali che esse comportano. ‟Gli esperimenti didattici e pedagogici scrive Lay debbono avere il più possibile il carattere dell'insegnamento stesso, e questo deve accadere in modo che tutte le condizioni che accompagnano l'insegnamento, e ne influenzano il risultato finale, vengano tenute in considerazione".
Tuttavia, nonostante la ricchezza degli esperimenti, piuttosto didattici che pedagogici, realizzati da Lay, nonostante la sua sostanziale adesione all'ottimismo pedagogico del tempo e i suoi richiami alle impostazioni di Hall e di Binet, egli non riuscì a dare sufficiente approfondimento teorico al suo discorso e soprattutto non riuscì a legarlo alle esigenze reali che andavano maturando con la trasformazione della scuola in istituzione educativa di massa in atto nei paesi tecnologicamente sviluppati. Di Lay resta comunque valido e costruttivo l'atteggiamento che l'oppone, insieme a Binet, alla concezione riduttiva secondo la quale la pedagogia sperimentale consisterebbe in un insieme di mezzi al servizio di fini (psicologici, politici, etici, ecc.) a essa estranei e in qualche modo preordinati, concezione che, tra l'altro, finiva col distaccare l'opera del pedagogista sperimentale da quella dell'insegnante coinvolto nel vivo del processo educativo.
Nel 1909 Lay affermava: ‟ogni insegnante deve essere un pedagogista sperimentale". Nello stesso anno Binet scriveva: ‟ciò che si deve chiedere agli insegnanti è di prendere con decisione l'atteggiamento di sperimentatori quando questo sia necessario (v. Binet, 1 909). Nonostante i contesti diversi e anche gli esiti diversi delle due affermazioni, resta comune l'esigenza da un lato di un'utilizzazione della psicologia, dall'altro di un atteggiamento di apertura critica da parte di chi insegna, il quale dovrebbe peraltro non essere più soltanto l'educatore affettuoso e motivato, ma anche la persona ricca di cultura aggiornata. Emerge da queste affermazioni una nuova concezione della pedagogia, ed emerge non nel campo dei pedagogisti stricto sensu o della pedagogia accademica, ma in quello dell'educazione ‛militante' e della psicologia. Il discorso di Binet fu comunque sempre proiettato sul versante pedagogico e nell'opera che abbiamo citato egli prende nettamente partito per una pedagogia sperimentale e scientifica come superamento dell'empiria che aveva precedentemente caratterizzato la pedagogia tradizionale. A questo proposito egli osserva causticamente che questa situazione non ha impedito alla pedagogia di possedere la ‟sua teoria, la sua dottrina, ma è una dottrina vaga e puramente letteraria, un insieme di frasi vuote, che è impossibile criticare, tanto il pensiero soggiacente è labile; tutto ciò non è abbastanza preciso per essere falso".
Né più tenero egli appare verso l'astrattezza della pedologia, la quale ‟ha l'aspetto di una macchina di precisione, una locomotiva misteriosa, brillante, complicata, e che al primo apparire suscita ammirazione; ma le varie parti sembra non si connettano tra loro, e la macchina ha un difetto, non cammina" (ibid., pp. 339-340). Tra la vecchia pedagogia predicatoria e vaga, ma legata alla visione diretta dei problemi da risolvere, e i metodi moderni fatti di test, di aride esperienze di laboratorio, ma rivolti alla verità controllabile, bisogna trovare, secondo Binet, una strada intermedia: ‟la vecchia pedagogia deve darci i problemi da studiare; la nuova pedagogia deve darci i procedimenti di studio". A una vera fondazione del discorso manca la riflessione teorica sul rapporto tra strumenti e fini nell'ambito di una problematica reale, e manca, nonostante frequenti accenni agli aspetti sociali dell'educazione e agli aspetti organizzativi delle istituzioni scolastiche e non, il senso della drammatica connessione tra i problemi della formazione e quelli della struttura sociale dello Stato, nelle forme di sempre più stretta interdipendenza che tale connessione assume nella civiltà contemporanea.
La coscienza della dimensione sociale dei fenomeni educativi cominciò a maturare in realtà proprio agli inizi del nostro secolo nell'ambito del pensiero sociologico. Benché la problematica psicologica si fosse allargata fino a comprendere gli aspetti interattivi della condotta umana, essa appariva tuttavia ancora impostata in senso soggettivistico e individualistico; proprio la psicologia aveva inoltre fornito gli strumenti e la base conoscitiva per indirizzare l'educazione verso quei processi di individualizzazione che ebbero il loro esplicito sostenitore in Claparède (v., 1920).
É. Durkheim (generalmente considerato come il fondatore della sociologia moderna, la sociologia dei ‛fatti') fu il primo a considerare l'educazione come fatto eminentemente sociale. Egli riteneva che ci fosse ‟in ogni periodo un modello normativo dell'educazione, dal quale non possiamo discostarci senza scontrarci con vive resistenze che contengono delle velleità di dissidenza. Ora i costumi e le idee che determinano questo modello non siamo stati noi, individualmente, a crearli. Sono il prodotto della vita in comune e ne esprimono la necessità; [...] è la società nel suo insieme e ciascun ambiente sociale che determinano l'ideale che l'educazione realizza. La società non può vivere se non esiste tra i suoi membri una omogeneità sufficiente; l'educazione perpetua e rinforza tale omogeneità fissando a priori nell'animo del fanciullo le similitudini essenziali che impone la vita collettiva.
Ma, d'altro canto, senza una certa diversità, qualsiasi cooperazione sarebbe impossibile. L'educazione assicura la persistenza di questa diversità necessaria, diversificandosi essa stessa e specializzandosi" (Éducation, in Nouveau dictionnaire de pédagogie et d'instruction primaire, Paris 1911; tr. it., pp. 39-40). Da questa concezione dell'educazione discende anche l'affermazione di Durkheim che, se l'educazione ha una preminente funzione collettiva, ‟tutto quello che le si riferisce deve essere, in qualche maniera, sottoposto alla superiore azione" dello Stato. L'esigenza di considerare lo Stato come garante dell'educazione ai principi dei diritti civili e democratici pone certamente dei problemi per i rapporti con le eventuali tendenze di minoranza, ma è fuori discussione che, quale che sia il tipo di educazione che viene adottato in un paese, tale educazione, secondo Durkheim, non può non essere controllata, anche se in forme diverse, dallo Stato. Durkheim era preoccupato da questo problema non solo nel suo aspetto astratto, ma altresì in relazione alle vive polemiche del tempo a proposito della libertà di educazione da parte delle famiglie, e del ‛nuovo corso' antistatalistico della Chiesa cattolica in nome della libertà di educazione e di insegnamento. L'educazione come fatto e atto sociale emerge chiaramente nella voce Pédagogie di Durkheim scritta anch'essa per il Nouveau dictionnaire. Egli utilizza il termine pédagogie nel senso ampio che esso ha oggi in francese e in italiano, e quindi come un termine più comprensivo rispetto a quello di ‛scienza dell'educazione', pur essendo quest'ultimo il primo gradino per la formulazione del concetto di pedagogia. Si può parlare quindi di ‛scienza dell'educazione' se si vuole affermare che è possibile costruire una scienza dei fatti, dei fenomeni educativi, ma ci si rende subito conto che la pedagogia è qualcosa di più. Se i fatti educativi hanno natura sociale si tratta di individuarli storicamente nelle istituzioni in cui si sono determinati nel tempo nei vari paesi.
Alla pedagogia è necessaria, quindi, una storia delle istituzioni e delle pratiche educative; essa comporta però anche una riflessione sulle tendenze verso quei nuovi ideali che ‟vengono ad esprimersi nelle dottrine pedagogiche. [...] La storia di queste dottrine afferma Durkheim - deve dunque completare quella dell'insegnante", e aggiunge che in questo compito non bisogna fermarsi alla dimensione della contemporaneità; la dimensione storica deve quindi avere uno spessore consistente: per esempio, per poter comprendere la tendenza attuale all'insegnamento mediante le cose, a quello che si può chiamare il realismo pedagogico, occorre non limitarsi a vedere come si esprime presso questo o quel contemporaneo; dobbiamo rimontare fino al momento in cui è nato, cioè alla metà del XVIII secolo in Francia e verso la fine del XVII in paesi protestanti" (Pédagogie, ibid.; tr. it., pp. 82-83). ‟La cultura pedagogica deve dunque avere una base largamente storica" che permetta di ‟determinare i fini che deve perseguire l'educatore [...] ma per quello che si riferisce ai mezzi necessari per la realizzazione di questi fini è alla psicologia che ci si deve rivolgere" (ibid., pp. 83-85).
Durkheim fa riferimento alla psicologia infantile e a quanto la psicologia in generale dovrebbe fornire in rapporto alle caratterizzazioni individuali e quindi alla capacità di fondare un'educazione individualizzata; e inoltre alla psicologia sociale, che egli chiama ‟psicologia collettiva", che può indicare quali siano i fenomeni di interazione che avvengono nelle classi e che vanno valutati e tenuti presenti per dirigere l'azione educativa. Egli concepisce quindi la pedagogia come una ‛teoria pratica', ma in un senso ben più ampio di quanto non siano le teorie mediche, politiche, strategiche, poiché i fenomeni su cui essa riflette per trarne programmi d'azione hanno una ricchezza di dimensioni sconosciuta alle altre. C'è, da parte di Durkheim, da un lato la coscienza della crescente importanza della necessità della riflessione sui problemi educativi in un mondo sempre più densamente popolato e con strutture politiche sempre più complesse, dall'altro la fiducia che un apporto notevole all'elaborazione della pedagogia potrà venire dall'evoluzione delle nuove scienze sociali a base empirica: psicologia e sociologia. La pedagogia non è quindi una somma di scienze dell'educazione, ma una teoria pratica che di tali scienze dell'educazione si serve in modo strumentale ma integrato.
7. Claparède e Dewey
Tra gli psicologi che danno una nuova impostazione alla riflessione pedagogica e che si preoccupano degli apporti che a essa possono venire dalla psicologia, particolare rilievo assume É. Claparède. Il suo interesse per la psicologia dell'educazione nacque, come per M. Montessori o O. Decroly, dallo studio del problema della rieducazione degli anormali. A tale problematica s'aggiunse, nello stesso periodo, la riflessione sulla necessità di allargare l'esame dei processi psicologici a un ambito biologico più ampio. I fenomeni psichici vanno quindi studiati, secondo Claparède, ‟dal punto di vista della loro funzione nella vita, del loro posto nell'insieme della condotta in un dato momento. Questo riporta al problema della loro utilità. [...) Dopo essermi domandato a che cosa serve il sonno, ho esaminato allo stesso modo a che cosa serve l'intelligenza, a che cosa serve la volontà". Così egli riassumeva nell'autobiografia il suo punto di vista funzionalistico, sviluppato già nel primo decennio del secolo.
