Pellagra e pazzia: i manicomi di S. Servolo e di S. Clemente
In diverse aree del Veneto contemporaneo sopravvive ancora l’uso del termine «pellagroso» come allusione sprezzante allo stato di indigenza di una persona. Indubbiamente tale epiteto denota una scarsa sensibilità in chi lo sceglie, ma rappresenta altresì la testimonianza più duratura e inconsapevole di un passato contadino dominato dall’arretratezza e dalla povertà economica. La pellagra, infatti, malattia carenziale ormai scomparsa in Europa, colpiva le popolazioni rurali costrette dalla miseria ad un’alimentazione quasi esclusivamente maidica e raggiunse proporzioni endemiche proprio nelle campagne padane a partire dal secondo Settecento(1).
Il percorso della malattia si articolava nelle cosiddette «3 d»: dermatite, diarrea, demenza; da una fase iniziale in cui predominavano lesioni cutanee estese, si passava ad uno stadio caratterizzato da alterazioni all’apparato gastrointestinale e dall’interruzione del ciclo mestruale nelle donne, due condizioni che indicavano il progressivo e generale deperimento organico delle vittime. Già in questa fase potevano manifestarsi alcuni segni di squilibrio mentale, ma era con l’ulteriore aggravamento della malattia che le alterazioni psichiche diventavano irreversibili e culminavano con la morte del soggetto cronico.
Sembra che le donne in età fertile fossero maggiormente esposte allo stadio terminale del morbo, poiché la funzione riproduttiva indeboliva gli organismi femminili già provati dalla sottonutrizione e dalle fatiche domestiche(2). Come in un fatale circolo vizioso, le madri affette da denutrizione cronica predisponevano i propri figli ad un ampio ventaglio di patologie che incidevano tanto sullo sviluppo fisico, quanto su quello psicologico — le cosiddette alienazioni mentali congenite — oltre, ovviamente, alla pellagra che minava l’assetto psicofisico dell’individuo nel suo complesso.
Sebbene l’origine ipoalimentare e carenziale della malattia fosse nota già dalla fine del Settecento, per tutto il secolo successivo la comunità medico-scientifica si divise in due opposti orientamenti eziologici. Secondo i sostenitori della tesi dell’insufficienza alimentare, la pellagra era da attribuirsi al consumo esclusivo di polenta di mais, un alimento ritenuto di scarso valore nutrizionale. La cosiddetta scuola tossica, invece, rivendicava la sufficiente capacità nutritiva del cereale e spostava l’attenzione su una presunta sostanza venefica contenuta nel mais avariato consumato abitualmente dalle popolazioni rurali(3).
La disputa, solo apparentemente di carattere scientifico, aveva in realtà importanti ricadute sul piano sociale e politico: per i settori dirigenti di allora riconoscere ufficialmente che la pellagra era l’inevitabile conseguenza dell’impoverimento contadino e della miseria — anziché il prodotto di una muffa — significava dover intervenire sulle cause di immiserimento rurale, facendosi così carico dei costi sociali provocati dai processi di trasformazione fondiaria in corso nelle campagne padane dal secondo Settecento(4). Si trattava di una soluzione evidentemente impraticabile, non a caso il problema della lotta alla pellagra venne affrontato intervenendo con misure di igiene pubblica piuttosto che con efficaci iniziative di politica sociale. A partire dagli anni Settanta, infatti, la classe dirigente del giovane Stato italiano promosse un gran numero di ricerche e studi sul fenomeno pellagroso, privilegiando quei contributi che concentravano il loro interesse attorno al problema del mais avariato. Per scoraggiare il consumo del cereale alterato venne inoltre intensificata la vigilanza sulla qualità delle farine in circolazione, mentre in alcune aree venete si istituirono cucine economiche e locande sanitarie a beneficio dei più indigenti.
Di fatto il preoccupante incremento di forme maniacali causate dall’endemia venne arginato attraverso il progressivo internamento dei pellagrosi negli ospedali e nei manicomi. Nel tradizionale «triangolo della pellagra» — una vasta area comprendente il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna — la tendenza al ricovero di massa procedette in parallelo all’apertura o all’adattamento di nuove istituzioni per i folli e ciò conferì all’alta Italia il triste primato nel numero degli stabilimenti manicomiali(5). A metà Ottocento la città con la più elevata concentrazione di istituti psichiatrici era Milano, una condizione che fece del capoluogo lombardo la patria scientifica della psichiatria italiana(6). Tuttavia a varcare i portoni dei manicomi meneghini non furono solo i medici e gli alienisti di ogni parte del Regno interessati alla legittimazione della propria disciplina, bensì soprattutto i folli miserabili dell’intera area lombarda; non a caso secondo l’alienista lombardo Andrea Verga, una delle voci più autorevoli della psichiatria ottocentesca, «conoscere le vicende dei pazzi in Milano […] [significava] conoscere quelle dei pazzi di buona parte della Lombardia, perché a Milano, come a città capitale, centro di civiltà e beneficienza, doveano essere da ogni parte inviati»(7).
Sotto questo aspetto Venezia e il suo entroterra esprimevano un legame del tutto simile a quello esistente fra Milano e il resto della Lombardia: nelle due isole-manicomio di S. Servolo e S. Clemente si concentrarono infatti i miserabili e i sofferenti mentali di ogni parte del Veneto e del Friuli, molti dei quali evocavano la loro storia con l’espressione attonita dei propri volti.
Le isole di S. Servolo e S. Clemente — l’una sede del manicomio maschile, l’altra di quello femminile — fanno parte di un piccolo arcipelago al largo del bacino di S. Marco, localizzabile nella porzione di laguna chiusa fra il Lido e la Giudecca. Pur con vicende alterne, questi siti hanno ospitato nel corso dei secoli conventi(8), lazzaretti e istituzioni ospedaliere di vario tipo. In tal modo si è composto uno spazio dove l’isolamento volontario, dettato dalla scelta claustrale, è tradizionalmente convissuto con l’isolamento coatto frutto della politica sanitaria imposta dalla Serenissima. Già dal Quattrocento, infatti, la magistratura dei provveditori alla sanità aveva disposto che le merci e i passeggeri di ogni ceto sociale provenienti dall’Adriatico trascorressero un periodo di quarantena fra queste isole, cosicché nel 1423 sull’isola di S. Maria di Nazareth sorse un lazzaretto per i sospetti di contagio(9); dopo qualche decennio anche S. Clemente fu adattata alla medesima funzione, ma con la sostanziale differenza che la futura sede del manicomio femminile ospitava «principi, cardinali e altri visitatori illustri» che venivano «solennemente incontrati e riveriti dalla nobiltà veneta [e] talora anche dal Doge»(10). A dispetto delle più oculate misure precauzionali sembra tuttavia che il focolaio della terribile peste del 1630 fosse riconducibile proprio all’isola di S. Clemente, al tempo lazzaretto aristocratico per notabili; il presunto untore pare essere stato l’ambasciatore del duca di Mantova, in quarantena nell’isola perché proveniente da luoghi infetti; questi trasmise il morbo ad un falegname che di giorno lavorava nell’isola e di sera rincasava a Venezia e ciò bastò a scatenare il morbo in città(11).
Il principio di esclusione e separazione dal centro cittadino — principio storicamente connaturato a quest’area lagunare — ha avuto maggiori ‘successi’ nei riguardi del controllo e della gestione della follia. Mescolata per secoli con la più ampia marginalità e come quest’ultima spesso lasciata al suo destino, nel Settecento la malattia mentale ingovernabile divenne parte della ciurma eterogenea della «Fusta», una nave-prigione disalberata e ancorata nel bacino di S. Marco(12). Era, quella della Fusta, una misura destinata ai folli indigenti la cui condizione «era punita come una colpa», mentre «quella dei più abbienti era assistita e curata come una malattia»(13) in ben altri luoghi. Il ritiro forzato di una dozzina di pazzi benestanti presso il monastero dell’isola di S. Spirito rappresenta un esempio del diverso trattamento accordato alla follia agiata alla fine del XVIII secolo(14) e consente di riflettere sulle diverse premesse che orientano la gestione del disturbo mentale: se la follia agiata è un problema sempre risolvibile, ma da gestire con discrezione perché legato alla tutela della rispettabilità familiare — la difesa dallo scandalo —, il trattamento della follia miserabile si fonda invece su tutt’altre preoccupazioni; con la progressiva affermazione del nuovo ordine borghese e capitalistico matura infatti anche una nuova sensibilità sociale che vede nel pazzo indigente una minaccia per i nuovi tempi di vita e di lavoro; improduttivo per definizione e socialmente sempre pericoloso, lo spirito dei tempi nuovi determinerà la sua definitiva espulsione dalla società ‘sana’(15) e il suo collocamento nello spazio chiuso e impenetrabile del manicomio.
La dimensione segregante degli istituti psichiatrici ha forse trovato la sua massima compiutezza proprio nel contesto veneziano: qui i manicomi sono sorti su isole di difficile accesso che, come si è ripetuto, fanno parte di un lembo di laguna storicamente connotato da micromondi alternativi al tessuto urbano-cittadino. Sotto questo aspetto è dunque dall’isola di S. Servolo — futura sede del manicomio maschile — che bisogna partire per ripercorrere il tratto iniziale della storia manicomiale della città.
Nel 1716 l’isola era sede di un ospizio per soldati invalidi affidato alla responsabilità dei Padri Ospitalieri di S. Giovanni di Dio, meglio noti con il nome Fatebenefratelli; i religiosi erano stati trasferiti da Milano a Venezia l’anno precedente per dirigere l’ospedale militare di S. Antonio in Castello e vi esercitavano la pratica medica ancora ignari di diventare, di lì a qualche decennio, i custodi e specialisti della follia veneziana. Va del resto ricordato che nel 1540 Giovanni Ciaudat, fondatore dell’ordine, si era interessato proprio della cura delle infermità mentali fondando in Spagna uno dei primi ospedali europei per folli(16), a riprova che la storia è fatta anche di curiose coincidenze, o, forse, che per certe persone nulla accade per caso. A S. Servolo la loro doppia funzione di medici e alienisti si consoliderà nel corso dei decenni centrali del Settecento, mentre per ora, è il 1719, si procede alla realizzazione della «spezieria», destinata a diventare, agli inizi dell’Ottocento, «un laboratorio farmaceutico in piena regola»(17).
Il 1725 segna l’inizio della lenta trasformazione di S. Servolo in struttura manicomiale, poiché per ordine del consiglio dei dieci viene rinchiuso nell’isola il primo maniaco, un aristocratico veneziano. Negli anni successivi si registreranno altri sporadici ingressi di folli nobili, ma è dal secondo Settecento che l’afflusso di pazzi diventa cospicuo; progressivamente cambia anche la composizione sociale degli accolti: non più soltanto aristocratici dissoluti, violenti o propriamente folli, ma anche alienati non nobili le cui famiglie possono garantirne il mantenimento in ospedale. Dal 1797 l’estensione dell’internamento alle fasce sociali più umili si radicalizza e diviene misura diramata dai pubblici poteri: dopo tre mesi di occupazione francese, infatti, il comitato di salute pubblica della Municipalità provvisoria emana un provvedimento che ordina di trasferire nell’isola i folli poveri rinchiusi nella Fusta, ai quali si aggiungono i pazzi girovaghi e quelli detenuti nelle carceri. La funzione manicomiale sta dunque prevalendo su quella ospedaliera, creando anche qualche malumore a causa dell’eccessiva eterogeneità degli ospiti: da un lato i pazienti dozzinanti sostenuti da una retta privata; dall’altro i maniaci miserabili, a carico del pubblico erario, accusati di conferire al luogo un’aura di degrado.
