Pena di morte
Y no hai remedio
(Francisco Goya)
La lunga storia della pena capitale
di Verso l’abolizione
Il 18 dicembre 2007 la 62a Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, approva la risoluzione per una «Moratoria nell’uso della pena di morte». La maggioranza è larghissima: 104 voti favorevoli, 54 contrari e 29 astensioni. Al momento del voto ci sono anche quattro assenze. È un risultato migliore del passaggio decisivo – quello dell’approvazione da parte della III Commissione (SOCHUM, Social, Cultural and Humanitarian) composta sempre dall’intero corpo dei paesi membri – appena un mese prima. Allora i voti a favore erano stati 98. Fino a pochi giorni prima il risultato era sembrato incerto. L’Italia ha avuto un ruolo decisivo, con la sua diplomazia, nel supporto al lavoro condotto dalla presidenza europea a guida portoghese e dagli altri promotori della risoluzione, dalla Nuova Zelanda a Timor Est: un ruolo efficace e defilato. Significativo ai fini del successo è stato il lavoro di organizzazioni con radici in Italia, da Nessuno tocchi Caino alla Comunità di Sant’Egidio, sia nelle settimane precedenti il voto sia nell’ultimo anno e lungo tutto il percorso che, dalle battute d’arresto della fine degli anni 1990, ha portato al successo finale. Una delle chiavi di questo successo è stata la capacità di fare rete con i governi non europei e con altre organizzazioni umanitarie come Amnesty International e la Coalizione mondiale contro la pena di morte (WCADP, World Coalition Against the Death Penalty), in una piena sinergia istituzionale, governativa e non governativa, e una maggiore unità europea al servizio di una rete mondiale, mentre si è operata una convergenza di diverse culture politiche e religiose. È la ratifica di un concetto fondamentale: la pena di morte e l’aspirazione ad abolirla non sono più una questione ‘privata’ o una battaglia delle organizzazioni abolizioniste, che si battono per un maggiore rispetto dei diritti umani nel mondo. La risoluzione afferma che è un problema della comunità internazionale e d’ora in poi sono le Nazioni Unite e il segretario generale a essere chiamati a monitorare sul rispetto o meno della risoluzione «verso l’abolizione». Si affermano, condivisi da una maggioranza importante, nuovi standard di rispetto della vita umana nell’applicazione, anche la più estrema, della giustizia. La pena di morte, ancorché la risoluzione non sia vincolante, diventa un problema della comunità internazionale e non può essere solo una questione di ordinamenti interni, anche se ai singoli Stati membri resta, ovviamente, la piena sovranità sulle questioni della giustizia interna. Ma non si può più ignorare che la fine delle esecuzioni capitali è il punto cui la comunità internazionale vuole arrivare, e che c’è un invito solenne a fermare quelle già decretate. Come ci si è giunti?
Un lungo cammino
La pena capitale ha una lunga storia, verosimilmente lunga quanto quella dell’umanità. Popolare in quasi tutte le culture, nel mondo occidentale è stata accompagnata per secoli dal consenso dei maggiori pensatori: Platone e Aristotele, ma anche Immanuel Kant e Benedetto Croce, e pensatori cristiani, sia cattolici sia della Riforma: sant’Agostino, san Tommaso, Roberto Bellarmino, Martin Lutero, Giovanni Calvino. Non hanno fatto eccezione utopisti come Tommaso Campanella e Tommaso Moro, giusnaturalisti come Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau, illuministi come Montesquieu, o idealisti come Georg Wilhelm Friedrich Hegel, fino ai grandi penalisti moralisti come Pellegrino Rossi o Francesco Carnelutti. Nella Bibbia la pena di morte appare una compagna naturale dell’umanità: ma può essere individuato un percorso evolutivo, che va dalla vendetta smisurata, «settanta volte sette», alla punizione proporzionata «occhio per occhio dente per dente», fino all’affermarsi di un pensiero che assegna solo a Dio il potere sulla vita umana, e non all’uomo o al suo sistema di giustizia (nel libro di Giobbe). Il Nuovo Testamento va oltre e indica la via del superamento della violenza e del perdono in ogni circostanza, anche di fronte a un torto subito, con il rifiuto della morte come pena, fino alla morte di Gesù in croce, condannato da un sistema giuridico evoluto – ma pur sempre imperfetto come tutti i sistemi umani – come quello dell’Impero romano. Le motivazioni a favore sono state le più varie: dall’idea della pena di morte come terapia sociale, per recidere l’‘arto malato’ costituito dal grande criminale, dall’uomo accomunato a una ‘bestia feroce’ o a una malattia capace di corrompere il corpo sociale, all’idea che il criminale a causa del suo stesso crimine si è già posto al di fuori della società e della compagine umana. In tal modo la pena di morte sarebbe solo la ratifica dell’uscita già avvenuta dalla condizione di essere ‘umano’. In epoca contemporanea gli argomenti della ‘giustizia retributiva’ o del pensiero utilitaristico hanno prevalso su altri nella giustificazione della pena capitale, puntando sull’argomento della deterrenza: la paura della morte sarebbe di per sé un elemento di dissuasione dei potenziali criminali. È sempre su una base utilitaristica che si è fatto strada lentamente, in epoca moderna, un pensiero alternativo alla pena capitale: per Voltaire la pena di morte era semplicemente inutile e di nessun ‘profitto’ per la società, per Jeremy Bentham era un danno perché riduceva la fonte della ricchezza, cioè il numero degli esseri umani. Cesare Beccaria, cui si deve l’inizio del processo abolizionistico nel mondo occidentale, osservava come «l’ultimo supplicio non ha mai distolto gli uomini determinati dall’offendere la società». Nel suo Dei delitti e delle pene va anche oltre. Afferma che la certezza e non la gravità della pena è il deterrente più efficace e osserva che nessun cittadino, per il patto sociale, può cedere allo Stato il diritto di disporre della propria vita personale, concludendo che: «La pena di morte non è un diritto, ma è la guerra di una nazione intera contro un solo individuo... Questo non rende migliore la società». Oggi, in una grande democrazia come gli USA, l’argomento della deterrenza è a volte discusso e cresce una critica utilitarista che verte sull’eccesso dei costi del sistema giudiziario fondato sulla pena capitale.
