PENA
. Filosofia. - La determinazione filosofica della "pena" implica il chiarimento di due questioni connesse: il fondamento del diritto di punire e lo scopo della pena. Non si può intendere speculativamente la pena senza rispondere a due quesiti: con qual diritto l'autorità (lo stato o chi quell'autorità si assume) punisce? qual'è lo scopo cui si mira punendo? Argomenti fondamentali, che implicano i più ardui problemi religiosi, etici e filosofico-giuridici, cui rimandano in definitiva. Come parlare di pena senza intendere la responsabilità morale o la libertà, come fondarla senza postulare una potestà d'imperio, una sovranità e chiedersi in ultimo la ragione stessa di essa?
Abbiamo scisso la trattazione; nel suo ambito procederemo a una classificazione logica delle dottrine talvolta prescindendo dalla stessa successione temporale.
L'indagine sul fondamento intrinseco del diritto punitivo, sulla giustizia del magistero penale è fondamentale e ineliminabile, non ostante la varietà delle soluzioni, i contrasti, i dubbî, le oscillazioni cui dà luogo. La prima soluzione apparsa al pensiero umano, la più ovvia per la mente primitiva, è quella teocratica. Il potere, sia esso nello stato o in altri, punisce perché ne ha l'autorità da Dio. Se il delitto contrasta la legge di Dio, il potere, da Dio consacrato, rappresentante la divinità, non può non colpire l'audace violatore. Il diritto è espressione del volere della divinità, il magistero penale in Dio riceve intrinseca fondatezza. È questa la concezione che circola nelle primissime legislazioni. L'abbandono graduale delle premesse teologiche implica una mutazione, la più ampia, della dottrina in senso umano, insieme il suo frammentarsi in più teorie: da quelle fondate sull'identificazione di diritto e forza, per cui lo stato punisce perché è il più forte, alle altre contrattualistiche, che, presupponendo lo stato fondato su un patto tacito o espresso dei consociati, sostengono che nei termini del patto vi sia anche un diritto da tutti concesso all'autorità costituita contro chi eventualmente violi le stesse leggi consentite. Ricorrono a tal proposito per le une il nome di Hobbes, per le altre i grandi giusnaturalisti, da Grozio a Thomasius. Più strettamente giuridica e largamente diffusa la dottrina che vuol vedere la ragione della pena nell'erroneità della posizione in cui si trova chi viola il diritto. Se lo stato è il tutore dell'ordine giuridico, anzi secondo alcuni l'ordine giuridico stesso, se l'ordine esige la subordinazione dei soggetti, ogni soggetto che si opponga, violi l'ordine, non può non incontrare la restaurazione dell'ordine turbato, poiché a esso incombe la custodia di questo. Qui la questione apparentemente s'inquadra nei termini del giure positivo, in realtà implica l'esame dell'intrinseca autorevolezza di quello. Solo dimostrando la giustizia dell'ordine giuridico, giusta ne appare altresì la tutela nel magistero penale.
Nell'esame sommario delle dottrine sul fondamento del diritto di punire si profilano già varie soluzioni del tema dello scopo della pena. È tradizionale dividere queste in teorie assolute, relative e miste, secondo che alla pena assegnino uno scopo assoluto, relativo o eclettico.
Le teorie assolute negano che la pena abbia uno scopo particolare. Essa è solo la conseguenza di un principio. Per quanto varia ne sia la formulazione, il concetto implicito in quelle dottrine è che il reo è punito non perché non commetta altri delitti o perché altri uomini non incorrano in delitti, ma solo perché egli ha compiuto un delitto. Punitur quia peccatum est. Non si nega che l'utilità sociale possa essere un risultato dell'applicazione della pena, tuttavi non ne è il fine. La pena è fine a sé stessa, in quanto riaffermazione di quel valore assoluto che è il diritto. È necessario che il suo valore, negato nel delitto, sia riaffermato nella pena: scopo assoluto della pena. Entro questi termini piuttosto ampî la dottrina si configura diversamente, dalla mera idea vendicatoria e dal contraccambio alle espressioni più alte dell'estetica e dell'etica.
Questo gruppo di dottrine meriterebbe per sé solo una trattazione storica. L'idea della pena come retribuzione, contraccambio, e quindi l'esigenza di una corrispondenza tra il fatto delittuoso e il trattamento di esso è già in Pitagora; elementi teoretici che saranno svolti da Aristotele nella sua trattazione della giustizia correttiva o sinallagmatica, che si applica anche in tema di delitti. A prescindere dalla scolastica, l'espressione più alta della teoria è in Kant, il quale le dà appunto rigida veste etica. La pena è riaffermazione moralmente necessaria della legge del dovere violata. "La pena giuridica non può mai essere inflitta come puro mezzo per ottenere un altro vantaggio sia per il reo stesso sia per la società, ma deve sempre essere inflitta solo perché egli ha mancato; prima che si possa pensare a trarre dalla pena una utilità per lui stesso e pei suoi concittadini uopo è che egli sia riconosciuto come punibile... Il diritto penale è un imperativo categorico". Nello stesso ordine di idee si avvolge Hegel, per cui la pena è negazione della volontà negativa che costituisce il delitto; quindi dialettica necessità. Tanto la soluzione kantiana quanto quella hegeliana hanno avuto moderni diffusi sviluppi. Se Kant svolge la dottrina nella sua formulazione etica, non manca in Leibnitz una vera e propria concezione estetica della pena, essendo questa per lui un mezzo per ristabilire l'armonia dell'ordine di cui il delitto è turbativa. Sulla pena come necessità estetica insiste J. Fr. Herbart, per quanto egli poi indulga altresì a motivi etici diversi. Contro le teorie assolute stanno le non meno numerose teorie relative, che alla pena assegnano i più diversi scopi esterni. Il diritto penale non si propone fini assoluti, bensì mira più concretamente a positivi fini sociali e individuali umani. A rafforzare tali fini sta la pena. Non si punisce solo per il male commesso, ma anche perché si eviti il delitto avvenire. Punitur ne peccetur. La funzione della pena non è dunque retributiva, ma utilitaria. Da ciò i più differenti scopi, da quelli intimidatorî e medicinali a quelli più emendativi e pedagogici, infine alle teoriche modernissime della difesa sociale.
Accenni al carattere medicinale della pena sono già in Platone. Aristotele, nel quale pure sono accenni a una teoria assoluta della penalità, considera anch'egli il magistero penale come strumento d'intimidazione, e propriamente come medicina per la virtù dei contrarî. Il carattere esemplare della pena ricorre frequente nei giuristi romani, alimentando con esso le più diverse soluzioni del diritto comune, mentre la concezione della pena come medicina ritorna in onore con S. Tommaso d'Aquino, che spiega mirabilmente il pensiero ecclesiastico, nel quale la pena fu sempre anche intesa come espiazione dinnanzi a Dio.
Su un piano relativo si svolge la teoria della scuola del diritto naturale, attraverso U. Grozio, J. Hobbes, Pufendorf, Thomasius. Per quest'ultimo, che la scuola conclude, fine della pena è l'emendatio communis, di tutti coloro che come il reo avrebbero potuto delinquere, in fine quindi il miglioramento dei cittadini. Ma la dottrina già verte all'eclettismo. Accanto all'emenda, fine primario Thomasius svolge due fini secondarî, l'espiazione e la sicurezza sociale, expiatio et assecuratio. Il carattere esemplare e pedagogico della pena è quello che finisce per dominare il pensiero illuministico, il quale in Italia conta i nomi gloriosi di Tommaso Natale e di Cesare Beccaria. Su un piano relativo sono G. Filangieri. D. Romagnosi con la teorica della spinta e della controspinta penale, L. A. Feuerbach parla di coazione psicologica della pena, A. Bauer sviluppa la pena come ammonimento, e le determinazioni si potrebbero moltiplicare fino alla scuola penale positiva che con R. Garofalo e con E. Ferri insiste sulla difesa sociale. Infinite posizioni, queste, del relativismo nella concezione della pena.
