Pelagio II
Nato a Roma da una famiglia di origine germanica, forse gota, come suggerisce il nome del padre Vnigildus, P. succedette a Benedetto I, dopo una vacanza di quasi quattro mesi, domenica 26 novembre 579, secondo la cronologia stabilita da L. Duchesne. Le disastrose congiunture politiche che segnarono l'intero corso del suo pontificato, all'atto della sua consacrazione non consentirono di chiedere l'approvazione preliminare dell'imperatore Tiberio. I Longobardi, stanziati nell'Italia settentrionale dal 568, si erano di nuovo costituiti in regno, dopo alcuni anni di dissensi tra i duchi insediati in questi territori. Sotto la guida del nuovo re Autari avevano tentato di proseguire nella conquista della penisola e, secondo il Liber pontificalis, unica fonte a menzionare l'episodio, al momento della morte di Benedetto erano impegnati nell'assedio di Roma. Le relazioni con Bisanzio erano di fatto sospese, ma l'interruzione fu temporanea, come è attestato dalle notizie, seppur esigue, disponibili. Quando salì al soglio pontificio, P. convinse Gregorio, il quale dal 575 aveva abbandonato la vita pubblica per ritirarsi nella residenza di famiglia sul Celio trasformata in monastero, ad entrare al servizio della Chiesa romana come diacono. Alla fine di quell'anno il futuro papa partì alla volta di Costantinopoli per svolgere le funzioni di apocrisario, circostanza che testimonia come l'isolamento di Roma si fosse almeno in parte allentato. Tuttavia le apprensioni connesse alla situazione militare dominarono i primi anni del pontificato di Pelagio. Nel 580 le relazioni con il Regno franco furono riallacciate non senza difficoltà. Il papa si rivolse ad Aunario, vescovo di Auxerre, che non poteva raggiungere Roma a causa dei movimenti dei barbari. Confermò che il paese era devastato dalla guerra e inviò delle sacre reliquie destinate al vescovo e al re franco cattolico Childeberto II, chiedendo inoltre al primo di sollecitare un intervento militare dei Franchi contro i Longobardi. Nella sua lettera il papa descriveva la desolante situazione della penisola, evocando il sangue versato, gli altari abbattuti, la fede cattolica oltraggiata dagli idolatri. Nel 584 P., attraverso il "notarius" Onorato e il vescovo Sebastiano, inviò una lettera al suo apocrisario Gregorio, che fu incaricato di avvertire l'imperatore dei pericoli che minacciavano l'Italia, per ottenere l'appoggio dei Bizantini contro i Longobardi. Il papa parlava del tradimento dei Longobardi, che avevano violato i loro giuramenti, riferendosi senz'altro con queste parole alla restaurazione del Regno. Poiché il patrizio Decio, rappresentante in Italia dell'autorità imperiale, aveva dichiarato di trovarsi nell'impossibilità di difendere Roma, P. incaricò Gregorio di chiedere all'imperatore l'invio di un "magister militum" e di un "dux" per la regione di Roma. Si noti che questa lettera rappresenta la prima attestazione della funzione di esarca in Italia. P., che fu anche il primo a definire i Longobardi "nefandissima gens", espressione che diventò in seguito quasi idiomatica, rivendicava in tal modo la difesa degli interessi imperiali nella penisola. Nel 585, dopo alcuni tentativi militari infruttuosi, l'esarca Smaragdo, subentrato al patrizio Decio, concluse con Autari una tregua triennale, che consentì a P. di dedicarsi ad impegni più specificamente ecclesiastici. Nel 586 o 587 il papa ricevette una lettera da Aunario di Auxerre, che l'aggiornava in merito ai progressi della fede e alla costruzione di numerose nuove chiese raccomandandosi alla preghiera del papa. P. gli rispose rallegrandosi per la prosperità della Chiesa e domandò, a sua volta, al vescovo di pregare affinché il Signore assistesse i Romani nelle angustie che li tormentavano. Forse in questo stesso periodo P. ebbe contatti con le Chiese africane. In data ignota ricevette tramite il "chartularius" Ilario una petizione dei vescovi di Numidia, in cui gli veniva chiesto di convalidare le antiche consuetudini peculiari della loro provincia. P. rispose positivamente alla richiesta, che tra l'altro riguardava le procedure per accedere all'episcopato. Il papa richiamò Gregorio a Roma da Costantinopoli nel 585 o 586, per sostituirlo nella carica di apocrisario con il diacono Onorato. Consentì a Gregorio di