TOLEDO, Pedro Álvarez
de. – Nacque ad Alba de Tormes in Castiglia nel 1480, secondogenito del secondo duca d’Alba, Fadrique, e di Isabel de Zúñiga.
Nel luogo natale ricevette la formazione consueta dei nobili del suo tempo, basata sulla tradizione cavalleresca e sul culto del lignaggio, poi proseguita come paggio di corte di Fernando il Cattolico di cui suo padre, all’interno dell’aristocrazia castigliana, fu sempre il più solido sostegno. Il secondo duca d’Alba fu anche l’artefice del matrimonio del figlio con la seconda marchesa di Villafranca, Maria Osorio Pimentel (nata nel 1490), che, orfana e ancora bambina, aveva bisogno di un forte appoggio per far valere i propri diritti di successione. Gli accordi matrimoniali furono suggellati tra il duca d’Alba e la nonna paterna della promessa sposa, María Pacheco, il 30 gennaio 1503, e le nozze si celebrarono ad Alba de Tormes l’8 agosto dello stesso anno. Nei primi anni del Cinquecento Toledo si impegnò nel consolidare e riordinare i possessi signorili assicurando al tempo stesso la sua partecipazione a imprese militari, come la campagna del Rosellón nel 1503 di cui don Fadrique fu capitano generale, o come quella della conquista di Navarra, nel 1512, ancora accanto al padre.
Dall’arrivo in Spagna di Carlo I (1516) Toledo avrebbe trascorso la maggior parte degli anni successivi presso la corte. Nel 1518 accompagnò suo padre quando quest’ultimo condusse fino alla frontiera portoghese l’infanta Eleonora, sorella del monarca, che andava sposa al re Manuel. Nel 1519, da Barcellona dove erano al seguito del signore di Chièvres e dopo che si era saputo dell’elezione imperiale, il duca d’Alba e i suoi figli si recarono con Carlo V fino a La Coruña per imbarcarsi alla volta delle Fiandre e della Germania. Toledo fece parte del seguito imperiale fino al rientro dell’imperatore in Spagna nel mese di luglio 1522.
Nel corso del 1523 la sua permanenza presso la corte sembra essere stata continua: ne seguì infatti gli spostamenti fino a Pamplona nel mese di settembre, quando l’imperatore decise di accerchiare la località di Fuenterrabía, occupata dal 1521 dai francesi. Il 6 aprile 1526 Carlo V autorizzò i marchesi di Villafranca a istituire un maggiorasco primogeniturale che vincolava tutti i beni. Nel 1529 Toledo accompagnò l’imperatore nel suo viaggio in Italia. In quegli anni lo stretto rapporto con il segretario imperiale, Francisco de los Cobos, sposato con una sua lontana cugina, e quello con Nicolás Perrenot de Granvelle furono decisivi nello spingere l’imperatore nel 1532, da Ratisbona, a concedergli l’ufficio di viceré di Napoli.
Toledo fece il suo solenne ingresso a Napoli il 4 settembre. Nel suo viaggio da Ratisbona, passando per Venezia, Mantova, Firenze e Siena, aveva fatto sosta a Roma. Qui visitò i principali cardinali della fazione imperiale, uno dei quali, García de Loaysa, antico confessore dell’imperatore, supervisore della situazione napoletana e artefice, con Cobos, della nomina del viceré, gli consegnò dettagliate istruzioni private su come comportarsi con le istituzioni e i gruppi sociali del Regno e, in modo speciale, con la nobiltà, preparandolo alla conoscenza del cerimoniale e del linguaggio simbolico della corte.
L’arrivo di Toledo significò il ritorno al governo vicereale dei nobili castigliani, dopo decenni di presenza aragonese e fiamminga. Sebbene la presenza catalana e aragonese nel Regno continuasse a essere significativa, come mostra il ruolo di figure quale quella del tesoriere Alonso Sánchez o del reggente di Cancelleria Jerónimo Coll, il governo di Pedro de Toledo, che, destinato a durare fino al 1553, sarebbe stato il più lungo di tutto il periodo vicereale, introdusse nella scena italiana una delle reti familiari più influenti della monarchia di Spagna in tutto il Cinquecento. Il prestigio, le risorse patrimoniali e la coesione fra i due rami del lignaggio dei Toledo – quello secondario dei Villafranca, rappresentato dal viceré, e quello principale guidato dal nipote, Fernando Álvarez de Toledo, terzo duca d’Alba – si rafforzarono via via attraverso un’abile strategia matrimoniale.
