Pena di morte
La pena di morte in bilico
Nel biennio 2007-08 la sorte della pena capitale è stata contrassegnata da profondi cambiamenti di segno opposto: eclissi totale in Europa, nei Paesi extraeuropei del Commonwealth e in sede ONU; spegnersi delle speranze abolizionistiche negli Stati Uniti d’America dopo la sentenza Baze v. Rees (553 U.S.) della Corte suprema, del 16 aprile 2008, che ha dichiarato costituzionalmente legittima la morte per iniezione letale: la ‘più umana’, tra le modalità di esecuzione della condanna a morte.
L’abolizione senza eccezioni della pena capitale in Europa, conquistata nell’ultimo decennio, e la recente delibera di ‘moratoria’ in sede ONU su impulso dei Paesi europei con l’Italia capofila, ha riaperto un fossato tra i due lati dell’Atlantico, che qualche decennio fa veniva registrato come uno stato di cose spiacevole («Ogni nazione occidentale ha stoppato l’esecuzione di criminali, fuor che gli Stati Uniti», Zimring, Hawkins 1986, p. 3), ma che negli ultimi tempi viene vissuto in alcuni ambienti intellettuali statunitensi come l’espressione di una ‘narcisistica’ e ‘aggressiva’ pretesa europea di imporre agli Stati Uniti uno standard morale. Persino un autorevole abolizionista, mutando opinioni rispetto al passato, ricordava pochi anni fa, con disappunto, che in occasione del «primo tour in Europa del Presidente degli Stati Uniti nel giugno del 2001 le principali accuse scritte sui manifesti e nelle strade non riguardavano né il riscaldamento globale, né la difesa missilistica, né nessun altro punto dell’agenda internazionale di Bush: le accuse riguardavano la questione della pena di morte negli Stati Uniti. Le esecuzioni capitali in America erano contestate non solo dai manifestanti nelle strade, ma anche dalle leadership dei governi europei. Fu per una sfortunata coincidenza di tempi che un Presidente degli Stati Uniti si trovò in giro per l’Europa proprio in quel giugno, subito dopo che il governo federale americano aveva eseguito la sua prima condanna a morte dopo trentotto anni […]: un’esecuzione che avvenne non nel mese sbagliato, ma nel secolo sbagliato» (Zimring 2003, p. 4).
Ancor più netto il rifiuto di confrontarsi con le tendenze europee da parte dei giudici conservatori della Corte suprema degli Stati Uniti. Per es., a chi argomentava l’incostituzionalità della pena di morte inflitta alle persone mentalmente ritardate riferendosi alle scelte dell’Unione Europea, il presidente della Corte William Rehnquist replicava: «non riesco a vedere come le scelte di altri Paesi relative alla punizione dei loro cittadini possano fornire un qualche sostegno alle conclusive determinazioni della Corte; e se è vero che talune nostre precedenti opinioni hanno guardato al ‘clima delle opinioni internazionali’ per dare maggior forza a valutazioni relative all’evoluzione degli standard di civiltà, abbiamo in seguito esplicitamente respinto l’idea che le prassi punitive di altri Paesi possano servire a stabilire i prerequisiti dei primi otto emendamenti, rispetto a una prassi che è accettata presso il nostro popolo» (chief justice Rehnquist, dissenting, Atkins v. Virginia, 536 U.S., 4-5, 2002).
L’impulso europeo all’abolizione definitiva
Non deve meravigliare se l’illustrazione del dilemma di sempre della pena di morte, abolizione o conservazione, viene qui inscritta in una cornice internazionale. È una sorte che a quel dilemma, oggi come ieri, è riservata naturaliter. Lo mostra emblematicamente la straordinaria inesausta eco, in Europa e oltreoceano, del ‘libriccino’ di Cesare Beccaria, dal quale sono cominciate molte cose che non hanno ancora cessato di cominciare. Scrisse fra l’altro il grande milanese: «Parmi un assurdo che le leggi che detestano […] e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle pene, 17665, in Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, a cura di G. Francioni, 1° vol., 1984, par. XXVIII); un ‘assurdo’ che stimola oggi la letteratura statunitense a sollevare il programmatico interrogativo: Non è l’ora di uccidere la pena di morte?, che è stato evocato con approvazione nella recentissima sentenza Baze v. Rees dal giudice John Paul Stevens, pur concorrendo nella decisione che ha ‘salvato’ il metodo di esecuzione dell’iniezione letale. Ma l’insegnamento seminale di Beccaria proviene soprattutto dal ripudio della pena di morte in nome dell’inalienabile diritto alla vita di ogni uomo: «Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo?» (par. XXVIII). Ed è proprio nel ‘diritto alla vita’ che si fonda il progressivo ripudio della pena di morte in sede europea.
Nel testo originario dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritto nel 1950, il ripudio della pena di morte avveniva per l’appunto all’insegna del diritto alla vita, anche se conosceva una vasta eccezione: si sanciva all’art. 2 che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge» e «nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito con la pena di morte». Nel 1983 l’eccezione si restringeva: il Protocollo addizionale n. 6 alla Convenzione europea stabiliva infatti all’art. 1 che «la pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena, né giustiziato», disponendo però all’art. 2 che «uno Stato può prevedere nella sua legislazione la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminente di guerra»; un’eccezione rimossa, finalmente, dal Protocollo addizionale n. 13 alla Convenzione europea, sottoscritto nel 2002. Dopo aver premesso nel preambolo che «il Protocollo n. 6 alla Convenzione, riguardante l’abolizione della pena di morte, non esclude la pena di morte per gli atti commessi in tempo di guerra o di imminente pericolo di guerra», e che «gli Stati membri» erano «risoluti a compiere un passo decisivo per abolire la pena di morte in ogni circostanza», si è passati a proclamare perentoriamente nel testo del Protocollo, all’art. 1, che «La pena di morte è abolita. Nessuno sarà condannato a tale pena e a nessuno sarà applicata tale pena».