La prima abolizione che si ricordi da parte di uno Stato è datata 30 novembre 1786 (Codice leopoldino) e porta la firma di Pietro Leopoldo, granduca di Toscana. Con lo stesso atto si aboliva la tortura. L’influenza del pensiero di Beccaria era diretta e per qualche tempo anche la Russia di Caterina la Grande ne fu coinvolta. Ma di fronte alle sommosse sembrava ancora un pensiero debole, tanto che temporaneamente anche Pietro Leopoldo stesso reintrodusse la pena per i responsabili dei sollevamenti popolari (1790) e l’inversione di tendenza fu confermata nel Granducato di Toscana anche dal successore Ferdinando III, nel 1795 e poi nel 1816. In altre zone d’Italia la pena di morte progressivamente smise di essere una certezza e diventò un ‘problema’, con la fugace abolizione della Repubblica Romana e poi con quella italiana del Codice Zanardelli (1890), per altro non definitiva, per la reintroduzione avvenuta con le leggi del 1926 «per la difesa dello Stato» e poi con il Codice Rocco. Ma la Costituzione italiana del 1948 è nata senza pena capitale e successivamente il rifiuto della pena estrema si è esteso anche al tempo di guerra.
Dagli anni 1970 il tema è entrato nelle campagne internazionali di Amnesty International e i paesi abolizionisti hanno cominciato a crescere. Ma 30 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale erano ancora poco più di 20. Negli USA c’è stata una battuta di arresto fra il 1972 e il 1974, poi le esecuzioni sono ricominciate e dal 1982 è stata introdotta la tecnica dell’iniezione letale, messa sotto accusa nel 2007 e nel 2008. Dalla ripresa delle esecuzioni, il Texas da solo tende a rappresentare metà delle esecuzioni dell’intera federazione, mentre in California c’è il più grande braccio della morte, con oltre 600 condannati. Degli altri Stati, 13 più il Distretto di Columbia hanno abrogato la pena capitale: il primo è stato il Michigan dal 1° marzo 1847. Nel resto del mondo la pena capitale ha avuto alterne fortune. L’ultima esecuzione a San Marino risale al 1468, ma l’abolizione completa è del 1865. Venezuela e Portogallo si segnalano per l’abolizione già nel 1863 e nel 1867. Il maggior numero di esecuzioni in cifre assolute nei tempi moderni è concentrato in Cina, dove pure al tempo della dinastia Tang l’imperatore Taizong (712-756) era arrivato alla completa abolizione. La Gran Bretagna è entrata nel gruppo degli abolizionisti nel 1971, il Canada nel 1976, la Francia nel 1981 – quando era presidente François Mitterrand e ministro della Giustizia Robert Badinter –, l’Australia nel 1985. Il percorso verso la cancellazione della pena capitale è, dunque, molto recente. In larga parte coincide con il Secondo dopoguerra e le democrazie europee ne hanno fatto progressivamente un fatto identitario dell’Unione, fino a diventare il primo continente ‘senza’. A livello internazionale è del 1976 l’entrata in vigore della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, adottata nel 1966 dall’ONU. Il secondo Protocollo opzionale che vi è contenuto è il documento internazionale più netto nel rifiuto della pena di morte, anche se lascia aperta la possibilità della sua reintroduzione in caso di guerra. Trenta anni dopo, nel 2008, i paesi che hanno firmato e ratificato questo Protocollo sono diventati 64, mentre 8 firmatari ancora devono ratificarla. Si fa strada, progressivamente, il sentire che Albert Camus esprimeva con riferimento alle sue esperienze dirette nell’Algeria francese: «La pena di morte non è una semplice pena. Una esecuzione non è semplicemente morte. È diversa dalla privazione della vita come un campo di concentramento è diverso da una prigione, perché aggiunge alla morte una legge, una pubblica premeditazione, una preparazione. Ed è conosciuta dalla futura vittima, quindi non è come un omicidio casuale. C’è dentro un’organizzazione che è essa stessa una fonte di sofferenze morali più terribile della morte. La pena di morte è l’assassinio più premeditato e nessuna impresa criminale, anche la peggiore, può paragonarsi a questo. Perché è come se una vittima fosse stata avvertita in precedenza dall’assassino della data in cui verrà inflitta la morte, fosse stata anche informata dell’identità dell’assassino per mesi e anche per anni: la vittima sa che in quel giorno e a quell’ora sarà ucciso e da quella persona. Un mostro così non si incontra nella vita privata».
Dagli anni 1990, in media, tre paesi all’anno sono entrati nel gruppo dei paesi abolizionisti, fino a superare la metà dei paesi del mondo se si includono nel numero anche i cosiddetti ‘abolizionisti di fatto’, che da oltre dieci anni non eseguono sentenze capitali anche a fronte di nuove condanne e di una permanenza dell’istituto giuridico nel sistema penale.