Il concetto intorno a cui si svolge tale punto di vista è quello di interesse: ‟in ogni istante un organismo agisce secondo la direzione del suo interesse più grande". Si spiega in tal modo la relazione che è stata costantemente osservata tra il complesso di reazioni dell'organismo e il bisogno che le ha provocate. Il concetto di interesse era anche alla base delle concezioni educative ‛attivistiche' di cui Claparède sostiene la validità, pur rilevando che a volte esse si presentano vaghe ed equivoche. La collaborazione tra psicologia e pedagogia ai fini della creazione di una ‟scuola su misura" (l'espressione fu usata da Claparède per la prima volta nel 1901 in una conversazione tenuta alla Società Medica di Ginevra) è l'assunto centrale che presiede, nel 1906, alla istituzione del seminario di psicologia pedagogica presso il laboratorio di psicologia dell'Università di Ginevra. In esso gli insegnanti venivano preparati a raccogliere correttamente tutti quei dati di osservazione e di esperienza necessari alla psicologia genetica (che fornisce d'altra parte agli insegnanti le conoscenze sullo sviluppo psicologico del bambino). Nel 1909 venne pubblicata l'opera Psychologie de l'enfant et pédagogie expérimentale (nella quale venivano presentati e rielaborati scritti del periodo precedente), opera che ebbe un'ampissima diffusione e ottenne un vivo successo in tutta l'Europa. Si ebbe subito la percezione che con tale opera Claparède aveva dato l'avvio in area europea a quel rinnovamento della concezione della pedagogia e dei suoi rapporti con le scienze sociali che veniva proposto contemporaneamente negli Stati Uniti da Dewey.
L'opera di Claparède era legata in particolare all'atmosfera culturale e civile di Ginevra, ma dipendeva altresì da un lato dalla maturazione di interessi educativi di largo respiro sociale che con varie caratterizzazioni avevano preso forma in Germania, in Francia, in Italia, dall'altro dall'evoluzione e dall'approfondimento delle tematiche e delle metodologie della psicologia sperimentale. Questo apporto della psicologia determinò una certa subordinazione della pedagogia, in particolare della pedagogia sperimentale, la cui metodologia si identificò spesso con la metodologia psicologica, e i cui temi e campi d'indagine furono spesso costretti e condizionati dall'uso di tali metodologie nell'ambito della didattica. La misura psicologica, la pratica di esperienze educative e la ricerca pedagogica (soprattutto finalizzata alla preparazione degli insegnanti), unite alle attività di ricerca e di realizzazione, caratterizzano l'istituto di scienze dell'educazione intitolato a J. J. Rousseau che Claparède, insieme a P. Bovet e con l'aiuto finanziario di un gruppo di amici, fondò a Ginevra nel 1912 e che costituisce ancora oggi un fervido centro di attività di ricerca psicopedagogica. In esso Claparède diede vita a quella integrazione di ricerca, esperienza pratica ed elaborazione teorica che costituiva per lui la base del sapere pedagogico e quindi delle trasformazioni educative. Nella realtà storica attuale, a giudizio di Claparède, non esiste nell'uomo un istinto che provveda all'educazione: ‟è necessario ricorrere all'intelligenza, per trovare i metodi d'azione che il suo istinto non gli offre. Ed ecco l'origine delle scienze dell'educazione; è la stessa origine di ogni scienza: supplire alle lacune dell'istinto. Come abbiamo costruito una scienza medica, perché il nostro istinto è muto sul modo di trattare le malattie, così dobbiamo istituire una scienza del fanciullo, perché il nostro istinto è muto sul modo di trattare adeguatamente il suo sviluppo" (v. Claparède, 1909; tr. it., vol. I, pp. 62-63).
La ‟scienza del fanciullo" è in questo caso non solo la psicologia dell'età evolutiva, ma anche quella che in altro punto della stessa opera viene definita ‟scienza pedagogica" (senza risolvere il problema di come - e se - la psicologia si ponga come scienza ausiliaria di una scienza pedagogica in qualche modo autonoma nell'elaborare e finalizzare conoscenze offerte dalla psicologia stessa). Con una certa dose di ambiguità Claparède insiste sulla necessità di coinvolgere l'uomo di scuola, il ‛pratico', di utilizzare la sua insostituibile esperienza, ma nello stesso tempo mette in guardia contro i pericoli di routine e in ultima analisi di conservatorismo cui il ‛pratico' va incontro se non è illuminato dal ‛teorico', che vede le cose con il dovuto distacco, si pone domande, individua problemi, stabilisce quali siano ‟le cause dei fenomeni, la loro coordinazione, le loro leggi". In L'école sur mesure Claparède (v., 1920) esamina ancora il rapporto tra pedagogia e psicologia, nel tentativo di spiegare perché la pedagogia, che aveva chiare le nuove prospettive paidocentriche e le impostazioni naturalistiche sin da Rousseau e addirittura da Montaigne, non abbia ancora saputo dar vita a nuove forme di educazione.
La risposta va ricercata, a suo giudizio, nel fatto che la pedagogia è stata sempre considerata ‟una materia filosofica, e bisogna convenire - egli afferma - che questa è un po' la sua colpa, senza contare che essa implica realmente una parte di metafisica e di morale (tutto ciò che riguarda il fine dell'educazione)". Il ‟principio posto da Rousseau" non ha avuto verifiche sperimentali e non si è quindi imposto con l'indiscutibile autorità delle verifiche scientifiche.
Tale autorità la pedagogia può acquistarla solo dalla psicologia e da una metodologia scientifica, soprattutto da quella psicologia del fanciullo più aderente alla realtà viva cui l'educatore si rivolge, e che solo in questo secolo ha avuto il suo sviluppo. Sfugge tuttavia a Claparède quella connessione tra educazione e strutture politiche, analizzata invece negli stessi anni da Durkheim e soprattutto da Dewey; nonostante ciò si può affermare che la sua opera ha indubbiamente contribuito alla presa di coscienza della necessità che tutti ‟i problemi pedagogici siano sottoposti, come tutte le altre questioni di fatto, alla sperimentazione".
A questo punto è necessario esaminare il decisivo apporto fornito alle moderne concezioni educative da Dewey, uno dei più vigorosi pensatori del Novecento, la cui pedagogia non è affatto, come è invece in molti altri pensatori, una semplice appendice o applicazione delle sue teorie filosofiche. Per Dewey il filosofare dovrebbe concentrarsi sull'educazione come supremo interesse umano, cui gli altri problemi cosmologici, morali, logici riconducono. Quest'affermazione era formulata da Dewey in risposta alla scarsissima attenzione che la critica filosofica, pur attenta a ogni nuovo contributo filosofico deweyano, dedicava invece alle sue opere pedagogiche (compresa Democracy and education).
Alla filosofia di Dewey, maturata nel corso di almeno un trentennio, male si addicono le usuali qualificazioni di ‛pragmatismo' e di ‛strumentalismo'. Il carattere organico e unitario della produzione deweyana deriva dalla stretta connessione fra teoria e prassi che egli ha sempre tentato di realizzare occupandosi contemporaneamente e congiuntamente di problemi filosofici e di attività educativa concreta. Ma la mediazione fra teoria e prassi si realizza attraverso le nascenti scienze dell'uomo (psicologia, sociologia, antropologia), sulla base di un darwinismo ripensato in termini dialettici e di uno strumentalismo logico ispirato a Ch. S. Peirce (e riqualificato in senso sociale per l'influenza di G. H. Mead). Negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento Dewey dedica libri specifici a tali singoli temi, ma sempre con l'intento di accentuare i collegamenti, anzi le strettissime interrelazioni, piuttosto che di delimitare ambiti autonomi e distinti.
Risulta particolarmente importante, ai fini della sua concezione della pedagogia, quanto egli ha reiteratamente affermato circa il nesso fra l'aspetto psicologico e quello sociale dell'educazione, che ‟stanno fra loro in rapporto organico", sicché ‟l'educazione non può venire considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell'uno sull'altro". La definizione psicologica dell'educazione è ‟nuda e formale", ci dà soltanto l'idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D'altra parte, la definizione sociale dell'educazione come ‛adattamento' alla civiltà ne fa un processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell'individuo a una situazione sociale e politica presupposta. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l'impiego o la funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l'individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma d'altra parte il solo possibile ‛adattamento' che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è quello che deriva dal porlo nel possesso completo di tutte le sue facoltà.
Con l'avvento della democrazia e delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà di qui a vent'anni. Perciò dobbiamo puntare sul più pieno dispiegamento di tutte le potenzialità insite nel fanciullo, il che non è d'altronde possibile ‟se non si tien conto di continuo dei poteri, dei gusti e degli interessi propri dell'individuo, cioè se l'educazione non è costantemente convertita in termini psicologici" (v. Dewey, 1897; tr. it., pp. 6-8). Queste affermazioni bene esemplificano la concezione dialettica che Dewey ha del reale. Essa comporta una critica sempre rinnovata ai dualismi di ogni genere, ivi inclusi quelli di natura epistemologica, in particolare la contrapposizione di soggetto conoscente e oggetti conosciuti come presupposto della conoscenza. Nella sua concezione ‛strumentalistica' della logica è affermato il nesso essenziale fra biologia e conoscenza: quest'ultima non è che un modo più articolato e complesso di adattamento attivo al reale, di risoluzione di situazioni problematiche, ‛prefigurate' già nelle funzioni di adattamento degli organismi più semplici. Dewey dedicò molti saggi specifici e impegnativi a tali problemi e il loro sviluppo più ampio e organico si ebbe con Logic, the theory of inquiry (v. Dewey, 1938) e con Knowing and the known (in collab. con A. F. Bentley, 1949; tr. it.: Conoscenza e transazione, 1974), dove viene introdotto il termine ‛transazione' come distinto da ‛interazione', per indicare appunto le interrelazioni dialettiche in qualche modo costitutive dei loro stessi termini, ben diverse dai rapporti meramente estrinseci e formali che si istituiscono fra entità già pienamente definite e autonome.