La pena di morte in Italia
Il vincolo internazionale per gli Stati firmatari della Convenzione ha spinto recentemente l’Italia a modificare la Costituzione. Il testo originario dell’art. 27, 4° co., suonava nel senso che «non è ammessa la pena di morte», facendo però seguire a questa enunciazione l’inciso «se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra». L’armonizzazione con le scelte europee esigeva la soppressione dell’inciso, che è stata apportata dalla l. cost. 2 ott. 2007 n. 1. L’odierno testo dell’art. 27, 4° co., della nostra legge fondamentale dispone pertanto lapidariamente, senza eccezioni di sorta, che «non è ammessa la pena di morte».
La pietra tombale sulla pena capitale calata da pochissimo in Italia è lo sbocco di un processo storico altalenante, che rispecchia le vicende storiche del nostro Paese dall’Unità ai nostri giorni.
Fu con la Costituente, dopo un intenso elevato dibattito e un voto pressoché unanime, che il divieto della pena di morte per i reati comuni assurse, all’art. 27, 4° co., della Costituzione, al rango di principio sovraordinato, che obbligava il legislatore ordinario a darvi attuazione, come avvenne prontamente con il d. legisl. 22 genn. 1948 n. 21, che abolì la pena di morte per i delitti contemplati da leggi diverse da quelle militari di guerra, sostituendola con l’ergastolo.
Restava, nella Costituzione, il noto neo dell’ammissione della pena di morte per i reati previsti dalle leggi militari di guerra. E la realtà si vendicava, sollevando drammaticamente via via, al crescere delle spedizioni di contingenti militari all’estero, il problema di una possibile inflizione ed esecuzione di condanne a morte a membri dei contingenti. L’infittirsi delle spedizioni (῾Irāq, Somalia, Mozambico, Balcani) impose l’emanazione di un intervento normativo urgente: la l. 13 ott. 1994 n. 589, approvata da tutti i gruppi parlamentari, pur se con singoli dissensi, aboliva la pena di morte per i delitti previsti dal codice militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, sostituendola con l’ergastolo. Si trattava peraltro di una legge ordinaria. A quell’epoca la Costituzione ammetteva la pena di morte per «i casi previsti dalle leggi militari di guerra», e quindi non precludeva che qualche ventata politica facesse crescere in Parlamento il numero dei dissenzienti, portando alla riesumazione della pena di morte. Il cerchio si è finalmente chiuso da poco con la citata modifica della Costituzione, che ha definitivamente estromesso la pena di morte dal nostro ordinamento, senza eccezioni, anche in ottemperanza a un vincolo internazionale che lega il nostro Paese ai deliberati dell’Europa.
L’abolizione negli altri ordinamenti europei
L’abolizione totale della pena di morte con norma di rango costituzionale è avvenuta anche in altri Paesi europei. In ordine soltanto alfabetico essi sono: Andorra, Austria, Belgio, Città del Vaticano (con la revisione della legge fondamentale del febbraio 2001), Croazia, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia, Turchia. L’elenco completo che include i Paesi totalmente abolizionisti anche o solo con norme di rango ordinario, è: Austria (1968), Bosnia-Erzegovina (2003), Bulgaria (1998), Cipro (1990), Città del Vaticano (1969), Estonia (1998), Finlandia (1972) Francia (1981), Germania dell’Ovest (1949), Germania dell’Est (1987), Grecia (2005), Irlanda (1990), Islanda (1928), Liechtenstein (1987), Lituania (1998), Lussemburgo (1979), Macedonia (1991), Stato di Malta (2000), Principato di Monaco (1962), Norvegia (1979), Olanda (1982), Polonia (1997), Portogallo (2004), Repubblica Ceca (1990), Romania (1989 ), San Marino (1865), Serbia e Montenegro (2002, salvo il Kossovo dove l’abolizione risale al 1999 a opera dell’ONU), Slovacchia (1990), Slovenia (1989), Spagna (1995), Svezia (1972), Svizzera (1992), Ungheria (1990).
Una menzione a parte merita la Gran Bretagna. I reati militari erano previsti da tre ‘codici’ quante sono le singole forze armate, e, per i reati più gravi, la sanzione era la pena di morte; la giurisdizione era inoltre attribuita alla Corte marziale generale, nominata ad hoc da parte di un ufficiale della catena di comando, che ne sceglieva i membri ed esercitava poteri di controllo delle decisioni: un sistema di nomina scrutinato, con dubbi di legittimità accolti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, soprattutto in relazione alla possibilità che un giudice non indipendente e privo di competenze potesse infliggere la pena di morte. Un’annosa questione, cui hanno via via posto fine la sottrazione alle autorità militari della potestà di nomina della Corte marziale e della decisione di adirla; lo Human rights act del 1988, che ha sostituito con la carcerazione a vita la pena di morte comminata per i reati militari e, in seguito, una legge del 2001 sulle forze armate che ha abolito la pena di morte per i condannati in servizio in qualsiasi circostanza, sottraendo al contempo alle forze armate la possibilità di reintrodurre la pena di morte attraverso leggi sulla ‘disciplina di servizio’. Sempre nel 2001 il Crime and dis-order act ha abolito la pena di morte anche per gli ultimi due ‘reati capitali’ comuni: pirateria violenta e tradimento.
