PELOPE (Πέλοψ, Pelops)
Eroe della mitologia greca, famoso soprattutto per essere stato il capostipite di quella famiglia (i Pelopidi), da cui traevano la loro origine Agamennone e Menelao. P. fu uno dei figli di Tantalo, il noto re frigio, che per avere più volte offeso gli dei, che pure l'avevano in ogni modo favorito, soffre nell'Ade crudele ed eterna pena. Si raccontava fra l'altro che Tantalo, per mettere alla prova gli dei, aveva ucciso il figlio Pelope e, fattene cuocere le membra, le aveva imbandite alla mensa degli dei, che non disdegnavano convitarvelo. Scoperto il delitto, P. fu richiamato in vita da Ermete; ma si dové provvedere a sostituirgli in avorio una spalla che già Demetra aveva in gran parte consumata: e non solo Tantalo si ebbe l'atroce punizione ben nota, ma la maledizione divina ricadde anche sui suoi figli, Niobe e Pelope, e sulla loro discendenza.
La leggenda di P. narrava che questi, dopo varie peregrinazioni, era giunto in Elide. Quivi regnava Enomao (v.), il quale, secondo la versione più antica del mito (com'è in Esiodo, Eee, fr. 147), aveva promessa la figlia Ippodamia in sposa a colui che avesse saputo rapirla sul suo cocchio: Enomao stesso però si sarebbe gettato all'inseguimento del pretendente e l'avrebbe ucciso colla lancia se lo avesse raggiunto prima che quegli avesse toccato l'ara di Posidone sull'Istmo di Corinto. E già Enomao, che aggiogava al suo cocchio i velocissimi cavalli donatigli dal padre Ares, aveva vinto e ucciso tredici pretendenti, quando si presentò P., il quale, correndo, all'insaputa di Enomao, coi corsieri che aveva a sua volta ricevuto in dono da Posidone, guadagnò la vittoria e la sposa. La sorte di Enomao era lasciata incerta in questa versione della leggenda; probabilmente si pensava ch'egli avesse trovato la morte, precipitando nel mare con i suoi cavalli, mentre inseguiva il rivale. Secondo però un'altra versione della leggenda, P. avrebbe ottenuto la vittoria con la frode, e cioè guadagnandosi la tacita connivenza di Mirtilo, l'auriga di Enomao. Questo Mirtilo, figlio di Ermes, sarebbe stato anch'egli innamorato di Ippodamia e si sarebbe lasciato persuadere da lei a tradire il re: infatti aveva tolto i cavicchi delle ruote del cocchio di Enomao, sostituendoli con cavicchi di cera. A Mirtilo era stata promessa da Pelope la metà del regno; invece, durante il viaggio alla volta di Lesbo, P., sdegnato perché Mirtilo voleva usare violenza ad Ippodamia, o almeno baciarla, l'aveva precipitato in mare presso gli scogli Geresti, alla punta meridionale dell'Eubea; da lui aveva preso il nome il mare Mirtòo. Tutti questi diversi particolari si trovano in vario modo riuniti nella tradizione del mito accolta ed elaborata dai poeti tragici; come appunto nell'Enomao di Sofocle, e nell'Enomao di Euripide, che fu rappresentato nel 409 a. C. e servì di modello al poeta latino Accio: in esso, la sfida di Enomao al ratto della figlia era sostituita da una vera gara di corsa coi carri. La gara tra Pelope ed Enomao fu rappresentata sovente nelle pitture vascolari, e diede soggetto al gruppo del frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia.
Le nozze di Pelope e Ippodamia non potevano esser felici: l'eroe è perseguitato dalla vendetta degli dei, cui s'aggiunge ora la maledizione lanciatagli da Mirtilo, prima di morire. Dal matrimonio nacquero sei figli: due di essi furono Atreo e Tieste, capostipiti di tragiche famiglie. Avendo poi P. avuto dalla ninfa Assioche un figlio illegittimo, Crisippo, ch'egli amava di tenerissimo amore, Ippodamia, temendo che i suoi proprî figli venissero in seguito privati dal padre dei loro diritti di successione, incitò i due maggiori - Atreo e Tieste - a uccidere il fanciullo.
Scoperto il delitto, P. scacciò la moglie e i figli; questi si sparsero nel Peloponneso; Ippodamia morì poco dopo a Midèa, nell'Argolide. Essa ebbe culto in Olimpia, dove anzi, a ricordo delle sue nozze con P. e in onore di Era, patrona del matrimonio, furono istituite le feste Eree, nelle quali si disputava, da sedici fanciulle, una gara di corsa. Ardua è l'analisi di queste leggende, varie di età e di origine. Ma pare fondata l'ipotesi che P. sia l'eponimo dei Pelopes, un popolo reale o mitico che avrebbe dato il suo nome al Peloponneso.
Bibl.: C. Gaspar, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, VII, p. 374 seg.; Bloch, in Roscher, Lexicon der griech. und römischen Mythologie, III, col. 1866 segg.; C. Robert, Die griech. Heldensage (forma la seconda parte della 4ª ed. della Griech. Mythologie, di L. Preller), I, Berlino 1920, p. 206 segg.; U. Wilamowitz, Der Glaube der Hellenen, I, Berlino 1931, p. 63 seg.