La pedagogia di Dewey costituisce quindi un tutt'unico con la sua filosofia, che è a sua volta profondamente radicata in una visione naturalistica e scientifica del reale, la quale tuttavia rifiuta ogni ‛riduzionismo' e concepisce bensì l'uomo come il culmine del processo evolutivo, ma gli riconosce capacità creative commisurate alla problematica precarietà della sua condizione esistenziale. Dewey è infatti ben lontano da ogni ottimismo positivistico non meno che idealistico, e vede nell'educazione un elemento essenziale, ma solo un elemento, di quelle trasformazioni sociali e culturali che sono rese indispensabili e urgenti dal fatto che ‟finora la scienza è stata applicata più o meno casualmente e sotto l'influsso di fini come il vantaggio e la potenza privata, che sono retaggio delle istituzioni di un'età prescientifica" (v. Dewey, Experience..., 1938; tr. it., p. 72). Perciò la pedagogia, secondo Dewey, poggia essenzialmente da un lato sulle nuove scienze umane e sulla filosofia dell'educazione (che è per lui l'essenziale della filosofia tout court), dall'altro sull'esperienza diretta delle trasformazioni educative e sociali che si intraprendono, se possibile, in forma sperimentale e controllata. Queste sono Le fonti di una scienza dell'educazione (v. Dewey, 1929), scienza peraltro ancora in via di formazione e la cui unita e piuttosto pragmatica o funzionale che metodologica o di contenuti.
Una scienza del genere (per la quale tende a cadere il vecchio nome di pedagogy, sostituito da quelli di education, theory of education, science of education) coinciderebbe con la scienza della formazione della personalità umana in tutti i suoi aspetti, scienza che ovviamente non esiste - o non esiste ancora - come complesso organico e unitario di conoscenze. L'originalità del contributo deweyano consiste nel conferire a un tale corpo di conoscenze - attuale e potenziale - non solo una struttura chiaramente interdisciplinare e insieme una sua autonomia euristica, ma anche una sostanziale centralità rispetto alla cultura in generale. Ciò avviene in connessione con quello che è il nodo centrale dell'etica deweyana, cioè il rapporto ‛transazionale' fra mezzi e fini. Poiché una corretta considerazione dei fini, e perciò dei valori, non può essere operata, per Dewey, che in termini di ‛mezzi', cioè di attività necessarie al loro conseguimento e insieme di attività ulteriori che essi renderanno possibili una volta conseguiti, il processo educativo cessa di essere un momento intermedio e strumentale. Esso non può essere più subordinato a fini precostituiti di nessun genere, ma si identifica con un corso globale di esperienze sociali nel quale i fini emergono in modo sempre nuovo e originale, e solo in tal modo possono funzionalmente dirigerlo. L'educazione insomma non è applicazione di ricette per esiti precostituiti, ma ‛intelligenza creativa' attivamente impegnata a risolvere problemi che hanno sempre un'essenziale, ineliminabile valenza sociale.
I valori che emergono dà un processo educativo genuino sono orientati verso la ricostruzione e trasformazione della realtà sociale: l'educazione vera non può essere mai adattamento alla situazione sociale presente, deve puntare su una realtà diversa, dalla quale il metodo dell'intelligenza esteso alle strutture sociali elimini la disuguaglianza e lo sfruttamento. Nelle scuole occorre perciò sviluppare ‟una proiezione del tipo di società che vogliamo realizzare" (v. Dewey, 1916, cap. XXIII). In base a questi orientamenti la concezione deweyana dell'educazione potrà incontrarsi largamente, dopo un periodo di difficoltà e malintesi, con la pedagogia di ispirazione marxiana (piuttosto che con quella dell'ortodossia marxista).
8. Pedagogia ed educazione tra le due guerre
Il rapporto tra psicologia e pedagogia, e in generale una ridefinizione della pedagogia in termini di pedagogia scientifica e sperimentale, è stato presente in forme vivaci e operative, ma in qualche caso anche con tentativi di ripensamenti teorici, nel Belgio, dove particolarmente fervido era stato il movimento pedologico (che aveva tenuto a Bruxelles nel 1911 il primo Congresso internazionale di pedologia e che contava in quel paese nomi quali T. Jonckheere, M. C. Schuyken, la psicologa polacca J. Joteyko). In questo ambiente, in cui studiosi di formazione medica e psicologica collaboravano insieme avendo come interessi preminenti finalità educative e pedagogiche, il termine ‛pedologia' venne usato insieme, e spesso confuso, con il termine ‛pedagogia scientifica' e infine con quello ‛pedagogia sperimentale'. Si trattò all'inizio di un'accezione piuttosto generica, secondo la quale la pedagogia sperimentale ‟raccoglie e accumula fatti, li interpreta senza preconcetti e senza utilizzare costruzioni proprie, al fine di ricavare dai fatti stessi procedimenti conformi alle leggi che regolano lo sviluppo infantile" (T. Jonckheere, La pédagogie expérimentale au jardin d'enfants, Bruxelles, 1921).
Questa concezione si ritrova anche in O. Decroly, che diede un notevolissimo apporto alle metodologie educative e didattiche di questo secolo, e i cui interessi pedagogici ricevettero alimento culturale sia dall'opera di A. Binet e del suo collaboratore Th. Simon (che pubblicò nel 1924 a Parigi un'opera dal titolo Pédagogie expérimentale), sia dal pensiero deweyano e dalle ricerche che nell'ambito dell'indagine e sperimentazione psicopedagogica si andavano svolgendo negli Stati Uniti. Sono queste le fonti culturali che lo portavano a postulare una ‛pedagogia quantitativa' in cui le attività di misurazione di capacità e attitudini (Decroly si occupò sia di insufficienti mentali sia di superdotati) fossero accompagnate da misure di rendimento. Tale prospettiva diede una dimensione nuova alla pedagogia scientifica, la trasformò cioè in pedagogia sperimentale in senso proprio, con una sua autonomia rispetto alla psicologia.
Questo approccio scientifico e sperimentale indusse Decroly a escludere quasi subito dalla sua impostazione il problema di determinare e analizzare i fini dell'educazione per dedicarsi interamente alla messa a punto degli strumenti utilizzabili nella pratica didattica dell'apprendimento e nei processi di formazione sociale. In Decroly, l'impostazione pedagogico-scientifica fu sempre accompagnata anche da una profonda sensibilità per i problemi sociali, sia nella loro scala più ampia che in quella più limitata delle interazioni tra piccoli gruppi e nell'ambito della classe scolastica; appunto tale sensibilità lo rese sempre sospettoso nei confronti di ogni esigenza di eccessivo rigore in un ambito in cui le variabili si presentano così numerose.
Con Decroly aveva collaborato un altro belga, R. Buyse, che insieme a lui aveva scritto, tra l'altro, Introduction à la pédagogie quantitative (1929). Il notevole sforzo di sistemazione della pedagogia sperimentale compiuto da Buyse diede origine all'opera L'expérimentation en pédagogie (1935), nella quale si riscontra altresì una chiara coscienza del problema di una definizione dell'ambito della sperimentazione educativa. A giudizio di Buyse, essa riguarda fatti controllabili attraverso procedure sperimentali, formulazioni di ipotesi che si applicano a quanto è traducibile in termini quantitativi, verifiche compiute con l'ausilio di tecniche statistiche.
Questo significa che una pedagogia sperimentale può essere fondata solo in quanto ‛tecnica pedagogica' rigorosamente neutrale: ‟negare questo fatto - scrive Buyse - significa ridurre la scienza al rango di una disciplina ausiliaria della politica [...]. Non c'è una scienza borghese, né una fascista, né una scienza sovietica [...]. La tecnica pedagogica non appartiene a nessun partito". La determinazione dei fini dell'educazione resta invece fuori da questo ambito ed è affidata alla pedagogia in quanto disciplina ‛teologica', visto che i fini dell'educazione trascendono l'uomo come essere naturale. ‟Oggi - scriveva nel 1955 - tutti ammettono che per educare un bambino, per portarlo a realizzarsi, a divenire l'uomo che ‛deve' essere, bisogna innanzi tutto sapere quale essere egli sia. Certo, gli obiettivi della cultura dipendono dalla natura, dal dato umano (tendenze, attitudini, atteggiamenti) ma anche dalla Grazia. La psicologia genetica, funzionale, dinamica, differenziale, non può precisare che i fondamenti bio-psico-sociologici di un'educazione razionale. L'aspetto ‛soprannaturale' dell'educazione cristiana ci è dato dal Vangelo e dal magistero della Chiesa" (comunicazione al Il Convegno di ‛Scholé', in L'attivismo pedagogico, 1956, pp. 245-246). La soluzione, apparentemente conciliante e risolutiva, era invece tale da acuire i problemi che nascevano da un ripensamento del rapporto tra pedagogia e scienza nelle nuove prospettive politiche e culturali che il mondo occidentale affrontava in una situazione di crisi sempre più drammatica.
Sul piano tecnico Buyse ha lasciato tuttavia, sia direttamente che attraverso una sua scuola ancor oggi fiorente presso l'Università Cattolica di Lovanio, un notevole patrimonio di elaborazioni e impostazioni. Tra i suoi discepoli più interessanti sono da segnalare E. Planchard, A. Montealegre e A. Bonboir, le cui attività si sono svolte prevalentemente nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale.
Sul versante cattolico la posizione di Buyse e della sua scuola non ha raccolto la maggioranza dei consensi. Infatti, se è vero che nell'ambito della pedagogia cattolica si sono manifestate nel XX secolo un numero sempre maggiore di posizioni differenziate, è anche vero che la pedagogia cattolica ufficiale ha continuato a essere rappresentata prevalentemente da posizioni tomistiche. Uno dei massimi esponenti di queste posizioni può essere considerato il francese J. Maritain. Durante la seconda guerra mondiale Maritain tenne all'Università di Yale alcune conferenze che furono pubblicate negli Stati Uniti con il titolo Education at the crossroads. Nel 1947 uscì l'edizione francese dell'opera e C. Journet, nella prefazione, riconosceva in essa ‟un piccolo trattato di filosofia dell'educazione, fondato sui dati di sant'Agostino e di san Tommaso d'Aquino". Il fatto che quest'opera di Maritain abbia visto la luce negli Stati Uniti non è casuale. Anche in quel paese con solide tradizioni protestanti si andava profilando un rafforzamento di posizioni spiritualistiche e umanistiche in senso tradizionale, intese soprattutto a combattere posizioni filosofiche naturalistiche e strumentalistiche, posizioni politiche democratiche e radicali, e tendenze scientifiche.