Toledo pianificò con attenzione il matrimonio dei suoi figli. Fadrique, l’erede, nato intorno al 1510, giunse a Napoli probabilmente poco dopo suo padre. Già nel 1533 partecipò a una spedizione marittima in soccorso della guarnigione spagnola di Corone in Grecia e nel 1535, insieme al fratello García, che aveva anch’egli intrapreso la carriera militare, fu al seguito di Carlo V nella campagna di Tunisi. Fadrique sposò in prime nozze con dispensa papale la zia Inés Pimentel rafforzando così la coesione del lignaggio e alleandosi con i potenti Pimentel. García, futuro quarto marchese di Villafranca e continuatore della politica di suo padre in Italia, sposò in seconde nozze nel 1552 Vittoria Colonna, nipote dell’omonima marchesa di Pescara. Delle quattro figlie, la maggiore, Giovanna, e la secondogenita Anna andarono spose ad aristocratici spagnoli prima dell’insediamento di Toledo a Napoli. Quando la moglie del viceré, Maria Osorio, giunse in città nel 1534 fu accompagnata soltanto dalle due figlie minori, Isabella ed Eleonora, e dal terzogenito Luis, nato intorno al 1520. Quest’ultimo, educato agli studi umanistici e giuridici dal suo precettore Girolamo Borgia, fu inizialmente destinato alla carriera ecclesiastica.
Maria Osorio, che svolse almeno in un’occasione il ruolo di reggente – durante l’assenza di don Pedro partito per la campagna contro i turchi in Puglia, tra luglio e ottobre del 1537 –, morì a Napoli nell’ottobre del 1539. In quello stesso anno Toledo, attraverso il matrimonio della figlia Eleonora con Cosimo I, duca di Firenze, suggellò una stretta alleanza con i Medici, cruciale per la tenuta politica del sistema spagnolo in Italia.
Isabella dovette aspettare fino al 1540 per vedere compiuto il suo destino all’interno della strategia familiare che si concretizzò con il suo matrimonio con Giovan Battista Spinelli, duca di Castrovillari, esponente di un alto lignaggio della nobiltà del Regno che avrebbe appoggiato la politica di riforme del viceré. Tuttavia, l’alleanza dei Toledo con gli Spinelli sarebbe stata attraversata anche dalla relazione del viceré con la sorella di suo genero, Vincenza, che divenne la sua amante alla morte della prima moglie. Toledo sposò Vincenza Spinelli l’8 gennaio 1552.
Questa traiettoria familiare è inseparabile dal processo di governo. Lo scarto tra le condizioni del Regno di Napoli e le necessità generali della monarchia che determinò la nomina di Pedro de Toledo conferì al suo mandato un carattere eccezionale che rafforzò i poteri del viceré. I diversi livelli dell’amministrazione, la giustizia e il governo della capitale e delle province si videro sottomessi a una riforma che aumentò la dipendenza – legale in alcuni casi, personale o clientelare in altri – dal viceré e, in sintesi, introdusse un nuovo senso dell’ordine e dell’autorità che tendeva a livellare i diversi segmenti sociali sotto il dominio della Corona. Con l’appoggio imperiale, Toledo sviluppò un’audace politica di sottomissione della nobiltà che, a sua volta, mise in funzione i fondamenti giuridico-istituzionali della resistenza nel processo di trasformazione del feudo in strumento di dominio della Corona. Nonostante le tensioni, il Regno si consolidò come la più salda e sicura base delle operazioni di Carlo V in Italia, grazie ai donativi straordinari concessi dai parlamenti sotto la pressione del viceré e all’efficace politica militare sviluppata da questi per organizzare la difesa delle coste attraverso un ambizioso programma di fortificazioni, al quale parteciparono celebri architetti militari.