tornare alla vita monastica, pur continuando a servirsene quale consigliere. Un passo dei Dialoghi di Gregorio fissa il ricordo delle conversazioni fra il pontefice e il suo diacono, evocando l'eremita Martino, vissuto in Campania sul monte Marsico. Nel 585, oltre vent'anni dopo la morte di Pelagio I, il papa cercò di restaurare la comunione romana con le Chiese dell'Italia settentrionale, rimaste separate in nome della fedeltà alla causa dei Tre Capitoli condannati nel 553 dal secondo concilio di Costantinopoli. Nel 574 il vescovo di Milano, rifugiatosi a Genova sotto l'urto dell'invasione longobarda, si era riconciliato con Roma, ma molte Chiese della Liguria e della "Venetia et Histria" riunite attorno al patriarca di Aquileia persistevano nella loro dissidenza. Quando riavviò il dialogo con i sostenitori dei Tre Capitoli, P. si trovò alle prese con Chiese poco numerose ma separate da Roma da tre generazioni di vescovi. Come il suo lontano predecessore, P. cercò di difendere la propria ortodossia che appariva sospetta agli occhi degli scismatici. Approfittando della tregua con i Longobardi, il papa mandò in legazione il vescovo campano Redento di Ferentino e Quodvultdeus, abate di un monastero romano, affinché fossero latori di una prima lettera. Il tono di questa lettera, la moderazione del pontefice, sia nella sostanza (non vengono menzionati né i Tre Capitoli né la parola scisma) che nella forma (in contrasto con l'asprezza delle ultime lettere di Pelagio I), rivelano un'evoluzione della politica papale. Nel 574 papa Giovanni III aveva preteso dall'arcivescovo di Milano Lorenzo un impegno preciso, con cui la Chiesa milanese veniva a perdere alcuni dei suoi antichi privilegi, e il prelato aveva dovuto recarsi a Roma per sottoscriverlo di fronte alle autorità locali. Dopo oltre dieci anni di conflitto, le pretese romane si erano dissolte. La procedura di riconciliazione si era estremamente semplificata: non era necessario che il vescovo di Aquileia si spostasse dalla sua sede, né si reclamava una condanna dei Tre Capitoli. Dopo alcune frasi introduttive, per giustificare il ritardo con cui scriveva ad Elia, vescovo di Aquileia, chiamato "dilectissimus frater", P. lanciava un pressante appello all'unità, poiché la ferita di un arto è causa di sofferenza per l'intero corpo. I vescovi dovevano riconciliarsi con Roma per una ragione semplice: "Considerate, charissimi, quia ueritas mentiri non potuit, nec fides Petri in aeternum quassari poterit uel mutari". Il papa, nelle sue argomentazioni, si richiamava a Luca 22, 31: Satana aveva messo alla prova i vescovi, seminando il dubbio nelle loro anime, ma Gesù aveva pregato specialmente per Pietro e i suoi successori, e ciò avrebbe dissipato qualsiasi sospetto a loro carico. Il pontefice presentava in seguito una professione di fede molto simile a quella di Pelagio I, in cui proclamava la sua adesione alla fede degli apostoli e ai quattro concili ecumenici di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia, omettendo il secondo concilio di Costantinopoli. Dopo aver anatemizzato senza ulteriori specificazioni tutti gli eretici, dedicava un paragrafo agli eventuali sospetti nutriti dai vescovi dell'Italia settentrionale: "Orbene, non dovete accettare di essere turbati da falsi sospetti o da voci e di persistere nella divisione della Chiesa, istigati da uomini malvagi (il Signore ce ne guardi!). Che cosa può separarvi dall'unità della Chiesa? Quando sapete che nulla di nuovo, nulla di contrario (Dio non voglia!) viene predicato o difeso in questa medesima Chiesa". Infine, la parte più sviluppata della lettera condannava ogni forma di divisione interna alla Chiesa, appoggiandosi ad un variegato florilegio di testi paolini. La risposta di Elia mise in luce quanto fosse errata l'analisi di Pelagio II. Non solo il vescovo di Aquileia rifiutava di entrare in comunione con i latori della lettera, ma in una missiva presentata come collettiva tornava sull'esame della documentazione teologica e poneva al papa le proprie condizioni: unicamente l'annullamento della condanna dei Tre Capitoli avrebbe potuto indurre le Chiese della "Venetia et Histria" ad una riconciliazione con Roma. E inviò a sua volta a Roma alcuni legati, con l'incarico di studiare insieme al pontefice l'incartamento