Primi riflessi dell’abolizionismo europeo
Il fitto faticoso quadro sin qui tracciato mostra l’ampiezza e il vigore della tendenza abolizionistica affermatasi, presto o tardi, nei Paesi europei, e, specularmente, la profondità del fossato che divide l’Occidente europeo dagli Stati della Confederazione statunitense – 36 su 50 – che, abbarbicati alla pena di morte, vivono questo stato di cose con disagio e malumori malcelati.
Quanto profondo sia quel fossato, guardando anche solo ai rapporti tra Italia e USA, lo si può già misurare sul terreno dell’estradizione richiesta all’Italia di condannati a morte negli Stati Uniti. Nel 1983 era stato firmato tra il governo della Repubblica italiana e il governo degli Stati Uniti d’America un trattato di estradizione, ratificato ed eseguito dal nostro Paese con la l. 26 maggio 1984 n. 225. L’articolo IX del trattato disponeva quel che, quasi pedissequamente, fu poi previsto in via generale dal c.p.p. del 1988 all’art. 698, 2° co.: «Se per il fatto per il quale è domandata l’estradizione è prevista la pena di morte dalla legge dello stato estero, l’estradizione può essere concessa solo se il medesimo stato dà assicurazioni, ritenute sufficienti sia dall’autorità giudiziaria sia dal ministro di grazia e giustizia, che tale pena non sarà inflitta o, se già inflitta, non sarà eseguita». Entrambe le disposizioni vennero però fatte cadere dalla Corte costituzionale, non appena se ne presentò l’occasione, che ne dichiarò l’illegittimità costituzionale con la sentenza 27 giugno 1996 n. 223.
Perentorie le parole della Corte, per i principi fondanti invocati e per l’illuminante schizzo della nostra storia: «Il divieto della pena di morte ha un rilievo del tutto particolare – al pari di quello delle pene contrarie al senso di umanità – nella prima parte della Carta costituzionale. Introdotto dal 4° co. dell’art. 27, sottende un principio ‘che in molti sensi può dirsi italiano’ – sono parole tratte dalla relazione della Commissione dell’Assemblea costituente al progetto di Costituzione, nella parte dedicata ai rapporti civili – principio che ‘ribadito nelle fasi e nei regimi di libertà del nostro Paese, è stato rimosso nei periodi di reazione e di violenza’, configurandosi nel sistema costituzionale quale proiezione della garanzia accordata al bene fondamentale della vita, che è il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 […]. Il punto ora in esame è se rappresentino un rimedio adeguato le ‘garanzie’ o ‘assicurazioni’ previste dal citato art. 698, 2° co., e dalla l. 26 maggio 1984 n. 225, di ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione fra il Governo della Repubblica italiana e quello degli Stati Uniti d’America firmato a Roma il 13 ottobre 1983; e in particolare se sia conforme alla Costituzione detta legge […], ove si stabilisce che l’estradizione sarà negata qualora il reato sia punibile con la pena di morte secondo le leggi della parte richiedente, salvo che quest’ultima ‘non si impegni con garanzie ritenute sufficienti dalla Parte richiesta a non fare infliggere la pena di morte oppure, se inflitta, a non farla eseguire’. […] ma nel nostro ordinamento, in cui il divieto della pena di morte è sancito dalla Costituzione, la formula delle ‘sufficienti assicurazioni’[…] non è costituzionalmente ammissibile. Perché il divieto contenuto nell’art. 27, 4° co., della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti – primo fra tutti il bene essenziale della vita – impongono una garanzia assoluta».
Altri riflessi
Il primato in sede europea del rispetto dei diritti dell’uomo, con al centro il diritto alla vita, si è via via incarnato in atti normativi e risoluzioni. In ordine di tempo: nella dichiarazione di principio, allegata al Trattato di Amsterdam, che prende atto della quasi generale abolizione della pena di morte dopo la firma del sesto Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dichiara che nessun Paese candidato a far parte dell’Unione Europea potrà aderirvi senza aver previamente abolito la previsione della pena di morte; nella Carta dei diritti fondamentali, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000, con la duplice previsione che «nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato» (art. 2) e che «nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste il rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani e degradanti» (art. 19); e in una serie di risoluzioni che poi sfoceranno nell’iniziativa culminata, finalmente con successo, nel recentissimo voto in sede ONU. Fondamentale l’atto di indirizzo del 29 giugno 1998 del Consiglio dell’Unione, icasticamente intitolato Orientamenti per una politica dell’Unione europea nei confronti dei paesi terzi in materia di pena di morte, nel quale l’Unione Europea si prefigge di adoperarsi per l’abolizione universale, chiedendo ai Paesi in cui ancora vige di limitarne l’applicazione, nel rispetto di regole minime di garanzia, e impegnandosi a sollevare nei consessi internazionali il problema di una moratoria universale della pena di morte, come premessa della sua abolizione. Per parecchi anni consecutivi, coerentemente con l’indirizzo politico delineato nel 1998, l’Unione Europea ha presentato, senza successo, progetti di risoluzione sulla pena di morte presso la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani; finalmente nel 2007 vi è stato un incalzante susseguirsi di iniziative: la risoluzione a sostegno della moratoria universale approvata il 26 aprile 2007 dal Parlamento europeo, con invito alla presidenza tedesca a presentarla con urgenza all’Assemblea generale delle Nazioni Unite; una risoluzione sulla moratoria universale da parte della Terza commissione dell’Assemblea generale approvata il 15 novembre 2007 con 99 voti a favore, 33 astenuti, 52 contrari; finalmente, la risoluzione vincente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (n. 62/49) votata il 18 dicembre 2007 e approvata con 109 voti a favore, 54 contrari, 29 astenuti.