L’evoluzione del lungo mandato di Toledo permette di distinguere quattro tappe. Tra il 1532 e il 1536 le prime misure vicereali scatenarono tensioni, che sarebbero culminate nel 1533 con gravi tumulti nella capitale contro l’istituzione di nuovi tributi su prodotti di consumo quotidiano per finanziare il miglioramento dell’assetto urbanistico. Contemporaneamente, a partire dal 1534, si concretizzò una crescente opposizione aristocratica, diretta dal marchese del Vasto, Alfonso d’Ávalos, dal principe di Salerno, Ferrante Sanseverino e dal principe di Melfi, Andrea Doria. La visita di Carlo V, nell’autunno-inverno del 1535-36, nella quale l’opposizione propose infruttuosamente la sostituzione del viceré, implicò un primo momento di riflessione sulla crisi provocata da queste reazioni alla condotta di Toledo. Ma la crisi fu superata con il rilancio delle sue iniziative politiche e culturali, avvenuto con la collaborazione di alcuni dei più attivi esponenti delle lettere spagnole e italiane – come i poeti Garcilaso de la Vega e Luigi Tansillo – che gravitavano attorno alla sua corte.
Un secondo momento è individuabile tra il 1536 e il 1541, quando un’intensa attività di riorganizzazione interessò le principali strutture politiche e sociali del Paese. Furono intraprese grandi opere pubbliche, sia in ambito urbanistico sia in quello della difesa e della fortificazione, nella capitale e nelle province. Il trionfo di Toledo nella difesa della Terra d’Otranto dall’attacco turco, nel 1537, rafforzò il suo prestigio, sebbene in questi anni, poiché persistevano focolai di opposizione, ebbero luogo la visita del vescovo Pedro Pacheco (1536) e nel mese di marzo del 1540 l’ambasciata degli Eletti della capitale alla corte imperiale per esporre nuove rimostranze.
Intorno al 1541 è possibile datare l’inizio di una nuova tappa che si sarebbe conclusa nel 1547. Nel 1541 si stabilì a Roma il cardinale Juan de Toledo, fratello minore di don Pedro, la cui influenza spirituale sulla famiglia andò crescendo. Durante quest’anno altre vicende rafforzarono l’ondata di intransigenza religiosa che investì la corte imperiale anche a causa dell’insuccesso sia delle Diete tedesche sia della campagna contro Algeri. Nel mese di luglio morì l’eterodosso Juan de Valdés, stabilitosi nel Regno dal 1535, le cui relazioni con il potere avevano agito come strumento di contenimento nicodemista rispetto agli orientamenti più radicali di molti dei suoi seguaci. Nel mese di settembre Toledo incontrò Carlo V a La Spezia e il viceré fu confermato nella sua carica, nonostante la grave crisi sorta a seguito della visita a lui non favorevole di Pacheco. Nel mese di ottobre avvenne l’espulsione definitiva degli ebrei dal Regno come conseguenza dei ripetuti ordini imperiali. Nello stesso mese Carlo V rafforzò l’autorità di Toledo emarginando i nobili all’interno del Consiglio collaterale. Nel 1541 fu soppressa la cattedra di scienze umanistiche dello Studio della capitale, evento interpretato come l’inizio di un processo di chiusura culturale, a cui seguirono nel febbraio 1543 la sospensione dell’umanista Scipione Capece dall’Università con l’accusa di eresia, la soppressione delle riunioni della prestigiosa Accademia Pontaniana, che si tenevano presso l’abitazione di Capece e, nell’ottobre del 1544, il primo editto vicereale di censura. Queste misure rispondevano alle nuove direttive religiose della Curia romana e dei circoli imperiali e a esse non era estranea la presenza a Roma del cardinale Juan de Toledo, membro dal 1542 dell’Inquisizione.
In questo periodo si intensificò anche il rinnovamento urbanistico e istituzionale, con il trasferimento nel 1540 dei tribunali regi a Castel Capuano e l’ampliamento della città. L’inizio della costruzione delle nuove muraglie interne nel 1543 fu l’avvio della più ambiziosa riforma urbanistica intrapresa in Europa nel corso di tutto il secolo. Si assunse come asse la nuova via Toledo con la zona adiacente dei Quartieri spagnuoli, il cui tracciato ortogonale doveva ospitare le truppe spagnole; si moltiplicarono le fondazioni assistenziali collegate alle istituzioni religiose. Già nel 1539 era stato fondato il primo Mons Pietatis, iniziativa collegata alla espulsione degli ebrei, mentre il viceré imponeva nuovi statuti all’ospedale degli Incurabili, con l’intento di intervenire nella gestione di questa importante istituzione. Nel 1540 si ricostruì la chiesa dell’Annunziata, all’interno di un programma di potenziamento di un altro grande centro ospedaliero, mentre iniziavano i lavori di edificazione della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, asse di un complesso edilizio per la colonia spagnola cui si aggiunse nel 1547 un nuovo ospedale. Nel 1546 si ricostruì l’orfanotrofio per le giovani abbandonate e nel 1549 si istituì la Santa Casa della Redenzione dei Cattivi.