dei Tre Capitoli. I chierici romani esaminarono con gli emissari di Elia la documentazione patristica che aveva suffragato il rifiuto opposto dal vescovo alla condanna dei Tre Capitoli. P. scrisse una seconda lettera, in cui rimproverava al vescovo di Aquileia di aver composto un florilegio fazioso e inappropriato alle questioni dibattute. Pur continuando a sottrarsi ad ogni tentativo di giustificare la condanna dei Tre Capitoli, P., rispetto alla precedente missiva, si appoggiava a due argomenti più direttamente pertinenti alla causa in questione. Innanzitutto il concilio di Calcedonia non era infallibile se non in materia di fede. Emerge qui un elemento significativo della riflessione romana nel dibattito sui Tre Capitoli: Vigilio l'aveva detto una prima volta nel 548, nello Iudicatum della prima indizione, opponendosi in tal modo al ragionamento centrale degli avversari della condanna, i quali, con Facondo d'Ermiane, insistevano sull'impossibilità di manipolare anche una sola frase del concilio senza attentare alla sua autorità complessiva. D'altra parte, P. dichiarava ai vescovi scismatici (questo termine, nella seconda lettera, viene ripetutamente usato) che l'unità della Chiesa era un obiettivo più importante della condanna dei Tre Capitoli: "Non scegliete dunque, per amore della soddisfazione, che è sempre prossima all'orgoglio, di insistere nel peccato d'ostinazione, quando nel giorno del giudizio nessuno cercherà di giustificarvi, e non sarà Teodoro di Mopsuestia, né la lettera di Ibas di Edessa, presentata dagli avversari, che potranno venirvi in aiuto di fronte al tribunale di un giudice tanto grande". La seconda lettera non era imperniata sui Tre Capitoli, ma sullo scisma, con un'argomentazione fondata su testi agostiniani che facevano riferimento al donatismo, quasi a voler avviare un nuovo dibattito sul tema del fondamento istituzionale dell'autorità dottrinale di Roma. Il papa proponeva, in sostanza, ai suoi interlocutori di inviare a Roma legati accreditati per esaminare la documentazione e prendere le necessarie decisioni. Se la soluzione prospettata non avesse incontrato la disapprovazione di Elia, a Ravenna avrebbe potuto riunirsi un concilio per valutare la questione e celebrare la riconciliazione. In entrambi i casi, sulle operazioni avrebbe vigilato l'esarca, con il compito di scortare i delegati a Roma o a Ravenna. Questa seconda iniziativa ottenne da Elia una risposta ugualmente negativa: in una nuova lettera il vescovo spiegò in modo senz'altro più minuzioso il rifiuto della condanna dei Tre Capitoli; non solo aggiunse alla propria documentazione altre tre lettere di Leone, a riprova che il concilio di Calcedonia era stato irriso all'epoca di Giustiniano, ma soprattutto si richiamò alla memoria di Vigilio e alla sua battaglia contro la condanna dei Tre Capitoli. L'ultima risposta romana, conservata nelle collezioni sotto il nome di P., fu redatta dal diacono Gregorio. Quest'attribuzione, formulata già in modo approssimativo da Paolo Diacono nel IX secolo, è stata talvolta contestata. Di recente P. Meyvaert, con il supporto di una sottile analisi stilistica, ha potuto dimostrare l'autorità gregoriana. È verosimile che Gregorio alluda proprio a questo testo con l'espressione "librum, quem ex hac re sanctae memoriae decessor meus Pelagius papa scripserat", allorché nel 592 l'inviò ad alcuni vescovi ancora preoccupati per la condanna dei Tre Capitoli. Poiché lo stesso Gregorio, divenuto papa, fece riferimento al testo come ad un'opera del suo predecessore, è giusto considerarlo un elemento della politica di Pelagio II. L'iniziativa presa nella terza lettera si presentava più complessa rispetto alle precedenti, essendo il primo tentativo messo in atto per riprendere la discussione sui Tre Capitoli, oltre trent'anni dopo il concilio di Calcedonia. L'autore adottò la strategia di dilatare al massimo il terreno di intesa tra sostenitori e avversari della condanna: era scontato che i vescovi scismatici condividevano con Roma non solo la fede dei primi quattro concili, concetto ribadito invariabilmente fin dalle origini del dibattito, ma anche il riconoscimento dell'autorità dei concili e della Sede romana, fino a Vigilio incluso. Con la menzione di "Giustiniano di pia memoria" l'accordo istituzionale