Abbiamo detto che tra le due concezioni della pena non mancano tentativi eclettici, più o meno riusciti. Basterà ricordare H. Ahrens, che accanto a uno scopo immediato della pena, reintegrazione dello stato del diritto, parla altresì di uno scopo finale etico e umano, cui il primo è legato.
Insomma, se si vuol concludere da questo sommario excursus, bisogna convenire come il chiarimento dell'idea di pena sia in funzione speculativa di tutta una visione della vita morale, epperò rimandi alla nozione connessa di responsabilità morale. Tutta la dottrina implica il problema della libertà umana, dal cui diverso chiarimento derivano le accennate soluzioni.
Bibl.: Una trattazione su problemi del fondamento e dello scopo della pena è nei migliori trattati di diritto penale. Vedi, tra l'altro, concepiti su due piani differentissimi: G. B. Impallomeni, Istituzioni di diritto penale, 3ª ristampa, Torino 1921, p. 53 segg.; G. Maggiore, Principii di diritto penale, I, Bologna 1932, p. 357 segg. Nella letteratura speciale: A. Merkel, Vergeltungsidee u. Zweckedanke im Strafrecht, Strasburgo 1892; G. Tarde, La philosophie pénale, 5ª ed., Parigi 1900; E. Ferri, Sociologia criminale, 4ª ed., Torino 1900; G. Jellinek, Die sozialetische Bedeutung v. Recht, Unrecht u. Strafe, 2ª ed., Berlino 1908; E. Beling, Die Vergeltungsidee und ihre Bedeutung für das Strafrecht, Lipsia 1908; W. Leonhard, Die modernen Strafrechtsideen u. der Strafvollzug, Lipsia 1910; A. Prins, La défense sociale et les transformations du droit penal, Bruxelles 1910; A. C. Ewing, The morality of punishment, Londra 1929; H. E. Barnes, The story of punishment, Boston 1930. Per quanto riguarda la storia delle idee penalistiche in Italia nell'età moderna vedi: P. S. Mancini, Sommi lineamenti di una storia ideale della penalità e problemi odierni sulla scienza e sulla codificazione, Roma 1874; E. Pessina, Il diritot penale in Italia da C. Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente, in Enciclopedia del diritto penale italiano, II, Milano 1906, pp. 539-768; U. Spirito, Storia del diritto penale italiano da C. Beccaria ai giorni nostri, 2ª ed., Torino 1932.
Storia del diritto.
Pena privata. - È la somma che la vittima di un delitto esige dal delinquente a scopo di punizione e riparazione del torto arrecatole, quando per il grado di evoluzione giuridica raggiunto e per il carattere del fatto commesso non si ritiene di dover farlo oggetto di pubblica persecuzione.
Il punto di partenza, sanzione originaria di ogni fatto illecito, è la vendetta, che non solo esige la morte dell'omicida, ma per le lesioni personali si concreta nel taglione e anche per i reati contro la proprieta si esplica con l'uccidere il ladro o venderlo in schiavitù. L'interesse comune delle parti fa però sì che alla vendetta il delinquente si sottragga il più delle volte, perfino in tema di omicidio, mediante una composizione (prima in natura, poi in denaro) liberamente convenuta, per il tramite di individui o gruppi neutrali, col gruppo a cui la vittima apparteneva: accanto agli esempî che se ne trovano nei poemi di Omero e di Esiodo, giova ricordare la diyah, o prezzo del sangue, che ancora oggi viene pagata alla famiglia dell'ucciso nelle popolazioni beduine. L'intervento della pubblica autorità si manifesta sia con l'avocare a sé la punizione dei delitti di particolare gravità, sia con l'imporre la composizione, trasformandola da volontaria in legale e fissandone le tariffe. Così nel diritto romano delle XII Tavole i diversi regimi del furto flagrante (manifestum) e non flagrante (nec manifestum), puniti il primo con la caduta in schiavitù e il secondo con una somma corrispondente al doppio valore della cosa rubata, si riportano a due diversi stadî dell'evoluzione, e facilmente si dimostra che nell'applicazione pratica le due sanzioni finivano per identificarsi; nel campo delle lesioni personali, si trova già la composizione legale a somma fissa per le lesioni minori, mentre per le mutilazioni la composizione è ancora volontaria, lasciando giuridicamente intatta la norma del taglione; quanto all'omicidio, le esigenze di una civilta eminentemente progressiva escludono ogni composizione, ma la sanzione capitale è tolta all'arbitrio delle famiglie e rimessa all'attività di organi statuali i quaestores parricidii. Altrove la concezione primitiva è stata più dura a scardinare: come nei paesi tedeschi, dove l'interesse sociale alla persecuzione dell'omicidio si è per lunghi secoli espresso nella semplice aggiunta di una quota da versarsi al re sopra il prezzo del riscatto (guidrigildo, Wehrgeld) assegnato alla famiglia; o come in Grecia, dove l'omicidio è rimasto per molto tempo un delitto di azione privata. Comunque, la caratteristica della pena privata, in opposizione alla pubblica, è di essere destinata al privato interessato, e di essere da lui richiesta nelle forme giudiziarie con cui si fanno valere tutti i diritti soggettivi privati. Nel diritto attico, ad es., che distingue le azioni giudiziarie nelle due grandi categorie delle γραϕαί (azioni pubbliche, spettanti a qualsiasi cittadino) e delle δίκαι (azioni private, spettanti agl'interessati), i processi che dànno luogo a pene private sono iniziati da δίκαι: δίκαι κατά τινος (azioni contro qualcuno) in opposizione alle δίκαι πρός τινα (azioni in contraddittorio di qualcuno). Egualmente, in diritto romano la pena privata è domandata mediante taluna di quelle actiones che si trovano esposte nell'editto del magistrato giusdicente, e che l'interessato è libero d'intentare o non intentare, mentre ogni estraneo ne è escluso; ma le azioni destinate a questi scopi portano il nome speciale di actiones poenales, contrapposte alle reipersecutorie, con le quali si domanda la restituzione di quel che ci appartiene o l'esecuzione della promessa fattaci.
Dal carattere di pena, sostitutiva della vendetta, inerente alla somma che si pretende mediante l'azione penale, derivano speciali caratteri, che invano si cercherebbero nelle azioni reipersecutorie: nell'enumerarli seguiamo la mirabile tecnica romana, ma nella loro sostanza gli stessi caratteri si ritrovano altrove, p. es. in Grecia. Le azioni penali sono passivamente intrasmissibili, nel senso che non possono essere intentate contro gli eredi del delinquente; sono nossali, nel senso che, se l'autore del delitto è un servo o un figlio di famiglia, sono fatte valere contro il padre o padrone, ma questo si libera da ogni responsabilità consegnando all'attore il colpevole; sono cumulabili, nel senso che, se più sono gli autori del delitto, ognuno paga l'intera pena, e se dalle stesse circostanze nasce una azione reipersecutoria (p. es., la rivendicazione della cosa rubata), l'esercizio di questa non pregiudica quello dell'azione penale.