La risoluzione dell’ONU
Una prima risoluzione all’Assemblea generale dell’ONU per una moratoria universale venne presentata dall’Italia, con un forte attivismo di Nessuno tocchi Caino, nel 1994 e subì una sconfitta di misura, solo 8 voti. Nel 1998 un secondo tentativo, guidato dall’Europa, segnò una pesante battuta di arresto di fronte all’opposizione capitanata da Egitto e paesi arabi, Singapore e paesi asiatici e dal gruppo dei paesi caraibici. Era la resistenza trasversale a quella che veniva descritta come una imposizione unilaterale al resto del mondo di una visione dei diritti umani non universale, ma ‘europea’. Una UE non concorde sulle strategie di risposta decise di ritirare la risoluzione ancora prima del momento del voto. A quel punto ebbe inizio una strategia di lungo periodo che spiega il successo di nove anni dopo. Vi hanno contribuito molti fattori: il pontificato di Giovanni Paolo II e la messa in mora sotto il profilo pratico, come «mai necessaria», della pena capitale da parte del nuovo catechismo della Chiesa cattolica; un’accresciuta mobilitazione internazionale, decisiva in alcuni casi, come quello delle Filippine; l’attività internazionale della Comunità di Sant’Egidio, dalla creazione della rete mondiale delle città contro la pena di morte all’appello per una moratoria universale che ha raccolto più di cinque milioni di firme in 153 paesi del mondo appartenenti alle più diverse culture e che il 2 novembre 2007 è stato consegnato al presidente dell’Assemblea generale Srgjian Kerim in delegazione con la WCADP, per sciogliere il principale argomento degli oppositori della risoluzione; la nascita a Roma della stessa WCADP, per iniziativa e per il lavoro delle maggiori organizzazioni abolizioniste e umanitarie del mondo, da Ensemble contre la peine de morte a Penal reform international, da Amnesty International alla Fédération internationale des droits de l’homme, dalla Federazione internazionale di azione di cristiani contro la tortura a Sant’Egidio, da Death penalty focus all’Associazione delle famiglie delle vittime (MVFHR, Murder Victims’ Families for Human Rights), dalla Texas coalition alla National association of criminal defense lawyers (NACDL) e alla Paris bar association, alle principali organizzazioni asiatiche (dal 2006 raccolte nel fronte regionale ADPAN, Anti-Death Penalty Asia Network), che è arrivata in pochi anni a comprendere 76 sigle locali, nazionali e regionali. Molti altri elementi hanno concorso a costruire il successo all’ONU: l’istituzione della Giornata mondiale contro la pena di morte, il 10 ottobre di ogni anno, e della Giornata delle città contro la pena di morte, le ‘città per la vita’ collegate in network mondiale, il 30 novembre di ogni anno; la creazione di un primo fronte morale laico e religioso, multiculturale, per una giustizia senza vendetta, capace di rispettare la vita umana in ogni circostanza; le iniziative, soprattutto di Amnesty International, Penal reform international, Nessuno tocchi Caino e in generale della WCADP presso governi retenzionisti o abolizionisti di fatto, quelle di Sant’Egidio nell’Africa sub-sahariana e in Asia centrale (che sono le zone del mondo in cui sono avvenuti i maggiori cambiamenti negli ultimi anni) dal Burundi al Ruanda, dal Gabon all’Uzbekistan, dal Kirghizistan al Kazakistan. Importanti, anche, negli Stati Uniti l’abolizione da parte del New Jersey alla vigilia del voto ONU, i ripetuti interventi della Corte suprema cinese per ridurre il numero dei casi e delle corti abilitate per la sentenza capitale, la posizione non ‘pro-attiva’ dell’India, il ruolo di modello culturale esercitato dal Sudafrica e il passaggio nell’area senza pena di morte della Russia.
Quando all’inizio del 2007 il mondo era sotto l’impressione dell’esecuzione di Saddam Hussein, nonostante la strategia abolizionista del movimento di base internazionale fosse ancora incerta sulla possibilità di accelerare sul tema della moratoria, in Italia è cresciuto un movimento di opinione pubblica e istituzionale che riteneva maturo il tempo per una importante e vincente iniziativa all’ONU. Il governo Prodi e il ministro degli Esteri Massimo D’Alema hanno lavorato per creare una posizione comune europea, Nessuno tocchi Caino ha fatto pressione sull’opinione pubblica e sulle forze politiche italiane per proporre la moratoria immediatamente, nel corso della 61a Assemblea generale al Palazzo di vetro. Era un percorso rischioso, ma la pressione si è rivelata di grande importanza e ha fatto da spinta iniziale e alimentato l’azione diplomatica italiana. La Comunità di Sant’Egidio ha lavorato a creare un fronte comune internazionale, di governi e di ONG, per un’iniziativa risolutiva nella 62a sessione, per l’autunno. All’inizio di febbraio 2007 un passaggio importante ha rappresentato l’inclusione nel documento finale del terzo Congresso mondiale contro la pena di morte, a Parigi, dell’obiettivo comune di una risoluzione ‘vincente’ all’Assemblea generale delle Nazioni Unite proprio per una moratoria universale. Non era un elemento scontato. Ha segnato infatti la saldatura tra abolizionisti e fautori della moratoria e ha definito stabilmente la moratoria come un passaggio intermedio e decisivo verso l’abolizione. È stato il modo di superare in radice il rischio di una ‘delegittimazione’ dal basso della grande iniziativa istituzionale da presentare all’ONU nei mesi successivi. La chiave per superare le perplessità di Amnesty International, in una triangolazione che ha visto molto attivi i soggetti italiani, è stato il riconoscimento del valore che avrebbe avuto nella strada verso l’abolizione una risoluzione successful, «di successo»: questo ha fatto superare i timori di un’iniziativa prematura e includere Amnesty International dentro il fronte per una moratoria universale. A giugno a Bruxelles la WCADP si è ristrutturata sul nuovo obiettivo della risoluzione ONU cambiando la propria agenda, per iniziativa di Amnesty International e Sant’Egidio, e da allora è iniziato un lavoro di coordinamento che non si è interrotto fino al momento del voto finale. Ad agosto, a Lisbona, si sono fissate con la Presidenza europea le linee comuni di azione tra UE e ONG.