All’alba del nuovo secolo si inserisce un ulteriore elemento di novità: nel 1804 un provvedimento di polizia ordina di rinchiudere nell’isola tre donne pazze, facendo così emergere, almeno sul piano simbolico, la dimensione fino allora ignorata della follia femminile(18). Inevitabilmente di lì a qualche anno, precisamente nel 1809, la struttura di S. Servolo cessa di essere un ospedale militare e diviene ufficialmente il manicomio centrale dei due sessi, con la funzione di ospitare i pazzi e le pazze del Veneto, Dalmazia e Tirolo. La convivenza fra uomini e donne durò solo fino al 1834, poiché dopo quell’anno S. Servolo, con i suoi 450 posti letto, divenne un manicomio esclusivamente maschile. Le alienate furono invece trasferite in città presso l’ospedale dei SS. Giovanni e Paolo, trovando sistemazione in un padiglione dell’area anticamente adibita ad ospizio per mendicanti. Si trattava di una misura provvisoria, resa negli anni più precaria dalla continua richiesta di internamenti: da tempo, infatti, si era alla ricerca di una soluzione che consentisse alla follia femminile di raccogliersi in un luogo definitivo e adeguato, equiparandosi, suo malgrado, ai trattamenti manicomiali cui erano sottoposti i pazzi di sesso maschile.
La soluzione al problema dell’internamento femminile si ebbe con la seconda dominazione austriaca; nel 1857 la luogotenenza austriaca decise infatti di erigere nell’isola di S. Clemente, situata proprio di fronte a S. Servolo, una struttura asilare per la raccolta di tutte le pazze delle province venete. L’impresa sarebbe risultata storicamente significativa almeno sotto due aspetti: in primo luogo si stava per erigere uno dei primi manicomi esclusivamente femminili d’Europa(19), secondariamente la sua apertura — avvenuta nel 1873 — rifletteva il compimento del processo di medicalizzazione della follia. Se, infatti, la destinazione di S. Servolo a manicomio era stata frutto di un processo che lo aveva inizialmente destinato a mero centro di raccolta e custodia della devianza, l’asilo femminile aveva alle spalle l’affermazione di un pensiero psichiatrico autorevole che procedeva alla ‘cura’ della follia attraverso gli strumenti che gli erano propri, sotto lo sguardo severo ed attento del medico fattosi alienista. I tempi di realizzazione dell’edificio furono lunghi e vennero dilatati dalle vicissitudini politico-belliche del ’59. Di fatto il manicomio fu dichiarato agibile solo a processo di unificazione nazionale concluso, nei primi mesi del 1873. Ad inaugurare lo stabilimento fu un gruppo di alienate qui trasferite dal nosocomio dei SS. Giovanni e Paolo il 1° luglio 1873(20); tuttavia, ancor prima dell’inaugurazione, la struttura venne giudicata ampiamente superata rispetto alle indicazioni suggerite dagli esperti di allora. Il modello di riferimento del S. Clemente era infatti stato un manicomio viennese eretto nel corso dei primi decenni del secolo(21) e presentava una struttura architettonica a monoblocco che lo rendeva più affine ad una prigione piuttosto che ad un luogo di cura ospedaliera. Ciò che invece si andava affermando da metà Ottocento era una costruzione decentrata in piccole strutture disseminate, nella quale l’aspetto custodialistico e di controllo dovesse essere, almeno nella teoria, stemperato da interventi terapeutici; questi ultimi potevano essere agevolati organizzando i vari padiglioni secondo le diverse patologie mentali degli alienati.
Il manicomio femminile non mancava tuttavia di elementi d’originalità. I suoi reparti erano infatti stati pensati per accogliere le alienate di tutte le estrazioni sociali ed economiche e ciò faceva del S. Clemente un reclusorio per diseredate ma anche una rinomata casa di cura per la ‘follia agiata’. Le pazienti erano distribuite su tre distinti livelli: al pianoterra erano alloggiate le «miserabili», molte delle quali pellagrose, la cui retta di mantenimento era coperta dalle province di provenienza. Al primo piano trovavano invece posto quelle ricoverate di umili condizioni che beneficiavano di una certa ‘considerazione’; il primo direttore del S. Clemente puntualizzava infatti che in tale piano venivano sistemate le
infelici che da uno stato di agiatezza caddero nella miseria, o che appartenevano a qualche corporazione religiosa, o che, meritevoli di speciali riguardi per la loro nascita e educazione, non vanno confuse colle povere e colle villiche. A dir breve, sono tali inferme che non potrebbero, senza grave sconcio, mettersi assieme colle comuni, e non figurano fra le pensionarie [le dozzinanti] che per difetto di mezzi di fortuna. […] È una distinzione consigliata, come ognun vede, da motivi di delicatezza e di convenienza […] poiché si tratta d’inferme che conservano memoria ed hanno coscienza della loro trista situazione. Per esse sarebbe doloroso troppo e mortificante il vedersi confuse con donne dell’infimo ceto [sic](22).
Al secondo piano erano infine ricoverate le ammalate abbienti, destinatarie — almeno in teoria — di un trattamento qualitativamente migliore; negli spazi per le dozzinanti al posto di dormitori da decine di posti letto si trovavano camere singole o doppie e qualche comfort in più: «la sala della musica, […] rivestimenti in legno, pavimentazione a terrazzo, e tuttavia anche qui inferriate uniformi davanti alle finestre»(23).
La ripartizione dell’ambiente in senso classista(24) coesisteva con una seconda, non meno efficace, suddivisione spaziale: si trattava di «una disposizione orizzontale [che] spostava le pazienti molto ritardate nella parte più posteriore del complesso»(25). L’area privilegiata dell’edificio era infatti quella anteriore, nei pressi dell’ingresso principale, dove erano stati sistemati gli appartamenti dei medici e i reparti delle «tranquille» e delle «laboriose». Se lo stato mentale delle ospiti peggiorava, scattava il trasferimento, come si è detto, verso la parte posteriore del manicomio. L’allontanamento fisico dall’ingresso si traduceva in una minore probabilità di uscire ‘guarite’ dal S. Clemente, e condannava le internate all’incurabilità e alla cronicità, secondo un processo di marginalizzazione crescente.
I pellagrosi da internare raggiungevano i due manicomi lagunari attraversando il bacino di S. Marco a bordo di piccole imbarcazioni. Questo traghettamento — piuttosto inconsueto per dei contadini provenienti dalla terraferma — sfociava talvolta in isolati episodi di insofferenza: l’angoscia covata dai futuri degenti per l’esperienza che li attendeva li spingeva infatti a tentare la fuga o il suicidio per annegamento.
All’arrivo i pazienti venivano lavati, pettinati, e sostituivano i propri indumenti con la divisa del manicomio; erano poi sottoposti ad un’accurata visita medica ed alla reclusione temporanea nei reparti di osservazione per la diagnosi delle alterazioni mentali provocate dalla pellagra(26). Questa patologia rappresentava l’affezione più comune fra gli ospiti dei due ospedali, ma nelle statistiche manicomiali questo dato emerge poco chiaramente; ciò si spiega con i criteri nosografici allora in uso, che spesso classificavano la malattia sotto altre patologie mentali: «La frenosi pellagrosa [commentava il direttore di S. Servolo negli anni Ottanta] si può presentare sotto tutte le forme, cominciando dalla mania gaia e passando a quella con furore, alla lipemania semplice, alla melanconia con istupore, alla mania di persecuzione, alla frenosi ipocondriaca, alla sensoria, alla paralitica. Noi ne abbiamo avuto ad osservare sotto tutte queste forme»(27).
Gli psichiatri tendevano ad attribuire ad episodi accidentali e spesso banali la causa scatenante della follia. In realtà eventi come le insolazioni, i litigi, uno spavento od un lutto non erano di per sé responsabili di alcuna infermità fatale. Era piuttosto una vita continuamente scandita dalla precarietà e dalla sofferenza a rendere meno sopportabili i piccoli fatti quotidiani. Veronica C., ad esempio, sembrava essere impazzita a causa di un incidente senza conseguenze accaduto ad uno dei suoi figli di pochi anni. Questo è quanto si legge nella sua cartella clinica: «[…] il suo bambino ingollando un pezzo di pane ne venne quasi soffocato. Questo incidente la mise alla disperazione. La sua mente indebolita dalle […] sofferenze rimase da quel punto conturbata»(28). L’alterazione mentale di un padre ultrasessantenne che aveva perso due dei suoi figli, viene invece attribuita ad un sogno angoscioso e ridondante: «sembra che un sogno, il quale gli richiamava alla mente uno dei figli morti, ne abbia determinato l’accesso»(29).
Scorrendo le cartelle cliniche, non mancano le disposizioni di internamento dovute a fatti gravi; i casi più frequenti riguardavano la fuga improvvisa dalla propria abitazione — spesso preceduta dal tentativo di incendiare case, stalle o beni di famiglia — e gli impulsi suicidi e omicidi: Domenico D., contadino povero di Campoformido, era stato portato all’ospedale di Udine «strettamente legato e ben scortato da persone, perché era stato tolto dalla cornice d’un campanile da dove minacciava gettarsi abbasso, e sul quale era salito dopo aver percosso la moglie ed il figlio e commesso altre violenze»(30). Sotto la spinta della confusione mentale e del dolore per la perdita di una sorella, morta di pellagra, anche una giovane contadina padovana cercò ripetutamente di togliersi la vita: «tentativi di suicidio per sommersione in un torrente, per precipizio dalla finestra della propria stanza, per asfissia col chiudersi in una cassa con pesante coperchio»(31).
Superata la crisi, qualche ospite parlava con lucidità dei propri atti estremi, dimostrando vergogna e rammarico per le azioni commesse. «È la pellagra che mi maltratta [spiega un ricoverato] e che mi fa fare delle cose che io non so di fare né vorrei fare»(32). Del tutto simile l’esperienza di Luigia B., una filatrice miserabile che in famiglia aveva sempre mantenuto una condotta esemplare:
Interrogata come a casa avesse potuto attentare ai propri giorni e cercare di maltrattare la figlia, risponde piangendo, che una voce quasi irresistibile per lei la chiamava nel pozzo e che un’altra voce interna, che le parea sortire dal petto la invitava ad uccidere la propria figlia; per cui essa cercava tutte le vie per sfuggirla, onde non commettere l’orribile delitto, e mai andava al pozzo per non esser costretta a precipitarsi dentro; aggiunge che le pare impossibile che tali idee potessero passare per la sua mente se tanto ama la sua vita e la diletta figlia(33).
La percezione di voci ingannevoli, che inducono i pazienti a compiere azioni contro se stessi e gli altri, è un fenomeno piuttosto comune e in genere completa un quadro di prostrazione profonda:
[Il paziente] venne colto da uno stato di tristezza e ambascia al cuore, che l’obbligava a lasciare più volte il letto la notte per girare su e giù per la stanza; era preso da inquietudine, tendenza al pianto, ai quali sintomi tennero dietro allucinazioni acustiche, risultanti di voci che lo incitavano al suicidio, per cui manifestò più volte l’intenzione di privarsi della vita, quantunque dichiari di non aver mai fatto alcun tentativo a questo scopo(34).
Generalmente gli affanni maggiori derivavano dalla convinzione di non essere più di alcuna utilità né a sé né agli altri; era un senso di impotenza e sopraffazione evidente soprattutto fra le donne, le responsabili della cura e della gestione della sfera familiare. Tutto ciò alimentava spesso esagerati sentimenti autopunitivi ed autoaccusatori: dopo la morte prematura dei figli — e verosimilmente per questa causa — una giovane madre si rimproverava di essere «incapace di accudire le faccende domestiche»(35). Piuttosto eloquenti anche le testimonianze tratte da altre cartelle cliniche: Rosa P. «dice che è una donna perduta»(36), mentre un’altra paziente asseriva che «ormai l’è finita per lei»(37).