Il regime descritto mostra chiaramente che non si tratta di ottenere il risarcimento di un danno che il patrimonio dell'offeso abbia patito, ma d'infliggere al delinquente una punizione e di dare all'offeso qualcosa che in qualche modo compensi il torto sofferto con una soddisfazione di diversa natura. Tuttavia in pratica l'esclusione dell'idea d'indennizzo patrimoniale non è sempre così netta come i principî esigerebbero. Il distacco è evidente, ad es., nel caso dell'azione d'ingiurie, specie se intentata a causa di contumelie e diffamazioni, dove normalmente non si verifica danno patrimoniale; ed è evidente anche in tema di furto, benché la pena sia commisurata a un multiplo (doppio, triplo, quadruplo) del valore della cosa rubata: infatti, potendosi la cosa o il suo valore recuperare mediante la rivendicazione o altra azione che la sostituisce, la somma pretesa con l'actio furti è mera pena. Ma in tema di danneggiamento, ad es., le cose si complicano: quantunque l'azione relativa, introdotta da un'apposita legge Aquilia (v.), abbia tutti i caratteri indicati delle azioni penali, tuttavia l'offeso non ha altro mezzo per ristabilire l'equilibrio patrimoniale turbato; e la somma dovuta dal delinquente, misurata secondo criterî complessi e variabili, arriva nei casi più favorevoli a identificarsi con ciò che egli pagherebbe se si trattasse di risarcire il danno. Da questa situazione e da altre simili è derivato che già nel diritto romano classico, e molto più largamente nel giustinianeo, il concetto della pena privata si è venuto affievolendo per avvicinarsi a quello di un risarcimento del danno. E allo stesso risultato ha contribuito la sempre maggiore sensibilità sociale in confronto del delitto, per cui di ogni atto illecito rappresentante un pericolo per la collettività lo stato si è assunta la persecuzione, negando ogni diritto privato di punire. Perciò nel diritto attuale, salvo sporadiche e discusse eccezioni, la pena privata non esiste più; e a favore dell'offeso vale soltanto il principio, posto ad es. nell'art. 1151 cod. civ. italiano, per cui ogni fatto dell'uomo, che arrechi danno ad altri, obbliga il colpevole al risarcimento.
Pena pubblica. - In antitesi alla pena privata, di cui si è detto, si chiama pubblica quella pena la cui applicazione è considerata come rispondente a un'esigenza della società intera; onde da una parte la facoltà di richiederla spetta non già all'interessato, bensì a un organo dello stato, oppure (secondo un sistema largamente praticato nel regime classico della città) a ogni cittadino, e d'altro canto il vantaggio economico che direttamente o in via di conseguenza possa discenderne va a vantaggio della comunità. La circostanza, già rilevata, che l'avocazione del diritto di punire allo stato si compie lentamente e in uno stadio avanzato della civiltà, fa sì che le due caratteristiche osservate non ricorrano sempre con eguale precisione, nel senso che elementi proprî della pena privata sopravvivano nella pubblica. È, p. es., assai frequente il caso che una multa da pagarsi allo stato si cumuli col riscatto dovuto alla vittima di un fatto illecito, o si sostituisca a esso, e che tuttavia l'azione relativa possa essere esercitata dal solo interessato: la cosa è frequente nelle città greche, ma anche in Roma la somma che è oggetto di scommessa fra le parti della legis actio sacramenti va versata all'erario, e nei paesi germanici il fretum dovuto alla comunità è come un'addizionale del guidrigildo spettante alla vittima. Alquanto incerto è anche il carattere di quelle multe che nei documenti antichi si trovano comminate per l'inadempimento di un contratto, per l'ingiusto attacco a un testamento, per la violazione di un sepolcro: in certi ambienti la multa era perseguibile d'ufficio dal magistrato, ma comunque essa diveniva esigibile anche in seguito all'azione privata dell'interessato. Per ragioni consimili, il delitto, la cui penalità è a Roma la più difficile da definire, è il crimen repetundarum, cioè la concussione esercitata nel governo delle provincie: non solo la forma originaria di repressione è un'azione privata per la restituzione del mal tolto, ma nella varia legislazione processuale sull'argomento abbondano sempre le analogie col processo privato, e la pena stessa si riduce il più delle volte a restituire agl'interessati il compendio delle concussioni; l'azione, poi, è intentata da un cittadino romano, appartenente a date categorie, ma solo in quanto sia stato scelto come patrono da individui e città danneggiate. In altri casi perfino le pene di morte e di esilio, che in civiltà avanzata non sono più considerate come rivolte ad appagare uno spirito di vendetta individuale, hanno qualche elemento proprio della pena privata: si è già detto del regime attico dell'omicidio; in Roma l'accusa di adulterio è riservata nei primi 60 giorni dalla scoperta al padre e al marito dell'adultera, e l'accusa da loro intentata dà luogo a pene più gravi, senza contare la facoltà di uccidere che è loro riconosciuta, e che è una vera e propria legalizzazione della vendetta.
La pena pubblica appare già sviluppata, e la vendetta privata normalmente esclusa, così nel diritto mosaico come nelle codificazioni assiro-babilonesi (cod. di Hammurabi, sec. XX a. C.; libro di diritto del medioevo assiro, sec. XV-XIV; leggi hittite dei secoli XIV e segg.): piuttosto va notata in queste legislazioni, come nei più antichi monumenti della civiltà greco-romana, la commistione di elementi religiosi, in quanto le pene si riducono spesso a sacrifici espiatorî. Tranne che nel più evoluto costume hittita, il sistema delle pene è spietato, dominato com'è, oltre che dalla pena di morte, dalle amputazioni, ispirate per lo più all'idea del taglione (in senso proprio e per via d'immagine).
In Grecia la pena pubblica, che rimonta alla più alta antichità nei riguardi delle offese alla città, è stata introdotta anche per i delitti contro la persona, l'onore e la proprietà dei cittadini in quel periodo di grande progresso che s'identifica con i secoli VII e VI a. C. La pena conservò peraltro, per qualche tempo, i tratti dell'età eroica: essa consisteva o nell'atimia (nel senso originario della parola), per cui il delinquente era messo fuori della legge e chiunque poteva impunemente ucciderlo, oppure nell'ordalia, abbandono del colpevole alla vendetta degli dei mediante l'esposizione a un grave pericolo, scampando al quale era considerato come graziato dalla volontà divina. Soltanto in seguito lo stato si è direttamente assunta la funzione di punire il delinquente nella persona e nei beni.
In età storica, la pena per eccellenza è la morte, inflitta dapprima mediante la precipitazione in una voragine, più tardi con la scure o la forca, e spesso lasciando al condannato la facoltà del suicidio: solo per gli schiavi si usò la croce. La confisca dei beni non è conseguenza normale della pena di morte, anzi in tema di omicidio l'antitesi fra vendetta e composizione rivive nella massima per cui la confisca ha luogo soltanto se la vita è salva: per i delitti contro lo stato, il cumulo è teoricamente ammesso, ma il più delle volte si segue lo stesso criterio vigente per l'omicidio, e al momento della pronuncia della pena la questione che si pone alla giuria è appunto se si debba uccidere il colpevole o multarlo. Accanto alla confisca totale va ricordata la parziale; ma abbondano anche le multe in somme fisse, talora altissime, nonché, specie per i pubblici amministratori, le pene calcolate in un multiplo, spesso il decuplo, della somma che allo stato è venuta a mancare in seguito al delitto. Pene accessorie della morte possono essere la privazione della sepoltura, l'iscrizione in una stele esposta al pubblico, talvolta il bando della famiglia intera e l'esumazione dei suoi defunti seguita dal gettito dei resti nella fossa comune: asprezze che si fanno sempre più rare. È rimasta l'atimia, ma nel senso nuovo di perdita dei diritti politici.