La scelta è stata quella di lavorare a una risoluzione ‘non europea’ ma cross-regional e che avesse tra i coautori rappresentanti di rilievo da tutti i continenti. Dall’estate la sinergia tra tutti i soggetti, all’interno e all’esterno della WCADP, la forte iniziativa italiana, il lavoro di Francia, Portogallo e del gruppo dei coautori al Palazzo di vetro, hanno ottenuto un crescente consenso al testo finale della risoluzione, che è arrivata ad avere prima 86 e poi, nel giorno della votazione finale, 87 co-sponsors, con l’aggiunta finale della Costa d’Avorio. La risoluzione è stata presentata l’ultimo giorno utile, il 1° novembre. Alla terza Commissione c’è stato un confronto serrato sugli emendamenti, alcuni dei quali puntavano a svuotare la risoluzione, ma sono stati tutti respinti a maggioranza. In prima linea nell’opposizione erano di nuovo Egitto e alcuni paesi arabi, Singapore, paesi caraibici e Nigeria. È stato il Gabon a introdurre la risoluzione non più solo europea. La fatica del dibattito si è sciolta in un grande applauso al momento del voto di approvazione. Il mese successivo è servito a ricucire e a concordare le procedure per il voto finale. Sono stati presentati un numero limitato di dichiarazioni di voto contrario e una soltanto a favore. L’Italia ha rinunciato a intervenire. Non c’è stato nessun applauso, per ricreare un clima di collaborazione in seno alle Nazioni Unite, ma il risultato di quello che formalmente sarebbe un passaggio burocratico al livello più alto delle Nazioni Unite è stato una approvazione ancora più consistente della risoluzione. Due giorni dopo il voto, il 20 dicembre, l’editoriale sulla pena capitale del New York Times intitolato Una pausa dalla morte, ha sintetizzato così quello che è successo: «Gli Stati Uniti, come sempre, si sono allineati all’altra parte, assieme a Iran, Cina, Pakistan, Sudan e Iraq. Insieme questa fraternità di sangue rappresenta più del 90% delle esecuzioni nel mondo, secondo Amnesty International. La devozione alla propria sovranità di questi paesi è rigida, come lo è la loro perversa fede nelle esecuzioni come un deterrente criminale e come strumento di una giustizia evoluta. Ma al di là di Texas, Ohio, Virginia, Myanmar, Singapore, Arabia Saudita e Zimbabwe, ci sono numeri crescenti che desiderano qualcosa di meglio per l’umanità. Molte non sono nazioni ma gruppi di gente ordinaria, organizzazioni come la Comunità di Sant’Egidio, un movimento cattolico di laici che ha mosso i primi passi in Italia, il cui lavoro per i diritti umani ha fatto molto per portare al successo del voto di questa settimana all’Assemblea generale». Il resto è cronaca del 2008, un anno che si è aperto con l’abolizione della pena di morte in Uzbekistan, il 1° gennaio, e che tra giugno e luglio ha visto la commutazione di 7000 sentenze capitali in Pakistan, uno dei paesi musulmani più grandi del mondo.
repertorio
La pena di morte attraverso i tempi
Dalla pena privata alla pubblica
Nelle più antiche società a struttura tribale la pena consiste in una compensazione materiale alla vittima o alla famiglia, oppure in una mutilazione corporale del reo (legge del taglione); nei casi più gravi è comminata la pena di morte. Talvolta l’ordalia o la tortura precedono il castigo se l’imputato ricusa di confessare la sua colpa. È il capo o l’anziano che funge da tribunale, applicando in modi arbitrari e soggettivi norme consuetudinarie, tramandate oralmente; ma in genere l’individuo o il gruppo offeso si fa giustizia da sé. L’affermarsi nelle civiltà più evolute di un’autorità centrale sui gruppi minori importa che determinati reati, concepiti come attentati alla sicurezza dell’intera società prima che come offese a un singolo, siano puniti direttamente dallo Stato, la cui azione può escludere o anche accompagnare quella della persona lesa. Sorge così il dualismo di pena pubblica e privata, caratteristico del mondo greco-romano. L’evoluzione non è identica nell’ambito dei due diritti: è più lenta in Grecia, dove l’omicidio rimane per lungo tempo reato di azione privata, più rapida in Roma dove già in età regia è attestata dalla tradizione la presenza dei quaestores parricidii e dei duoviri perduellionis, magistrati incaricati della repressione dei delitti di parricidio e tradimento, la cui pena è pertanto pubblica: da questo momento nel mondo romano pena pubblica e pena privata appaiono come istituti separati. In origine afflizione corporale che può giungere all’uccisione del reo, la pena privata consiste, in età repubblicana, nel pagamento di una somma di denaro a titolo di composizione (prima convenzionale, poi legale) e in seguito è costantemente pecuniaria. Nell’ordinamento postclassico l’ambito del diritto penale privato diviene ristrettissimo e la pena pubblica accresce la sua estensione man mano che aumenta l’autorità dello Stato, con sanzioni capitali in vario modo inflitte; nel periodo imperiale al sistema repressivo vigente si affianca la concorrente giurisdizione del principe e dei suoi funzionari, che opera con la più grande libertà nella determinazione dell’illecito e della pena.
Supplizi in Grecia e Roma
Nella civiltà greca arcaica l’idea della giustizia si manifesta come obbligo, dovere sociale di vendetta spettante ai figli della vittima. Con la nascita della polis e la transizione dal sistema tribale a quello cittadino la pena di morte svolge le funzioni di affermare l’autorità della nuova entità statale sovraordinata alle famiglie; soddisfare almeno in parte il desiderio di vendetta delle vittime o dei familiari cui era lasciato il compito di eseguire materialmente la sentenza capitale (per secoli il processo giudiziario fu inteso come ‘vendicativo’); sopprimere un individuo portatore, con il suo comportamento delittuoso, di impurità e contagio per la comunità. Tra i supplizi sono attestati la lapidazione, remota vendetta collettiva di tipo istintivo, non istituzionale; la precipitazione nel barathron, esecuzione sacrale riservata a coloro che hanno offeso gli dei, poi prevista in sentenze capitali per reati politici; l’apotympanismos, tipo di crocifissione particolarmente infamante, per traditori e malfattori; la cicuta, costoso veleno somministrato in carcere a spese del condannato, per crimini contro lo Stato e per ‘empietà’. Nella polis greca la permanenza della pena di morte subisce ripensamenti e attenuazioni specie nelle vicende politiche e costituzionali di Atene, registrando il graduale superamento della ‘cultura dell’ira’ e della punizione come ‘irrazionale vendetta’. Nel Protagora di Platone vengono considerate da un lato l’utilità delle pene per l’emendazione del colpevole e per la prevenzione di ulteriori mali, dall’altro l’eccezionalità della pena di morte da comminare in casi gravissimi. La pena non è retribuzione e le è affidata una funzione riabilitativa e deterrente; la giustizia è ‘prospettiva’ non ‘retrospettiva’. I supplizi romani, rispetto ai greci, si complicano di riti e di significati magico-religiosi, comportando cerimonie che rimandano a una lunga storia precittadina, come la poena cullei, ‘pena del sacco’ per i parricidi, in cui il reo, coperta la testa di una pelle di lupo, dopo essere stato fustigato con verghe sanguineae, era chiuso in un sacco con un gallo, un cane, una vipera, una scimmia, e gettato in un fiume. Il sistema romano prevedeva una varietà di tormenti con aspetti di particolare crudeltà: la decapitazione riservata al cittadino romano (securi percussio: la decollatio con la scure, simbolo della sovranità di Roma) era una morte fortunata, a paragone di ‘vivicombustione’ (crematio), condanna ad bestias, precipitazione, crocifissione (crux, supplizio servile), sepoltura da vivi (nel caso delle Vestali che avessero infranto il voto di castità) e di condanne teoricamente non capitali, ma tali nei fatti, come la castrazione o la tortura introdotta da Costantino consistente nel versare piombo fuso nella gola del reo. Non vi erano garanzie per i condannati, esposti all’arbitrio dei funzionari imperiali e spesso giustiziati al di fuori della legalità.