Tali posizioni sostanzialmente conservatrici trovavano appoggio presso molti potenti gruppi cattolici presenti nel paese. Il discorso di Maritain esprimeva una chiara posizione in tal senso. ‟L'idea filosofico-religiosa dell'uomo è un'idea ontologica"; la conoscenza scientifica basata sull'esperienza può migliorare di molto i mezzi per educare l'uomo, ma per l'educazione è indispensabile ‟conoscere innanzi tutto e in modo primordiale quel che l'uomo è, qual è la natura dell'uomo e quale scala di valori essa implichi essenzialmente". In una concezione di questo genere non trovano posto né ‛la' scienza né ‛le' scienze dell'educazione, se non in posizione subordinata; la filosofia dell'educazione, impostata su basi dichiaratamente tomistiche, può invece indicare i fini, in quanto valori, e il ‛valore' dei mezzi da impiegare.
Le più significative prese di posizione di Maritain nel campo dell'educazione si trovano riunite in una raccolta di saggi di pedagogia (Pour une philosophie de l'éducation, Paris 1959). Nel periodo compreso tra le due guerre anche pedagogisti italiani, spagnoli e statunitensi si sono ispirati a una concezione tomistica; inoltre, in campo cattolico, si sono manifestati movimenti di ispirazione neospiritualistica vicini al pensiero agostiniano, e sono state elaborate posizioni filosofiche originali con implicazioni pedagogiche. Tra queste occorre ricordare il contributo di E. Mounier, aperto alle correnti laiche contemporanee, alle esigenze presenti in campo politico-sociale, e fondatore di una delle più vivaci riviste filosofiche del mondo contemporaneo (‟Esprit"), che si è fatta portavoce delle tendenze più progressiste del pensiero cattolico.
I due nodi problematici fondamentali sui quali in forme diverse si focalizza il pensiero pedagogico di questo periodo possono essere identificati da un lato nel rapporto tra eredità e ambiente (maturato per l'apporto dell'evoluzionismo) e quindi nella trasmissione culturale, dall'altro nella necessità di dare sempre al discorso educativo una dimensione pratico-operativa e specifiche indicazioni per l'aspetto politico-organizzativo delle istituzioni. Le due direzioni si sviluppano in modo diverso in culture diverse, con maggiore fecondità e apertura nei paesi politicamente più stabili, in modo involutivo in paesi come l'Italia, la Germania, la Spagna, in cui la virata conservatrice dà luogo a impostazioni totalizzanti e autoritarie.
Un altro paese in cui l'interferenza tra potere politico e organizzazione scolastica è stata accentuata, al punto da condizionare anche tutta l'impostazione della problematica pedagogica, è stato ed è certamente l'Unione Sovietica. E in questa prospettiva che va quindi collocato lo sviluppo pedagogico determinatosi in quel paese durante gli ultimi decenni.
La Russia dei primi vent'anni del secolo aveva conosciuto due indirizzi di pedagogia innovativa di vasta risonanza, anche se con influsso limitato sul piano pratico. I due movimenti, che rispecchiano due posizioni analoghe nel mondo occidentale, sono quelli dell'‛educazione libera' e della ‛pedagogia sperimentale'. Il primo ebbe come organo di diffusione la rivista ‟L'educazione libera", pubblicata dal 1907 al 1917, e fu caratterizzato da ideali molto vicini a quelli delle ‛scuole nuove' e dell'attivismo': la scuola deve essere un luogo in cui si compie lavoro manuale, in cui si gioca, in cui il bambino gode di tutta la libertà e di tutto il rispetto possibili, in cui si afferma con pienezza un rapporto di eguaglianza.
Caratteristica di questa corrente fu anche l'affermazione che alla vita della scuola devono partecipare, oltre che gli allievi e i maestri, anche i genitori, gli adulti in genere e la comunità. Il massimo teorico di questo movimento, complessivamente più critico e polemico che costruttivo e sistematico, fu K. N. Ventzel, anch'egli però proteso piuttosto a suscitare una nuova pratica educativa che a teorizzarne la definizione in quanto arte o scienza o contenuto di riflessione pedagogica.
L'altro indirizzo di rinnovamento dell'educazione russa fu quello della pedagogia sperimentale, che anche qui, come nel resto dell'Europa, si mosse inizialmente sul terreno della psicologia e mise a fuoco soprattutto problemi di educazione degli anormali, di misurazione delle capacità mentali individuali, di orientamento su basi attitudinali e con largo uso di tecniche di misurazione. La pedagogia sperimentale, o pedologia come più spesso è stata chiamata, ebbe come maggiori rappresentanti G. I. Rossolimo, A. P. Neciàev e G. J. Troscin, ed esercitò una notevole influenza sull'educazione anche durante il periodo più ‛innovatore' della rivoluzione, compreso tra il 1917 e il 1936. In tale anno il Comitato centrale del Partito comunista giudicò la pedologia una pseudoscienza volta alla dimostrazione pseudoscientifica, a danno delle classi lavoratrici, dell'esistenza di differenze di capacità intellettuali ereditarie, e ne respinse l'influenza sugli ordinamenti scolastici e l'apporto in sede di decisioni scolastiche.
Il movimento dell'educazione libera ebbe anch'esso una sua continuità nella prima fase del rinnovamento educativo sovietico, e la figura preminente fu quella della moglie di Lenin, N. K. Krupskaja, la cui personalità dominò incontrastata nella politica scolastica fino al 1923. In questi primi anni, l'ideale di una scuola in cui attività teorica e attività lavorativa fossero strettamente collegate si realizzò in quell'educazione politecnica che Lenin aveva teorizzato derivandola da Marx, se pur nei limiti di un disegno esclusivamente politico. Tuttavia, né la Krupskaja né P. P. Blonskij, l'altro teorico della ‛scuola del lavoro', realizzarono una vera e propria elaborazione concettuale univoca dei problemi pedagogici e una riflessione teorica sul concetto di pedagogia. L'urgenza di organizzare istituzioni scolastiche nettamente diverse dalle precedenti, la difficoltà di impostare una politica scolastica con unità di intenti e di direttive, i rapporti a volte tesi con i sindacati su questi problemi crearono spesso ostacoli e ripensamenti. La rivoluzione nel settore scolastico e in genere educativo aveva tempi e mediazioni inevitabili: ‟Il nocciolo della questione - affermava Lenin in un discorso del 2 ottobre 1920 al III Congresso panrusso dell'Unione giovanile comunista russa - è qui nel fatto che, con la trasformazione della vecchia società capitalistica, l'istruzione, la formazione e l'educazione delle nuove generazioni che edificheranno la nuova società comunista non possono rimanere quali erano. Per l'istruzione, la formazione e l'educazione della gioventù dobbiamo partire dal materiale che la vecchia società ci ha lasciato. Noi possiamo edificare il comunismo unicamente con la somma delle conoscenze, delle organizzazioni e delle istituzioni, con la riserva di forze umane e di mezzi che ci sono stati lasciati dalla vecchia società" (tr. it. in Il marxismo e l'educazione, Roma 1964, p. 217).
Tutta la prima fase della situazione educativa sovietica sino alla svolta staliniana fu segnata da questa difficoltà di compiere innovazioni educative che sul terreno scolastico rispecchiassero le nuove finalità e impostazioni politiche ma non fossero semplicemente la negazione e abolizione dell'esistente. Lo sforzo di ‛liberalizzare' l'educazione si mescolò quindi con la nuova impostazione politica senza dar luogo a una prospettiva sistematica definita e caratterizzata; diritto al libero sviluppo della personalità individuale e dimensione sociale della formazione con finalizzazione politica coesistevano e s'intrecciavano senza che tale integrazione fosse teoricamente sistematizzata.
Primo commissario all'istruzione (dal 1917 al 1929) fu A. V. Lunačarskij, il quale attinse ampiamente alle esperienze ‛attivistiche' e all'impostazione deweyana, e fu per questo criticato come borghese e riformista. Il periodo compreso tra il 1928 e il 1931 fu caratterizzato dal progressivo e non sempre lineare abbandono delle esperienze dell'educazione libera: furono rinsaldati i rapporti con il mondo del lavoro e adottate più univoche impostazioni ideologiche. Con il decreto del 5 novembre 1931 del Comitato centrale del Partito, si ritornò a un modello di scuola con funzioni più autonome nel campo dell'educazione, con insegnanti più autorevoli e autoritari, investiti di maggiori funzioni di controllo, sia culturale che disciplinare. Nel frattempo il rapporto di dipendenza dell'azione educativa dalla osservazione scientifica della natura degli allievi si andava attenuando, sino alla già accennata sconfessione della pedologia, accusata di adottare un'impostazione complessivamente deterministica.
La figura di maggior rilievo di questo periodo è quella di A. S. Makarenko, giunto alla riflessione pedagogica dall'attività svolta in istituzioni rieducative e in colonie di ragazzi. Nelle sue posizioni permangono elementi assai vicini all'attivismo deweyano, inquadrati però in una prospettiva di formazione del cittadino sovietico che conserva lo slancio della tensione rivoluzionaria del 1917, e con una sensibilità ‛umanistica' radicata nell'esperienza dell'educatore coinvolto profondamente nella sua attività, piuttosto che in tradizioni culturali o in elaborazioni filosofiche. Makarenko avverti quanto di astratto e riduttivo c'era nello scientismo ‛pedologico' della pedagogia sperimentale precedente, e contro questa riaffermò l'impossibilità di prescindere dall'esperienza in qualsiasi valida teorizzazione: ‟sono convinto - egli affermava - che la metodica del lavoro d'educazione non la si può dedurre dai principi di scienza, come la psicologia e la biologia, quale ne sia stata l'elaborazione, soprattutto la biologia come si presenta dopo i lavori di Pavlov. Sono convinto che non abbiamo il diritto di dedurre dai dati di queste scienze conclusioni immediate per i mezzi dell'educazione. Nel lavoro educativo codeste scienze devono venir prese in considerazione, ma non come premesse per giungere a una conclusione, bensì solo come pietra di paragone per controllare la validità di ciò a cui si perviene praticamente. [...]. La pedagogia [...] è, anzitutto, una scienza a finalità pratiche" (v. Makarenko, 1938; tr. it., p. 13). Non si ha quindi il diritto di trarre dalle scienze dell'educazione conclusioni immediate per i mezzi dell'educazione, ma soprattutto non si può chiedere a tali scienze la determinazione dei fini, che possono essere ‟definiti solo partendo dalla storia e dalla vita della nostra società". Tuttavia Makarenko ipotizzava che col tempo la partecipazione della psicologia e della biologia al lavoro educativo sarebbe aumentata, anche se le mete sociali e politiche avrebbero continuato a fornire guida e finalità a tale lavoro.