Raramente sono applicate, fuori dei casi di delinquenti schiavi o stranieri alla città, le pene corporali. L'esilio è frequentissimo in pratica, ma il più delle volte come esilio volontario, al quale l'accusato ricorre prima che la sentenza sia pronunciata: anche quando è il tribunale a votare l'esilio, ciò va inteso giuridicamente come autorizzazione a valersene. Caratteristico il regime dell'omicidio involontario, il cui autore deve andare per un anno in esilio se non vuole essere punito alla pari del vero omicida; tant'è che, se fosse accusato anche di altro delitto, il tribunale dovrebbe sedere sulla spiaggia, ed egli si difenderebbe stando su una barca. Altra cosa, e piuttosto misura di sicurezza politica che pena, è l'ostracismo (v.).
Mentre alcune legislazioni, massime della Magna Grecia e della Sicilia, fissano minuziosamente la pena di ogni infrazione, altri paesi, come Sparta, si attengono a un'interpretazione, spesso molto libera, dell'antico costume. Ad Atene vige un sistema misto: mentre per alcuni reati la pena è fissata dalla legge e perciò immutabile (così la morte per il tradimento, il sacrilegio e l'omicidio, dove i processi sono ἀγῶνες τιμητοί), la maggior parte dei processi penali sono ἀγῶνες τιμητοί, cause cioè che si prestano al libero apprezzamento del tribunale: dopo la dichiarazione di colpevolezza, che chiude la prima fase del dibattimento, accusa e difesa presentano una proposta e una controproposta circa la pena, e sono i giurati che decidono se infliggere la morte, o se concedere la facoltà dell'esilio con la confisca dei beni, o se limitare la pena al patrimonio e in qual misura. Tenendo conto della possibilità che la procedura ateniese offriva di mutare la definizione della fattispecie, in modo da organizzare un ἄγων τιμητός anche per ipotesi punite con pena legale, il sistema finiva per dare ai giudici la massima libertà di valutazione; il che non era sempre bene in un paese ove la decisione incombeva a giurie numerose e incompetenti, trascinate a eccedere in uno o altro senso dalla passione politica e dall'abilità degli oratori.
Molte caratteristiche dello svolgimento greco si ritrovano in Roma, ma con quella precisione di struttura giuridica che è propria dell'ambiente romano. Il diritto di punire, così nel riconoscimento del carattere criminoso di un'azione come nella determinazione della pena, è in origine un'esplicazione dell'imperium dei magistrati, in quell'aspetto che prende nome di coercizione. Ma ben presto i delitti che dànno luogo alla pena di morte sono affidati alla competenza di magistrati speciali, come i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis; e in età ancora molto antica, al più tardi entro il sec. IV a. C., il diritto di appello al popolo (provocatio) fa sì che la pena capitale possa essere inflitta soltanto dall'assemblea, lasciando alla libera coercitio magistratuale la sola applicazione delle multe, anch'esse entro un certo limite. Per tutta l'epoca repubblicana, l'esilio non è una pena, ma un partito a cui si appiglia il reo, libero di farvi ricorso, sempre che il magistrato presidente dell'assemblea non vi si opponga per gravi ragioni, finché non sia proclamato il voto di quell'unità comiziale che determinerebbe la maggioranza necessaria per la condanna: in tal caso, l'assemblea delibera immediatamente l'interdizione dell'acqua e del fuoco (interdictio aquae et ignis), che significa comminazione della morte per il caso che il reo rimetta piede nel territorio romano. Questa lineare semplicità del sistema non muta neppure con l'introduzione delle quaestiones, giurie composte di cittadini delle classi superiori e presiedute ciascuna da un pretore: in pratica, però, la soluzione benevola dell'esilio è sempre più facilitata, fino a differire la pronuncia della condanna, già votata dalla giuria, di quanto occorre perché il reo si allontani; ed è perciò che a un certo momento, forse a partire dalle leggi di Cesare, l'interdictio aquae et ignis viene ad essere considerata come una pena, o meglio come un aspetto di quella capitalis poena che sarebbe in massima la morte. Conseguenze di questa e di quella sono la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni.
La coercizione magistratuale restava invece piena e intera nel comando in guerra (imperium militiae), nonché all'interno nei rapporti con gli schiavi e stranieri: qui la pena di morte trovava tutta la sua applicazione, e agli schiavi venivano anche applicate pene particolarmente severe e infamanti, come la precipitazione dalla rupe Tarpea e il supplizio della croce.
Le cose si complicano col passaggio dalla repubblica al principato. Il fenomeno caratteristico del nuovo diritto pubblico, cioè l'accostamento di organi e funzioni imperiali alle istituzioni repubblicane formalmente intatte, si ripercuote nel diritto penale, in quanto la competenza delle giurie, radicata nei crimina esattamente definiti dalle antiche leggi e nel già descritto sistema repressivo, è affiancata dalla concorrente giurisdizione del principe e dei suoi funzionarî, che si muove con la più grande libertà nella determinazione sia dell'illecito penale sia della pena. Si rinnova così in qualche modo la distinzione attica fra gli ἀγῶνες ἀτιμητοί e i τιμητοί: salvo che i reati a pena fissa non sono sempre i più gravi, e che perlìno le infrazioni contemplate dalle leggi possono essere portate al giudizio dei tribunali imperiali secondo il criterio della prevenzione.
Nei nuovi tribunali le pene si moltiplicano e si esasperano. Accanto alla vecchia pena capitale, che si traduceva il più delle volte nell'esilio, s'instaura una nuova poena capitis, che è ineluttabilmente la morte, applicata di solito con la decapitazione; agli schiavi, e in genere a tutte le persone di bassa estrazione (humiliores), si applicano nei casi gravi i summa supplicia: croce, forca, vivicombustione, esposizione alle belve. Da queste pene si scende ai lavori forzati nelle miniere (metalla), che importano la riduzione del reo in schiavitù (servitus poenae). L'esilio, pena oramai vera e propria, ha più gradazioni (esilio propriamente detto, relegazione, deportazione), con varie e talvolta incerte conseguenze circa la capacità giuridica.
Il vecchio e il nuovo sistema convivono durante tutto il principato: soltanto nel Basso Impero la fusione si opera, naturalmente a tutto vantaggio delle istituzioni più recenti, ma con un salutare ritorno a una precisa definizione dei reati e a una determinazione almeno approssimativa (per massimi e minimi) delle pene.
Il conflitto fra la vendetta privata e la pena pubblica, e le soluzioni intermedie che tengono dell'una e dell'altra, presentano la più grande complessità nel mondo germanico e nei paesi italiani che subirono le influenze di quei costumi. A parte i delitti contro lo stato, i soli dei quali non si discute che debba essere lo stato stesso a punirli, il sistema è quello della faida (v.), vendetta esercitata senza limiti né freni dalla vittima o dalla sua famiglia o gente; il Wehrgeld (guidrigildo, v.), composizione pecuniaria, è abbandonato alla libera iniziativa e nella decisione di accettarlo e nella determinazione della misura: le epoche, come la carolingia, nelle quali lo sforzo dello stato per farsi solo arbitro dei delitti e delle pene raggiunge momentaneamente lo scopo, si alternano con quelle in cui lo stato è costretto a cedere di fronte all'autonomia delle numerose e complesse istituzioni centrifughe. Il movimento verso la pena pubblica è favorito soprattutto dalla Chiesa, che predica la rinuncia alla vendetta e la più o meno spontanea penitenza del reo, e poi, nella legislazione dei comuni, delle signorie e dei principati, dall'imitazione del diritto romano.
D'altronde, anche in gara o in sostituzione della privata, la pubblica vendetta non le cede per nulla in severità; anzi, senza contare la rigorosissima legislazione carolingia, quelle dei secoli XI e seguenti sono di una ferocia che l'antichità classica non aveva mai conosciuta. Le pene corporali, spesso inflitte anche in luogo delle multe private e statali a chi non ha i mezzi per pagarle, comprendono le più varie ed efferate mutilazioni, spesso inventate in relazione al reato compiuto e con raffinata ricerca dell'assimilazione. Il bando, o esilio, si esplica in una vera caccia all'uomo, provocando la piaga del banditismo.