Medioevo: composizione e coazione
Nel Medioevo la pena privata torna a essere un istituto di larga applicazione nei territori occupati dai popoli germanici. La vendetta (faida) è presto sostituita da una pena pecuniaria, consistente nel guidrigildo, che è il pretium mortui, o nella composizione per reati meno gravi. Come strumento di civiltà giuridica il guidrigildo da mezzo privato, usato per evitare le vendette del clan, diventa diritto pubblico, previsto dal legislatore con un calcolo minuzioso del prezzo della composizione (più alto se si tratta di un nobile, più modesto nel caso di un ‘aldio’, o semilibero, e di un servo). L’affermarsi dell’autorità dello Stato sotto i Carolingi importa una maggiore ingerenza nel campo del diritto penale privato, ma con la crisi dell’impero e l’affermarsi del particolarismo (sec. 10°) si torna alla difesa privata, preventiva e repressiva. Nei territori non soggetti a influenze germaniche, la pena pubblica conserva, per tradizione, una maggiore estensione, ma il sistema delle composizioni è ricorrente e compare nei primi statuti comunali. Per almeno cinque secoli, quindi, la pena di morte non è usata, o se lo è, non ha l’estensione e l’ufficialità che avrà in seguito quando, con il diffondersi del diritto giustinianeo, diverrà comune a tutti i popoli europei. Dal Mille in poi, all’idea imperiale da un lato e allo sviluppo delle città dall’altro consegue il riaffermarsi del potere punitivo dello Stato che porta alla definitiva sparizione della pena privata. Proprio nel basso Medioevo avviene quel cambiamento per cui il diritto penale da ‘tecnica della composizione’ si trasforma in ‘tecnica della coazione’, con la pena di morte in primo luogo, seguita da altre pene mutilanti, come si trova nelle Constitutiones Regni Siculi (1231) compilate per ordine di Federico II. Non favorevole ideologicamente alla pena di morte, la Chiesa cambia orientamento quando decide di mettere in atto una politica penale contro gli eretici servendosi di proprie leggi e di una polizia speciale (Inquisizione), istituita allo scopo con Alessandro III (1181), Lucio III (1185), Innocenzo III (1216) e gli altri pontefici del periodo classico del diritto medioevale. Si affermano come dominanti il principio d’intolleranza e lo ius gladii, il ‘diritto di spada’, il potere di condannare a morte. I primi a opporsi alla legalizzazione dell’‘omicidio giudiziario’ sono gli eretici catari e i valdesi, sulla base che il precetto divino ‘non uccidere’ non può essere mai violato. Al crisma della legittimazione della pena capitale dato da Innocenzo III nel 1199 con la lettera decretale Vergentis in senium, Tommaso d’Aquino (1225-74), massimo rappresentante della Scolastica, fornisce le ragioni scientifiche, razionali, della sua applicabilità. Rifacendosi al principio aristotelico della prevalenza del tutto sulle parti e a quello, che ne consegue, del bene del popolo come bene supremo, scrive: «Se la salute di tutto il corpo lo richiede, è salutare tagliare le membra cancrenose. L’individuo sta alla comunità come una parte sta al tutto; se un uomo è un pericolo per la società, sopprimerlo è lodevole». La concezione organicistica dello Stato, l’associazione metaforica della società a un corpo che per autodifesa può amputare le parti malate, e il motivo superindividuale del bene comune offrono uno degli argomenti più comuni alla pena di morte.
Ancien Régime
Con l’avvento dell’età moderna la pena di morte s’impone ovunque sulla composizione e si definisce una serie di reati: i ‘gravi’ prevedono una morte semplice come l’impiccagione; i ‘gravissimi’ comportano ‘rigorose esemplarità’, tormenti supplementari che rendono particolarmente cruenta l’esecuzione: squartamento, schiacciamento lento e progressivo, allungamento, decapitazione preceduta dal taglio di arti, rogo, ruota, scorticamento, metodo del pendolo, letto incandescente, tenaglie roventi. A quella dei privati, lo Stato che sorge e si organizza in modo centralizzato oppone la propria violenza, prestabilita e formalizzata. Il principio enunciato dal Digesto per il quale ciò che piace al principe ha valore di legge (quod principi placuit legis habet vigorem) riceve un’attenta esegesi che lo amplia e lo salda con la ‘ragion di Stato’ giustificando l’eliminazione degli avversari politici, dei ‘turbatori’ dell’ordine costituito, per reato di ‘lesa maestà’, tra i più facili da ipotizzare per chi detiene il potere. Sulla base della consacrazione dello Stato assoluto vengono compilate la Costituzione criminale di Bamberga (1507), la Costituzione criminale carolina (1532) emanata da Carlo V che resterà a fondamento del diritto penale tedesco fino a tutto il sec. 18°; l’Ordinanza francese (1539), le Nuove costituzioni milanesi (1541). La situazione non è diversa in Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Inghilterra ecc. e nelle varie realtà politiche in cui è frammentata l’Italia.
In nome della ragion di Stato la pena capitale è applicata a una gamma di comportamenti che include i reati ‘di opinione’, e accompagnata da ogni sorta di torture. Nella casistica dei supplizi vi è un preciso codice del dolore: la pena è calcolata secondo un’arte quantitativa della sofferenza (qualità, intensità, lunghezza); è spettacolo pubblico e rituale organizzato: nella sentenza di condanna vengono meticolosamente enumerati gli episodi della scena (sfilata, soste ai crocevia e alle porte delle chiese, dichiarazioni ad alta voce di pentimento per l’offesa fatta a Dio e al re) e con studiato cerimoniale un apparato di cavalieri, arcieri e soldati contorna il palco. Nella liturgia del supplizio il personaggio principale è il popolo, la cui presenza reale è richiesta per il suo compimento e per provocare in esso un effetto di terrore con lo spettacolo della legge che si abbatte sul colpevole.