veniva esteso implicitamente all'imperatore. Avendo in tal modo ridotto il dissenso al solo mutamento d'opinione di Vigilio, il terreno della discussione poteva spostarsi: i vescovi scismatici avevano fondato il loro giudizio su testi lacunosi e difettosi, un errore condiviso per lunghi anni da Vigilio e che spiegava la sua apparente volubilità. Dopo aver invitato tacitamente Elia ad imitare Vigilio, il papa poteva denunziare l'eresia dei Tre Capitoli, che non necessitava di alcuna dimostrazione: "Considerate, ve ne prego, carissimi fratelli, se gli scritti di Teodoro concordano con le parole dei profeti, dei vangeli e degli apostoli, quando negano che Dio sia il nostro redentore, con iniqua temerarietà; considerate se questa lettera, dove difende Nestorio, il nemico della Chiesa, e accusa Cirillo, il difensore della Chiesa, sembra concordare con le parole dei profeti, dei vangeli e degli apostoli; considerate se gli scritti di Teodoreto concordano con le parole dei profeti, dei vangeli e degli apostoli, scritti che lui stesso, convertitosi in seguito, è il primo a condannare, poiché sono stati scritti contro la vera fede ["contra rectam fidem"]. Tuttavia, in quest'ultimo testo, il vescovo di Roma appariva anche più combattivo. Se pure accettava ancora di render conto della sua "recta fides", poteva a sua volta ergersi ad accusatore degli interlocutori, poiché "ecco la santa Chiesa universale risplendere nel mondo intero della sua radiosa unità, e nondimeno deve sopportare l'ombra prodotta dalla vostra divisione. Ovunque, essa si conserva nella regola della fede, ma la ferita che le è stata inflitta dal vostro distacco le impedisce di rallegrarsi della sua salvezza". Elia e i vescovi dell'"Histria" erano sempre chiamati "dilectissimi fratres", ma nelle parole del papa risuonava l'afflizione del profeta: "Curauimus Babylonem, et non est sanata". L'ostinazione dei vescovi della "Venetia et Histria" era esplicitamente designata come peccato e non più soltanto come errore: lo scisma generava la propria condanna. L'ultimo paragrafo del lunghissimo testo conteneva un estremo appello alla riconciliazione: il pontefice riaffermava di servire la fede di Calcedonia e di conformarsi alle decisioni dei concili di Efeso, di Costantinopoli e di Nicea, e infine rimetteva a Dio il compito di convincere Elia, significando con ciò che si era giunti all'epilogo di un dialogo infruttuoso. P. non contemplava neppure le forme concrete di un ritorno alla comunione, al quale sembrava aver cessato di credere. Il tentativo di riconciliazione attraverso la persuasione si tradusse quindi per Roma in un fallimento. Non un argomento aveva colto nel segno, non un vescovo si lasciò convincere a ricomporre l'unità. In seguito a questa sconfitta il papa cambiò politica, chiedendo all'esarca Smaragdo un intervento della forza pubblica. L'esarca esaudì la sua richiesta ed Elia inviò all'imperatore Tiberio una lettera in cui domandava protezione contro queste vessazioni. L'imperatore, accolto l'appello dei vescovi scismatici, ordinò in un rescritto inviato a Smaragdo di non prendere alcuna iniziativa per la causa della comunione, finché tutti i vescovi sotto il giogo barbaro non fossero tornati alla libertà della "res publica". Dopo la morte di Elia, di poco posteriore all'intervento dell'esarca, i sostenitori del vescovo scelsero come suo successore Severo. Ritenendo evidentemente che l'ordine imperiale si dovesse applicare solo mentre Elia era in vita, Smaragdo si mosse contro il nuovo vescovo. Al più tardi alla fine del 587 raggiunse Grado, dove costrinse Severo di Aquileia, Vindemio di Cissa, Severo di Trieste e Giovanni di Parenzo ad uscire dalla basilica per condurli con la forza a Ravenna. Con la violenza e la minaccia dell'esilio, Smaragdo obbligò i prigionieri a entrare in comunione con l'arcivescovo Giovanni di Ravenna rinunciando in tal modo alla difesa dei Tre Capitoli. Si ignora la parte avuta dal papa in quest'episodio, ma va sottolineato che Giovanni di Ravenna era un romano, scelto e consacrato dal predecessore di P., Benedetto. All'inizio del pontificato di Gregorio, i cristiani dell'Italia settentrionale imputavano comunque alla Chiesa di Roma la responsabilità dei fatti avvenuti all'epoca. Quest'episodio di violenza servì unicamente