L’ultima tappa del mandato toledano andò dal 1547 al 1553. La ribellione che ebbe come protagonisti tutti i ceti della capitale – con ampie ripercussioni nelle province – comportò, nel 1547, una seconda e molto più grave crisi generale che, riunendo tutti i settori dell’opposizione a Toledo andò oltre la motivazione iniziale di contrastare la presunta volontà del viceré di stabilire l’Inquisizione ‘al modo di Spagna’. Toledo, che si trovava nella sua residenza di Pozzuoli, ricostruita a seguito di un terremoto nel 1538, fu sorpreso dallo scoppio della rivolta. Rientrò a Napoli il 12 maggio e, di fronte all’estensione del tumulto, fece chiamare una compagnia di tremila soldati spagnoli alloggiati nelle vicinanze di Napoli, concentrandoli a Castel Nuovo, antica residenza reale che, grazie a recenti opere di fortificazione, era stata convertita in una moderna cittadella. Pochi giorni dopo una spedizione punitiva nella zona vicina a rua Catalana avrebbe scatenato ancora di più l’odio della popolazione. Si sommarono così due grandi conflitti che erano andati crescendo durante gli anni precedenti: quello politico, che opponeva il viceré alla maggior parte della nobiltà, e il conflitto sociale che divideva i contingenti militari spagnoli dal popolo della capitale, così come già era stato evidente in occasione del gran tumulto originato nel 1537 dall’arrivo di tremila reclute. La combinazione di entrambi i fattori produsse un’esplosione di violenza senza precedenti. La riforma urbanistica di Napoli, in gran parte conclusa, permise al viceré di disporre di un ampio spazio vuoto attorno a Castel Nuovo, in cui era facile disperdere la concentrazione della folla, mentre la ricostruzione dei principali forti della capitale – specialmente quello di S. Elmo – gli metteva a disposizione una posizione privilegiata per schiacciare i suoi abitanti. Il bombardamento da lì dei quartieri popolari, insieme agli spari dalle galee ancorate al porto costituì uno dei primi esempi di assoggettamento moderno di una popolazione urbana.
Dopo i primi scontri armati e dopo la decisione di inviare due ambasciate all’imperatore, si giunse a una tregua formale. La maggior parte dei nobili titolati giurarono la loro solenne unione al popolo, sancita da un atto notarile nel quale si affermava il diritto della città e del Regno a non riconoscere Toledo come viceré. Allo stesso tempo giunsero rinforzi dalla provincia per porre fine alla resistenza spagnola nel centro della città. Alla fine Carlo V ordinò che il principe di Salerno, rappresentante della città, restasse a corte al suo fianco, fino al ricevimento di nuovi ordini, mentre l’altro legato dei ribelli, Placido de Sangro, ritornò a Napoli il 7 agosto. L’imperatore simulò un moderato compromesso. I ribelli dovevano congedare le truppe, consegnare tutte le armi – incluse quelle che legalmente appartenevano al governo municipale –, obbedire a tutti gli ordini del viceré e pagare un indennizzo di 100.000 ducati. In cambio, si ratificava alla capitale il titolo di Fidelissima, si confermava la non introduzione dell’Inquisizione e si concedeva un indulto generale dal quale rimanevano esclusi i ventinove capi più in vista della rivolta. Il tentativo dei nobili e del populo grosso di limitare legalmente le azioni del viceré, attraverso il ricorso diretto all’imperatore, era fallito. Gli ordini del sovrano finirono per annullare l’opposizione più radicale e completarono il lavoro di divisione tra i segmenti ribelli tentata da don Pedro. Sin dall’inizio i nobili prospettarono la sua destituzione come una necessità costituzionale e lo accusarono di aver cercato di ‘pervenire ad un assoluto dominio’ attraverso l’espulsione dei nobili dal Consiglio collaterale. Ma, nonostante fosse stata sconfitta, l’opposizione antivicereale sopravvisse all’interno della maggioranza degli alti lignaggi e di certi circoli giuridici e intellettuali napoletani.