Un esito felice, unanimemente attribuito al merito della tenacia del nostro Paese, che ha così onorato il lascito dell’«immortale opera del marchese Beccaria», come suona ancora il libro di Karl Ferdinand Hommel (Des Herren Marquis von Beccaria unsterbliches Werk von Verbrechen und Strafen, 1778), meritando appieno la sottolineatura della nostra Corte costituzionale che la lotta di principio per l’abolizione totale della pena di morte è lotta per l’affermazione di un «principio che può dirsi italiano».
Denso e stringente il testo del preambolo e della risoluzione: «L’Assemblea generale, guidata dagli obiettivi e dai principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite; richiamando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, la Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione per i diritti del bambino; richiamando le risoluzioni sulla ‘questione della pena di morte’ adottate nel corso degli ultimi dieci anni dalla Commissione per i diritti umani in tutte le sue sessioni consecutive, la più recente essendo la E/CN4/RES/2005/59 che ha esortato gli Stati che mantengono la pena di morte ad abolirla completamente e, nel frattempo, a stabilire una moratoria sulla sua esecuzione; richiamando gli importanti risultati raggiunti dalla ex Commissione per i diritti umani sulla questione della pena di morte e considerando che il Consiglio per i diritti umani possa continuare a lavorare su questo tema; considerando che la messa in atto della pena di morte va a minare la dignità umana e convinti che una moratoria sull’esecuzione della pena di morte contribuisca alla promozione e al progressivo sviluppo dei diritti umani; che non c’è prova definitiva del valore della pena di morte come deterrente; che qualsiasi errore o fallimento della giustizia nell’applicazione della pena di morte è irreversibile; accogliendo le decisioni prese da un sempre maggior numero di Stati nell’applicare una moratoria sulle esecuzioni, seguita in molti casi dall’abolizione della pena di morte: 1) Esprime la sua profonda preoccupazione per il sussistere dell’applicazione della pena di morte. 2) Esorta gli Stati che mantengono la pena di morte a: a) rispettare gli standard internazionali che salvaguardano i diritti di coloro che sono in attesa dell’esecuzione della pena capitale, in particolare gli standard minimi, come stabilito nell’allegato alla risoluzione 1984/50 del Consiglio economico e sociale; b) fornire al Segretario generale informazioni riguardanti l’applicazione della pena capitale e l’osservanza delle clausole di salvaguardia dei diritti di coloro che sono in attesa dell’esecuzione della pena di morte; c) restringere progressivamente le esecuzioni e ridurre il numero dei reati per i quali la pena di morte può essere imposta; d) stabilire una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte. 3) Esorta gli Stati che hanno abolito la pena di morte a non reintrodurla. 4) Chiede al Segretario generale di riferire sull’applicazione di questa risoluzione nella 63esima sessione. 5) Decide di continuare la discussione sul tema nella 63esima sessione all’interno dello stesso punto in agenda». Il 20 novembre 2008 la Terza commissione dell’Assemblea generale ha confermato, con una più ampia maggioranza, la risoluzione della moratoria adottata nel 2007.
Ripercussioni della risoluzione nei Paesi antiabolizionisti
Tre sono gli enunciati salienti che, sul piano dei principi, motivano nel preambolo la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: il primato del rispetto della dignità umana e dei diritti dell’uomo; l’indimostrata efficacia deterrente della pena di morte; l’irreparabilità dell’errore giudiziario. Non meno puntuali gli affondi politici della risoluzione: gli Stati non abolizionisti sono obbligati a fornire al Segretario generale dell’ONU informazioni sull’applicazione della pena di morte e sul rispetto delle clausole di salvaguardia dei diritti dei condannati in attesa dell’esecuzione; correlativamente, il Segretario generale è obbligato a riferire sull’applicazione della risoluzione nella successiva sessione dell’Assemblea; ancora: l’esortazione indirizzata agli Stati non abolizionisti a «stabilire una moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte».
Altrettante ‘provocazioni’ per i 52 Paesi che hanno votato contro la risoluzione invocando la non ingerenza negli affari interni, e che nel Paese guida del fronte antiabolizionista, gli Stati Uniti d’America, si sono tradotti poco dopo nella conferma, almeno a prima vista, della loro persistente contrarietà alle tendenze abolizionistiche con l’emanazione della citata decisione Baze v. Rees della Corte suprema degli Stati Uniti approvata a larghissima maggioranza (7 dei 9 giudici). Una decisione con larga risonanza nella stampa di tutti i Paesi, e con immediata eco operativa nei 35 Stati dell’Unione che prevedono l’iniezione letale come metodo primario di esecuzione della pena di morte. I principali quotidiani di quegli Stati, soprattutto del Sud, già il giorno successivo alla sentenza parlavano della risoluta determinazione degli organi dell’accusa di sollecitare le autorità giudiziarie dei vari Stati, che avevano sospeso l’esecuzione in attesa della decisione della Corte suprema degli Stati Uniti, di dar subito corso all’esecuzione di condannati a volte da decine di anni, accelerando anche l’iter degli appelli presentati dai tanti condannati reclusi da tempo nei death rows: le sezioni dei carceri riservate ai condannati a morte (http://www.deathpenalty.org/).