Gli sforzi degli alienati di pensare ad un futuro meno ostile erano spesso vanificati dall’irruenza dei loro stessi deliri. Rosa B., madre di dieci figli, «diceva d’esser condannata ad esser braccata viva. […] Ogni notte vedeva un rogo acceso che deve servire per bruciare i suoi figliuoli, uno ogni notte è gettato in quelle fiamme, ed arso»(38). In altri casi prevaleva invece il timore per la propria incolumità: «È fissa nell’idea ch’abbiano ad ucciderla da un momento all’altro e che il patibolo l’aspetti. […] Perciò ogni persona che vede si getta ai suoi ginocchi e prega e scongiura che […] prolunghi la sua esistenza per lo meno di un giorno»(39).
I deliri a sfondo mistico o religioso, nei quali il credo ufficiale si confondeva con una ritualità d’origine magico-arcaica, erano molto frequenti tra i pazienti. A loro avviso una possibile origine del disturbo mentale si spiegava attraverso la forza della possessione demoniaca. Specie nelle fasi critiche, gli alienati associavano i loro mali a una nutrita schiera di diavoli, spiriti e streghe, dai quali era impossibile liberarsi. Una giovane che si sentiva posseduta dal diavolo, confidava nel suicidio per purificare il suo corpo dal male:
[…] essa crede di esser posseduta dal demonio, che sente muoversi nel suo ventre, e causarle tormenti continui […]; i cibi che assume invece di servire per la sua nutrizione vanno ad alimentare il demonio che alberga nel suo corpo. Non può né pregare né confessarsi perché il suo demonio vi si oppone: se vede un prete si agita, perché il suo demonio allora la tormenta non potendo vedere quell’abito; infine conclude che essendo posseduta dal demonio, e perciò condannata alle pene eterne […] la cosa migliore che le resti da fare è darsi la morte(40).
Un’altra degente che dichiarava di «esser posseduta dalle streghe e dal demonio», lottava e dominava, a suo modo, le presenze malefiche che erano in lei: «tiene costantemente chiusa la mano destra, perché crede aver nel pugno le streghe(41), ed in tal modo non vuole lasciarle fuggire affinché non le rechino danno. Tanto forte e costante è la contrazione, che la mano è gonfia»(42).
Accanto alle tesi demoniache, antiche quanto l’uomo, sono emerse altre importanti manifestazioni culturali della follia. Sono i casi nei quali il disagio mentale viene vissuto come un segno della possessione divina o di contatto con il sacro: Rosa T. «vede e parla con la Madonna che le è sempre a lato circondata da angeli, ceri, […] [e] le dice d’esser […] predestinata alla vita eterna. Parla con Dio che la trova bella e seducente»(43). Un’altra paziente confessò invece di comunicare con Dio durante il sonno: «Alla notte nei sogni vede il paradiso, parla con Dio che la invita a far la comunione nella sua parrocchia»(44).
Attingere ad un immaginario di stampo religioso consentiva alle masse subalterne la lettura e la comprensione di disagi mentali altrimenti inspiegabili, pertanto le improvvise e zelanti conversioni alla fede, le penitenze, e le confessioni apocalittiche di peccati commessi spesso solo mentalmente, acquistano significato soprattutto sotto questa luce. Per persone abituate a vivere sotto l’ombra rassicurante dei campanili di terraferma, l’esternazione dei propri drammi interiori si scontrava tuttavia con la realtà di un ambiente asilare percepito come ostile e pericoloso. Fra gli psichiatri e i pazienti, infatti, vigevano reciproci rapporti di estraneità culturale e sociale, cosicché ad una cultura popolare millenaria, in sé molto complessa ma tendenzialmente poco comprensibile nell’ambito asilare, si contrapponeva il sapere laico e specialistico degli alienisti, sempre attenti a non esporre la loro disciplina alle accuse di essere una «facile filosofia». È difficile rintracciare responsabilità personali, ma sta di fatto che il progressivo isolamento materiale e psicologico degli internati rendeva la loro degenza ogni giorno meno sopportabile.
La severità dell’ambiente manicomiale e il timore di non rivedere più la propria casa e la famiglia tendevano ad ostacolare il rapido adattamento alla vita asilare. I più arditi reagivano alla loro condizione di internati protestando energicamente per le umiliazioni alle quali si sentivano sottoposti; come Luigia D., una cucitrice al secondo ricovero, che «se la prendeva colle infermiere e coi capi dello stabilimento per lo stato in cui si trovavano lei e le sue compagne e per i mali trattamenti che le venivano fatti»(45). Nel manicomio maschile invece qualche degente passava a vie di fatto tentando di fuggire dallo stabilimento, provocando incidenti o aggredendo il personale infermieristico. Erano episodi che nella sostanza rivelavano lo stato di tensione incombente sui reparti, ma si trattava anche di avvenimenti tutto sommato sporadici e facilmente controllabili: dal primo giorno di ricovero, infatti, gli ospiti diventavano parte di un meccanismo di omologazione asilare in grado di fiaccarne lo slancio vitale e il potenziale distruttivo-autodistruttivo. Se poi la degenza si trascinava per anni — caso peraltro non infrequente — gli internati finivano per smarrirsi nell’oblio della debolezza mentale cronica. Ad un paziente ricoverato a S. Servolo da diciotto anni, i medici chiesero un giorno da quanto tempo si trovasse in quel luogo: «da 5-6 mesi [affermò], niente di più. […] Dice ch’egli non s’interessa di sapere il mese o il giorno; solo s’interessa del giorno e della notte per mangiare e dormire». Dopo altri sei anni, ormai irrecuperabile, dette la stessa laconica risposta: «dice di essere qui ricoverato da 5-6 mesi, e di trovarsi bene, per cui non desidera uscire»(46).
In genere dopo circa un anno le annotazioni mediche segnalavano già i primi fenomeni di deperimento mentale irreversibile(47); a partire da tale stadio le cartelle cliniche di questi ricoverati si riempivano immancabilmente di sterili formule come «minor coerenza nelle idee» o «demenza consecutiva», e questo era un modo come un altro per sancire una diagnosi immutabile. Il contatto stesso con il medico diventava progressivamente privo di qualsiasi finalità terapeutica e generalmente legato a fatti accidentali come il ricovero in infermeria. È proprio nelle affollate corsie dell’infermeria che molti lungodegenti affetti da demenza cronica morivano, spesso agonizzanti e quasi in condizioni di abbandono(48).
Va precisato che il fenomeno dei decessi in manicomio non interessava unicamente gli internati di vecchia data. Al S. Clemente la debilitazione organica di molte nuove accolte risultava così grave che all’atto del ricovero venivano trasferite direttamente in infermeria per un’immediata cura dietetica e ricostituente(49). Tuttavia a causa delle condizioni psicofisiche ormai compromesse, le loro possibilità di sopravvivenza non superavano in genere le poche settimane. Oltre a questi stati cachettici, responsabili dell’elevata mortalità negli asili veneziani, fra la popolazione manicomiale sottonutrita si registravano di frequente varie altre patologie. Sembra infatti che le malattie dell’apparato respiratorio, le forme malariche e quelle contagiose (febbri, meningiti e vaiolo) decimassero i degenti con estrema rapidità e frequenza.
In simili frangenti la terapia farmacologica dell’epoca non era di nessun aiuto, anzi l’uso di alcuni medicinali incideva proprio sull’aumento dei processi di indebolimento mentale e sui casi di morte. Ad esempio un forte sedativo come l’idrato di cloralio — prodotto intermedio della preparazione del cloroformio — era usato indifferentemente nei semplici casi di insonnia, come antidolorifico o come anestetico, ma esercitava una fatale azione paralizzante sul cuore e sul sistema nervoso centrale. La descrizione di un probabile sovradosaggio del farmaco è piuttosto eloquente:
Questo ammalato arrivò in questo manicomio in uno stato di assopimento in parte dovuto a forte dose di cloralio che gli venne somministrato prima di metterlo in viaggio [il paziente in questione proveniva dall’ospedale di Rovigo]. Non essendo capace di reggersi in piedi, venne portato in un letto della sala osservazione. Si trovava in uno stato di abbandono con le pupille midriatiche ed immobili, con la rilasciatezza dei muscoli facciali che sembravano cadere obbedendo al proprio peso; tratto tratto veniva colto da sussulti muscolari; non avvertiva il perdere delle orine: non dava indizio di comprendere ciò che gli si domandava. Questa mattina dà indizio di comprendere le domande perché si presta a rispondere a cenni ed anche a parole le quali riescono incomprensibili per la difficoltà che ha di articolarle. Perdura lo stato di coma vigile. Risponde con cenni che si sente preso da forte sonno […](50).
Il brano sopraccennato indica chiaramente l’estraneità degli psichiatri di S. Servolo all’accaduto. Questi ultimi, al contrario, stando alla manualistica a loro disposizione e agli stessi rendiconti manicomiali, sembravano conoscere i notevoli effetti collaterali delle sostanze che prescrivevano(51); ciononostante, i quadri clinici emersi da numerose cartelle sanitarie fanno supporre che l’eccessiva disinvoltura con cui si prescrivevano alcune sostanze di risaputa nocività determinassero intossicazioni letali anche fra i pazienti lagunari.
In occasione di uno scritto commemorativo Cesare Vigna, direttore del manicomio femminile, alluse cautamente al problema dell’abuso di farmaci rievocando gli eccessi giovanili di padre Prosdocimo Salerio, suo maestro nonché direttore di S. Servolo tra il 1847 e il 1877: «[…] nel trattamento delle psicopatie [confessa Vigna] il Salerio soleva dare all’elemento farmaceutico propriamente detto [molta importanza]. Devo anzi aggiungere, per amor del vero, che nei primordi della sua pratica frenocomiale egli peccava in questo di qualche esagerazione»(52). Tuttavia la diffusa opinione sull’inevitabilità di un vasto impiego di farmaci negli asili e addirittura il prestigio ottenuto dallo stabilimento di S. Servolo proprio in qualità di «manicomio farmaceutico»(53), consentirono a maestro e discepolo di usare e sperimentare nuovi farmaci nel segreto indisturbato dei reparti manicomiali(54), ricorrendo, al bisogno, anche ad espedienti di dubbia legittimità: il sapore acre di certi preparati faceva sì che i degenti ne rifiutassero l’assunzione, ma sembra che l’ostinazione dei più caparbi venisse aggirata ricorrendo alla somministrazione occulta delle medicine in cibi e bevande. Gli alienisti non negarono mai il ricorso a tale prassi, considerata oltretutto funzionale al «bene del paziente», tanto che in una lettera di Vigna destinata ai genitori di una giovane facoltosa dimessa da poco si incoraggiava l’uso a domicilio di un certo preparato che aveva «il vantaggio di poter essere somministrato a perfetta di lei insaputa»(55). Questo consiglio non provocò alcuna obiezione negli interessati.
La semplice cura alimentare — ovvero la distribuzione di pasti regolari ed abbondanti — garantiva il recupero delle capacità psicofisiche nella maggior parte dei pazienti: nell’arco di poche settimane i degenti riacquistavano peso, scomparivano molti deliri ed allucinazioni provocati dalla fame e nelle donne in età fertile ricomparivano i normali cicli mestruali. Tuttavia, se il deperimento organico era ormai irreversibile e il metabolismo fatalmente modificato, l’assunzione di cibo risultava vana e causava complicazioni gastroenteriche accompagnate da forti dolori addominali. I pazienti in questo stato si rassegnavano a non mangiare più per evitare ulteriori patimenti, ma gli specialisti equivocavano sulle motivazioni di questa ‘scelta’ e, credendola frutto di capricci o deliri, sottoponevano i degenti a regime alimentare forzato, accelerando così le morti per consunzione.