L’episodio del 1547 radicalizzò le posizioni in un panorama imperiale aggravato dall’inizio della crisi generale degli ultimi anni del regno di Carlo V. La tensione politica rimase forte fino alla morte di don Pedro e si riflesse nei parlamenti degli anni finali del suo governo. Dopo la chiusura – all’apparenza solo provvisoria – delle accademie sorte l’anno precedente attorno ad alcuni nobili ribelli come il principe di Salerno, alla fine del 1547 l’eletto del popolo fu destituito e questo incarico fu posto sotto il controllo vicereale. Il viceré impose con forza i suoi sostenitori tanto nel governo municipale quanto nelle sessioni successive del Parlamento, e chiese all’imperatore di limitare i privilegi della capitale, mentre procedeva a epurare l’amministrazione, intentando processi giudiziari sia contro i ribelli sia contro gli abusi feudali. Furono anni critici, nei quali l’ossessione per l’imminenza di un grande attacco turco, le denunce e i processi per tradimento o eresia si succedettero senza sosta e culminarono nella defezione del principale rappresentante dell’opposizione aristocratica, il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, il cui passaggio al partito francese aumentò ancora di più la particolare sensazione di assedio vissuta a Napoli e nell’Impero nel 1552.
Alla fine di quest’anno il viceré ricevette l’ordine imperiale di marciare contro la Repubblica di Siena, che aveva espulso la guarnigione spagnola lì stabilita. È possibile che l’imperatore considerasse opportuno allontanare il battagliero Toledo dal Regno, almeno temporaneamente, benché il continuo appoggio alla sua politica renda improbabile l’ipotesi di un autentico intento di destituzione. Da anni, don Pedro – che nel 1543 aveva appoggiato insieme a suo fratello, il cardinale Juan de Toledo, la restituzione delle fortezze occupate dagli imperiali a suo genero Cosimo de’ Medici – aveva seguito con massima attenzione gli avvenimenti senesi e aveva manifestato forti discordanze con Diego Hurtado de Mendoza sul modo di incanalare la rivolta della Repubblica, in accordo con le critiche anche formulate dal duca di Firenze. Entrambi difendevano una politica più coerente ed energica, nonostante non sembri che don Pedro appoggiasse in modo incondizionato i desideri di Cosimo di incorporare il territorio di Siena. In ogni caso, Toledo fu il maggiore sostenitore di un’operazione di repressione contro la Repubblica.
Nelle trattative precedenti la guerra i figli del viceré svolsero un ruolo importante, diplomatico nel caso di Luis e militare nel caso di García. Prima di partire, il 4 gennaio 1553, il viceré comunicò alle città del Regno la nomina di suo figlio Luis a luogotenente. Agli inizi di gennaio García era partito via terra con il grosso dell’esercito. Il 7 gennaio Toledo s’imbarcò a Napoli nelle trenta galee inviate da Andrea Doria, suo antico rivale, con duemilacinquecento fanti spagnoli e un grande seguito. Don Pedro portò infatti con sé la sua nuova sposa Vincenza Spinelli e la maggior parte della sua corte abituale a Napoli. L’impresa avveniva, tuttavia, in un momento in cui le relazioni dell’Impero con Firenze si erano deteriorate. Poco prima, Cosimo I aveva ricevuto con grandi onori Ippolito d’Este, cardinale di Ferrara e rappresentante del re di Francia, vicenda che aveva scatenato i sospetti della duchessa Eleonora e del suo entourage spagnolo. L’arrivo di Toledo a Livorno con un grande esercito non fu accolto con gioia né da Cosimo né dalla maggioranza dei fiorentini. Il duca rafforzò la guarnigione di Pisa, dove sbarcò don Pedro, che vide in queste misure un grave segno di sfiducia. Da queste diffidenze sarebbe sorta la leggenda della presunta intenzione del viceré di avvelenare suo genero, che, a sua volta, servì per attribuire a quest’ultimo la responsabilità della morte del suocero, sebbene, una volta giunto a Firenze il 22 gennaio, don Pedro avesse ricevuto segni di collaborazione economica e militare da parte di Cosimo.
Paralizzato da un attacco d’asma, il viceré rimase a Palazzo Vecchio per un mese, fino alla sua morte, il 22 febbraio 1553. Fu seppellito velocemente nella cattedrale fiorentina e il gran sepolcro classicheggiante realizzato nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli di Napoli dallo scultore napoletano Giovanni da Nola, con le statue in preghiera di don Pedro e della sua prima moglie, rimase vuoto. Né la salma sarebbe stata mai trasferita nella nuova collegiata di Villafranca del Bierzo alla quale, in principio, il sepolcro era stato destinato.
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