ad accentuare la diffidenza degli scismatici nei confronti di Roma, poiché Severo e i suoi confratelli, rientrati dopo un anno nella "Venetia et Histria", chiesero ed ottennero dal concilio di Marano di essere reintegrati nelle Chiese separate da Roma. Alla morte di P., nessun progresso sembrava fosse stato compiuto ai fini della riconciliazione dei sostenitori dei Tre Capitoli. D'altra parte, dopo il 587, i rapporti con la Chiesa di Costantinopoli si deteriorarono. P. ricevette gli atti di un sinodo riunito a Costantinopoli dal 587 e scoprì che il patriarca locale, Giovanni IV il Digiunatore, veniva designato come "patriarca ecumenico", una definizione che giudicò superba, nefasta e perniciosa. Il pontefice invalidò gli atti del sinodo, ad eccezione della sentenza che scagionava Gregorio di Antiochia, accusato dal suo popolo di incesto e di rivolta contro l'imperatore, e ordinò al suo apocrisario di rifiutare la comunione a Giovanni finché non avesse rinunciato a quel titolo. Il conflitto sul titolo di patriarca ecumenico si protrasse lungamente dopo la morte del pontefice. Nel 588 P. estese alla Sicilia la disciplina romana relativa al suddiaconato, secondo la quale chi svolgeva queste mansioni, se era già coniugato, doveva separarsi dalla moglie oppure doveva rinunciare al ministero; si tratta di una disciplina che a tre anni di distanza, all'epoca del suo successore Gregorio, veniva applicata in Sicilia ancora sommariamente. Verso la fine del pontificato, P. diede ascolto alle rimostranze di un chierico di Salona, Onorato, il quale sosteneva che il suo vescovo Natale voleva consacrarlo presbitero con l'intento di escluderlo dalla successione episcopale. Onorato affermava di aver impedito a Natale di donare a suoi familiari alcuni vasi di proprietà della Chiesa, episodio che sarebbe stato all'origine del risentimento del vescovo nei suoi confronti. P. scrisse al vescovo di Salona per proibirgli di promuovere un chierico contro la sua volontà e dispose che venisse svolta sulla questione un'indagine minuziosa, che tuttavia non era stata ancora avviata alla morte del pontefice. P. trasformò la propria casa in un ospizio per i poveri. Il Liber pontificalis è l'unica attestazione della "domus" di P.; dell'edificio non si conosce l'ubicazione. Convalidò il testamento di un presbitero, Giovanni, che nella sua casa fondava un oratorio in cui insediare una congregazione monastica. L'edificio, menzionato in due lettere di Gregorio Magno (epp. 6, 44; 9, 137), era situato "iuxta Thermas Agrippianas", nel Campo Marzio, in una zona collocabile approssimativamente tra il Pantheon e largo Argentina. Le strutture pertinenti al monastero non sono state individuate, a meno che non le si voglia riconoscere nei resti di un insediamento monastico recentemente rintracciati proprio nell'area sacra di largo Argentina (M. Cecchelli). P. si occupò poi della risistemazione della cripta di s. Pietro, facendo ricoprire la tomba dell'apostolo di lastre d'argento. La notizia, riportata dal Liber pontificalis, è confermata da una lettera di Gregorio Magno (ep. 4, 30), nella quale si specifica che i lavori furono eseguiti dal pontefice a 15 piedi dal corpo dell'apostolo. Il testo dell'epistola, insieme a considerazioni di carattere archeologico, hanno suggerito di assegnare a P. la costruzione della cripta semianulare di S. Pietro (B.M. Apollonj Ghetti et al.). Tuttavia la struttura è generalmente attribuita a Gregorio Magno, in base ad un passaggio del Liber pontificalis ("hic fecit ut super corpus beati Petri missa celebrarentur"; v. R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl). Secondo una menzione di Gregorio (ep. 4, 30), i lavori di P. furono accompagnati da un segno terrificante ("signum ei non parui terroris apparuit"). L'intervento di P., forse nella zona dell'altare, è documentato anche da una iscrizione votiva in versi (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, nr. 4117), in cui il pontefice per l'offerta di "munera sacra" implora la pace e la protezione divina sulla città e sugli imperatori. Inoltre, all'epoca di P., fu collocato nella basilica vaticana un nuovo ambone, su cui era incisa un'iscrizione conservata dalla silloge di Einsiedeln. Il testo (ibid., nr. 4118), oltre a riportare la dedica del pontefice, che