PELLEGRINO I di Povo
PELLEGRINO I di Povo. – Pellegrino nacque dalla famiglia dei di Povo (località contigua a Trento, nell’area collinare a est della città; «de Paho» nelle fonti latine, più raramente «de Pao»). La casata assunse poi la denominazione ‘da Beseno’, avendo acquisito il controllo di quel castello (ubicato una ventina di chilometri a sud di Trento, nell’attuale comune di Besenello). Verosimilmente Pellegrino nacque tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo.
Il padre, Ottone, sembra l’artefice delle fortune della famiglia. Egli fu tra i ministeriali del vescovo di Trento Altemanno (1124-1149), che se ne giovò per affrancarsi dalle interferenze dei grandi lignaggi nobiliari.
Di Pellegrino è conosciuto con certezza almeno un fratello: Carbonio, prima denominato de Pao e poi, verso il 1171, de Beseno, quando si insediò nel castrum sopra citato. Alcuni membri della famiglia seguirono Pellegrino in Friuli, anche se non sono chiari i legami di parentela.
Gli scarni dati anagrafici sembrano collocare Pellegrino in una generazione e in un contesto sociale che subirono solo di riflesso le conseguenze degli avvenimenti drammatici per la vita delle istituzioni ai vertici della cristianità al transito tra i secoli XI e XII. Si trattava di eventi che affondavano le radici nella cosiddetta restaurazione/riforma gregoriana e nella successiva lotta per le investiture, ma si presentavano con caratteri mutati. Questa considerazione consente forse meglio di comprendere quanto si può percepire dalle fonti rimaste riguardo gli atti di Pellegrino quale patriarca d’Aquileia (uno dei maggiori benefici della Chiesa occidentale e una potente signoria territoriale), per tentare di affrancarsi da giudizi storiografici per la maggior parte condizionati da parametri di lettura a volte eccessivamente schematici, modellati su criteri troppo netti di contrapposizione tra parti e partiti, imperiale e romano, rispettivamente, che spesso celavano espressioni anacronistiche.
La formazione di Pellegrino non è nota, anche se Rahevino, in un tardivo racconto riferito all’assedio di Crema (1160), parlò di lui come di un «vir eruditus plurimisque virtutibus adornatus», dotato di una «magna facundiae gratia» e ne riportò l’orazione rivolta ai Cremaschi per invitarli alla resa (Ottonis et Rahewini, 1912, p. 316).
Pellegrino divenne patriarca d’Aquileia prima del 1132 e fu probabilmente scelto come figura di compromesso, rispetto a due fallite elezioni precedenti avvenute in seguito alla deposizione e morte del patriarca Gerardo di Premariacco (1129).
Furono allora eletti successivamente Egilberto decano di Bamberga, tramite l’intervento dell’arcivescovo di Salisburgo, Corrado I di Abensberg (1106-1147), e Wodolrico di Ortenburg, arcidiacono e preposito della Chiesa di Aquileia. I due parevano rappresentare partiti diversi in uno scenario di politica generale, se è vero che l’arcivescovo di Salisburgo puntava a ricondurre in ambito romano (fedele a Onorio II e poi a Innocenzo II) la Chiesa aquileiese; mentre l’antipapa Anacleto II (1130-1138), espressione delle conflittualità interne alla nobilità romana, si congratulò nel settembre 1130 con Wodolrico per l’elezione, invitandolo alla fedeltà (Paschini, 1914, p. 6). Lo scenario era però complicato anche dalla successione imperiale, che si disputò tra Lotario II (III, come re di Germania) di Süpplingenburg (m. 1137) e Corrado III di Hohenstaufen (m. 1152). In tale contesa, Lotario ottenne il sostegno papale, segnando una coincidenza fra schieramenti che erano stati opposti.
Per quanto non si conoscano i maneggi che portarono Pellegrino sulla cattedra aquileiese, è probabile che si sia determinata una convergenza tra gli aderenti a Lotario e a Innocenzo II, nella quale giocarono forse un ruolo il vescovo di Trento Altemanno (Rogger, 1979, p. 102) e l’arcivescovo di Salisburgo. Di certo, i primi documenti che testimoniano l’azione di Pellegrino ormai patriarca sono significativi di un accordo di alto livello. Si tratta di una bolla molto importante di Innocenzo II (29 giugno 1132) che riconobbe ad Aquileia la giurisdizione metropolitica su sedici episcopati compresi tra la Lombardia (Como e Mantova), il Veneto, il Friuli e l’Istria, l’uso del pallio e di altre insegne d’onore, nonché tutte le regalie ricevute dagli imperatori e re, compresi il comitato, il ducato e il marchesato. Poco prima, alla fine di maggio del 1132, Pellegrino aveva incontrato a Friesach l’arcivescovo Corrado di Salisburgo e il vescovo Romano di Gurk, con i quali sottoscrisse un patto che, garantendo i rispettivi diritti decimali, chiudeva decenni di conflitto tra le Chiese, giustificati con esplicito riferimento alla nequizia aquileiese, per essersi allontanata dall’obbedienza a Roma. Nel clima di concordia risultavano anche riassorbite le potenziali frizioni interne al clero aquileiese, giacché l’arcidiacono Wodolrico di Ortenburg, già eletto patriarca, compare stabilmente al fianco di Pellegrino nei più importanti atti di governo pastorale e politico.