Il carcere è spesso un supplizio di tutti i giorni, affidato com'è ad appaltatori privati che pongono ogni loro studio nell'estorcere denaro ai detenuti sotto pena delle peggiori sevizie: perfino la conclamata abolizione della pena di morte divenne talvolta, nel sec. XVIII, l'occasione per inasprire in via di compenso la pena restrittiva della libertà. Soprattutto si eccede nel comminare la morte anche per lievi reati e nella ricerca delle più complicate forme di estremo supplizio (v. morte: La pena di morte): alla forca, modo di esecuzione abituale, si aggiungono la lapidazione, lo squartamento, il rogo, la ruota. Anche dopo che la schiavitù vera e propria cessò di essere praticata come pena, il servizio del remo nelle galere e poi i lavori forzati, col loro seguito immancabile di privazione più o meno completa dei diritti civili, non significavano un grande progresso nella situazione dei condannati.
Dopo sforzi sporadici, e non sempre conseguenti, della Chiesa, il vanto di avere sradicato il sistema medievale delle pene spetta all'illuminismo del sec. XVIII che anche in questo campo riconobbe all'uomo, per delinquente che sia, la sua inalienabile dignità.
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Diritto penale comune e diritto penale militare.
Con la parola "pena" si vuole indicare, in un senso generico, la conseguenza giuridica di un fatto illecito, a qualunque branca del diritto esso appartenga (es., pena criminale, pena finanziaria, pena di polizia, pena disciplinare). In un senso specifico e nell'uso comune, è adoperata la parola pena a indicare quella che è la tipica, caratteristica conseguenza giuridica del reato, inteso (secondo la esatta formula di F. Carnelutti) come sottospecie dell'illecito penale; quella pena che, non potendosi differenziare dalle altre conseguenze penali in base a caratteristiche sostanziali assolute, non può essere altrimenti identificata che ricorrendo al combinato criterio della classificazione seguita dal codice (cod. penale comune, codici militari) e della necessaria sua inflizione con le garanzie del processo penale. È della pena intesa in questo senso, cioè della pena che la dottrina, per distinguerla dalle altre misure afflittive, conseguenze di illeciti, denomina "pena criminale" o "pena sociale" o "pena pubblica", che dobbiamo qui occuparci.
La pena criminale si può considerare nel momento della sanzione (minaccia di quel particolare male di cui si serve la legge - come mezzo di coazione psicologica - per assicurare l'obbedienza al precetto penale), e nel momento della realizzazione della sanzione (inflizione della pena, esecuzione della pena). Come sanzione, come espressione dell'imperatività, dell'irrefragabile obbligatorietà della norma, come strumento di coazione all'obbedienza della norma essa deve consistere, e consiste, nella minaccia di conseguenze afflittive e determinate. Come realizzazione di sanzione, la pena non ha bisogno di essere giustificata; essa si applica perché si è violata la norma; non applicarla, malgrado la violazione della norma, significherebbe frustrare l'obbligatorietà della norma, negarne lo scopo immediato che l'anima: punitur quia peccatum est. Che poi, per ragioni di giustizia e di opportunità politica, altri fini debba imporsi la pena oltre quello della riaffermazione dell'inviolabilità giuridica della norma (es., isolamento del reo, riadattamento del reo alla vita sociale, prevenzione speciale e generale, soddisfazione al privato offeso e alla collettività, ecc.) è cosa che non tocca l'essenza giuridica della pena, ma riguarda il suo significato politico: punitur quia peccatum, ne peccetur. Chiara, intanto, risulta, la differenza tra pena e misura di sicurezza (v.): differenza che richiama la distinzione tra "diritto criminale penale o diritto penale in senso proprio" e "diritto criminale amministrativo di polizia", tra "difesa repressiva contro il pericolo criminale" e "difesa preventiva contro il pericolo criminale", tra "diritto che lotta con l'arma della sanzione" e "diritto che si avvale, disciplinandola, dell'azione amministrativa". Infatti, mentre la pena è conseguenza giuridica del reato come fatto illecito, e quindi mezzo di reintegrazione del diritto leso, la misura di sicurezza è la conseguenza giuridica del reato (o del fatto che per difetto d'imputabilità nell'agente o per insufficienza obiettiva non assurge, in concreto, a reato) come sintomo di pericolosità; mentre la pena è reazione, afflittiva di essenza sua (malum passionis ob malum actionis), l'altra è "trattamento" non necessariamente afflittivo; mentre la pena è determinata, la misura di sicurezza è indeterminata; mentre la pena è prima motivo inibitorio, poi reazione contro il reato, la misura di sicurezza è sempre provvedimento preventivo (mezzo di liberazione psicologica da stati di necessità criminalmente pericolosi, come si esprime A. Rocco).
La pena è certa (art. 1 cod. pen.: "Nessuno può essere punito... con pene che non siano previste dalla legge"; art. 132 cap.: "Nell'aumento o nella diminuzione della pena, non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente determinati dalla legge"); è personalissima (quindi, a differenza del risarcimento del danno, non può essere soddisfatto il relatívo obbligo da terzi, fatta eccezione, per ragioni pratiche, dalla pena pecuniaria; non è trasmissibile agli eredi, come è, invece, il risarcimento del danno; non è solidale); è pubblica (cioè inerente a un rapporto di diritto pubblico; non è vendetta privata, né composizione, né riparazione, come nei primitivi sistemi, ma dichiarazione e riaffermazione della giuridica inviolabilità d'un bene e interesse pubblico); è proporzionata al reato (e non già secondo il barbaro, impolitico sistema del vecchio taglione - occhio per occhio, dente per dente - ma nel senso, come ben si esprime V. Manzini, di "psicologicamente proporzionata al reato"); è uniforme (cioè uguale per tutti i soggetti aventi personalità giuridico-penale); non è rinunciabile (come il risarcimento del danno), né condonabile per parte del potere esecutivo (come lo è, invece, la pena amministrativa), altra cosa essendo il condono di cui parla lo statuto.
La politica criminale (arte di buon governo in materia di lotta contro la delinquenza) mira a un sistema o programma giuridico nel quale la pena possa conciliare la sua indispensabile funzione repressiva con il massimo rendimento preventivo, allo scopo di renderla il più possibile adeguata al compito suo di difesa sociale. Un sì perfetto sistema si può dire che sia stato effettivamente raggiunto nel codice penale italiano del 1930, dove la pena, attraverso un ben congegnato meccanismo repressivo, assurge alla più alta espressione di mezzo di prevenzione criminale. L'attuale codice, infatti, nell'astratta determinazione della pena (comminatoria penale): a) proporziona l'entità della pena stessa all'entità del bene giuridico dalla norma protetto, allo scopo che tanto più grave risulti la minaccia penale e quindi tanto maggiore la sua forza inibitoria, quanto maggiore è l'interesse sociale all'integrità, all'inviolabilità del bene stesso, ovverosia l'interesse sociale all'astensione dal reato; b) adegua, nell'ambito dello stesso bene giuridico, l'entità della sanzione all'entità dell'offesa, nonché al grado di resistenza che essa sanzione potrebbe presumibilmente incontrare nella coscienza individuale. La pena, nel momento della sua applicazione giudiziale, mercé una ben disciplinata potestà discrezionale del giudice, è resa inoltre, dalla vigente legge, capace di adattamento alla concreta gravità del commesso reato e al grado di capacità a delinquere del colpevole (v. articoli 132, 133 cod. pen.); concreta gravita del commesso reato, che il giudice dovrà desumere dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo, e da ogni altra modalità dell'azione, dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, dall'intensità del dolo o dal grado della colpa; grado di capacità a delinquere del colpevole, che il giudice desumerà dai motivi che hanno spinto al delitto e dal carattere del reo, dai precedenti penali e giudiziarî e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato, dalla condotta contemporanea e susseguente al reato, dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Infine la vigente legge penale impernia il meccanismo espiatorio della pena su criterî di vera igiene materiale e morale, dettando norme (articoli 141 a 149) che trovano poi il loro naturale e completo sviluppo nelle savie disposizioni del "regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena": l'obbligo del lavoro, nei condannati, della frequenza alle scuole, della partecipazione alle funzioni religiose, la vigilanza del giudice nell'esecuzione della pena, la distinzione degli stabilimenti penali ordinarî dagli stabilimenti penali speciali, gli stabilimenti penali per i minori, le case di lavoro all'aperto, gli stabilimenti di riadattamento sociale, le case di punizione, le case di rigore, le case per i minorati fisici o psichici, i sanatorî giudiziarî; gli stabilimenti per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; la ripartizione dei condannati negli stabilimenti penitenziarî tenuto conto della recidiva e dell'indole del reato, ecc.: è tutto questo un insieme di modalità nel campo dell'esecuzione penale che giova mirabilmente all'efficacia preventiva della pena stessa.