fu coadiuvato nell'esecuzione dell'opera da "Iulianus praepositus secundicerius", invita, nella parte in distici, al canto e alla proclamazione della parola divina ("Scandite cantantes domino dominumque legentes ex alto populis verba superna sonent"). Promosse degli interventi anche nella catacomba di Bassilla, sulla via Salaria, erigendovi in onore di s. Ermete una piccola basilica le cui vestigia, scoperte da A. Bosio nel 1608, furono restaurate nel 1843. L'espressione usata nel Liber pontificalis ("fecit cymiterium beati Hermetis martyris") si può infatti riferire probabilmente all'edificio basilicale semipogeo, che si sovrappose ad una primitiva sistemazione damasiana, della quale non si conservano resti architettonici. L'attribuzione della basilica a Damaso da parte di R. Krautheimer sembra invece contrastare con l'assenza di uno sviluppo cimiteriale successivo alla costruzione dell'edificio, elemento che suggerisce piuttosto una cronologia più vicina all'epoca pelagiana. L'intervento di P. è individuato da R. Krautheimer nella sola messa in opera di archi di sostegno (R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl). Malgrado resistenze, fece costruire una nuova chiesa ("supra corpus basilicam a fundamento constructam") a fianco della basilica costantiniana, sulla tomba di s. Lorenzo, che fu decorata con placche d'argento. Si conserva il mosaico dell'arco absidale, che rappresenta il Cristo in maestà, con i ss. Paolo, Stefano e Ippolito alla sua sinistra e alla sua destra i ss. Pietro e Lorenzo, e papa P., unico personaggio privo di aureola, che offre il modello della nuova chiesa con le mani velate. Due iscrizioni (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VII, nrr. 17671, 18371) celebrano la luminosità del nuovo edificio. La prima epigrafe si conserva ancora parzialmente lungo il bordo dell'arco absidale; della seconda, ormai perduta, non si conosce l'originaria collocazione e si può supporre che fosse inserita nella decorazione musiva dell'abside. L'iscrizione absidale descrive l'edificio realizzato da P., accentuandone la luminosità, in contrasto con la precedente oscurità, la sua capacità di accogliere nuovi fedeli, il pericolo di crollo scongiurato dai lavori e la circostanza che P. lo fece costruire in tempo di guerre. La costruzione della basilica, realizzata, come si è detto poco più sopra, sul luogo in cui era posto il sepolcro di s. Lorenzo, comportò il taglio della collina del Verano, scongiurando in tal modo il pericolo di una frana. L'edificio, a tre navate, era semipogeo, con il piano inferiore incassato nella roccia, e quello superiore, costituito dai matronei, con accesso alla sommità della collina. L'ingresso all'aula al pianterreno era assicurato inoltre da una apertura ad arco ricavata nel muro perimetrale della navata laterale sud. L'edificio prendeva luce dalle finestre praticate nella parte superiore dei muri delimitanti la navata centrale. Lo splendore della costruzione si riflette nella descrizione riportata dagli itinerari Notitia ecclesiarum ("basilicae duae, in quarum speciosore et pausat") e De locis ("basilica nova mirae pulchritudinis"). L'inserimento di motivi derivanti dalla cultura greca (nello stile del mosaico dell'arco e nell'adozione delle gallerie sopra le navate e del piede bizantino come unità di misura) sembra manifestare una scelta diretta del committente, legato alla parte bizantina, che ne sostenne l'elezione alla carica pontificia (C. Bertelli). Numerosi materiali scultorei riferibili alla fase pelagiana si conservano nell'area della basilica (Il Suburbio). Durante i lavori non fu agevole localizzare la tomba del martire: gli operai l'aprirono inavvertitamente e monaci e guardiani presenti, dopo aver visto il corpo del santo, morirono tutti nell'arco di dieci giorni (la notizia è riportata da Gregorio Magno, ep. 4, 30). Nell'autunno del 589 l'Italia fu devastata da catastrofiche inondazioni; scoppiò una violenta epidemia, che colpì in modo particolare Roma. Secondo Gregorio di Tours si trattò di una peste bubbonica e il pontefice, il 7 febbraio 590, fu una delle sue prime vittime. Fu sepolto a S. Pietro in Vaticano; il suo epitaffio è perduto.
fonti e bibliografia
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(traduzione di Maria Paola Arena)