Nel 1899 l’allora primario del S. Clemente descriveva la prassi dell’intubazione in questi termini: «Mi servo sempre nella alimentazione artificiale della sonda flessibile di Faucher. La introduco per una narice tenendo l’ammalata seduta sul letto; l’introduzione riesce abbastanza facilmente, anche se l’ammalata oppone resistenza, e per la flessibilità del tubo sono impossibili le lesioni lungo il suo percorso»(56). In realtà l’operazione non era così innocua poiché poteva causare la perforazione dell’esofago ed episodi di soffocamento. L’alimentazione forzata era generalmente efficace se la «sitofobia» dipendeva da atteggiamenti di ostinazione dovuti ai disturbi mentali, anziché da impossibilità strettamente organiche; una volta provata la traumaticità dell’esperienza sembra infatti che molti pazienti si adeguassero ad assumere alimenti piuttosto regolarmente e al minimo segno di ‘insubordinazione’ bastava la minaccia o l’esibizione dello strumento per far desistere gli ammalati dai loro propositi: Elisabetta T., «minacciando di nutrirla colla siringa cominciò ad assumere gli alimenti»; Anna B., reduce dall’intubazione del giorno precedente, «presentandole la sonda esofagea si adattò a prendere il cibo da sé»(57).
Per indurre gli internati a comportamenti docili e rispettosi degli ordini e delle regole, si ricorreva di frequente alla cosiddetta idroterapia, un altro trattamento dai risvolti spesso brutali, che prevedeva violente docce fredde e lunghi bagni caldi ripetuti per giorni. Ovviamente non era l’acqua in sé ad avere valenza terapeutica, quanto piuttosto la soggezione dei pazienti per terapie così sgradevoli e incomprensibili. Erano soprattutto gli ospiti dediti al «rito ninfomaniaco» — vera ossessione degli alienisti(58) — ad essere bersaglio di reiterate sessioni idroterapiche. Gli esiti erano tuttavia spesso deludenti, come dimostra la documentazione di un giovane contadino, esasperatamente dedito al «vizio solitario»:
A maggio si sottopose ai bagni e alla doccia; nei primi giorni sembrava una bestia, urlava, gridava, minacciava di percuotere […]; ma vedendo poi che se non veniva per amore doveva venire per forza, si ammansò; durante la doccia prometteva […] di star pulito, di smettere dal vizio, ma fuori del bagno e cessata la doccia era come prima anzi diveniva più burbero(59).
Nei manicomi lagunari la pratica delle varie terapie — farmacoterapia, idroterapia e, come si vedrà, contenzione fisica e lavoro — s’ispirava all’impostazione scientifica francese elaborata dai grandi alienisti riformatori d’inizio Ottocento(60). Secondo gli scienziati d’Oltralpe, i disturbi mentali erano originati principalmente da cause morali, ossia da «un miscuglio di fattori psichici-sociali-circostanziali (i casi della vita) ed etici»(61), che provocavano nell’individuo squilibri emotivi e sentimentali. Attraverso un appropriato «trattamento morale» incentrato sull’isolamento asilare e sulla rieducazione del singolo, gli alienisti contavano di ripristinare negli ammalati l’equilibrio perduto. Il manicomio in sé era dunque il primo veicolo di cura; grazie ad esso prendeva forma un progetto terapeutico imperniato sul timore reverenziale promanato dagli alienisti e su espedienti che dovevano indurre l’individuo all’obbedienza e al «retto vivere».
L’ergoterapia (la terapia del lavoro) era ritenuta un aspetto cardine di tale riabilitazione «morale» e rappresentava anche l’indicatore più attendibile dei progressi raggiunti dagli internati. Spesso la capacità di lavorare o di compiere mansioni semplici e ripetitive equivaleva ad una diagnosi di guarigione, un esito, quest’ultimo, che non coincideva affatto con il recupero — peraltro impossibile — dello stato psicofisico originario. Dei criteri di guaribilità così sommari per la nostra sensibilità non sono in alcun modo ascrivibili ad un esercizio negligente della pratica psichiatrica, ma riflettono piuttosto gli orientamenti di fondo della disciplina di allora. L’estrazione borghese degli psichiatri influenzava infatti in profondità sia la natura del sapere specialistico che la relativa pratica clinica, di conseguenza dichiarare la guarigione di un paziente in virtù della sua operosità significava sostituire dei parametri clinici con dei parametri socioeconomici comunque accettati. Posta in questi termini, la cura morale può essere intesa come la punta di diamante di un’ideologia manicomiale aderente all’etica del lavoro socialmente condivisa, che mirava a riabilitare al lavoro e ai valori borghesi i soggetti non in grado di ottemperare alla norma sociale.
Negli asili lagunari gli internati svolgevano le stesse mansioni cui erano abituati all’esterno: i «villici» lavoravano negli orti delle grandi colonie agricole sorte sul retro dei rispettivi edifici; altri degenti di umili condizioni si occupavano dei servizi interni di pulizia, lavanderia, cucina e panetteria; infine i fabbri e gli artigiani erano inseriti nei laboratori a loro più adatti.
A pochi anni dall’inaugurazione, il S. Clemente era già diventato una cittadella del tutto autosufficiente sul piano alimentare e del vestiario(62), tuttavia ciò che i direttori non evidenziarono mai nei resoconti era che nei grandi e silenziosi laboratori di sartoria le degenti confezionavano e rammendavano anche le camicie di forza destinate a loro stesse e ai pazienti del vicino asilo maschile. Dunque per uno strano quanto tragico scherzo del destino, il lavoro che le doveva condurre alla libertà diventava, per certi versi, la garanzia dell’immutabilità della loro sorte e alimentava una delle strategie asilari più dolorose e discusse: la terapia della contenzione.
La contenzione fisica veniva esercitata ricorrendo ad una serie alquanto varia di «attrezzi terapeutici». Lo strumento più semplice e più diffuso consisteva in un cinturone di cuoio con manette annesse ed era destinato prevalentemente ai maneschi ed ai «laceratori»; molto comune era l’uso della camicia di forza, secondo Vigna più che raccomandabile in quanto «lascia[va] agli infermi la libera disposizione della loro persona, permettendo agli stessi la locomozione che concorre a dissipare l’esuberanza delle forze [sic]»(63). Poco giustificabili sul piano terapeutico — ma molto funzionali in una prospettiva punitivo-repressiva — erano invece gli anelli affissi alle pareti ai quali venivano legati gli agitati e le sedie di costrizione, altro strumento per immobilizzare ininterrottamente i pazienti per settimane o mesi.
I vertici direttivi illustrarono spesso la contenzione meccanica come un insieme di pratiche innocue, in alcuni casi necessarie, ma inesorabilmente in via di smantellamento. A S. Servolo, nei primi anni Settanta, si assicurava che
i mezzi di repressione, se non si possono dire affatto aboliti, sono però ridotti a minimi termini, e non si applica che temporariamente la camiciola o la cintura, nei gravi accessi di agitazione, in quelli che hanno tendenze irresistibili al suicidio, ed alle violenze contro gli altri; […] passano settimane che in un Manicomio di quasi 500 individui degenti, non se ne abbiano che due o tre assoggettati a questi mezzi coercitivi(64).
Da parte sua il direttore del S. Clemente, perfettamente in linea con simili dichiarazioni(65), trovò anche il modo di promuovere il manicomio femminile facendo pubblicare, in più occasioni, la lettera di uno psichiatra anglosassone che si congratulava con la direzione per lo sporadico ricorso alla coercizione: «Rimasi molto soddisfatto [scriveva L.S.F. Winslow a Vigna] della visita fatta oggidì all’istituzione da voi diretta, e fui molto contento nel vedere che lo restreint [mezzi di coercizione] sia pressoché abolito. Io considero questo asilo come uno de’ più belli che ho visitato, e al prossimo mio ritorno in Inghilterra vi farò tenere una esatta descrizione della mia visita, che certamente vi soddisferà sotto ogni aspetto»(66).
A controbilanciare queste lodevoli bugie giunsero, alcuni anni dopo, le denunce dell’alienista australiano G.A. Tucker, che descriveva il S. Clemente in modo assolutamente sconcertante:
Ci sono molte costrizioni e coercizioni di vario tipo in questa istituzione, in un corridoio c’erano 33 pazienti in sedie di contenzione, alcune con cinghie intorno ai polsi, alcune con le mani legate dietro la schiena, alcune con le camicie di forza. Nelle stanze per pazienti agitate molte donne erano legate ai letti con camicie di forza […]. In una stanza da giorno alla fine del corridoio c’era un pandemonio vero e proprio. 50 donne erano legate in diversi modi, i loro piedi erano blu dal freddo.
Non ho mai sentito in nessun’altra istituzione più rumore e tumulto. […] In una stanza adiacente c’erano 80 letti con 7 pazienti legate. Da questa stanza si aprono 14 stanze di contenzione con 2 letti ciascuna. Alcune pazienti erano legate ai letti alcune alle sedie, ambedue fissati al suolo. […] Queste pazienti non avevano nessuna occupazione o passatempo. […] Vi era un’altra serie di stanze di isolamento con pazienti rinchiuse allo stesso modo. Nella sala da pranzo del primo piano 20 pazienti erano legate alle pareti e in questo posto regnavano il disordine e la confusione più grandi […]. Alcune delle pazienti soggette a contenzione hanno ampi collari di cuoio attorno al collo e alle spalle, manopole pure di cuoio e braccialetti ricoperti di ferro. Ho contato in tutto 213 pazienti soggette a contenzione(67). Ho notato nella lavanderia molte catene coperte di cuoio appese, e sono stato informato che se una paziente rifiuta di lavorare le vengono applicate per costringerla alla tinozza(68).
Di fronte a simili dichiarazioni, torna difficile pensare al manicomio come ad un asilo di riabilitazione, o attribuire alla contenzione forzata una qualsiasi valenza terapeutica. Tuttavia il ferreo controllo dei reparti, l’intimidazione, le punizioni e la repressione di comportamenti ritenuti abnormi — primo fra tutti l’onanismo — erano aspetti complessivi di quella cura morale che in entrambi gli stabilimenti prometteva e imponeva ravvedimenti tanto miracolosi quanto coercitivi. Del resto lo stesso Salerio, stimatissimo propugnatore del trattamento morale, preveniva con abilità ogni possibile accusa di maltrattamento convertendo sottili sevizie in opinabili terapie: «[…] colla camiciola e cintura [osservava il religioso] i pazienti arrivano meglio a calmarsi, ed a conoscere il proprio stato, fatta sempre, questa repressione, dietro prescrizione del Medico, [e] minacciata prima d’applicarla»; la contenzione raggiungeva poi ottimi risultati se veniva «ordinata in faccia all’ammalato, e tolta subito che l’ammalato promette frenarsi»(69).
Alle soglie del nuovo secolo la lezione di Salerio sembra essere ancora vitalissima, come dimostra la vicenda personale di Giuseppe S., un paziente che «in manicomio è stato sempre calmo» e ciononostante visse l’esperienza di venire «legato a letto per una giornata […] per avere dato una spinta ad un compagno che gli chiedeva del tabacco»(70).