Il codice penale del 1930 distingue innanzi tutto le pene in principali e accessorie: principali, quelle previste in relazione ai singoli reati e che il giudice infligge con la sentenza o con il decreto di condanna; accessorie, quelle (generalmente restrittive della capacità giuridica) che conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa (art. 20) e che possono essere applicate in via provvisoria dal giudice durante l'istruzione o il giudizio (v. art. 140 cod. pen.). Tanto le pene principali quanto quelle accessorie, alla loro volta, si distinguono in pene per i delitti e pene per le contravvenzioni, distinzione importantissima e fondamentale, quando si pensi che per l'art. 39 del codice "i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite" dal codice stesso.
Sono pene principali per i delitti: la pena di morte (unica pena efficace per quei gravissimi delitti che profondamente commuovono l'opinione pubblica, unica sanzione adeguata contro quei delinquenti che potrebbero subire, se non ambire, la pena detentiva come espediente di conquista delle fortune "a venire"; pena ammessa da quasi tutti gli stati civili senza distinzione di regime politico; già ripristinata per i reati comuni con la legge 25 novembre 1926, n. 2008 per la difesa dello stato; comminata per i casi previsti negli articoli 72, 80, 241, 242, 243 cap., 247, 253, 255 cap., 256 u. cap., 257 cap., 258 cap., 261 sec. e terzo cap., 262 sec. e terzo cap., 263 cap., 276, 280, 284, 285, 286, 287 sec. cap., 295, 298, 422, 438, 439 cap., 576, ed eseguita mediante fucilazione); la pena dell'ergastolo (pena detentiva, o restrittiva della libertà personale, perpetua, eventualmente inasprita con l'isolamento diurno per un periodo di tempo non inferiore a sei mesi e non superiore a quattro anni); la reclusione (pena detentiva temporanea, estensibile da quindici giorni a ventiquattro anni, ed eccezionalmente a trent'anni: es. articoli 64 cap., 66, n. 1, 78, n. 1); la multa (pena pecuniaria, estensibile da lire 50 a lire 50.000, e anche a lire 300.000 se concorrano più circostanze aggravanti e il giudice si valga della facoltà d'adeguare la pena alle condizioni economiche del reo, alle lire 40o.000 se vi sia concorso di reati). Fra le pene per i delitti non figura più oggi la detenzione, che il codice del 1889 comminava per i delitti colposi e per i delitti in genere, non determinati da pravo animo, distinta dalla reclusione come pena, diversamente da quest'ultima, non degradante il condannato dal punto di vista della sociale estimazione. Sono pene principali per le contravvenzioni: l'arresto (pena detentiva estensibile da cinque giorni a tre anni, a cinque anni nel caso di concorso di più aggravanti, a sei anni nell'ipotesi di concorso di reati); l'ammenda (pena pecuniaria da 20 a 10.000 lire, estensibile a lire 60.000 quando ricorrano più circostanze aggravanti e il giudice si valga della facoltà di adeguare la pena alle condizioni economiche del reo, estensibile a lire 80.000 nel caso di concorso di reati), essendo abolita la pena del confino prevista dal codice del 1889.
Le pene sono di regola comminate in modo esclusivo, talvolta alternativamente (es. art. 593), nel qual caso il giudice è libero di scegliere l'una o l'altra delle pene comminate. Le pene pecuniarie in alcuni casi sono previste come pene fisse, sì che il giudice nell'applicarle non può, salvi gli aumenti dovuti a circostanze, ecc., spaziare tra un minimo e un massimo; talvolta sono previste come pene proporzionali, nel qual caso non v'è limite massimo nella loro applicazione (v. articoli 27, 251, 252). Le pene detentive temporanee si applicano a giorni, a mesi, ad anni (art. 14); nelle condanne a pena temporanea non si tiene conto delle frazioni di giorno, in quelle a pena pecuniaria non si tiene conto delle frazioni di lira (art. 134 cap.). Quando, per qualsiasi effetto giuridico (es. articoli 136, 137), si debba eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando 50 lire, o frazione di 50 lire, di pena pecuniaria, per un giorno di pena detentiva (art. 135). Quando il condannato alla pena della multa o dell'ammenda risulti insolvibile, la pena suddetta si converte ope legis, rispettivamente, nella reclusione o nell'arresto, potendosi scendere, in virtù di detta conversione, fino a un giorno di pena detentiva; la conversione può essere anche parziale; in essa, qualunque sia l'ammontare della pena pecuniaria, non si possono oltrepassare i tre anni di reclusione e i due di arresto (art. 136) fuori del caso di concorso di reati (art. 78 u. c.). Dalla durata complessiva della pena temporanea o dall'ammontare della pena pecuniaria si detrae (art. 137) la carcerazione sofferta prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile.
Sono pene accessorie per i delitti (art. 19): l'interdizione dai pubblici uffici (articoli 28, 29), perpetua o temporanea, l'interdizione da una professione o da un'arte (articoli 30, 31), l'interdizione legale (v. interdizione), la perdita o la sospensione dall'esercizio della patria potestà o dell'autorità maritale, la perdita della capacità di testare e la nullità del testamento fatto prima della condanna. È pena accessoria per le contravvenzioni la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte. Pena accessoria, comune ai delitti e alle contravvenzioni, è la pubblicazione della sentenza di condanna (v. art. 19). Il progetto del codice proponeva fra le pene accessorie la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni. La durata e il computo delle pene accessorie sono regolati dagli articoli 37 e 139 del cod. penale.
La pena può essere unica o concorrente (cumulo di pene). Pena cumulata è la pena complessiva che viene applicata al reo, responsabile di più reati, nella guisa prevista dall'art. 483, 1° cap., cod. proc. pen. ("il giudice, quando con la stessa sentenza pronuncia condanna per più reati, stabilisce la pena incorsa per ciascuno di essi, e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene"). Il codice del 1930 scartando, nella disciplina del cumulo delle pene, tanto il criterio dell'assorbimento quanto il criterio del cumulo giuridico (addizione delle pene corrispondenti a ciascun reato e successiva sottrazione intesa a eliminare una supposta crescente afflittività dell'obbligazione penale dovuta alla continuità delle pene assommate), accoglie il sistema del cumulo materiale, attenuandolo con opportuni temperamenti intesi a fissare un massimo insuperabile di pena detentiva temporanea e pecuniaria, e integrandolo di necessarî criterî trasformativi della pena, per modo che ergastolo + ergastolo si risolve in pena di morte, reclusione non inferiore a 24 anni + reclusione non inferiore a 24 anni porta alla pena dell'ergastolo.