Solo a prima vista, come si è anticipato, la sentenza Baze v. Rees ha comportato la chiusura, anche solo in sede giudiziaria, del dibattito sulla legittimità costituzionale della pena di morte negli Stati Uniti. La materia del contendere era altra: la legittimità del metodo di esecuzione con iniezione letale; e la reiezione del ricorso è stata motivata da sette giudici con l’indimostrata presenza di metodi alternativi in armonia con l’ottavo emendamento della Costituzione, che vieta «punizioni crudeli e inusuali». Il dissenso degli altri due giudici si è imperniato proprio sul pericolo che il metodo delle ‘tre droghe’ di per sé, o per un impiego maldestro, provochi il blocco del sistema neuromuscolare e l’arresto della respirazione su persone ancora coscienti, causando una sofferenza indicibilmente crudele. Ma anche chi, tra la maggioranza, non ha visto provate alternative, ha avanzato molti dubbi, tali da non porre fine al dibattito sull’iniezione letale in casi futuri sollevati da altri Stati. D’altra parte, alcuni giudici della maggioranza hanno espressamente sottolineato che «il separato problema controverso della pena di morte in sé e per sé» potrà essere riesaminato dalla Corte, pur ricordando che «la legittimità della pena di morte non è davanti a noi», hanno sottolineato che resta un problema «altamente controverso», per i seri rischi che comporta: «possono giocare un ruolo i rischi di giustiziare la persona sbagliata, i rischi di un ingiustificato animus (per es., verso la razza delle vittime), i rischi che i condannati si trovino nel death row per molti anni, forse per decadi». Con ancor maggior decisione il giudice J.P. Stevens, senza nascondersi dietro l’oggetto specifico della controversia, ha ritenuto che «il caso in esame genererà un dibattito non solo sulla costituzionalità del protocollo ‘tre droghe’, […] ma altresì sulla giustificazione della pena di morte in sé e per sé», che resta un problema apertissimo.
Il dibattito negli Stati Uniti
Il sempre più profondo divario nel mondo occidentale tra l’abolizionismo europeo e il persistente antiabolizionismo statunitense esige che lo sguardo, sin qui gettato sull’Europa, si rivolga conclusivamente e più a fondo agli Stati Uniti, tuttora epicentro di un ricchissimo dibattito, oggetto di una serie di basilari inventari, qui compendiabile solo in un rapido schizzo dei principali capitoli controversi: rapporti tra opinione pubblica e leadership politica; umanità delle pene; funzioni della pena di morte; costi e benefici della pena di morte; errori giudiziari con condanna a morte di innocenti; discriminazioni razziali; permanente retaggio delle radici storiche degli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti desta innanzitutto meraviglia che l’opinione pubblica scrutinata da sondaggi di qua e di là dell’Atlantico, quasi dappertutto con prevalenza di risposte a sostegno della pena di morte, ha un peso determinante nelle persistenti tendenze antiabolizionistiche statunitensi, mentre non ne ha mai avuta nei Paesi europei: segno inequivocabile, questo, ammesso oltreoceano, e che sfata molti luoghi comuni, della funzione di guida dei gruppi dirigenti politici europei, non solo sordi ai rigurgiti punitivi, ma che, come si sa, già nel 1998 sono stati promotori di «una politica dell’Unione Europea nei confronti dei Paesi terzi in materia di pena di morte», e nel 2007 artefici della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che impegna, anche gli Stati Uniti, a una moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte.
Il secondo passaggio obbligato del dibattito statunitense sulla pena di morte è l’umanità delle sanzioni penali, imposta dal divieto dell’ottavo emendamento della Costituzione di comminare e infliggere punizioni «crudeli e inusuali». È in gioco la stessa legittimità costituzionale della pena di morte, negata nel 1972 dalla Corte suprema degli Stati Uniti con la sentenza Furman v. Georgia, ma riaffermata nel 1976 con la sentenza Gregg v. Georgia, che ha dato avvio alla quasi generale domanda di ripristino della pena di morte, in ebollizione dal 1972. Dopo il 1976, il numero delle esecuzioni è progressivamente cresciuto, con un crudo bilancio alla data del 1° aprile 2008: ammontava a 1099 il totale dei ‘giustiziati’, 50 dei quali da parte degli organi del governo federale. Ancor più impressionante il numero dei condannati a morte reclusi nei death rows, in attesa dell’esecuzione: nel gennaio/febbraio 2008 raggiungeva il tetto vertiginoso di 3263 persone.
Comprensibili, in questo stato di cose, le voci che nella recentissima sentenza Baze v. Rees si sono levate per ridiscutere la giustificazione costituzionale della pena di morte anche sotto il profilo della sua ‘umanità’. Perfino il giudice John Glover Roberts, presidente della Corte, quasi brutale nel negare spazio ai dubbi sulla legittimità del metodo dell’iniezione letale, ha descritto il passaggio dall’impiccagione alla elettrolocuzione, la ‘sedia elettrica’, con la «ben fondata convinzione che è meno penosa e più umana dell’impiccagione», aggiungendo che, successivamente, «la legislazione degli Stati cominciò a rispondere alla domanda della pubblica opinione di riesaminare l’elettrolocuzione […] per assicurare una morte umana […], ed è incontroverso che orientandosi verso l’iniezione letale gli Stati erano motivati dal desiderio di trovare una più umana alternativa ai metodi esistenti» (553 U.S., 2-4, 2008).