La leggerezza di qualche alienista a corto di scrupoli, o la più generale ambiguità dei direttori, rappresentano soltanto alcuni dei numerosi disagi in cui versavano i manicomi di allora; anche se con effetti diversi, infatti, pazienti e psichiatri erano spesso accomunati dalla difficoltà di vivere e lavorare in ambienti materialmente precari, sovraffollati e conseguentemente inidonei a qualsiasi possibilità di cura. I vertici sanitari denunciarono senza sosta l’allarmante raccolta di degenti nei reparti, ma sembra che le amministrazioni continuassero ad autorizzare nuovi ingressi con miope e irreversibile facilità, senza tenere preventivamente conto della condizione delle due strutture. Il S. Clemente, ad esempio, era stato inaugurato nel luglio 1873 per accogliere un massimo di 500 persone, ma dopo un solo anno d’esercizio — al 30 giugno 1874 — contava già 585 presenze, superando così la soglia massima di un’ottantina di ingressi. Il consiglio d’amministrazione dell’istituto risolse tale problema innalzando periodicamente il tetto dei posti letto, cosicché il 1° gennaio 1892 le presenze registrate raggiunsero il numero di 1.010. Nel periodo in questione il movimento generale delle pazienti ebbe il seguente andamento(71):
Anno Entrate Uscite Morte Rimaste (al 31 dicembre) 1873 620 70 45 505 1874 347 144 150 558 1875 310 135 138 595 1876 316 131 124 656 1877 425 163 116 802 1878 372 204 112 858 1879 428 240 122 924 1880 420 247 112 985 1881 296 182 108 991 1882 208 118 85 996 1883 204 105 105 990 1884 212 136 77 989 1885 188 164 85 928 1886 195 86 79 958 1887 216 80 96 998 1888 204 104 — — 1889 171 96 — — 1890 246 131 — — 1891 217 128 — 1.010 1892 88 59 103 —
Nell’arco di un ventennio (dal 1873 al 1892) questo manicomio aveva dunque raddoppiato la sua disponibilità passando da 500 a oltre 1.000 ricoverate e pochi anni dopo, nel 1896, un’indagine sulla condizione dei manicomi italiani promossa dall’alienista Augusto Tamburini rilevò che, nonostante le migliorie e gli ampliamenti, l’asilo femminile superava la capienza massima di ben 277 unità(72). Le cose non erano andate certo meglio a S. Servolo dove, a meno di mezzo secolo di vita come manicomio, si dovettero adattare «le stanze che sarebbero per convegno e per refettorii […] [in] dormitorii, e poi collocare i letti così vicini che a stento tra un letto e l’altro vi passa[va] un uomo»(73).
L’allarmante sovraffollamento dipendeva, per certi versi, dal trasferimento in laguna di centinaia di pazienti cronici o incurabili. Con questo stratagemma gli ospedali e le altre strutture dell’entroterra si liberavano disinvoltamente dei loro pazienti più malandati, riducendo però i due manicomi a giganteschi ‘cronicari’. Ciò frustrava le aspirazioni degli psichiatri veneziani, che assistevano impotenti alla loro destituzione a meri custodi di reparti per lungodegenti: «ci vengono inviati troppi cronici [tuonava Salerio esasperato], individui ne’ quali la malattia non ha minor data di 6 mesi dallo sviluppo, alcuni e molti anche di più che un anno. […] Pazienza che diventino cronici nello stabilimento [di S. Servolo], ma almeno non inviarne di già resi tali, e tanti dementi!»(74).
Vigna — solerte curatore della propria immagine e di quella del S. Clemente — riuscì in un’occasione a ribaltare la questione del sovraffollamento e della cronicizzazione delle sue pazienti in un abile espediente autopromozionale, sostenendo che l’alto numero di presenze nell’isola dipendeva anche dalla diminuzione della mortalità grazie alle «migliorate condizioni igieniche»(75). A distanza di un decennio, il bilancio generale su un secolo di psichiatria italiana avrebbe rivelato tutta l’ingenuità delle battute del direttore: gli esiti di numerose inchieste sullo stato dei manicomi del Regno(76) fecero infatti concludere agli alienisti più accorti e sensibili che i manicomi erano luoghi «anziché di guarigione, di insanabili demenze»(77), pertanto l’alienismo ottocentesco, per ammissione dei suoi stessi affiliati, aveva fallito nell’utopico obiettivo di salvare i folli dal proprio male.
Le amministrazioni provinciali, uniche responsabili del mantenimento degli indigenti in manicomio, approfittarono dell’autocritica degli alienisti per rinfocolare le proteste contro l’eccessiva onerosità della spesa per i ricoveri, e lamentarono come nell’arco di venticinque anni l’esborso nazionale a loro carico fosse quasi triplicato(78). A livello locale la Provincia di Venezia cercò di ridurre gli alti costi gestionali promuovendo un’ampia politica di decongestione dei due manicomi centrali. Si puntò, in sintesi, sul trasferimento di alcune categorie di irrecuperabili in succursali o in case di salute della terraferma, poiché il mantenimento di un cronico in una struttura periferica era di molto inferiore alla retta necessaria negli stabilimenti veneziani. A tale proposito, grazie ad un accordo sottoscritto con il pellagrosario di Mogliano Veneto, tra il 1888 e il 1890 oltre un centinaio di ex pellagrosi cronici venne accolto in questo istituto unico nel suo genere, ma, com’era prevedibile, non tutti trassero vantaggio da questa politica: Costante Gris, l’energico e stimato fondatore del pellagrosario moglianese,
rimase molto sorpreso quando, al posto di alienate pellagrose in condizioni accettabili e in grado di lavorare, si vide arrivare solo ‘vecchie morenti, scorie, tare, calie’, come egli stesso le definì protestando col dottor Bonvecchiato, futuro direttore del S. Clemente; il quale però fece osservare che, date le caratteristiche […] del fabbricato disponibile a Mogliano, non si potevano inviare che inferme ‘assolutamente innocue’(79).
In realtà quella di Bonvecchiato era soltanto una banale spiegazione che gli consentiva di fare con altri ciò che per decenni gli ospedali di terraferma avevano fatto con il S. Clemente e il S. Servolo: liberarsi dei cronici senza speranza.
Nonostante lo smistamento di centinaia di pazienti nelle succursali, la qualità dei servizi offerti dai due manicomi restò modesta, poiché le loro deficienze dipendevano prevalentemente da limiti strutturali e da gestioni interne inefficienti(80); al S. Clemente, in particolare, alcuni reparti erano sprovvisti degli impianti di riscaldamento e di acqua corrente, mentre i requisiti minimi di abitabilità ed igiene erano costantemente minacciati da complicazioni alla rete fognaria, il cui pessimo funzionamento costringeva a distribuire ovunque secchi ad uso latrine, provocando così sporcizia ed «emanazione continua di odori pestilenziali»(81). L’esigua disponibilità di personale specializzato causava altrettanti disagi, basti pensare che il rapporto medico-pazienti era passato da 1 medico ogni 138 degenti negli anni 1874-1876, ad 1 ogni 332 nel 1887(82). Quanto all’aspetto propriamente assistenziale, l’organico delle infermiere e delle inservienti era addirittura irrisorio rispetto alle presenze nello stabilimento, cosicché per colmare le carenze di un personale perennemente sotto organico si fece sempre più spesso ricorso alla custodia meccanica: attraverso l’immobilizzazione di un numero crescente di pazienti, pochi paramedici erano in grado di controllare reparti affollatissimi nei quali gli stessi alienisti entravano sporadicamente e poco volentieri(83).
Nel dicembre 1891 la direzione del manicomio femminile passò dall’anziano Vigna, ormai ultrasettantenne, al più giovane ed energico Ernesto Bonvecchiato. Fra i primi provvedimenti lanciati dal nuovo direttore figurò una significativa riforma negli strumenti di contenzione. Vennero eliminati «gli anelli infissi nel muro e [i] seggioloni di forza, su cui delle inferme, in gran parte innocue, stavano legate ai gomiti ed ai malleoli per mesi ed anni»(84). Parallelamente a questa radicale misura venne smantellato «il Riparto sucide, in cui le ammalate, costrette ai seggioloni di forza, in due file l’una di fronte all’altra, costituivano un ambiente nauseabondo, ripugnante al senso medico e al senso morale»(85).
L’inserimento delle sucide in altri reparti e la sostituzione della contenzione con attività occupazionali fece gridare Bonvecchiato al — piccolo — miracolo: nelle sezioni
[…] delle agitate e delle clamorose, là dove era un gridio continuo, un agitarsi incessante, una sucidità che appestava l’aria e rendeva le vesti luride e le ammalate ripulsive, ora il lavoro è divenuto abituale e proficuo per lo Stabilimento, […] e le sucide credute incorreggibili, in parte hanno imparato ed in parte vanno imparando a tenersi pulite e di giorno e di notte(86).
Secondo alcuni dati elaborati dal neodirettore, la percentuale di degenti sottoposte a mezzi coercitivi si ridusse dal 31% del gennaio 1892 al 6,5% del giugno dello stesso anno. I prospetti dei lavori svolti nell’istituto sembrano confermare il nuovo corso: dopo il 1892 non furono più confezionate camicie di forza e di lì a poco la sinistra produzione venne soppiantata dalla lavorazione di divise invernali, un’attività, quest’ultima, resasi necessaria dalla constatazione che in alcuni reparti le degenti «di pien Dicembre erano vestite da piena estate»(87).
Il nuovo corso di fine secolo non rese il S. Clemente completamente alieno da disagi e disservizi, ma per lo meno lo salvò da quell’ondata di scandali e polemiche che dal dicembre 1902 investì il vicino S. Servolo. Le tumultuose vicende esplosero in seguito alla diffusione di una relazione sullo stato del ricovero e dell’assistenza nei manicomi e negli ospedali veneziani(88). I risultati dell’indagine e i numerosi rapporti prefettizi che seguirono fecero precipitare il manicomio di S. Servolo al centro di uno scandalo di proporzioni nazionali. Le accuse andavano dallo stato di estremo degrado dei reparti — definiti sporchi, affollati ed abbandonati a loro stessi — ai comportamenti irresponsabili tenuti dal direttore, padre Camillo Minoretti, «uomo per sua natura prepotente e autoritario», che permise ad infermieri brutali e spregiudicati di infierire sui degenti, senza mai intervenire per dirimere eventuali controversie sorte fra sorveglianti e sorvegliati(89). Com’era prevedibile, non mancarono le denunce relative all’uso insensato dei mezzi di coercizione. Il prof. Ernesto Belmondo, estensore della relazione sull’inchiesta del 1901, dichiarò che
parecchi tra quegli ammalati che vedemmo fissati a letto mediante fasce e corpetti […] erano così strettamente legati da non potere abbastanza aver libero il respiro, né facile la circolazione degli arti; a più d’uno provammo di passare il dito al collo al di sotto del corpetto, alle ascelle, od al ventre sotto le fasce, e dovemmo accorgerci che essi erano veramente troppo serrati, e le loro grida ed i lamenti o gli scoppi dell’ira erano almeno in parte giustificati, più che dal delirio o dall’agitazione maniaca, dal dolore e dall’impaccio dovuti ai rigidissimi legami(90).
Nonostante l’estrema gravità delle rivelazioni a carico del S. Servolo, va osservato che in generale i manicomi non erano nuovi a simili accuse; le inchieste nazionali e le riviste specialistiche denunciavano da decenni la diffusa precarietà degli stabilimenti italiani, mentre a livello locale la condizione del S. Clemente sotto la direzione di Cesare Vigna (1873-1891) era — come si è visto — del tutto affine al manicomio incriminato. In sostanza ciò che trasformò il caso di S. Servolo in un vero e proprio scandalo fu il pubblico dominio di una realtà che si credeva — e forse si voleva — impossibile: «se non vi fosse entrata di mezzo la pubblica stampa», osservò Augusto Tamburini, l’intera vicenda «sarebbe stata destinata, come quella di tante altre inchieste, […] a produrre appena qualche tiepida rimostranza officiosa e qualche presto soffocata interpellanza nei consessi locali»(91), mantenendo così inalterato un assetto terapeutico che non aveva mai nascosto la propria fiducia nella coercizione come mezzo di guarigione, sebbene nel segreto dei reparti ciò tendesse a sfociare in deliberate brutalità.