Nel Seicento si consolida e perfeziona la legislazione del Cinquecento. L’Ordinanza francese del 1670, la legge più importante pubblicata in Europa in materia di diritto e procedura penale, rafforza in certi punti la severità dell’età precedente: la giurisprudenza, gli editti e i gridari attestano un impiego senza risparmio della pena capitale, comminata anche per minime infrazioni. Nei paesi europei, a eccezione dell’Inghilterra (modello di giustizia criminale per l’istituzione della giuria, della procedura pubblica e per un qualche rispetto dell’habeas corpus), tutta le operazioni processuali rimangono segrete, l’unico metodo con cui è condotta l’istruttoria è quello inquisitorio che non dà nessuna garanzia all’imputato: impossibile per l’accusato accedere agli atti, conoscere l’identità e le deposizioni dei denunciatori, far valere i fatti giustificativi, avere un avvocato per verificare la regolarità dell’iter e partecipare alla difesa. Lo stabilire la verità è per il sovrano e i suoi giudici un diritto assoluto e un potere esclusivo. Contro la pena di morte si levano voci dissidenti, contribuendo in nuce a creare quel clima in cui il movimento abolizionista poté nascere. Tommaso Moro riconduce il crimine a due cause sociali, la miseria e l’ignoranza, e muovendo da principi cristiani traccia le linee di un sistema penale fondato sulla rieducazione del reo mediante l’impiego in lavori utili, come risarcimento del danno arrecato (Utopia, 1516). Il giurista Andrea Alciato e la scuola ‘culta’ che a lui fa capo, in polemica con tutti i dottori di diritto penale, commentando i testi giustinianei, se pure con qualche forzatura, trovano argomenti per sostenere la necessità di sostituire la ‘carneficina’ della pena di morte con la reclusione a vita (De verborum significatione, 1548). Sebastien Castellion con i suoi ‘libelli’ mette in discussione la legittimità della pena di morte comminata agli eretici dai protestanti: occasione della polemica, la condanna di Michele Serveto, messo al rogo a Ginevra (1553) per volontà di Giovanni Calvino. Per gli intellettuali ‘radicali’, che non aderiscono più alla Chiesa cattolica ma sono contrari anche alla trasformazione del movimento protestante in ‘istituzione’ giuridicamente tutelata (Giacomo Aconcio, Mino Celsi, Gioachino Cluten, Giovanni Crell), la condanna degli eretici è contro la lettera e lo spirito della Scrittura, un servirsi della religione come instrumentum regni, posizione contestata dagli intellettuali ‘organici’ sia cattolici sia protestanti.
Considerazioni sulla pena capitale si trovano in letterati e filosofi: Montaigne deplora la pratica e l’accanimento della tortura; Blaise Pascal, riflettendo sul relativismo delle leggi per cui ciò che è considerato delitto in un luogo in un altro non lo è, e sul travestimento della mera forza in diritto, in un’ottica cristiana sostiene che il male può essere combattuto solo con il bene (Pensieri, 1658-62). Traiano Boccalini, governatore negli Stati della Chiesa, oscilla tra due posizioni antitetiche: da un lato l’esigenza di una giustizia più umana, volta più a curare che a punire, dall’altro la logica della ragion di Stato. Nella maggioranza dei casi scrittori e teologi giustificano la pena capitale, portando a sostegno la ‘costituzionale malvagità umana’ o la necessaria difesa del ‘bene comune’. Nell’arte, dal Cinquecento in poi, la morte diventa un modello pittorico, come mostrano il Trionfo della morte di Pieter Brueghel il Vecchio e le incisioni di Jacques Callot.
Settecento illuminista
Nel Settecento la scienza penalistica avvia un profondo rinnovamento nelle dottrine fondamentali e propugna l’applicazione di principi di umanità nel trattamento del reo. Sui reati religiosi la posizione degli illuministi è radicale: la trasgressione al dettato della fede, non violando diritti altrui e non procurando danni sociali, non è passibile di punizione da parte dello Stato. Soprattutto, netta e unanime è la denuncia contro la prodigalità dei supplizi e gli strumenti ‘gotici’ delle esecuzioni. Al centro della critica dei riformatori è il cattivo funzionamento politico della penalità: troppo potere nelle giurisdizioni inferiori che fanno eseguire senza controllo sentenze arbitrarie; troppo potere dell’accusa che può perseguire senza limiti, mentre il reo è disarmato; troppo potere accordato alla ‘gente del re’ nei riguardi degli accusati e degli altri magistrati. Superata la teoria che rinviene l’origine del potere dello Stato e quindi dello ius puniendi nell’autorità di Dio, di cui lo Stato è considerato emanazione, il pensiero giuridico del Settecento è influenzato dalle dottrine contrattualistiche secondo le quali, in base al patto tacito o espresso di tutti i consociati da cui nasce lo Stato, a quest’ultimo è riconosciuto il potere di reprimere la violazione della legge. Tale potere tuttavia non è senza limiti: l’esistenza del patto sociale come fonte legittimatrice della potestà punitiva fa sì che lo Stato la possa esercitare soltanto entro certi limiti e con forme determinate (principio di legalità e proporzionalità delle pene). Con due ordini di argomenti, l’uno basato sulla teoria del contratto sociale e l’altro di natura utilitaristica, Cesare Beccaria nel saggio Dei delitti e delle pene (1764) attacca l’istituto della pena di morte, anche se in termini non assoluti («la morte di un cittadino diviene necessaria quando la nazione perde la sua libertà o nel tempo dell’anarchia»). La teoria sull’origine contrattuale dello Stato consente all’economista di dire che, se è vero che gli uomini, per evitare una situazione di continua belligeranza, hanno rinunciato a una parte della loro libertà mettendola nel ‘pubblico deposito’ che forma la sovranità di una nazione, nessun individuo ha lasciato nelle mani della società il diritto di ucciderlo. Con il secondo argomento confuta l’idea che la pena capitale abbia efficacia deterrente: può indurre a evitare di delinquere non lo spettacolo di un’esecuzione ma «il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà», ossia la prigione a vita. Il libro segna una svolta, ne discutono le