Fulminante il corollario sul terreno delle funzioni della pena di morte – il terzo controverso capitolo del dibattito di sempre – tratto dal giudice Stevens da quel che il presidente della Corte aveva reso «cristallinamente chiaro»: «la nostra società si è allontanata dall’idea di una pubblica e dolorosa retribuzione verso forme di punizione sempre più umane. State-sanc-tioned killing (l’uccisione sancita dallo Stato) è perciò divenuta sempre più anacronistica: nel tentativo di allineare le esecuzioni ai progressivi standard di civiltà, noi abbiamo adottato in modo crescente metodi di esecuzioni meno dolorosi, e quindi abbiamo dichiarato barbarici e arcaici i metodi precedenti. Ma richiedendo che l’esecuzione sia relativamente meno penosa, noi necessariamente proteggiamo il detenuto da indurimenti di qualsiasi pena» reclamati in nome «della sofferenza inferta alla vittima»: da chi, in realtà, grida ancora ‘occhio per occhio, dente per dente’ ‘sangue per sangue’, secondo la legge del taglione. La invoca espressamente sia chi, citando passi biblici e del Nuovo Testamento, conclude che «Gesù accettò il codice mosaico, compresa la pena capitale, e non fece nulla, con le parole o le azioni, per abrogare la pena di morte» (H. Wayne House, The New Testament and moral arguments for capital punishment, in The death penalty in America, 1997, p. 420), sia chi, più dottamente, evoca l’ultimo Immanuel Kant, attribuendogli l’incomprensibile idea che «la pena capitale è necessaria per redimere, o restaurare, la dignità umana del giustiziato» (E. van den Haag, The death penalty once more, in The death penalty in America, 1997, p. 452), dimenticando di dare a Kant quel che davvero gli compete: lo scherno verso «l’affettato sentimentalismo umanitario del marchese Beccaria», e soprattutto le terrificanti parole sul senso della pena in genere e della pena di morte in specie: «soltanto la legge del taglione (ius talionis) può alla sbarra del tribunale determinare la qualità e la quantità della punizione»; e «se un uomo ha ucciso, egli deve morire […]; non vi è nessun altro compenso fra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale» (I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, 1797, trad. it. in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, 1956, pp. 521-23).
In ultima analisi, come ha sottolineato il giudice Stevens, «è la sete di vendetta» quel che davvero si nasconde dietro il velo della ratio retributiva della pena di morte (p. 10), come sanno da tempo gli studiosi di psicologia giuridica: «poiché ogni trasgressore della legge espone a pericolo gli interessi altrui, egli scatena quel bisogno reattivo di vendetta che ha trovato nel principio del taglione del sistema punitivo primordiale la sua espressione» (F. Alexander, H. Staub, Der Verbrecher und seine Richter. Ein psychoanalytischer Einblick in die Welt der Paragraphen, 1928, trad. it. Il deliquente, il giudice e il pubblico, 1948, p. 113).
Anche l’altra funzione assegnata alla pena di morte – l’incapacitation, cioè l’eliminazione del reo dal consorzio umano – poteva essere (è la risposta di molti) una legittima ragion d’essere nel 1976, quando crimini odiosi non avevano risposte sanzionatorie adeguate, ma il progressivo aumento nelle codificazioni (48 Stati nelle ultime due decadi) di previsioni della carcerazione a vita senza rilascio anticipato per buona condotta (parole) dimostra che l’incapacitation non è una ragione né necessaria né sufficiente per la pena di morte; un recente sondaggio indica anzi che il sostegno alla pena di morte diminuisce significativamente quando viene presentata come un’opzione alternativa la carcerazione a vita senza parole; inoltre prove sociologiche suggeriscono che è meno probabile che le giurie infliggano la pena di morte quando è disponibile una sentenza di carcere a vita senza possibilità di rilascio anticipato.
La terza funzione della pena – la deterrenza dei potenziali autori di reati sanzionati con la pena di morte: in particolare l’omicidio doloso aggravato – è stato terreno di scontro tra economisti e criminologi da almeno un trentennio; ricerche empiriche hanno via via corroborato o falsificato l’ipotesi dell’efficacia deterrente della pena di morte, con un bilancio quantitativo che pende però dal lato di chi nega quell’efficacia: l’84% dei criminologi statunitensi, secondo quanto riferiscono l’attuale e il passato presidente delle primarie associazioni di criminologia; in ogni caso, prevalenti sono gli studi che criticano le metodologie seguite da chi asserisce l’efficacia deterrente della pena di morte, e in radice ne mette perciò in discussione i risultati.
Concludendo, il giudice Stevens ha potuto scrivere che «la completa ricognizione della diminuita forza delle principali ragioni del mantenimento della pena di morte deve condurre questa Corte e le legislazioni a riesaminare l’interrogativo» (evocato in apertura) «sollevato dal professor Salinas: It is time to kill the death penalty?», anche perché «è sicuramente arrivato il tempo di una spassionata, imparziale comparazione fra gli enormi costi che impone alla società la pena di morte con i benefici che essa produce» (p. 12).
L’esito della discussione sui costi finanziari e sui costi meno tangibili della pena di morte – il quarto capitolo del dibattito statunitense – è stato limpidamente compendiato in questi termini: «I casi giudiziari della pena di morte sollevano molti più problemi, e problemi assai più complessi, di ogni altro caso penale, e vengono esaminati dalle corti con sempre maggior slancio e riesaminati con sempre maggior vigore. Ciò significa che vi è una elevata possibilità che la condanna o la sentenza venga riesaminata – seriamente riesaminata – cinque, dieci, venti anni dopo il processo […]. Siamo lasciati nel limbo, con una macchina giudiziaria che è immensamente costosa e che provoca ripetuti traumi ai familiari delle vittime», che «debbono vivere con la possibilità – e spesso con la realtà – di un nuovo giudizio, l’escussione di testimoni, e con differimenti dell’esecuzione all’ultimo minuto (last-minute stays), per decadi dopo il crimine» (A. Kozinski, S. Gallagher, Death: the ultimate run-on sentence, «Case western reserve law review», 1995, 46, 1, pp. 17-18, 27-28). All’obiezione che questi costi sono la conseguenza di procedure d’appello troppo lente, si replica che i giudici non fanno altro che assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali prima di imporre un’irrevocabile pena di morte e, inoltre, che la lunghezza dei giudizi d’appello – lo ha sottolineato la Corte suprema degli Stati Uniti in una sentenza del 1999 (Knight v. Florida, 528 U.S.) – «dipende in larga parte dalla difettosa applicazione da parte degli Stati di procedure sufficientemente conformi alla costituzione all’epoca dell’iniziale condanna o della commisurazione della pena» (p. 998) da parte dei giurati; senza dimenticare che i ritardi nell’esecuzione dipendono anche dalla generale riluttanza degli Stati di mandare a morte un largo numero di imputati, come si leggeva icasticamente in un quotidiano della California del 2006 citato dal giudice Stevens (p. 13): «la California condanna molti assassini, ma pochi sono sempre giustiziati», e dire che in California i detenuti nei death rows sono il 20% del totale dell’intera nazione, mentre quelli giustiziati sono solo l’1%. A fronte di questi dati, si può solo farli passare sotto silenzio, magari dando sfogo a repliche immotivate e ab irato: esemplare quella, all’indirizzo del giudice Stevens da parte del giudice conservatore Antonin Scalia nel processo Baze v. Rees, il quale ha asserito, in modo a dir poco imbarazzante, che «gli enormi costi» della pena di morte per lo Stato e i familiari sono «in larga misura creazione di Stevens e degli altri giudici che si oppongono alla pena di morte, i quali l’hanno imbrigliata con restrizioni» frutto delle «loro vedute politiche» (pp. 6-7).