Altre pene non conosce la legge comune fuori di quelle sopra indicate. Non conosce pene infamanti (es. gogna, marchio, obbligo di vestire in un modo speciale), né pene crudeli, pene inasprite da sevizie, né pene corporali (frustate, mutilazione, colpi di bastone), evidentemente contrarie ai fini di miglioramento morale e di riadattamento sociale che la pena deve perseguire. Soltanto nel diritto coloniale è comminata per gl'indigeni la pena della fustigazione. Dalle pene comuni, però, si distinguono le pene di stretto carattere militare, pene caratterizzate, come osserva V. Manzini, per la loro creazione e destinazione, per il loro contenuto e per la loro esecuzione: il tutto d'impronta militare.
Tali pene (di regola, ossia salvo casi eccezionali, comminate per reati che presentano esclusivamente o prevalentemente natura militare, dal codice penale per l'esercito del Regno d'Italia e dal codice penale militare marittimo del Regno d'Italia) sono: a) la pena di morte col mezzo della fucilazione nella schiena, comminata per reati di estrema gravità (come, ad es., per il reato di partecipazione immediata alla guerra contro lo stato: art. 71 cod. es.; di intelligenze o corrispondenze col nemico: art. 78; di diserzione al nemico o in sua presenza: art. 137); b) la pena di morte col mezzo della fucilazione nel petto (es. articoli 86, 87, 88 cod. pen. es.): la distinzione fra le due menzionate pene è giustificata dal più grave significato di afflizione morale che ottiene la pena allorché colpisce il reo in quella parte della persona dove il nemico colpisce il vile che fugge al suo cospetto; c) la reclusione militare (da uno a venti anni, aumentabile fino a trent'anni nel caso di concorso di reati e di pene) e il carcere militare (che va da due mesi a quattro); d) la degradazione militare (pena perpetua di carattere accessorio, restrittiva della capacità giuridica, applicabile a qualsiasi militare); e) la destituzione (pena accessoria o principale, applicabile esclusivamente agli ufficiali, e importante perpetua incapacità giuridica; meno grave, però, della degradazione in quanto non importa la perdita della pensione e l'incapacità di coprire un pubblico impiego); f) la dimissione dal grado (pena principale o accessoria restrittiva della capacità giuridica, applicabile soltanto agli ufficiali, e non implicante incapacità perpetua); g) la rimozione dal grado (pena restrittiva della capacità giuridica importante incapacità perpetua, solo applicabile ai sottufficiali, cioè ai graduati, i quali, in conseguenza di detta pena, sono retrocessi a semplici soldati; è applicata come pena principale o come pena accessoria); h) la sospensione dall'impiego (anch'essa pena restrittiva della capacità giuridica, non implicante che incapacità temporanea, e solo applicabile agli ufficiali; essa priva temporaneamente dell'impiego, conservando il grado all'ufficiale che nel frattempo è considerato in aspettativa; ed è pena principale o accessoria).
Le pene militari, sopra menzionate, non vanno confuse con le pene comuni pur comminate dai codici militari, applicabili a qualsiasi militare, qualunque sia il grado che esso riveste (ergastolo, reclusione ordinaria). In materia di concorso o cumulo di pene, nel diritto militare vige, per le pene temporanee restrittive della libertà personale, il criterio dell'applicazione della pena più grave con un aumento discrezionale, proporzionato al numero dei reati concorrenti e alla qualità delle pene incorse, contenuto nei limiti speciali fissati dalla legge, o entro il limite generale determinato dalla non adozione del sistema del cumulo materiale.
Tanto per il diritto comune, quanto per il diritto militare, la pena, intesa come obbligazione penale, suppone il passaggio in giudicato della sentenza (o decreto) con cui è stata applicata. Solo con il passaggio della sentenza in giudicato sorge il rapporto punitivo tra lo stato e il condannato, rapporto giuridico che attribuisce a quest'ultimo il dovere di soddisfare all'obbligazione penale. Tale obbligo giuridico può venire, per ragioni di forza maggiore o di equità, differito nel suo adempimento (v. articoli 146-148 cod. pen.) con provvedimento d'ordine amministrativo, oppure sospeso mediante decisione giurisdizionale (sospensione condizionale della pena, articoli 163 a 168 cod. pen.).
Il rapporto punitivo, così sorto, può subire modificazioni o estinguersi (v. estinzione) in virtù dell'indulto o della grazia (che sopraggiunga a condonare in tutto o in parte la pena o a commutarla in altra specie di pena stabilita dalla legge e meno grave di quella inflitta) e della liberazione condizionale (concedibile al condannato a pena detentiva per un tempo superiore ai 5 anni, il quale abbia scontato metà della pena - almeno tre quarti se recidivo - e abbia dato prova costante di buona condotta, se il rimanente della pena non superi i 5 anni (v. art. 176 cod. pen.). È da notarsi che la liberazione condizionale dei condannati che commisero il reato quando erano minori degli anni 18 può essere ordinata - in virtù dell'art. 21 del r. decr. legge 20 luglio 1934, n. 1404 - dal ministro della Giustizia in qualunque momento dell'esecuzione e qualunque sia la durata della pena detentiva inflitta. Può estinguersi il rapporto punitivo: per amnistia (la quale nel diritto militare estingue la condanna, ossia la pena e tutti gli effetti penali della condanna, mentre nel diritto penale comune si limita a fa, cessare l'esecuzione delle pene principali e le pene accessorie: v ad es., art. 106 cod. pen.); per remissione della querela (estintiva in via di eccezione, nel caso previsto dall'art. 563, della pena e di tutti gli effetti penali della condanna), per l'avverarsi della condizione favorevole al reo (nel caso di sospensione condizionale della pena: art. 167); per la morte del condannato (art. 171); per la prescrizione (articoli 172 e 173 cod. pen.; per essa si estinguono tutte le pene tranne la pena di morte e la pena dell'ergastolo, tanto per il diritto comune quanto per quello militare); per la novazione legislativa (fuori del caso di leggi temporanee o eccezionali: "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato, e se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali", art. 2 cod. pen.); per la sentenza di annullamento o di assoluzione in seguito a giudizio di revisione (art. 553 segg. cod. proc. pen.) o a ricorso straordinario contro la sentenza del giudice speciale (art. 528 cod. proc. pen.); per la riabilitazione (giudiziale o discrezionale - art. 178 cod. pen. - estintiva di tutti gli effetti penali della condanna). I codici penali militari annoverano, fra le cause estintive della pena, anche l'"espiazione della pena" stessa; sennonché questa, come bene osserva il Manzini, non è causa propriamente estintiva della pena, perché per essa la pena non si estingue, ma si consuma.
Bibl.: Per la differenza tra la "pena" e le "misure di sicurezza", v. A. Rocco, Le misure di sicurezza, ecc., in Rivista di diritto penitenziario, 1930, fasc. 6; G. Battaglini, La natura giuridica delle misure di sicurezza, in Riv. di dir. pen., 1930, fasc. 6. Intorno alle pene comminate dal vigente codice, v.: V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, II, Torino 1934. Per ciò che attiene particolarmente alla pena di morte, v.: O. Viola, Bibliografia italiana della pena di morte, Catania 1904, e recentemente: A. Rocco, Sul ripristino della pena di morte in Italia (Opere e scritti giuridici, III), Roma 1933. Sulle pene nei codici militari v.: V. Manzini, Diritto penale militare, Padova 1928.
Le pene canoniche.