Questa impostazione così diffidente verso una pedagogia sistematica e irrigidita in una didattica precisa portò Makarenko ad affermare che ‟la pedagogia è, in generale, la scienza più dialettica, più viva, più complessa e più varia che ci sia", e quindi ‟un'ipotesi di lavoro da verificarsi in ogni caso particolare" e in particolare ‟mediante la ricca esperienza sociale sovietica". Se consideriamo che tali affermazioni sono collegate alla messa a fuoco anche sul piano operativo di due problemi fondamentali dell'educazione sovietica - quello dell'educazione attraverso il lavoro collettivo inteso in senso politecnico e quello della fiducia nell'educazione come attività che forma individui capaci di lottare per trasformare la realtà naturale e sociale possiamo capire perché Makarenko venga considerato come il più rappresentativo tra i pedagogisti sovietici, nonostante la sua profonda diffidenza per ogni riflessione caratterizzata da apriorismo teorico, distacco dall'esperienza o anche solo sistematicità.
9. Pedagogia e scienze dell'educazione
Tra le due guerre mondiali si determinano le condizioni per una trasformazione profonda del pensiero pedagogico, tale da riproporre, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, il rapporto tra pedagogia e scienze dell'educazione in termini nuovi. Si tratta evidentemente non solo e non tanto di un'evoluzione a livello teorico, quanto dei tentativi di risolvere problemi che nascevano dal progresso tecnologico, dalla conclusione spesso drammatica dell'esperienza coloniale, dalla presenza del proletariato del Terzo Mondo sul mercato del lavoro europeo e statunitense, dall'esigenza di una sempre più larga partecipazione delle masse alla vita della collettività.
Per esaminare i riflessi sulla pedagogia dei tentativi di soluzione di questi problemi intrapresi dalle diverse scienze sociali si deve anzitutto tener presente l'evoluzione della sociologia. Se Durkheim, come abbiamo accennato, aveva indicato come fondamentale per la pedagogia la riflessione sul rapporto società-individuo, un altro grande sociologo del primo Novecento, Max Weber, mise a fuoco due problemi che sarebbero diventati nodali nell'evoluzione della pedagogia e delle scienze dell'educazione: il problema del rapporto tra fatti e valori e quello del rapporto metodologico tra scienze della natura e scienze sociali. Un apporto notevole, pur se indiretto, alla riflessione sui fatti educativi venne anche dai sociologi che analizzarono le diverse forme della convivenza sociale: comunità, gruppi ecc.; tra essi soprattutto F. Tönnies e C. H. Cooley. Due altri fondamentali temi sociologici produssero studi e approcci che influirono sulla riflessione pedagogica: il tema della stratificazione e della mobilità sociale e quello delle relazioni ‟tra la conoscenza e l'esistenza [...] e le forme che esse hanno assunto nello sviluppo intellettuale dell'umanità" (K. Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn 1929). Il problema della stratificazione sociale, la cui prima trattazione organica risale a P. A. Sorokin (Social mobility, 1927) ha avuto un'influenza determinante sugli ideali educativi sino ai nostri giorni; questa influenza si è manifestata sia nella sociologia statunitense come problema della ‛eguaglianza di opportunità', sia nel dibattito contemporaneo (in particolare in Europa in connessione con l'analisi marxista delle classi e dell'educazione come processo di superamento della predeterminazione sociale in vista di una società di uguali).
Tra le più rappresentative opere americane che possono essere definite di ‛sociologia dell'educazione', costruite su uno schema riferito alla classe economica ma soprattutto allo status sociologico, troviamo: K. Eells e altri, Intelligence and cultural differences. A study of culturai learning and problem soloing, Chicago 1951; A. B. Hollingshead, Elmtown's youth: the impact of social classes on adolescence, New York 1949. Presupposto di tali studi, e di molti altri analoghi, è che in una moderna società liberale sia possibile una mobilità ascendente (e il sistema di riferimento è inevitabilmente meritocratico). Tale mobilità è peraltro molto ridotta, in quanto le caratteristiche attitudinali si presentano nei vari momenti evolutivi già legate alla provenienza sociale, e comunque non tocca che marginalmente le classi culturalmente più svantaggiate. D'altra parte, l'evoluzione tecnologica e la sopravvivenza di rigide forme statuali fanno sì che anche nell'URSS il problema della stratificazione sociale sia impostato appunto in termini di ‛mobilità', rivelando quindi sostanziali analogie strutturali tra il modello sociale capitalistico e quello sovietico.
Se l'evoluzione della sociologia tende a mettere in rilievo, anche attraverso la ricerca empirica, la complessità dei fenomeni sociali nelle loro diverse interazioni, anche l'evoluzione della psicologia presenta risultati determinanti per nuovi approcci ai problemi educativi e didattici. Tra le principali scuole psicologiche attive tra le due guerre appaiono di particolare importanza, per la riflessione sui fenomeni più o meno direttamente legati all'educazione, il neocomportamentismo, la psicologia della Gestalt, la psicanalisi, la psicologia dell'età evolutiva, l'approfondimento (e talvolta la critica) dei problemi della misurazione delle varie componenti psichiche e la costruzione delle relative tecniche.
Il problema centrale per il neocomportamentismo è quello del rapporto tra organismo e ambiente. Tale rapporto viene interpretato come un rapporto di interazione, per cui l'organismo reagisce attraverso gli impulsi primari e quelli secondari derivati dai primi a qualunque stimolo atto a turbarne la sopravvivenza biologica; anche l'apprendimento umano, secondo C. L. Hull, rappresenta lo strumento capace di tutelare tale sopravvivenza; nella stessa direzione opera B. F. Skinner, che elabora il concetto di ‛comportamento operante', in quanto comportamento che si produce anche in assenza di stimoli osservabili. Tale comportamento coinvolge insieme al soggetto che lo subisce tutto l'ambiente con cui il soggetto stesso interagisce: si aprono così, ove si riesca a studiare i modi e le direzioni del comportamento umano, infinite possibilità di condizionamento e si prospetta quindi una ‛educabilità' che può essere interamente orientata dal di fuori del soggetto stesso.
Il neocomportamentismo si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti, mentre, legata all'ambiente culturale tedesco, seppure spesso in aspro contrasto con alcune delle sue tradizioni sperimentalistiche e strutturalistiche, è la scuola della Gestalt o della psicologia della forma. Per ‛forma' si intende un complesso strutturato in quanto elemento primario della vita psichica, primario nel senso che esso non è riducibile a quelle componenti isolate cui il vecchio associazionismo e il comportamentismo si riferivano, ma viene colto nell'esperienza fenomenologicamente data. In questo modo si indica non una strutturazione innata, ma piuttosto la complessa serie di interazioni soggetto-ambiente che arriva a costituire una sorta di ‛campo', nel senso che tale concetto ha in fisica. L'intelligenza quindi ristruttura continuamente tale campo e perciò può giovarsi di apprendimenti meccanici (quali quelli di stimolo-risposta dei comportamentisti vecchi e nuovi). La teoria del campo ebbe uno sviluppo particolare in K. Lewin, il quale la sviluppò anche per quanto riguarda gli aspetti dinamici della personalità che interagisce con altre in gruppi sociali di numero limitato.
L'attenzione verso il ‛piccolo gruppo', con tutte le implicazioni che esso comporta nell'ambito cognitivo e in quello non cognitivo, ha dato luogo a un capitolo di grande interesse della psicologia sociale, soprattutto americana (Lewin emigrò negli Stati Uniti all'inizio delle persecuzioni antisemitiche in Germania), la quale spesso si sovrappose a quella parte della sociologia che va sotto il nome di microsociologia o sociologia dei piccoli gruppi. Si tratta di impostazioni feconde di suggestioni e prospettive, specialmente per tutta la problematica educativa attenta a quelle forme di autogoverno presenti nel miglior ‛attivismo' europeo e americano.
Per quanto concerne i limiti e le forme dell'educazione infantile, nuovi orizzonti furono aperti dalla psicanalisi. Le novità riguardano soprattutto il fenomeno della rimozione, interpretato come il complesso interagire di mezzi che difendono l'uomo dall'inconscio, all'interno del quale si combattono tendenze contrastanti e si determinano i conflitti, e il fenomeno della proiezione che il soggetto compie sugli altri degli atteggiamenti e degli impulsi che lo angosciano. Un'influenza più diretta sull'educazione è stata esercitata successivamente anche dalle opere di autori quali M. Klein, che si occupò soprattutto di trattamenti terapeutici per bambini difficili, Anna Freud e R. Spitz, i quali, sulla base di studi iniziati prima della seconda guerra mondiale e portati poi avanti durante la guerra in istituzioni che ospitavano bambini nei primissimi anni di vita, rivelarono l'enorme importanza dei rapporti affettivi nella prima età del bambino per la formazione della sua personalità di base e soprattutto per il suo processo di identificazione con la figura materna.
La scoperta di dimensioni e prospettive nuove nello studio dello sviluppo infantile contribuisce alla formazione di un vero e proprio settore distinto d'indagine che sarà appunto quello della psicologia dell'età evolutiva che, come abbiamo visto, aveva ricevuto il suo primo impulso, alla fine dell'Ottocento, dall'opera di Hall. L'esigenza di stimolare gli educatori a trovare giuste dimensioni all'educazione individuale e a recuperare i cosiddetti ‛anormali' attraverso varie terapie e forme di rieducazione, contribuì a promuovere, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, una grande quantità e varietà di ricerche in questo settore. Particolarmente vivo in questa dimensione ‛pedagogica' fu ancora una volta il problema del rapporto tra innato e acquisito, tra natura e cultura. Tra il gran numero di autori, spesso legati a istituti e gruppi di ricerca, appaiono di particolare rilievo l'inglese S. Isaacs, l'americano A. Gesell e il tedesco K. Bühler. Ma certo la figura di maggior rilievo, che ancor oggi domina il panorama della psicologia dello sviluppo, è quella dello svizzero J. Piaget.