Lentamente, nel corso del 1904, la stampa iniziò a disinteressarsi dei fatti veneziani. Nel vorticoso desiderio di rinnovamento di quegli anni, alcune importanti svolte rassicurarono anche i più disillusi: il consiglio di amministrazione — riconosciuto corresponsabile del degrado del manicomio maschile — venne sciolto e dopo una lunga fase di commissariamento gli stabilimenti di S. Servolo e S. Clemente furono centralizzati in un’unica istituzione di beneficenza. A qualche tempo dalla rimozione di padre Minoretti — il discusso ex direttore di S. Servolo — l’intero ordine religioso dei Fatebenefratelli venne definitivamente allontanato dall’isola, provocando nei quotidiani locali un rigurgito polemico che ebbe almeno il merito di testimoniare lo smantellamento dell’ultima direzione religiosa di un manicomio italiano. L’emersione, infine, di nuove tragedie relative ai manicomi della penisola rese improrogabile l’approvazione di una normativa in materia psichiatrica; nel febbraio 1904 fu finalmente approvata la prima legge nazionale sui manicomi del Regno(92), un evento che gli psichiatri italiani salutarono come una simbolica vittoria sulla «barbarie manicomiale». Tale traguardo non segnava però alcuna effettiva innovazione nel trattamento degli alienati, ma si limitava piuttosto ad ufficializzare il potere dei direttori all’interno degli stabilimenti. A partire da quegli anni, l’immagine incombente dello psichiatra-tiranno pervase anche la sensibilità collettiva dei veneziani: fino ad una generazione fa, infatti, i genitori esasperati dalla turbolenza dei propri figli avevano imparato a sostituire la minaccia del «babau» con quella di Cappelletti, l’alienista alla guida dei manicomi lagunari nel primo Novecento. Bastava dunque ammonire gli irrequieti con un «Varda che te porto da Cape’etti!» per guadagnarsi sicura pace e tranquillità domestica.
1. Sulle ampie trasformazioni socioeconomiche che dal XVIII secolo determinarono il progressivo depauperamento delle classi rurali venete cf. Marino Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’unità, Milano 1963; Alberto De Bernardi, Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane tra ’800 e ’900, Milano 1984. La centralità del mais nei consumi alimentari contadini viene approfondita in Leopoldo Magliaretta, Alimentazione, casa, salute, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 635-698; Luigi Messedaglia, Il mais e la vita rurale italiana, Piacenza 1927; Id., Per la storia dell’agricoltura e dell’alimentazione, Piacenza 1932. Per alcuni approfondimenti sulla pellagra nell’area lombardo-veneta v. anche Alberto De Bernardi, Pellagra e alcolismo: sviluppo capitalistico e trasformazioni nella configurazione sociale del ricovero psichiatrico (1780-1915), in Tempo e catene. Manicomio psichiatria e classi subalterne, Milano 1980, pp. 227-294; Id., Pellagra, Stato e scienza medica: la curabilità impossibile, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, pp. 681-704; Roberto Finzi, La pellagra, una gloria capitalistica, «Classe. Quaderni sulla condizione operaia», 10, 1978, pp. 137-164; Id., Quando e perché fu sconfitta la pellagra in Italia, in Salute e classi lavoratrici in Italia dall’unità al fascismo, a cura di Maria Luisa Betri-Ada Gigli Marchetti, Milano 1982, pp. 391-452; Id., Differenze: la pellagra nella donna fertile, «Istituto ‘Alcide Cervi’. Annali», 12, 1990, pp. 201-210; Giorgio Porisini, Agricoltura, alimentazione e condizioni sanitarie. Prime ricerche sulla pellagra in Italia dal 1880 al 1940, «Cahiers Internationaux d’Histoire Économique et Sociale», 3, 1974, pp. 1-47; Gaetano Strambio, Da Legnano a Mogliano Veneto. Un secolo di lotta contro la pellagra, «Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», 17, 1890, pp. 137-551; Hrayr Terzian, Dalla parte delle vittime, in Storia della sanità in Italia. Metodo e indicazioni di ricerca, a cura del Centro Italiano Storia Ospitaliera, Roma 1978, pp. 234-244; Id., Popolazioni a rischio: i pellagrosi, in L’archivio della follia. Il manicomio di S. Servolo e la nascita di una Fondazione, Venezia 1980, pp. 95-109; Livio Vanzetto, I ricchi e i pellagrosi. Costante Gris e la fondazione del primo pellagrosario italiano-Mogliano Veneto 1883, Abano Terme 1985.
2. Durante la gravidanza e l’allattamento il fabbisogno proteico femminile aumenta rispettivamente del 20 e del 40%. Tuttavia, secondo le conoscenze dell’epoca, partorire e allattare non erano considerate attività dispendiose, pertanto gli scarsi cibi proteici che si reperivano erano consumati dai membri maschili della famiglia. Cf. R. Finzi, Differenze: la pellagra, pp. 208 e 210. Dello stesso autore cf. anche La psicosi pellagrosa in Italia fra la fine dell’800 e gli inizi del ’900, in Follia, psichiatria e società, a cura di Alberto De Bernardi, Milano 1982, pp. 293 ss. (pp. 284-297).
3. Sul ruolo esercitato da Cesare Lombroso nell’istituzionalizzazione delle teorie tossicozeiste v. Ferruccio Giacanelli, Il medico, l’alienista, in Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti, Torino 1995, pp. 5-43; L. Vanzetto, I ricchi e i pellagrosi, pp. 134 ss.
4. A. De Bernardi, Pellagra, Stato e scienza medica, pp. 687 ss.
5. Francesco De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, p. 1113 (pp. 1058-1140). Secondo alcune statistiche dell’epoca rielaborate dallo stesso autore, nel 1881 nell’Italia settentrionale si contavano 18 manicomi pubblici e 6 manicomi privati; nell’Italia centrale erano in funzione 15 asili pubblici e 1 solo privato, mentre al sud c’erano complessivamente 10 manicomi (5 pubblici e 5 privati). Su questi aspetti v. anche Grazia Gorni, Malattia mentale e sistema. L’istituzione manicomiale italiana dalla fine del Settecento agli inizi del Novecento, «Classe. Quaderni sulla condizione operaia», 10, 1978, pp. 193-223; L’archivio della follia. Il manicomio di S. Servolo e la nascita di una Fondazione, Venezia 1980.
6. F. De Peri, Il medico e il folle, pp. 1082 ss.; Tempo e catene. Manicomio, psichiatria e classi subalterne, Milano 1980; Germana Agnetti-Angelo Barbato, L’«Appendice psichiatrica» di Milano nel processo di nascita della psichiatria italiana, in Follia, psichiatria e società, a cura di Alberto De Bernardi, Milano 1982, pp. 351-368.
7. Andrea Verga, Cenni storici sugli Stabilimenti dei Pazzi in Lombardia, «Gazzetta Medica di Milano», 39-40, 1844, p. 344 (pp. 342-358).
8. Per citare solo qualche esempio, nel 1412, presso l’isola di S. Maria delle Grazie, la congregazione di S. Girolamo da Fiesole fondò un proprio convento; dal 1140 — e per i due secoli successivi — i monaci di S. Agostino abitarono l’isola di S. Spirito, mentre in epoche più recenti, nel 1717, l’isola di S. Lazzaro venne donata ai Padri Armeni Mechitaristi che la bonificarono e la trasformarono in un monastero; quest’ultimo, tuttora adibito alla medesima funzione, sopravvisse al diffuso declino insulare causato dalle disposizioni napoleoniche sulla soppressione degli ordini e dei conventi (1810). Non fu così per l’isola di S. Clemente, sede dei monaci camaldolesi dal 1645, che dovette essere abbandonata e fu in seguito trasformata in una polveriera prima di essere destinata a sito manicomiale. Per un profilo storico-paesaggistico su quest’area cf. Gianni Berengo Gardin, Guida alla città di Venezia. Le isole della laguna di Venezia, Venezia 1988; P. Vincenzo Coronelli, Isolario ovvero Atlante Veneto, Venezia 1696; P. Davide M. da Portogruaro, Una gemma nella laguna. L’isola di S. Clemente in Venezia. Monografia storico-artistica, Venezia 1934; Giulio Lorenzetti, Venezia e il suo estuario. Guida storico-artistica, Trieste 1974; Pompeo Molmenti-Dino Mantovani, Le isole della Laguna Veneta, Venezia 1895.
9. Quest’isola, situata nei pressi di S. Lazzaro degli Armeni, è ora conosciuta come il Lazzaretto Vecchio e deve il cambiamento di nome proprio al suo antico ruolo.
10. P.D.M. da Portogruaro, Una gemma nella laguna, p. 22.
11. Ibid., pp. 26 ss.
12. Per le vicende relative al celebre bastimento cf. Nelli Elena Vanzan Marchini, La follia, una nave, una città. Storia di pazzi e di pazzie a Venezia nel ’700, Mira 1981; della stessa autrice il saggio La ‘pubblica fusta’, una nave di condannati e folli a Venezia nel XVIII secolo, in Follia, psichiatria e società, a cura di Alberto De Bernardi, Milano 1982, pp. 88-118.
13. Ead., La ‘pubblica fusta’, p. 108.
14. Ibid., pp. 105 ss. Oltre che nei monasteri, i maniaci benestanti venivano spesso isolati in località amene sotto il controllo di qualche sorvegliante.
15. Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano 1963.
16. Vannina Fonte-Basso, Le procedure dell’internamento a S. Servolo, in L’archivio della follia. Il manicomio di S. Servolo e la nascita di una Fondazione, Venezia 1980, pp. 127 e 128 (pp. 121-140); Mario Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Venezia 1988, p. 31.
17. Sulla storia della farmacia di S. Servolo cf. Ernesto Riva, L’antica farmacia dell’ospedale di S. Servolo a Venezia, «Atti e Memorie dell’Accademia di Storia della Farmacia», 13, 1996, pp. 51-61. Sulle isole-manicomio di S. Servolo e S. Clemente, oltre ai contributi altrove citati, cf. anche San Clemente. Progetto per un’isola, Venezia 1980; Pietro Beroaldi, Sul nuovo manicomio femminile nell’isola di S. Clemente. Memoria, «Giornale Veneto di Scienze Mediche», 15, 1871, pp. 5-28; Giampaolo Martina, Note storiche e critiche sulla nascita dei manicomi e delle istituzioni psichiatriche nel Veneto, «Materiali Veneti. Follia come crimine, i manicomi del Veneto», 7, 1977, pp. 15-26; Adalberto Pazzini, Assistenza e ospedali nella storia dei Fatebenefratelli, Torino 1956; Wiebke Willms, San Clemente. Storia di un’isola veneziana, Venezia 1993.
18. Va infatti ricordato che fino alla fine del Settecento la pazzia muliebre risultava quasi ‘invisibile’ e veniva in genere neutralizzata all’interno della sfera domestica, ricorrendo alla reclusione monastica o, in casi limite, attraverso la carcerazione. Su questi aspetti cf. N.E. Vanzan Marchini, La follia, una nave, una città, pp. 68 ss.
19. W. Willms, San Clemente.
20. Venezia, Archivio di S. Servolo, reg. «uscite 1873-1884».
21. Lo stabilimento asburgico in questione era il Niederösterreichische Irrenheilanstalt e si trovava nel IX distretto della città di Vienna. W. Willms, San Clemente, p. 4.
22. Cesare Vigna, Rendiconto statistico del frenocomio centrale femminile di S. Clemente (1874-1875-1876), Venezia 1877, p. 15.
23. W. Willms, San Clemente, p. 25.
24. «Nella organizzazione interna [dell’edificio] si segue un criterio di divisione in classi che riproduce quella della società esterna». Domenico Casagrande, Cento anni di una istituzione manicomiale, in San Clemente. Progetto per un’isola, Venezia 1980, p. 54 (pp. 51-69). L’autore del saggio menzionato, lo psichiatra Domenico Casagrande, è stato l’ultimo direttore sanitario del manicomio di S. Clemente (la struttura venne definitivamente chiusa nel 1992. Cf. Svuotato S. Clemente, l’ultimo dei manicomi, «Il Gazzettino», 23 aprile 1992, p. 11).