accademie, i circoli di cultura, i philosophes e gli uomini di toga: messo all’Indice dalla Chiesa, è tradotto in tutta Europa conquistando estimatori anche negli Stati Uniti. Il primo governo che accoglie la tesi abolizionista è quello di Leopoldo I granduca di Toscana (1786). Non tutti i contrattualisti sono contro la pena capitale (Rousseau, Montesquieu, Diderot, D’Alembert ne ammettono il mantenimento, sia pur temperato); in suo favore si schiera Gaetano Filangieri; Immanuel Kant critica le tesi di Beccaria su basi di ‘retribuzione morale’, mentre con motivazioni politiche e giuridiche, compresa quella della fallibilità dei tribunali, Giuseppe Compagnoni contesta le posizioni di tutti affermando che in nessun caso lo Stato può decretare l’uccisione di un uomo: «la sola misura è l’esilio» (Elementi di diritto costituzionale democratico, 1797) Nel 1791 in Francia l’Assemblea costituente sopprime i tormenti e introduce la ghigliottina, in quanto meccanismo adeguato al principio di una morte istantanea e uguale per tutti: congegno rapido e preciso, per un avvenimento ancora visibile e rivestito durante la Rivoluzione di un grandioso rituale scenografico. Già in Inghilterra era stata adottata nel 1783 una macchina per impiccare che doveva evitare le lente agonie: in entrambi i casi la riduzione delle ‘mille morti’ per supplizi alla stretta esecuzione capitale definisce una diversa etica dell’atto di punire. In Europa e negli Stati Uniti si affermano nuove teorie della legge e del crimine, si aboliscono le antiche ordinanze e redigono codici ‘moderni’: Russia, 1769; Prussia, 1780; Pennsylvania, 1786; Austria, 1788.
Ottocento e Novecento
Tra lo scorcio del sec. 18° e il 1840 si verificano accelerazioni e regressi, con una evoluzione irregolare del processo d’insieme: rapidità della riforma in alcuni paesi (Francia, Austria, Russia, Stati Uniti), poi il riflusso all’epoca della contro-Rivoluzione in Europa e della grande paura sociale degli anni 1820-48, modificazioni temporanee apportate dalle leggi speciali, distorsioni tra diritto e pratica effettiva dei tribunali.
II Code pénal napoleonico (1799), poi esteso al Regno d’Italia e imitato dagli Stati dell’Europa continentale, distingue pene afflittive (ghigliottina, lavori forzati, deportazione) e infamanti (bando, berlina); rimangono in vigore alcuni modi e gradi di pubblico esempio, con distinzione della pena capitale in ‘semplice’ e ‘qualificata’ (per delitti di parricidio e lesa maestà, aggravati da una speciale ‘vestizione’ e taglio della mano prima dell’esecuzione). Nella restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1815) i nuovi codici che annunciano il superamento dei vecchi metodi prevedono tutti la pena capitale (decapitazione, ‘laccio sulle forche’, fucilazione negli Statuti militari). In Francia la Repubblica del 1848 abolisce la pena di morte per i reati politici, per poi ripristinarla in periodi di sommosse e moti proletari; la Russia, all’opposto, la sopprime per i reati comuni intensificandola per quelli politici. In Svizzera la pena capitale, cancellata nel 1874, è reintrodotta nel 1879 per reati non politici; il parlamento della confederazione della Germania del Nord, dopo averne deliberato (1870) il bando, su pressione di Bismarck, muta indirizzo e la impone a tutti gli Stati, inclusi quelli in precedenza abolizionisti (ducato di Nassau, regno di Sassonia, Stato di Oldenburg, città libera di Brema). Diminuiscono tuttavia in vari Stati i casi di pena capitale: nelle leggi francesi i crimini previsti, che fino al 1789 erano 132, nel 1831 sono ridotti a 22. In molte nazioni la facoltà data al giudice di mitigare la pena con l’ammissione di circostanze attenuanti e l’uso frequente della grazia da parte dei sovrani limitano il numero delle esecuzioni: in Francia da 114 nel 1825 si discende a 38 nel 1830, a 11 nel 1863, a 5 nel 1870. Questa tendenza si conferma, pur con oscillazioni, nel Novecento, a esclusione delle persecuzioni messe in atto dai regimi totalitari: il nazismo in Germania (1933-45); il comunismo nato dalla Rivoluzione d’ottobre (1917) in Russia; il franchismo in Spagna dove nel periodo 1939-44 vengono giustiziate (fucilazione e garrota) circa 193.000 persone, con sentenze capitali eseguite dalla Guardia civile o dalle squadre falangiste con i loro tribunali speciali. Il fenomeno più significativo del sec. 19° è la scomparsa dello spettacolo della punizione fisica che tende a divenire la parte più nascosta del processo penale, lasciando il campo della ‘percezione quotidiana’ per entrare in quello della ‘percezione astratta’: si inaugura l’età della ‘sobrietà punitiva’ e la sparizione dei supplizi è pressoché acquisita verso gli anni 1830-48, con trasformazioni che non avvengono né in blocco né secondo un processo unico. L’Inghilterra elimina lo squartamento per i traditori (1820), il marchio (1834), la gogna (1837), permane la frusta come in Russia e Prussia. I lavori pubblici che Austria, Svizzera e alcuni paesi degli Stati Uniti facevano eseguire nelle vie delle città dai forzati con collare di ferro, palla ai piedi, abiti multicolori e scambio di ingiurie con la folla vengono soppressi ai primi dell’Ottocento. In Francia furgoni cellulari dipinti di nero sostituiscono la catena che trascinava i forzati attraverso il paese fino a Brest e Tolone (1837). Il condannato non deve essere più visto e si esclude dal castigo l’esposizione della sofferenza. Nel sec. 20° alla carretta scoperta subentra una vettura chiusa, si fa passare rapidamente il reo dal furgone al palco, si fissa l’esecuzione in ore improbabili entro la cinta delle prigioni rendendola inaccessibile al pubblico. A forme tradizionali d’esecuzione l’epoca moderna ha poi aggiunto o sostituito nuovi metodi ‘tecnologici’, per una morte ‘più celere e meno dolorosa’, come la sedia elettrica (introdotta nel 1889 nello Stato di New York), la camera a gas (adottata negli USA negli anni 1920), l’iniezione letale (sperimentata la prima volta nel Texas nel 1982, entrata in altri Stati americani, e nella Repubblica popolare cinese dal 1998), con tempo di sopravvivenza dai 6 ai 15 minuti.