Un altro capitolo – venuto con prepotenza alla ribalta – è quello della condanna a morte degli innocenti: un tragico errore irreparabile, sul quale disse l’essenziale Beccaria, sul finire della vita. In una consulta del 1792 sulla pena di morte, prevista da una progettata riforma del sistema criminale della Lombardia austriaca, scrisse – con i consiglieri Gallarati Scotti e Risi – che «noi desumiamo che non convenga la pena di morte, come irreparabile, alla inevitabile imperfezione delle umane prove. Quand’anche fosse giusta, quando fosse la più efficace di tutte, per essere giustamente applicata al reo bisogna che egli sia provato tale in modo che escluda la possibilità in contrario. Ciò nasce manifestamente dalla irreparabilità della pena di morte; […] e dall’esame di tutte le legislazioni risulta che le prove sufficienti a sentenziare un reo a morte non sono mai state tali che escludano questa possibilità in contrario; giacché, né le prove per testimoni […] né le prove per indizi moltiplicati e indipendenti tra di loro, ancorché corredate dalla confessione del reo, non sono tali che eccedano i limiti della certezza morale, la quale ben esaminata non è che una somma probabilità e niente più. Non sono inauditi gli esempi presso quasi tutte le nazioni, in cui supposti rei furono sentenziati a morte perché risultati tali da queste supposte irrefragabili prove […]. Tutte le volte che non si sono potuti sottrarre dagli occhi del pubblico questi errori pressoché inevitabili della magistratura, e che il tempo ha saputo manifestare prontamente l’innocenza de’ supposti rei, si è sempre considerato un tale avvenimento come una pubblica calamità, e i magistrati sono stati la vittima della pubblica esecrazione per una colpa non sua. Posti dunque nella necessità di dover seguire nella condanna il lume non sempre chiarissimo della certezza morale, non vi è paragone tra una pena in qualche modo reparabile finché il reo è in vita [come l’ergastolo] con quella di morte, perché irreparabile dopo estinto il reo» (C. Beccaria, Opere, a cura di S. Romagnoli, 2° vol., 1971, pp. 739-40).
Gli inauditi esempi di innocenti condannati a morte, dei quali parlava Beccaria ai suoi tempi, trovano esempi a iosa negli Stati Uniti: dal 1973, più di 120 persone sono state rilasciate dal death row per la loro provata innocenza; in particolare, dal 1973 al 1999 vi è stata una media annuale di 3,1 rilasci. Con il crescente impiego della prova del DNA, la media dei rilasci è salita, dal 2000 al 2007, a 5 condannati per anno. Si tratta, peraltro, di numeri stimati molto al disotto della realtà. Si ritiene da più parti che siano molti gli innocenti condannati per la complessità dei casi: l’interesse ad assicurarsi che il crimine non resti impunito può soffocare persino i dubbi sull’identità dell’autore; per l’assenza di difensori professionalmente capaci; per l’uso parsimonioso delle prove scientifiche, a cominciare dal controllo del DNA; per l’assenza di una giuria qualificata scelta casualmente: una procedura aborrita dall’accusa, incline a giurie a favore della condanna; per la tendenza, anche della Corte, a ritenere ammissibili prove dell’‘impatto emotivo’ del crimine sulla famiglia della vittima (Payne v. Tennessee, 501 U.S. 808, 1991), a onta del fatto evidente che ciò non diffonde alcuna luce sulla questione della colpevolezza o dell’innocenza, servendo solo a incoraggiare i giurati a prendere le decisioni sulla vita e la morte sulla base di emozioni, e non della ragione.
Un altro tradizionale capitolo del dibattito statunitense è il rischio di applicazioni discriminatorie della pena di morte. Il rischio sembra decrescente anche se a oggi il 57% dei giustiziati sono neri e, quanto ai reclusi nei death rows, sono il 42%. Anche la Corte suprema ha ammesso che il rischio di discriminazione continua a giocare un ruolo inaccettabile: «in McCleskey v. Kemp (481 U.S. 279, 1987)» ha osservato il giudice Stevens «la Corte ha confermato la pena di morte nonostante la forte probabilità che la giuria che ha condannato (l’imputato) […] fosse influenzata dal fatto che (egli fosse) nero e la sua vittima fosse un bianco»; più recentemente (Evans v. State, 5552 U.S., 2007) ha del pari confermato una condanna alla pena di morte nonostante uno studio che mostrava che «la pena di morte è statisticamente più probabile che venga eseguita contro un nero che […] contro un imputato in ogni altra combinazione razziale» (p. 16).