25. W. Willms, San Clemente, p. 26.
26. «Le nuove entrate [scriveva il direttore del S. Clemente] vengono raccolte in un riparto apposito di osservazione, dove si trattengono almeno un paio di settimane, prima di essere collocate nelle rispettive sezioni secondo i dettami della freniatria». C. Vigna, Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876), pp. 62-63. Dalle cartelle cliniche di entrambi gli stabilimenti emerge invece che il periodo d’osservazione era spesso limitato a qualche giorno soltanto. Nella documentazione di Giovanni M., per citare un esempio, è annotato che «pochi giorni dopo il suo ingresso fu mandato a lavorare in orto». Cf. Venezia, Archivio di S. Servolo, b. «usciti/e 278-1885». Il paziente, un trentasettenne di Feltre (Belluno), era stato ricoverato per «Frenosi pellagrosa» e venne dimesso dopo sei mesi.
27. Relazione statistica del manicomio centrale maschile in S. Servolo di Venezia del triennio 1881-1883, Venezia 1884, p. 185.
28. Venezia, Archivio di S. Servolo, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 3-1874». Veronica C., trentacinquenne proveniente dalla Bassa Veronese, era madre di quattro figli e all’epoca dell’incidente era molto denutrita e debilitata dai prolungati allattamenti (con una certa probabilità queste sono anche le reali cause della sua alterazione mentale). Uscì dal S. Clemente «migliorata» dopo otto mesi.
29. Ivi, b. «usciti/e 278-1887». Gregorio R., 64 anni, indigente, proveniente da Bergantino (Rovigo), è riconosciuto affetto da «Mania senza furore» e viene dimesso «guarito» dopo otto mesi.
30. Ivi, b. «morti/e 474-1865». Il paziente in questione, 30 anni, affetto da «Mania per causa gentilizia o pellagra», morì di «gastromeningite» dopo quattro mesi di ricovero.
31. Ivi, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 1-1873». Costantina B. lasciò il S. Clemente «guarita» dopo ottantasette giorni.
32. Ivi, b. «morti/e 474-1865», v. n. 30.
33. Ivi, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 12-1877». Luigia B., proveniente da Crispino (Rovigo), aveva 41 anni e sei figli. Sofferente di pellagra, era al secondo ricovero manicomiale, e venne dimessa «guarita» dopo soli due mesi.
34. Ivi, b. «usciti/e 278-1902». Federico F., contadino ventinovenne proveniente da Guarda Veneta (Rovigo), rimase a S. Servolo per quasi un anno. Uscì con una diagnosi di guarigione, nonostante pochi giorni prima delle dimissioni continuasse ad avere pensieri suicidi, come traspare da un’annotazione dai toni vagamente macabri: «manifestò delle idee suicide […] dicendo che è stanco di vivere, e l’infermiere presa una cordicella gliela avvolse intorno al collo fingendo di volerlo strozzare ed egli tutto contento lasciava fare, dimostrando la sua piena soddisfazione».
35. Ivi, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 3-1874». Rosa T., 29 anni, contadina di Bolzano Vicentino, venne riconosciuta sofferente di «Melanconia» causata dalla pellagra allo stato avanzato, dalla miseria e dalle sofferenze familiari. Lasciò il manicomio dopo quasi sei mesi, ristabilita.
36. Ivi, b. «usciti/e 1-1873». Rosa P., 35 anni, villica di Castel d’Azzano (Verona), venne dimessa «guarita» dopo circa cinque mesi. Fra le cause dell’internamento figuravano la pellagra e l’avvicendarsi di cinque gravidanze in pochi anni.
37. Ivi, b. «usciti/e 3-1874». Lucia B., 36 anni, proveniva da Feltre (Belluno) ed era una contadina indigente. Venne dimessa dopo sei mesi.
38. Ivi, b. «usciti/e 1-1873». Rosa B., 39 anni, proveniva da Padova e faceva la contadina. I suoi disturbi mentali dipesero in gran parte dalla pellagra e dai progressivi e prolungati allattamenti. Su istanza del marito venne dimessa «non migliorata» cinque mesi dopo il ricovero.
39. Ivi, b. «usciti/e 14-1878». Maria D.P., 59 anni, «villica», era originaria di Torreglia (Padova). Soffriva di «Melanconia ansiosa» e «Frenosi pellagrosa». Uscì dal manicomio «guarita» dopo quasi tre anni.
40. Ibid. Regina M., 21 anni, villica di Concordia (Venezia), uscì «guarita» dopo quasi un anno e mezzo di internamento. Era affetta da pellagra e le era stato diagnosticato un «delirio di dannazione e demonomaniaco».
41. Nella cultura popolare veneta l’usanza di tenere il pugno chiuso sotto la veste era un modo per esorcizzare le streghe.
42. Venezia, Archivio di S. Servolo, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 1880». Antonia C., villica di Meolo (Venezia), soffriva di pellagra da diversi anni ed è turbata da «deliri demonomaniaci». Esce dal S. Clemente «migliorata» dopo quasi tre anni di internamento.
43. Ivi, b. «usciti/e 3-1874». Rosa T., 29 anni, proveniva da Bolzano Vicentino (Vicenza) e faceva la contadina. Fra le cause d’internamento figurano la pellagra allo stadio avanzato, la scarsa alimentazione e il dolore per la morte di un figlio appena nato. Torna a casa «guarita» dopo quasi sei mesi.
44. Ivi, b. «usciti/e 32-1885». Felicita S., 47 anni di Refrontolo (Treviso), faceva la contadina ed era madre di quattro figli; lasciò il S. Clemente «non migliorata» dopo quasi un decennio. Risultava affetta da «Mania religiosa» e da «Frenosi pellagrosa».
45. Ivi, b. «usciti/e 6-1875». Luigia D., vedova cinquantenne di S. Michele Extra (Verona), era stata internata per tentato suicidio imputabile allo stato di indigenza in cui era precipitata dopo la morte del marito. Uscì dopo circa un anno.
46. Ivi, b. «usciti/e 278-1903». Gio. Batta Angelo A., 36 anni al momento dell’ingresso a S. Servolo, fu trasferito in una succursale padovana dopo ventiquattro anni di degenza.
47. Questo valeva soprattutto per i pazienti al primo ricovero, mentre nei recidivi al secondo o terzo ingresso l’alienazione era ormai cronica.
48. Venezia, Archivio di S. Servolo, reg. 46 «Autopsie 1875-1892». I referti autoptici eseguiti sui pazienti indicano che i loro corpi erano spesso devastati da profonde piaghe da decubito. Ciò fa supporre uno stato di prolungata immobilità — forse dovuto anche all’uso indiscriminato degli strumenti di contenzione — e un’assistenza ridotta allo stretto indispensabile.
49. Per avere una misura del problema è utile ricordare che a metà degli anni Settanta, per far fronte alla crescente domanda di cure ospedaliere urgenti, l’infermeria del S. Clemente — già provvista di 100 posti letto — dovette essere dotata di un reparto convalescenti aggiuntivo. Cf. C. Vigna, Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876), p. 27. Inoltre nelle cartelle cliniche di entrambi gli stabilimenti si segnalava con frequenza la difficoltà degli accolti a camminare o a reggersi semplicemente sulle proprie gambe.
50. Venezia, Archivio di S. Servolo, b. «usciti/e 278-1887», v. n. 29.
51. Un manuale di farmacologia del 1872, rinvenuto presso la biblioteca medica del S. Clemente — e verosimilmente consultato dai sanitari dell’epoca —, ammoniva che a dosi eccessive «il cloralio può produrre mortale narcotismo […] [poiché] agisce narcoticamente sul cervello, sul midollo spinale, e sul cuore […]». Cf. Giuseppe Orosi, Manuale dei medicamenti galenici e chimici, Firenze 1872, pp. 393 ss. Lo stesso Prosdocimo Salerio, dopo averne reiteratamente elencato i positivi effetti, avanzava qualche altro sospetto sull’uso della sostanza: «[…] ci parve che il cloralio favorisca la paralisi, e specialmente la progressiva in chi ne è affetto; ci parve altresì favorire le congestioni passive polmonari, e lo riscontrammo intollerato a chi soffre irritazioni intestinali». Cf. Prosdocimo Salerio, Tavole statistiche triennali 1868-69-70 del Manicomio centrale maschile in San Servolo di Venezia, Venezia 1871, p. 65. In una pubblicazione successiva confermò nuovamente questa posizione, e aggiunse — un po’ ingenuamente — che «da questo rimedio fin d’ora non posso dire aver ottenuto guarigioni [di disturbi mentali]». Id., Cenno statistico triennale 1871-1873 del Manicomio maschile centrale veneto in S. Servolo di Venezia, Venezia 1874, p. 39.
52. Cesare Vigna, Il P. Prosdocimo Salerio, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 1882-1883, pp. 119 ss. (pp. 95-129). Va osservato che nelle righe successive Vigna minimizzò ambiguamente l’episodio: «[Padre Salerio] sotto la guida di un vecchio pratico (il dott. Andrea Saccardo) […] fu uno de’ primi a porre un argine a quegli abusi sistematici, tanto deplorati e veramente disastrosi». Sulla vita e opera dei due alienisti cf. almeno L’archivio della follia; Cesare Vigna. Psichiatra e musicologo nel primo centenario della morte, a cura di Giuseppe Flisi, Viadana 1992; M. Galzigna, La malattia morale, pp. 34 ss.
53. «Il nostro Manicomio [scriveva Salerio negli anni Sessanta] fu qualificato da qualcuno Manicomio farmaceutico pel numero svariato e vistoso di rimedii che si usano, il quale epiteto […] non ci fu discaro. Sì, usiamo le cure farmaceutiche estesamente […] e ci troviamo soddisfatti». Prosdocimo Salerio, Tavole statistiche triennali 1862-63-64 del Manicomio centrale maschile in San Servolo di Venezia diretto dai Padri Fate-Bene-Fratelli, Venezia 1865, p. 61.
54. All’epoca in cui Salerio e Vigna lavoravano insieme a S. Servolo — l’uno come direttore, l’altro come primario — sembra che fosse stato sintetizzato un nuovo potente sedativo, frutto dell’intuizione del frate direttore. Il bromo idrato di chinino — questo il nome del composto, ottenuto dalla combinazione del chinino con bromuro di potassio — venne ovviamente sperimentato sugli stessi ammalati del manicomio. Ibid., pp. 67 ss.
55. Venezia, Archivio di S. Servolo, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 30-1884». Petronilla D., 22 anni.
56. Giovanni Battista Colbachini, Note cliniche pel sessennio 1892-1897, in Ernesto Bonvecchiato, Relazione sanitaria pel sessennio 1892-1897, Venezia 1899, p. 84 (pp. 80-113).
57. Venezia, Archivio di S. Servolo, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 32-1885», Elisabetta T., filatrice nubile di Minerbe (Verona); b. «usciti/e 7-1876», Anna B., 50 anni, nubile di Camin (Padova).
58. Su questi aspetti cf. Mario Galzigna, Soggetti e dispositivo nell’archivio della follia, in L’archivio della follia. Il manicomio di S. Servolo e la nascita di una Fondazione, Venezia 1980, p. 68 (pp. 53-72).
59. Dopo varie settimane di sedute giornaliere i medici osservarono fiduciosamente che «il vizio dell’onanismo se non cessò del tutto, si moderò però molto», ma a settembre — dopo quattro mesi di terapia — il quadro era decisamente sfavorevole: «non si ebbe granché a lodarsene dalla cura balneare, pareva sulle prime, ma poi si sortì delusi». Venezia, Archivio di S. Servolo, b. «morti/e 474-1864». Giovanni P., trentenne di Asiago (Vicenza), al momento del ricovero era soldato di guarnigione a Udine. Morì in manicomio dopo un anno e tre mesi, in condizioni di estremo degrado psichico, a causa di una «epato-polmonite».