Pena capitale in Italia
Già prevista dalle legislazioni penalistiche preunitarie con la sola eccezione del codice toscano, dopo l’unificazione la pena di morte viene mantenuta con il R.D. 17/2/1861, che estende a tutti i territori del nuovo regno, salvo quelli del Granducato di Toscana, l’applicazione dell’ordinamento sardo del 1859; sopravvivono così entrambi i codici e la loro irragionevole discrasia. Nell’articolo Della pena di morte nella futura legislazione italiana (1860) Carlo Cattaneo proponeva, al contrario, che la sua abolizione dalla Toscana fosse estesa a tutta l’Italia, sia per ragioni di progresso e civiltà («il trapasso a un ordine più alto e di più alta ragione»), sia perché la pena capitale «non serve a far diminuire i delitti ma piuttosto a incrementarli»: proposta ‘sovversiva’ che diventa la parola d’ordine su cui si imposterà la campagna politica per la soluzione del problema. Il programma abolizionista, portato avanti da giuristi, scrittori cattolici e laici, difeso in aule parlamentari, congressi scientifici e riviste accademiche, coinvolge l’opinione pubblica in riunioni, comizi e dibattiti: argomenti fondamentali, l’inviolabilità della vita umana; l’incoerenza della legge che per sanzionare l’omicidio ne impone a sua volta un altro; l’inutilità della morte del reo, quando questi, privato della libertà, può essere reso innocuo; l’irrevocabilità della pena nel caso di errori giudiziari. Concorrono anche teorie che, negando una completa responsabilità dell’individuo, fanno risalire l’azione delittuosa a cause sociali (teorie marxiste) o psicofisiche, per cui il criminale non va punito, ma posto nell’impossibilità di nuocere (misura di sicurezza) e riadattato alla vita sociale. Per contro gli argomenti più ricorrenti dei fautori della pena capitale sono l’efficacia preventiva (intimidazione) e la necessità dell’eliminazione dalla società degli elementi più nocivi e ‘inassimilabili’.
Il dibattito viene risolto nel 1890 quando entra in vigore il nuovo codice penale Zanardelli, che abolisce la pena capitale. Reintrodotta da Mussolini (fucilazione in uno stabilimento penitenziario) per i delitti politici contro lo Stato (1926) poi anche per quelli comuni (codice Rocco, 1930), al crollo del fascismo, con d. legisl. 10/8/1944, nr. 224 la pena di morte è soppressa e sostituita con quella dell’ergastolo (resta in vigore per i reati fascisti e di collaborazione con i nazifascisti, e come misura temporanea per fatti di banditismo); con la Costituzione repubblicana è bandita per tutti i crimini (d.l. nr. 21, 1948), a esclusione dei casi previsti dalle leggi militari di guerra, che cadono anch’essi definitivamente nel 1994. La contrarietà dell’ordinamento italiano alla pena di morte trova conferma in tutti i casi di richiesta di estradizione di soggetti imputati o condannati avanzata da Stati stranieri: il sistema italiano non permette la consegna di persone che possano subire nel paese di appartenenza la pena capitale. Nello Stato della Chiesa la pena di morte non è prevista per alcun reato dal 1967, su iniziativa di Paolo VI; il 12 febbraio 2001, per intervento di Giovanni Paolo II, è stata rimossa dalla Legge fondamentale della Città del Vaticano.
Diritto internazionale
Disposizioni relative alla pena di morte sono presenti nelle più importanti convenzioni internazionali sulla protezione dei diritti dell’uomo, ma tutte si limitano a imporre agli Stati contraenti l’obbligo di applicare la pena capitale esclusivamente in attuazione di una sentenza, passata in giudicato, emanata da un tribunale competente: così l’art 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) e l’art. 4. della Convenzione americana sui diritti umani (1969) che aggiunge ulteriori garanzie (non applicabilità per reati politici e su persone minorenni o di età superiore a 70 anni e donne incinte, diritto per ogni condannato di chiedere la commutazione della pena). In seguito l’esigenza manifestata dalla comunità internazionale di una progressiva abolizione della pena di morte porta all’adozione del Protocollo addizionale nr. 6 alla Convenzione europea (1983) e del II Protocollo facoltativo al Patto del 1966, approvato dall’Assemblea dell’ONU nel 1989; l’abolizione è invocata anche dall’art. 22 della Dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali, varata dal Parlamento Europeo nel 1989. La mancanza nel diritto internazionale di una norma che vincoli gli Stati all’abolizione della pena capitale fa sì che questa sia ancora presente negli ordinamenti giuridici di molti paesi, anche se per taluni si tratta di un provvedimento disatteso da tempo e soppresso de facto. Al 2007 i paesi abolizionisti erano 93; gli abolizionisti per crimini ordinari 9; gli abolizionisti di fatto che non eseguono sentenze capitali da almeno 10 anni 41. Nel 2007 si calcola siano state eseguite nel mondo più di 1252 condanne a morte. La Cina è il paese dove se ne conta il maggior numero (470 note nel 2007), con violazione dei diritti fondamentali: mancano statistiche ufficiali in quanto Pechino considera la pena di morte un segreto di Stato. Seguono l’Iran, in cui, dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, è iniziato un processo di adeguamento religioso delle istituzioni, con creazione di tribunali islamici e assunzione della sharia a legge dello Stato (317 esecuzioni nel 2007); l’Arabia Saudita (143); il Pakistan (135); gli Stati Uniti (42) e via via nella scala, con condanne numericamente più contenute, gli altri paesi non abolizionisti.