Quali sono le radici storiche della pena di morte negli Stati Uniti? Sono estirpabili o no, e quando? Raramente questi interrogativi cruciali – gli ultimi del dibattito statunitense – sono stati sollevati in modo aperto. Solo da ultimo – guardando al presente – si è gettato uno sguardo sul retaggio della tradizione dei ‘gruppi di Vigilanti’, eredi della tradizione del ‘linciaggio’, che è l’antenato della pena di morte comminata dallo Stato. Si tratta di cittadini che ‘prendono la legge nelle loro mani ’, essendo più vicini alle comunità delle autorità giudiziarie statuali, sentite come distanti se non ostili; e una serie di sondaggi della Gallup mostrano nella popolazione intervistata un favore mai sopito. Le risposte degli intervistati cambiano nelle varie aree della Confederazione, ma ancora nel 1985 circa l’80% nell’intera nazione si è detta favorevole: sempre, per l’8% dei casi; in taluni casi, per il 72% (Zimring 2003, pp. 230-34). Resta un’altra radice di primitivismo inestirpato: le armi (in molti Stati le leggi impongono ai pubblici ufficiali di autorizzarne il possesso), come strumenti di ‘controllo della criminalità’ da parte dei ‘vigilantes’, ma più spesso, sotto l’apparenza di forme di autodifesa (pp. 104-07), sono fomite di violenze spesso coronate da odiosi omicidi, seguite da reazioni a catena, che innescano una spirale di vendette, che soddisfano la mai appagata sete di vendetta.
È possibile ora rispondere alla domanda finale: ha un futuro la pena di morte negli Stati Uniti? Per gli altri Paesi, a cominciare dalla Cina (dove le esecuzioni superano di molto quelle degli Stati Uniti, non allontanandosi però dal totale statunitense comprensivo dei detenuti in attesa delle esecuzioni: circa 4000), la risposta è impossibile per chi non conosca da vicino quelle realtà e l’evolversi della loro civilizzazione. Difficilissima la risposta per gli Stati Uniti, anche agli occhi degli studiosi che ne osservano l’evolversi dall’interno. Chi auspica ‘l’inizio della fine’, fa leva su fattori politici (presidenze capaci di orientare la politica del Paese con la nomina di membri della Corte suprema e con una maggioranza congressuale omogenea); e pure su un mutato atteggiamento rispetto ai sondaggi con esiti favorevoli all’esecuzione capitale; su un non silenzioso dibattito in pubblico, che indebolisca i punti cardine del movimento a favore della pena di morte, insinuando il dubbio in chi ha «sempre nutrito certezze granitiche in questa materia» (Zimring 2003, pp. 187 e sgg.). È un’agenda, che potrebbe oggi essere confortata dagli ultimi sondaggi della Gallup, del maggio 2006, che mostrano la leggera preferenza per la carcerazione a vita senza parole (48%) rispetto a chi seguita a preferire la pena di morte (47%).
Difficile però non fare i conti con gli ‘imprenditori morali’. Sono lo zoccolo duro rappresentato dalle tante influenti associazioni di ‘categoria’ (funzionari dell’accusa, sceriffi, capi di polizia) e dalle tante «confessioni religiose che hanno manifestato il loro sostegno alla pena di morte anche in audizioni nei Parlamenti statali e nel Congresso, come le chiese Fondamentaliste e Pentecostali, i Mormoni, l’associazione nazionale degli evangelici, rappresentanti più di dieci milioni di cristiani conservatori, la Coalizione Cristiana» (The death penalty in America, 1997, p. 415). Vi sono altre confessioni religiose che avversano pubblicamente la pena di morte, ma non la silenziosa Chiesa cattolica. Ci si è meravigliati che la sentenza Baze v. Rees sia stata assunta da cinque giudici cattolici, negli stessi giorni della visita negli Stati Uniti dell’attuale pontefice, ma la meraviglia è doppiamente infondata. Sul piano politico, la Città del Vaticano, rinviando alla legge italiana del 1926, ha previsto la pena di morte nel 1929 per gli attentati nel territorio della Città del Vaticano «alla vita, all’integrità o la libertà personale del Sommo pontefice» (art. 4, ultimo co., l. 7 giugno 1929). Solo nel 1969 ha abrogato questa disposizione e solo nel febbraio 1971, emanando la nuova Legge fondamentale, ha finalmente conferito rango costituzionale all’abolizione della pena di morte. D’altra parte, sul piano dei principi, la Chiesa cattolica, nel recente catechismo e nell’enciclica Evangelium vitae del pontefice Giovanni Paolo II, ha confermato il tradizionale sostegno alla pena di morte: legittima nei casi in cui sia «assolutamente necessaria», rilasciando così una cambiale in bianco ai singoli Stati, con un ambiguo camuffamento della realtà («Oggi quei casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti», Evangelium vitae, n. 56).
È fondata la speranza che gli USA cambino orientamento, all’avverarsi dei cambiamenti politici e nell’opinione pubblica auspicati da chi ha speranzosamente visto ‘l’inizio della fine’? Si può solo rispondere che non è un buon inizio la notizia, ribadita nei giornali di ogni Paese, che verranno presto effettuate le esecuzioni sospese prima che la Corte suprema desse il via libera all’esecuzione delle pene di morte con il metodo dell’iniezione letale. E se la reazione europea sarà di biasimo, è d’obbligo l’augurio che si attutisca il tradizionale fastidio statunitense verso l’attitudine europea a ‘esportare’ il proprio standard di civiltà in materia di pena di morte.
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