60. Mi riferisco in particolare a Philippe Pinel (1772-1840), e al suo apostolo più conosciuto, Jean-Étienne-Dominique Esquirol (1755-1826). Sull’argomento cf. M. Galzigna, La malattia morale; Fausto Petrella, Il sistema del professor Pinel e del dottor Esquirol, in Passioni della mente e della storia, a cura di Filippo Maria Ferro et al., Milano 1989, pp. 203-219.
61. F. Petrella, Il sistema del professor Pinel, p. 210.
62. Nelle stanze della tessitura e della sartoria «sotto la sorveglianza ed a merito delle Suore di Carità, si effettuava la confezione di tutta la biancheria ed oggetti di vestiario […] e per questo […] l’asilo fino dal suo nascere non ha incontrato il benché più minimo dispendio». C. Vigna, Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876), p. 155.
63. Id., Il manicomio centrale femminile di S. Clemente. Memoria, Venezia 1889, p. 24. Molto tempo prima padre Salerio aveva espresso pareri altrettanto agghiaccianti: «In che consiste poi questa repressione? [commentava spazientito il religioso] Nella camiciuola [camicia di forza], nella cintura la quale meglio che la camiciuola lascia liberi tutti i movimenti al malato impedendone solo un troppo esteso uso delle braccia; di scarpe messe a vite ed in […] pastoje che non gli impediscono però di camminare istessamente». P. Salerio, Tavole statistiche triennali 1862-63-64, p. 74.
64. P. Salerio, Cenno statistico triennale 1871-1873, p. 41.
65. «[…] l’uso dei mezzi coercitivi (non affatto abolito […] perché ciò torna impossibile in un manicomio così vasto e popolato) è stato oltremodo ristretto, e limitato anzi al solo breve periodo degli accessi furiosi». Cesare Vigna, Il nuovo manicomio femminile di S. Clemente. Primo resoconto statistico, Venezia 1874, p. 44.
66. Id., Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876), p. 24. Uno degli aspetti significativi della vicenda era che questo psichiatra londinese pare fosse allievo di John Conolly (1794-1866), il più noto teorico del no-restraint e dell’open door, cioè del metodo che si proponeva di abolire i tradizionali sistemi di contenzione fisica e psicologica del folle. Cf. John Conolly, Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi (1856), Torino 1979. Va infine aggiunto che nei confronti del ‘conollismo’, argomento piuttosto dibattuto all’epoca, i direttori dei manicomi veneziani si dimostrarono generalmente piuttosto scettici.
67. Da una rapida elaborazione dei dati disponibili, sembra che nel 1884, l’anno in cui lo psichiatra in questione visitò il S. Clemente, quasi 1 degente su 5 risultasse sottoposta ai mezzi coercitivi — a quel tempo nel manicomio femminile erano infatti custodite 988 pazienti; cf. C. Vigna, Il manicomio centrale femminile, p. 91, prospetto 2.
68. Alcune annotazioni cliniche relative ad una paziente internata sembrano confermare i dati finali del brano riportato: «mai ebbe volontà di occuparsi per cui alle volte per farla lavorare si era costretti a tenerla col gambetto». Venezia, Archivio di S. Servolo, Fondo S. Clemente, b. «usciti/e 17-1879», Laura G. La testimonianza dell’alienista australiano G.A. Tucker si trova in Domenico Casagrande, Il Cav. Dott. Cesare Vigna: direttore del manicomio centrale femminile di S. Clemente in Venezia, in Cesare Vigna. Psichiatra e musicologo nel primo centenario della morte, a cura di Giuseppe Flisi, Viadana 1992, p. 35 (pp. 23-37). Il viaggio d’istruzione dello scienziato tra i manicomi europei era stato recensito anche da una nota rivista psichiatrica italiana: «[…] del S. Clemente di Venezia […] [Tucker] fa una critica non troppo favorevole, specialmente pel numero soverchio di repressioni e pel modo con cui sono fatte, pel sistema delle poltrone (n. 32) per le sudicie e per lo schiamazzo straordinario che vi regna». Giovanni Battista Verga, Cronaca dei manicomj, «Archivio Italiano per le Malattie Nervose», 28, 1886, p. 140 (pp. 138-142).
69. P. Salerio, Cenno statistico triennale 1871-1873, p. 42.
70. Venezia, Archivio di S. Servolo, b. «usciti/e 278-1902». Giuseppe S., fabbro trentacinquenne affetto da «Mania senza furore», uscì dopo oltre un anno di degenza.
71. I dati della tabella sono stati elaborati sulla base delle seguenti fonti: Ivi, Fondo S. Clemente, reg. «uscite 1873-1884», e reg. «uscite 1884-1910»; C. Vigna, Il nuovo manicomio femminile; Id., Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876); Id., Rendiconto statistico del frenocomio centrale femminile di S. Clemente per gli anni 1877-78-79-80, Venezia 1882; Id., Il manicomio centrale femminile; Notizie statistiche dell’anno 1885 sui Manicomi Interprovinciali di S. Servolo e S. Clemente in Venezia, Venezia 1887; Notizie statistiche dell’anno 1886 sui Manicomi Interprovinciali di S. Servolo e S. Clemente in Venezia, Venezia 1888; Notizie statistiche dell’anno 1887 sui Manicomi Interprovinciali di S. Servolo e S. Clemente in Venezia, Venezia 1888; Ernesto Bonvecchiato, Relazione sanitaria pel sessennio 1892-1897, Venezia 1899.
72. Cf. Augusto Tamburini-Enrico Fornasari Di Verce, Le condizioni dei manicomi e degli alienati in Italia (1869-99), «Rivista Sperimentale di Freniatria», 26, 1900, pp. 494 ss. (pp. 487-505). Secondo i dati dell’inchiesta, la situazione veneziana non era peraltro fra le più gravi: nei manicomi di Roma, Genova e Milano le eccedenze superavano le 400 unità.
73. Tavole statistiche degli alienati che ebbero cura nel morocomio centrale maschile in S. Servolo di Venezia nel novennio 1847-1855 inclusivi, Venezia 1856, p. 28. La carenza e la disomogeneità delle statistiche relative allo stabilimento di S. Servolo rendono impossibile un confronto adeguato con i primi vent’anni di esercizio del S. Clemente. Per qualche utile riferimento si consideri che nell’asilo maschile al 31 dicembre 1870 i presenti erano 445, dieci anni dopo (31 dicembre 1880) la cifra era salita a 553 e infine al 31 dicembre 1888 il numero degli alienati raggiungeva quota 617. Cf. rispettivamente P. Salerio, Cenno statistico triennale 1871-1873, p. 1; Relazione statistica del manicomio centrale maschile in S. Servolo di Venezia 1877-1880, Venezia 1881, pp. 22 e 23; Relazione statistica del manicomio centrale maschile in S. Servolo di Venezia 1884-1888, Venezia 1889, p. 11.
74. P. Salerio, Tavole statistiche triennali 1868-69-70, p. 12. Per una puntuale ricostruzione delle controversie fra gli stabilimenti veneziani e la provincia veronese in merito alle politiche di trasferimento adottate dalla deputazione scaligera, cf. Renato Fianco, L’asilo della maggior sventura. Origini e sviluppo del manicomio veronese di S. Giacomo di Tomba (1880-1903), Verona 1992.
75. C. Vigna, Rendiconto statistico […] 1877-78-79-80, p. 9.
76. Negli anni Novanta vennero promosse ben quattro indagini di respiro nazionale: inchiesta ministeriale sui manicomi italiani della commissione C. Lombroso, A. Tamburini, R. Ascenzi (1891); inchiesta A. Tamburini (1896); inchiesta dell’Ufficio sanitario del Ministero dell’Interno (commissione Santoli, 1898); raccolta di dati sui ricoverati negli istituti promossa dalla Direzione generale della statistica (1899). Per alcune sintetiche indicazioni su questi lavori cf. A. Tamburini-E. Fornasari Di Verce, Le condizioni dei manicomi.
77. Ibid., p. 495.
78. Ibid., p. 500. Le amministrazioni provinciali italiane erano passate da una spesa complessiva di L. 4.773.241 nel 1871 a L. 13.047.542 nel 1897.
79. L. Vanzetto, I ricchi e i pellagrosi, p. 125.
80. Questa è la conclusione cui giunge una commissione di specialisti — composta fra gli altri da Cesare Lombroso e Augusto Tamburini — che aveva ispezionato i principali manicomi pubblici e privati del Regno; l’indagine serviva alla preparazione di un nuovo progetto di legge sugli alienati e i manicomi d’Italia, e venne ufficialmente stesa e sottoscritta il 1° ottobre 1891. Cf. l’appendice Relazione a S.E. il Ministro dell’Interno sulla ispezione dei manicomi del Regno, in Romano Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, Milano 1979, pp. 199-211; in partic. sui fatti veneziani cf. Ernesto Bonvecchiato, Relazione sul Manicomio femminile centrale veneto di S. Clemente in Venezia, Venezia 1892, pp. 5 ss.; Id., Relazione sanitaria pel sessennio 1892-1897, pp. 3 ss.
81. E. Bonvecchiato, Relazione sanitaria pel sessennio 1892-1897, p. 4.
82. C. Vigna, Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876), p. 153; Id., Il manicomio centrale femminile, p. 55 (dati di mia elaborazione). Va precisato che la legge sulla sanità pubblica del 20 marzo 1865 aveva stabilito che negli ospedali ciascun medico non doveva seguire più di 50 pazienti per volta, tuttavia il superamento di questo limite fu così palese e diffuso che gli estensori dell’inchiesta del 1891 indicarono accettabile la nuova soglia di 1 medico ogni 100 alienati; cf. Relazione a S.E. il Ministro dell’Interno, p. 208; la realtà dei fatti aveva, come si è visto, infranto ampiamente anche questo limite.
83. Questa era la sorte del reparto incontinenti (le sucide), il luogo dove venivano ricoverate «quelle croniche ed incurabili, le quali, dopo di aver percorso il circolo fatale delle aberrazioni psichiche e delle turbe nevropatiche, si raccomandano meno alle nostre risorse terapeutiche […]». C. Vigna, Rendiconto statistico […] (1874-1875-1876), p. 13.
84. E. Bonvecchiato, Relazione sanitaria pel sessennio 1892-1897, p. 6.
85. Ibid., p. 7.
86. Id., Relazione sul Manicomio femminile centrale, pp. 12 ss.
87. Quegli stessi ambienti erano inoltre privi di sistema di riscaldamento. Id., Relazione sanitaria pel sessennio 1892-1897, tav. IX e p. 8.
88. Nel novembre 1901, il consiglio provinciale di Venezia aveva nominato una commissione di esperti presieduta dal prof. Ernesto Belmondo, direttore della clinica psichiatrica di Padova. La delegazione aveva il compito di ispezionare le principali strutture sanitarie della provincia e furono ovviamente visitati anche i manicomi di S. Servolo e S. Clemente. Per una ricostruzione delle vicende cf. R. Canosa, Storia del manicomio, pp. 119 ss.
89. «Gazzetta di Venezia», 29 novembre e 3 dicembre 1902. I rapporti ufficiali alludono a decine di pazienti picchiati selvaggiamente perché bestemmiavano e a casi ben più gravi di abusi sessuali su giovani minorati. Cf. anche R. Canosa, Storia del manicomio, p. 121.
90. Ernesto Belmondo, Ricovero e assistenza degli alienati nella provincia di Venezia, Venezia 1902, p. 14.
91. Augusto Tamburini, L’inchiesta sui manicomi della provincia di Venezia e la legge sui manicomi, «Rivista Sperimentale di Freniatria», 28, 1902, pp. 723 ss. (pp. 720-733).
92. Si trattava della legge manicomiale 14 febbraio 1904, nr. 36, meglio nota come legge Giolitti. R. Canosa, Storia del manicomio, pp. 112 ss.; cf. anche Giuseppe Pantozzi, Storia delle idee e delle leggi psichiatriche (1780-1980), Trento 1994.