Piaget si è interessato prevalentemente dello sviluppo intellettuale del bambino dalla nascita all'adolescenza e ha individuato in questo sviluppo un processo di successive ‛equilibrazioni' che definisce il rapporto dinamico tra individuo e ambiente come un rapporto di continuità, in cui biologico e cognitivo si distinguono solo dialetticamente. Gli stadi dello sviluppo, rigidamente sequenziali, ma con possibili slittamenti rispetto all'età cronologica, sono quattro: sensorio motorio, rappresentazione preoperazionale, operazioni concrete, operazioni formali. Alle opere di indagine psicologica Piaget ha affiancato riflessioni sul rapporto psicologia-pedagogia e, dalla fine degli anni quaranta (il Traité de logique è del 1949), contributi a impostazioni logiche e prospettive biogenetiche che hanno portato alla creazione di quell'epistemologia genetica che rappresenta una delle direzioni più onginali della cultura filosofica attuale nello sforzo di integrazione tra scienze della natura, scienze sociali e riflessione teorica.
Mentre gli sviluppi della sociologia e della psicologia sembravano sempre più determinanti per chiarire i problemi posti dalla pedagogia (secondo l'impostazione deweyana di una doppia matrice, sociologica e psicologica, della pedagogia stessa), una scienza sociale di nuova formazione andò rapidamente prendendo piede e affermandosi anche per il contributo che era in grado di fornire alle teorie educative. Si tratta di quella disciplina che va sotto il nome di antropologia culturale (o, per alcune scuole, di antropologia sociale), sviluppatasi soprattutto dal tronco dell'etnologia che così notevole impulso aveva avuto nella seconda metà dell'Ottocento dallo studio delle civiltà primitive. Da tale filone di pensiero, dalla comparsa di alcune opere storiche tendenti a dare una descrizione inclusiva degli aspetti più diversi di alcune epoche, dallo studio della cosiddetta ‛cultura materiale' viene riproposto il concetto di cultura nel senso più ampio, che va da contenuti giuridicoistituzionali a forme di vita sociale, a particolari strumentazioni e tecniche, a valori e consuetudini educativi e così via. In una visione di questo genere un posto ovviamente di rilievo doveva avere l'analisi delle forme di trasmissione culturale, da quelle più immediate e involontarie, anche di tipo iconografico e segnico, a quelle rispecchiate in teorie e tecniche dell'educazione. Il rapporto tra nature e nurture, tra biologico e sociale, tra innato e acquisito divenne speciale centro d'interesse, almeno a livello descrittivo, ed ebbe parte determinante nell'opera di F. Boas (in particolare Anthropology and modem life, New York 1928), di R. H. Lowie (An introduction to cultural anthropology, New York 1934), di B. Malinowski (che nel 1927, ormai famoso per una serie di ricerche sul campo, ricoprì la prima cattedra di antropologia sociale all'Università di Londra), di R. Benedict (Patterns of culture, Boston 1934), di M. Mead ecc.
Dal complesso di queste ricerche, il cui pregio maggiore, e in qualche modo irripetibile, fu di fondarsi su comparazioni eccezionalmente significative fra culture anche molto diverse, però con base etnica identica così da mettere in crisi ogni loro esplicazione su base genetico-razziale derivò alla pedagogia una nuova consapevolezza dell'estrema plasticità della natura umana. Tale consapevolezza si rivelò atta a proteggerla dalle ricorrenti suggestioni deterministiche, quando non razzistiche, che le venivano da altre parti e soprattutto da un uso distorto dei risultati della psicometria applicata su larga scala, in particolare negli Stati Uniti. Al problema della trasmissione culturale portarono altresì notevoli contributi gli studi sul linguaggio che si svolgevano sia nella direzione della linguistica comparata, sia in quella dello sviluppo linguistico infantile (cfr. soprattutto M. M. Lewis, Infant speech, New York 1937) e del rapporto linguaggio-pensiero (v. Piaget, 1923; v. Vygotsky, 1934).
Si è già visto come Dewey occupi un posto di grande rilievo nell'ambito del pensiero pedagogico del Novecento; anche il fatto che la sua produzione si sia svolta lungo tutta la prima metà del secolo lo pone come punto di riferimento non solo per quanto riguarda la pedagogia in senso stretto, ma anche per l'impostazione teorica generale che può far considerare la sua filosofia come una filosofia dell'educazione. Ma il suo pensiero trovò proprio negli Stati Uniti negli anni intorno alla seconda guerra mondiale e soprattutto nel decennio successivo opposizioni diffuse e articolate. Uno dei centri da cui partirono critiche a quegli aspetti dell'educazione americana contemporanea che parevano ispirati appunto all'opera di Dewey fu l'Università di Harvard. Nel 1945 fu elaborato nel suo ambito un rapporto sugli ‟obbiettivi di un'educazione generale in una società libera", che tentava di mediare alcune posizioni di tipo deweyano con una rivalutazione della tradizione culturale occidentale e dei suoi valori ‛perenni'. Secondo il rapporto, non sono gli interessi attuali che devono essere assunti come suggerimento per gli apprendimenti, ma ‟è lo studio dell'eredità del passato che fornisce la prospettiva necessaria alla comprensione del presente e dà la possibilità di intendere problemi [...] che trascendono il tempo; [...] la tradizione che è giunta fino a noi circa la natura dell'uomo o della società buona deve inevitabilmente fornire la nostra norma del bene" (v. General education..., 1945, p. 51). Il Comitato che stese il rapporto era assai numeroso e composito, e non è possibile quindi trovare alla sua base una ‛filosofia' definita; ma certo i risultati dei suoi lavori sono abbastanza indicativi di quel processo di formazione di tendenze conservatrici che opereranno in forme sempre più pesanti nella vita culturale degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale.
Ad Harvard, dove si era rifugiato per sfuggire al nazismo, insegnò a lungo R. Ulich, un pedagogista che era stato ministro dell'Istruzione della Sassonia. Anche Ulich si opponeva a quanto nel pensiero e nella pratica educativa di origine deweyana considerava eccessivamente individualistico, antropocentrico, attivistico. Nella sua opera più interessante, Fundamentals of democratic education, Ulich scriveva: ‟Proporzionalmente alla diffusione dell'opinione secondo cui nell'educazione, come in ogni altro campo della vita, il fine è indefinibile o trascurabile, hanno guadagnato di importanza i metodi e i procedimenti, e può darsi che siano sostituiti al fine. Ma questa sostituzione si è sempre dimostrata fallace" (v. Ulich, 1940; tr. it., p. 187).
Ancora più esplicito il riferimento all'identificazione di fini che non si confondano con i mezzi, e di valori che non si confondano con i fatti, nella cosiddetta scuola di Chicago. I valori, per R. M. Hutchins, massimo rappresentante di questo gruppo, sono quelli della tradizione classica e cristiana che si trovano depositati nei ‛grandi libri' degli autori classici di tale tradizione. Queste posizioni saranno difese anche dai gruppi cattolici statunitensi rigorosamente fedeli al neotomismo, dottrina cui è legato anche il nome di uno dei più coerenti e rigidi ‛conservatori' in campo educativo, M. Adler. Sono prospettive che spostano nuovamente la pedagogia verso la filosofia dell'educazione, non tanto però nel senso che implichino per la pedagogia una qualche generale visione del reale, ma piuttosto nel senso che essa debba riferirsi essenzialmente a una concezione assiologica e porre in funzione subordinata tutto il resto. Il rapporto fatti-valori e mezzi-fini viene quindi risolto aprioristicamente secondo l'ipotesi di una loro distinzione e col postulato più o meno esplicito che valori e fini non possano in nessun modo configurarsi in forme naturalistiche.
Il rapporto tra la pedagogia e le altre scienze sociali presenta anche, in particolare in questi ultimi anni, altre prospettive fondamentali. Innanzi tutto va tenuto presente, a questo proposito, il diverso rapporto con la psicologia rispetto al movimento che aveva avuto inizio con i primi anni del secolo. Ci si orienta verso una maggiore utilizzazione della psicometria come strumento valido in sede educativa; l'uso dei metodi quantitativi continua a essere adottato in un'alta percentuale di indagini con finalità pedagogiche - soprattutto nell'area statunitense - in particolare in tutte le indagini in cui si prendono in considerazione un gran numero di variabili per campioni molto ampi (tipiche restano in questo caso l'indagine di L. Terman sul genio, cominciata nel 1925 e conclusa nel 1959, e l'indagine IEA, iniziata nel 1964 e conclusa nel 1973 con un primo bilancio sul profitto scolastico in 22 paesi del mondo), e nell'ambito di impostazioni specificamente sperimentali. Ma il rapporto tra psicologia e pedagogia, soprattutto negli anni sessanta e settanta, si muove anche in altre dimensioni. Si accentua ad esempio la già rilevata tendenza a utilizzare in sede educativa concezioni psicanalitiche e si tende ad attribuire al concetto ambiguo (ma largamente usato nella pedagogia del XX secolo) di ‛spontaneità' connotazioni scientificamente più salde, legate anche agli studi sulla ‛creatività'. Si approfondiscono inoltre gli studi inerenti al problema dei rapporti parentali (si veda per es. l'inchiesta sulla psicologia dei bambini separati dai nuclei familiari condotta da J. Bowlby nel 1950 per incarico dell'OMS), al problema dell'adolescenza (si veda soprattutto E. Erikson, Childhood and society, 1950, e il suo tentativo di integrare nella psicanalisi freudiana alcune delle conquiste degli studi antropologici sull'adolescenza), al problema del rapporto tra conscio e inconscio (si veda per es. l'utilizzazione pedagogica che ne ha fatto C. Rogers nella pedagogia ‛non direttiva'). Per altro verso si accentuano i rapporti tra pedagogia e psicologia sociale, con la rivalutazione in sede didattica e formativa delle attività di gruppo.