Pur nella consapevolezza dei limiti della documentazione (frammentaria e settoriale), sembra possibile individuare alcuni elementi caratterizzanti il governo di Pellegrino. È innanzi tutto evidente la considerazione per le fondazioni monastiche, alcune nuove, come l’abbazia cistercense di Stična/Sittich (Slovenia), dotata nel 1135, o quella di Oberburg fra Stiria e Carniola, fondata nel 1140, con ricche largizioni patrimoniali (1145). Altri monasteri già esistenti furono oggetto di cure e di munifica attenzione: Ossiach (in Carinzia), Moggio, Rosazzo, S. Maria di Aquileia (in Friuli), S. Nicolò del Lido di Venezia, S. Cipriano di Murano e S. Ilario di Venezia. Non mancarono i soprusi, come emerge dalle querimonie dell’abate di S. Maria di Sesto, nel 1149. Ciascun provvedimento ebbe motivazioni contingenti, ma si spiega con i molteplici significati di una fondazione monastica, sia sul piano religioso, sia su quello dei rapporti istituzionali, politici, sociali ed economici. Il sostegno alla fondazione cistercense di Stična, per es., maturò in un momento di virtuosa collaborazione tra l’imperatore Lotario II (coronato nel 1133) e papa Innocenzo II, benedetta da Bernardo di Clairvaux, che portò uno Spanheim carinziano a capo della marca di Toscana e implicò la partecipazione del patriarca Pellegrino al concilio di Pisa (1135), quando fu scomunicato l’antipapa Anacleto II e deposto l’arcivescovo di Milano, Anselmo della Pusterla. La fitta rete di rapporti intessuta sulla trama delle presenze monastiche rivela inoltre i saldi legami che Pellegrino seppe stringere tra il Friuli patriarcale e la Stiria, la Carinzia, la Carniola, ma anche con Venezia e il Veneto, nonché con l’Istria.
Una simile politica di raccordo mirava anche a consolidare il potere signorile costruito dai patriarchi d’Aquileia, il cui cuore pulsava nel Friuli e nella gigantesca diocesi aquileiese, ma che aspirava a manifestarsi in una sfera d’azione sovraregionale, compendiata dall’ampia giurisdizione metropolitica appena confermata dal papa. Si comprendono così gli accordi distensivi di Pellegrino con l’episcopato di Gurk (1136), o la regolazione degli attriti tra il vescovo di Verona e il capitolo della cattedrale (1140 e 1147), la consacrazione della cattedrale di Trento (1145), ma anche la mediazione assunta, insieme con i vescovi delle città coinvolte, per raggiungere nel marzo del 1147, a Fontaniva, un trattato di pace tra Vicenza e Verona, da una parte, e Padova, Treviso, Conegliano e Ceneda dall’altra, in quello che pare il primo conflitto di dimensioni regionali, che accompagnò la transizione al regime comunale delle città venete. Vi sono più indizi, nelle fonti, specialmente nelle liste dei testimoni e dei sottoscrittori, che lasciano intendere un’iterata opera di coordinamento e di coinvolgimento degli ordinari comprovinciali nelle energiche iniziative di Pellegrino, tanto da lasciar immaginare una non infrequente convocazione di concili provinciali (anche se mai esplicitamente attestati). L’esempio più evidente è quello del dicembre 1140, a Verona, quando insieme con il patriarca si riunirono il cardinale legato e dieci vescovi suffraganei.
La potenza patriarcale si poté consolidare anche mediante la promozione di una nobiltà ministeriale, che occupava i nodi vitali di controllo del territorio, spesso a detrimento di famiglie meno propense all’obbedienza e alla sottomissione. Di tale politica può essere significativo il trasferimento in Friuli di una parte della famiglia di Povo, che vi si radicò assumendo l’eponimo di Manzano, e l’avvio degli attriti con la potente famiglia degli avvocati del patriarcato, i conti di Gorizia (1138-39 e 1149-50). Pellegrino venne addirittura imprigionato dal conte di Gorizia, ma – a testimonianza della sua capacità di intessere alleanze e solidarietà – fu tosto liberato per intervento del marchese di Stiria e degli altri vassalli della chiesa di Aquileia che nel 1150, a Ramuscello, presso l’abbazia di Sesto, imposero al conte un accordo che prevedeva la cessione di numerosi allodi e il rispetto del rinnovato giuramento di fedeltà.
L’ultimo decennio di governo di Pellegrino fu contraddistinto dalla collaborazione con il re, e poi imperatore, Federico Barbarossa. L’adesione ai sovrani germanici fu una costante per Pellegrino, tanto che opportunamente Paschini (1914, p. 25) osservava che il suo supposto avvicinamento ai pontefici fosse solo un’illusione ottica, indotta da consonanze momentanee tra la politica imperiale e quella papale. Il patriarca si era recato in Germania già nel 1140 e nel 1151 e non aveva mai mancato di affiancare gli imperatori in occasione delle loro discese nella penisola. La fedeltà a Federico risalta di più a motivo del riacutizzarsi delle tensioni con il papato. Egli accompagnò il Barbarossa nelle prime due discese in Italia, fu presente alla seconda dieta di Roncaglia (1158), contribuì con le milizie aquileiesi all’esercito imperiale, e riconobbe l’antipapa Vittore IV, partecipando alla sinodo di Pavia (1160), quando si decretò la deposizione di Alessandro III. Rimase al fianco di Vittore anche nei concili di Cremona e di Lodi, fra maggio e giugno del 1161.
La morte colse Pellegrino l’8 agosto del 1161, forse lontano dal Friuli. Il necrologio di Aquileia lo gratifica dell’aggettivo di pius e ne ricorda la deposizione nel coro della basilica patriarcale.
Il suo nome è menzionato anche nei necrologi di S. Pietro di Salisburgo, e delle abbazie di Ossiach, Millstatt e Rosazzo, a conferma di una memoria che prolungava l’efficace capacità di tessere relazioni avuta in vita (Necrologium Aquileiense, a cura di C. Scalon, 1982, p. 273 e nota 24).
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