In questo processo di arricchimento delle tematiche e dei contenuti della pedagogia in senso psicologico, si riaffaccia il pericolo, talvolta non evitato nei primi anni del Novecento e in parte della pedagogia sperimentale, di una subordinazione della pedagogia alla psicologia, talvolta addirittura alla psichiatria in senso lato. Le aperture individualistiche dell'attivismo paiono da un lato aprire il varco a uno psicologismo di esito libertario, dall'altro restringere il sociale al gruppo informale, o legarlo a un generico comunitarismo, fatto per spegnere ogni tensione e responsabilità etico-politica. Sono problemi che non sempre arrivano a livello di chiarezza teorica, e il termine ‛pedagogia', già di per sè labile e nello stesso tempo composito, finisce in molti casi per confondersi con quello di teorie o pratiche psicologiche legate in modo più o meno stretto a pratiche di formazione.
Per altre scienze sociali il problema del rapporto con la pedagogia si presenta in forma più chiara, forse proprio perché nei riguardi di queste scienze la mediazione del discorso politico è più aperta. Le problematiche che emergono nel campo sociale danno vita alla sociologia dell'educazione, che oltre a occuparsi di quegli aspetti microsociologici che finiscono col coincidere con la psicologia dei piccoli gruppi, mette a fuoco problemi inerenti alla mobilità sociale, alla scuola come sistema, allo status sociale dell'insegnante, alle minoranze etniche emarginate, e così via. Nascono così i settori d'indagine sulla deprivazione culturale e il suo possibile recupero attraverso l'organizzazione scolastica e la sua azione educativa, e si pone il problema di una pedagogia che risponda anzitutto all'esigenza di rendere possibile ed efficace una trasmissione culturale in ambienti deprivati.
A questo punto vale la pena di sottolineare l'apporto dato a una ridefinizione del discorso pedagogico da Piaget, figura di grande rilievo nella psicologia di questo secolo non solo per le sue acquisizioni fondamentali nell'ambito della psicologia dell'età evolutiva, ma per la visione naturalisticoevolutiva e insieme storico-sociale che ha dell'uomo e della costruzione della cultura. La pedagogia per Piaget si costituisce all'interno di una visione generale della realtà vista nel complicato giro delle sue componenti; prova di questa ‛generalità', e non genericità, è il fatto che la quasi totalità degli innovatori nel campo delle dottrine pedagogiche sono stati filosofi, informatori religiosi o politici, psicologi e così via. È caratteristico il fatto che quando Piaget parla di pedagogia i suoi punti di riferimento sono non solo e non tanto quelli tratti dalla sua psicologia ma piuttosto quelli sociologici, politico-organizzativi di esperienza fattuale L'apporto della psicologia è quindi piuttosto che diretto mediato dalle considerazioni di esperienza da una visione solida mente democratica del diritto di ogni bambino all educazione, dalla considerazione che ogni individuo ha una propria storia di ‛costruzione' della sua esperienza della sua intelligenza, dei suoi valori, e che tra queste storie esistono analogie che ci permettono di parlare di stadi e di livelli di sviluppo.
Altri recenti approcci nel campo della pedagogia discendono da apporti iniziali di psicologi. J. S. Bruner, studioso della percezione, aveva richiamato con vigore l'attenzione sugli obiettivi cognitivi irrinunciabili in ogni serio processo formativo (The process of education, 1961), mentre B. F. Skinner aveva sviluppato un suo metodo di istruzione programmata fondata sul ‛comportamento operante', e lo aveva posto al centro di una concezione ‛tecnologica' dell'istruzione (The technology of teaching, 1968). Inoltre, il contemporaneo e impetuoso sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione utilizzabili anche in sede educativa (dalla televisione a circuito aperto e chiuso all'elaboratore munito di terminale) e l'affermarsi in molti campi degli approcci ‛sistemici' ai problemi complessi, anche di rilevanza sociopolitica, spinsero molti esperti non solo ad accentuare l'importanza delle nuove ‛tecnologie educative' per uscire dalle difficoltà della scuola di massa, ma addirittura a sviluppare teoricamente un concetto di ‛tecnologia educativa' (al singolare) come approccio sistematico e globale ai problemi educativi nel loro complesso, cioè come nuova pedagogia (cfr., per es., Educational technology in curriculum development, di D. Rowntree, docente della Open University inglese).
Non hanno invece pretese teoriche, anche se cercano spesso ispirazione negli sviluppi della psicanalisi in senso ‛non direttivo', le numerosissime esperienze di ‛scuole aperte' e ‛scuole alternative' sorte soprattutto in polemica con gli aspetti costrittivi e burocratici delle scuole correnti (v., per es., Rogers, 1951). In Francia la cosiddetta ‛pedagogia istituzionale' di ispirazione analoga tenta invece una conciliazione di Rogers con il marxismo e la ‛ragione dialettica' di Sartre (G. Lapassade, L'autogestion pédagogique, 1971), e talvolta riprende i motivi di fondo e anche alcune delle tecniche sviluppate da C. Freinet (La technique Freinet, 1937), che è stato in Europa il più serio e creativo innovatore di ispirazione marxista, chiaramente orientato a rompere gli schemi retorici e classisti dell'educazione corrente (cfr. anche Naissance d'une pédagogie populaire, 1949).
Alle esperienze ‛alternative' si collegano le tendenze ‛descolarizzatrici' generate anch'esse dalle tensioni e dai paradossi propri della scuola di massa (v. Illich, 1971). Ma nessuno di questi indirizzi, che pure hanno una parte importante nel caleidoscopio delle querelles pedagogiche più recenti, ha dato, né probabilmente può dare, un apporto veramente nuovo alla pedagogia come tale.
È significativo che una definizione del discorso pedagogico affondi oggi le sue radici in un modo diverso di considerare i rapporti tra teoria e prassi, tra valore e fatto, in ‛filosofie' quindi che, pur con elaborazioni e matrici culturali diverse, respingono l'ipotesi della possibilità per l'uomo di essere formato per valori che lo trascendano e alla cui costruzione egli non partecipi in quanto soggetto attivo e progettante. Secondo A. Visalberghi, una situazione di questo tipo si spiega con il fatto che ‟una filosofia del genere ha implicazioni assai ampie e relativamente precise sul piano educativo, ma non nel senso di proporre valori come modelli belli e fatti, ma nel senso di stimolare la più larga partecipazione e collaborazione nella costituzione storica dei valori; [...] essa viene ad assumere una funzione democratica, dove la chiarificazione del linguaggio comune e la precisazione dei significati assume un ruolo importantissimo, ma non meno importante è la critica delle assunzioni aprioristiche e l'utilizzazione dei dati scientifici acquisiti, e lo stimolo ad acquisizioni ulteriori sui punti controversi" (v. Visalberghi, 1977). Alle origini di una siffatta concezione della formazione di una filosofia o teoria dell'educazione come componente di base della pedagogia, la quale non è risolvibile quindi in una serie di apporti delle scienze sociali, stanno essenzialmente le analisi di Marx e Dewey. Per la posizione del primo, che alla pedagogia dedica solo pochi spunti, i piu importanti sviluppi, anch'essi però senza trattazioni specifiche e organiche, si trovano nelle riflessioni di Gramsci e Althusser; per quella del secondo, invece, oltre alle opere filosofiche e a quelle specificamente pedagogiche dello stesso Dewey, vi è una lunga serie di pensatori e di realizzatori che svolgono in diverse direzioni la sua concezione ‛filosofica' dell'educazione (S. Hook, 1946; v. Kilpatrick, 1951; v. Kallen, 1949).
Nel panorama attuale delle teorie pedagogiche si trovano ancora, naturalmente, filoni di pensiero che concepiscono la pedagogia come filosofia di valori di cui l'uomo non è artefice; in questa direzione si muovono, ad es., le correnti strettamente legate all'ortodossia religiosa, specie al cattolicesimo. Se alcune di queste correnti o tendenze hanno modificato la loro visione della pratica educativa, aprendosi da un lato a una visione pluralistica della cultura, dall'altro all'utilizzazione delle scienze dell'educazione, in esse permane tuttavia un uso strumentale degli apporti delle scienze e una determinazione estrinseca dei fini della pedagogia. Tale atteggiamento fondamentale si concretizza però in formulazioni diverse: Maritain, ad es., parla di una ‟carta democratica" intorno ad alcuni ‟dati fondamentali la dignità della persona umana, i diritti dell'uomo, la uguaglianza umana, la libertà, la giustizia, il rispetto della legge sui quali la democrazia presuppone un comune accordo", ma afferma che ‟nessun assenso comune può essere richiesto dalla società per ciò che riguarda le ‛giustificazioni' teoriche, le concezioni del mondo e della vita, i credo filosofici o religiosi, che fondano o pretendono di fondare i principi pratici della carta democratica" (v. Maritain, 1959; tr. it., pp. 51-52). F. Schneider si dimostra estremamente aperto all'utilizzazione delle scienze ausiliarie dell'educazione e alla rispettosa considerazione dei valori culturali delle diverse civiltà. La scuola di Lovanio, infine, è legata a un'impostazione sperimentalistica rigorosa che non intacca però affatto un'altrettanto rigorosa fedeltà all'ortodossia.
È da notare tuttavia che le difficoltà di superare nei termini tradizionali i conflitti e le tensioni che sorgono oggi in campo educativo producono anche all'interno del mondo cattolico figure di ‛riformatori' che pongono in modo drastico l'esigenza di risolvere alle radici i problemi socioeducativi pur senza intaccare l'ortodossia religiosa. Particolare rilievo assumono in tal senso l'opera di don Lorenzo Milani (Lettera ad una professoressa, 1969, da lui direttamente ispirata anche se presentata come lavoro dei suoi allievi), e quella del brasiliano P. Freire (Pedagogia do oprimido, 1968), intesa a fornire ai popoli sfruttati una via di riscatto attraverso un'alfabetizzazione autogestita e rivolta a determinare una ‛presa di coscienza' della propria condizione di oppressi.
bibliografia
Adler, M. J., Problem of species, New York 1940.
Agazzi, A., Il discorso pedagogico, Brescia 1963.
Banfi, A., L'uomo copernicano, Milano 1950.
Becchi, E., Problemi di sperimentalismo educativo, Roma 1969.
Bergson, H., Écrits et paroles (a cura di R. M. Mossé-Bastide), Paris 1957 (tr. it. parziale: Saggi pedagogici, Torino 1962).
Bertin, G. M., Educazione alla ragione, Roma 1968.
Bertin, G.M., Educazione e alienazione, Firenze 1973.
Binet, A., Les idées modernes sur les enfants, Paris 1909.
Blondel, M., L'action, Paris 1893 (tr. it.: L'azione, Firenze 1921).
Boas, F., Anthropology and modern life, New York 1928.
Bonboir, A., Une pédagogie pour demain, Paris 1974 (tr. it.: Una pedagogia per domani, Roma 1976).
Borghi, L., John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, Firenze 1951.
Boutroux, É., Questions de morale et d'éducation, Paris 1895 (tr. it.: Problemi di morale e di educazione, Firenze 1924).
Braido, P., La teoria dell'educazione e i suoi problemi, Zürich 1968.
Brubacher, J. S., A history of the problems of education, New York 1947.
Buyse, R., L'expérimentation en pédagogie, Bruxelles 1935.
Casotti, M., La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Firenze 1921.
Casotti, M., Esiste la pedagogia?, Brescia 1953.
Chrisman, O., Paidologie, Entwurf zu einer Wissenschaft des Kindes, Jena 1894.
Claparède, É., Psychologie de l'enfant et pédagogie expérimentale, Genève 1909; ed. postuma a cura di P. Bovet, Genève 1946-1947 (tr. it.: vol. I, Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale; vol. II, Pedagogia sperimentale. I metodi, Firenze 1956).
Claparède, É., L'école sur mesure, Lausanne 1920 (tr. it.: La scuola su misura, Firenze 1952).
Claparède, É., L'éducation fonctionnelle, Paris-Neuchâtel 1930 (tr. it.: L'educazione funzionale, Firenze 1971).
Clausse, A., Initiation aux sciences pédagogiques, Paris 1967 (tr. it.: Avviamento alle scienze dell'educazione, Firenze 1970).
Clausse, A., Philosophie et méthodologie d'un enseignement rénové, Liège 1972 (tr. it.: Filosofia e metodologia d'un insegnamento rinnovato, Firenze 1976).
Codignola, E., Le ‛scuole nuove' e i loro problemi, Firenze 1946.
De Bartolomeis, F., La pedagogia come scienza, Firenze 1953.
Debesse, M., Mialaret, G., Traité de sciences pédagogiques, 6 voll., Paris 1969 (tr. it.: Trattato delle scienze pedagogiche, Roma 1971).
Decroly, O., Buyse, R., Introduction à la pédagogie quantitative, Bruxelles 1929.
Demolins, E., À quoi tient la superiorité des Anglo-Saxons, Paris 1897.
Dewey, J., My pedagogic creed, New York 1897 (tr. it.: Il mio credo pedagogico, Firenze 1954).
Dewey, J., The school and society, Chicago 1899 (tr. it.: Scuola e società, Firenze 1949).
Dewey, J., Democracy and education, New York 1916 (tr. it. Democrazia e educazione, Firenze 1949).
Dewey, J., The sources of a science of education, New York 1929 (tr. it.: Le fonti di una scienza dell'educazione, Firenze 1951).
Dewey, J., Experience and education, New York 1938 (tr. it.: Esperienza e educazione, Firenze 1950).
Dewey, J., Logic, the theory of inquiry, New York 1938 (tr. it.: Logica, teoria dell'indagine, Torino 1949).
Dewey, J. e altri, Creative intelligence. Essays in the pragmatic attitude, New York 1917 (tr. it.: Intelligenza creativa, Firenze 1957).
Durkheim, É., Éducation et sociologie, Paris 1917 (tr. it.: La sociologia e l'educazione, Roma 1971).
Durkheim, É., L'éducation morale, Paris 1925.
Durkheim, É., L'évolution pédagogique en France, 2 voll., Paris 1938.
Freud, A., Psychoanalyse für Pädagogen. Eine Einführung, Bern 1935 (tr. it.: Psicoanalisi per educatori, Firenze 1972).
Freud, A., Burlingham, D. T., War and children, New York 1943.
General education in a free society. Report of the Harvard Committee, Cambridge, Mass., 1945.
Gentile, G., Pedagogia come scienza filosofica, 2 voll., Bari 1913; ed. riveduta, Firenze 19324.
Gramsci, A., Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino 1949.
Granese, A., La ricerca teorica in pedagogia, Firenze 1975.
Hessen, S., Moë Gisneopisanie. Russkaja Pedagogika v XX veke, Beograd 1938 (tr. it.: Autobiografia. La pedagogia russa del XX secolo, Roma 1956).
Husserl, E., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, I, II, III, den Haag 1950-1952 (tr. it.: Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino 1965).
Hutchins, R. M., The higher learning in America, New Haven 1936.
Hutchins, R. M., Education for freedom, Baton Rouge 1943 (tr. it.: Educazione alla libertà, Firenze 1963).
Illich, I., Deschooling society, New York 1971 (tr. it.: Descolarizzare la società, Milano 1972).
James, W., Talks to teachers on psychology, New York 1899.
James, W., Pragmatism. A new name for some old ways of thinking. Popular lectures on philosophy, New York 1907 (tr. it.: Saggi pragmatisti, Lanciano 1910).
Jonekheere, T., La science de l'enfant, Bruxelles 1909.
Kallen, H., The education of free men, New York 1949 (tr. it.: Educazione di uomini liberi, Firenze 1964).
Kilpatrick, W.H., Philosophy of education, New York 1951 (tr. it.: Filosofia dell'educazione, Firenze 1963).
Laberthonnière, L., Théorie de l'éducation, Paris 1901 (tr. it.: Teoria dell'educazione, Firenze 1937; nuova ed., Brescia 1958).
Lapassade, G., L'autogestione pédagogique, Paris 1971 (tr. it.: L'autogestione pedagogica, Milano 1973).
Lapassade, G., L'éducation negative, Paris 1971.
Lay, A. W., Experimentelle Pädagogik, Leipzig 1908.
Lay, A. W., Experimentelle Didaktik, Leipzig 1909.
Lombardo Radice, G., Il concetto dell'educazione e le leggi della formazione spirituale, Catania 1910.
Lombardo Radice, G., Pedagogia e critica didattica, Milano 1926.
Makarenko, A. S., Problema Skolnyavo Sovetskovo Vospitanija, Moskva 1938 (tr. it.: Pedagogia scolastica sovietica, Roma 19742).
Manacorda, M. A. (a cura di), Il marxismo e l'educazione, vol. I, Roma 1964.
Maritain, J., Education at the crossroads, New Haven 1943 (tr. it.: L'educazione al bivio, Brescia 1947).
Maritain, J., Vues thomistes sur l'éducation, in Pour une philosophie de l'éducation, Paris 1959 (tr. it. in L'educazione della persona, Brescia 1962).
Merleau-Ponty, M., Éloge de la philosophie, Paris 1953 (tr. it.: Elogio della filosofia, Torino-Milano-Padova 1958).
Metelli di Lallo, C., Analisi del discorso pedagogico, Padova 1966.
Meumann, E., Vorlesungen zur Einführung in die experimentelle Pädagogik, Leipzig 1913.
Montessori, M., Il metodo della pedagogia scientifica applicato all'educazione infantile nelle case dei bambini, Città di Castello 1909.
Montessori, M., Antropologia pedagogica, Milano 1911.
Montessori, M., Manuale di pedagogia scientifica, Napoli 1921.
Mounier, E., Qu'est-ce que le personnalisme?, Paris 1947 (tr. it.: Che cos'è il personalismo, Torino 1948).
Piaget, J., Le language et la pensée chez l'enfant, Paris 1923 (tr. it.: Il linguaggio e il pensiero nel fanciullo, Firenze 1965).
Piaget, J., La psychologie de l'intelligence, Paris 1947 (tr. it.: La psicologia dell'intelligenza, Firenze 1960).
Piaget, J., Introduction à l'épistemologie génétique, 3 voll., Paris 1950.
Piaget, J., Six études de psychologie, Paris 1964 (tr. it.: Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Torino 1967).
Piaget, J., Sagesse et illusion de la philosophie, Paris 1965 (tr. it.: Saggezza e illusioni della filosofia. Caratteri e limiti del conoscere filosofico, Torino 1969).
Piaget, J., Le structuralisme, Paris 1968 (tr. it.: Lo strutturalismo, Milano 1971).
Piaget, J., Psychologie et pédagogie, Paris 1969 (tr. it.:Psicologia e pedagogia, Torino 1970).
Piaget, J., L'épistémologie génétique, Paris 1970 (tr. it.: L'epistemologia genetica, Bari 1970).
Piaget, J., L'équilibration des structures cognitives, Paris 1975.
Planchard, E., L'investigation pédagogique, Louvain 1943 (tr. it.: La ricerca in pedagogia, Brescia 1962).
Planchard, E., La pédagogie scolaire contemporaine, Louvain 1948 (tr. it.: La pedagogia della scuola, Brescia 1953).
Rogers, C., Client-centered therapy: its current practice implications, and theory, Boston 1951 (tr. it.: La ‛terapia centrata sul cliente'. Teoria e ricerca, Firenze 1970).
Santoni Rugiu, A., Crisi del rapporto educativo, Firenze 1975.
Schneider, F., Die Selbsterziehung, Einsielden, Köln 1936 (tr. it.: L'autoeducazione, Brescia 1956).
Schneider, F., Einführung in die Erziehungswissenschaft, Graz 1948 (tr. it.: Introduzione alla scienza dell'educazione, Brescia 1957).
Schuyten, M.C., La pédologie, Gand 1911.
Sciacca, M. F., La filosofia oggi, Milano 1958.
Simon, J., Pédagogie expérimentale, Paris 1924.
Skinner, B. F., The behavior of organism, New York 1938.
Skinner, B. F., Science and human behavior, New York 1965 (tr. it.: Scienza e comportamento, Milano 1971).
Spitz, R., Are parents necessary?, in Medicine in the postwar world, New York 1948.
Stefanini, L., Personalismo sociale, Roma 1952.
Ulich, R., Fundamentals of democratic education, New York 1940 (tr. it.: Fondamenti dell'educazione democratica, Firenze 1954).
Visalberghi, A., I problemi della ricerca pedagogica, Firenze 1965.
Visalberghi, A., Filosofia dell'educazione, in ‟Scuola e Città", 1977, XXVIII, 12, pp. 524-525.
Vygotsky, L. S., Izbrannyie psichologiceskij isslédovanija (a cura di A. N. Leont'ev e A. R. Lurija), Moskva 1934 (tr. it.: Pensiero e linguaggio, Firenze 1966).
Whitehead, A. N., The aims of education, London 1929 (tr. it.: I fini dell'educazione, Firenze 1959).