Le pene attualmente in vigore nella disciplina ecclesiastica consistono tutte nella privazione di qualche bene, che il fedele gode come membro della Chiesa; privazione inflitta dalla competente autorità per correggere il reo e punirlo del suo delitto. Non soltanto le singole persone fisiche, ma anche le persone morali, e i luoghi sono passibili di pene canoniche. Alcune obbligano soltanto dopo sentenza della competente autorità; in altre invece il fedele incorre con il solo fatto di essersi reso reo di determinato delitto: queste si chiamano latae sententiae. La pena che ha scopo prevalentemente correttivo è detta medicinale, quella a scopo punitivo vendicativa; dalla prima il reo ha diritto d'essere sciolto non appena recede sinceramente dalla sua cattiva volontà; non così dalla seconda. Le medicinali, dette più semplicemente censure, sono di tre specie: la scomunica, la sospensione e l'interdetto; i loro effetti sono determinati dai canoni 2255-2285. Le vendicative sono assai più numerose; le più note sono la privazione della sepoltura ecclesiastica, l'inabilità a grazie e cariche ecclesiastiche, la privazione o la sospensione dalle stesse; per i sacerdoti ve ne sono delle più gravi, arrivandosi fino alla degradazione. La 3ª parte del libro V del Codex iuris canonici è tutta penale, e dal can. 2314 al 2414 sono stabilite le pene per i delitti contro le varie leggi e obbligazioni canoniche.
Bibl.: G. Chelodi, Jus poenale, 2ª ed., Trento 1920; F. Cappello, De censuris, Torino e Roma 1933; F. Roberti, De delictis et poenis, Roma 1932.
Etnologia.
La pena, nelle sue forme elementari, più che come castigo del delinquente e, talvolta, di quanti hanno solidarietà di sangue o d'interessi con lui, opera come reazione al male o al danno ricevuto. V'influisce l'idea del delitto come maleficio (v. delitto: Il delitto presso i primitivi; ordalia) che occorre neutralizzare o annullare nelle sue nefaste conseguenze, con operazioni magico-religiose. Ma allorché la pena si spoglia del carattere superstizioso, assume l'aspetto di riparazione del danno, e quindi di compensazione, sebbene spesso, per il persistere degli elementi psicologici originarî, non basti da sola a fare estinguere le malefiche conseguenze del misfatto. Essa deve essere accompagnata o seguita da speciali cerimonie (immolazioni, ecc.), come avviene presso varie popolazioni primitive.
Il sistema delle compensazioni, che caratterizza il decadere del concetto del delitto come fatto di natura malefica e preannunzia il sorgere della pena pubblica, si vede largamente praticato fra gli attuali incivili, sia sotto la forma di multa a titolo di risarcimento della parte lesa o della sua famiglia, sia sotto la forma di tributo al capo del consorzio o al re, di onorario al giudice, di premio al denunziante, sia sotto l'una e l'altra forma. È opinione degli etnologi che, generalmente, laddove vige il sistema delle compensazioni, non esistano pene fisiche, giacché tutti i delitti sono espiabili; perfino quelli più gravi, come l'assassinio, l'incendio, ecc. In questa norma concordano popoli di differente origine: i Fanti, i Kru, i Uolof, i Galla, i Somali, e altre genti africane; i Daiaki di Borneo, gli Alfuri di Buru e Ceram, i Nofuresi della Nuova Guinea, varie tribù dell'India e varie altre degl'Indiani d'America. Chi non ha mezzi per il riscatto, paga con la vita o con la libertà. In qualche luogo, come fra gl'indigeni del Nicaragua, il delinquente che non ha la possibilità di redimere la propria esistenza, viene sacrificato agli dei; in varî altri (Africa, India, ecc.), è ridotto in schiavitù, ora a beneficio della parte lesa, ora a beneficio del capo; e, talvolta, la stessa sorte è riservata ai componenti della sua famiglia (Angola, Guinea, Gambia, Loango, ecc.).
L'organizzazione politica a tipo signorile imprime un nuovo carattere alla pena, la quale da privata soddisfazione in favore del singolo o della collettività alla quale quello appartiene, si muta in pubblica, spesso accentuando la sua intensità fino a raggiungere forme gravi, aspre e crudeli, che trovano la loro ragione nello stato di guerra, nell'oppressione, nel dispotismo e simili. In tale atmosfera, in cui la punizione agisce come terrore, non vi è proporzione fra il delitto e il castigo, onde accade di vedere comminate condanne atroci, e perfino la morte, per delitti di poca importanza. Talora si distingue, nei riguardi della condanna e dell'esecuzione, fra classe e classe, fra individuo e individuo.
Le pene più note in questa nuova fase sono: la morte, le mutilazioni, i castighi corporali, la restrizione e la soppressione della libertà. La pena di morte si presenta in tutte le possibili forme: decapitazione, impiccagione, affogamento (Arcipelago malese), annegamento, strozzamento (Tahiti, Zulu, Indiani Quiché, ecc.), rogo (Cafri, Abissini, ecc.), flagelli (Dahomey, Sennaar, Abissinia), lapidazione (Abissinia, Benguella), lacerazione del corpo del colpevole (Indiani dell'America Meridionale), palo, seppellimento del delinquente vivo (Ascianti, Accra), esposizione alle fiere o agl'insetti. Nel Gabon un tempo l'adultera veniva deposta sopra un formicaio, in pasto alle formiche.
La pena di morte comunque comminata, si presenta in forma più o meno atroce, a seconda dei mezzi adoperati. L'esecuzione capitale col coltello si trova tra i Neri della Costa d'Oro e nel Marocco; quella con la spada nell'isola di Zanzibar; quella con la mazza nell'India e fra gli Accra dell'Africa; l'altra con la lancia e il giavellotto tra i Basuto, i Cafri, gli Abissini. Orribile è il supplizio del palo, che consiste nell'infilzare il colpevole su un palo aguzzo (Yucatán, Caribi, Haiti); ovvero nel cacciare questo nel corpo del condannato (Basuto, Negri del Sudan occidentale).
Questi fatti accennano al costume d'inasprire la pena col sottoporre il giudicato, prima dell'esecuzione capitale, alla tortura, ai flagelli, all'evirazione (Mandingo), o ad altra specie di mutilazione. In tale categoria, che caratterizza la pena capitale qualificata o aggravata, si possono far rientrare per analogia le mutilazioni del cadavere del condannato, specialmente l'amputazione dei genitali (Galla, Danachili, Dārfūr), l'esposizione alle fiere dei resti mortali o la privazione della sepoltura (Uganda). I Bogos e altre genti etiopiche, dopo avere impiccato il delinquente, solevano sollevarlo per il collo tante volte, quante l'uso prescriveva. La pena della semplice mutilazione è prevista generalmente per i minori delitti (furto, stupro, adulterio, lesioni, ecc.). Essa si vede praticata nelle forme più strane e grottesche: amputazione di un organo, di un arto, di un membro (braccio, mano, piede, dita, naso, orecchie, labbra, occhio, strappamento delle unghie, dei denti, castrazione, ecc.). I Beciuana mutilano le mani dei ladri col fuoco.
Talvolta questa classe di pene opera secondo la legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente, in quanto mira a punire il colpevole nella stessa forma della vittima. L'applicazione di questo principio, secondo cui la pena deve rispecchiare il delitto, porta a quella curiosa forma di mutilazione penale detta del taglione simbolico, per la quale il delinquente viene punito nell'organo con cui ha peccato. Ai ladri sono mozzate le mani, agli stupratori e agli adulteri sono recisi gli organi della generazione.
La pena della prigionia raramente si trova nella società primitiva. Raro è pure l'esilio, ove non si voglia equiparare ad esso il bando, che pone il colpevole e i suoi beni, e talora le sue donne e i suoi figli, fuori dell'ordine sociale, e che si trova solo presso alcuni popoli (Maori, Negri Cassanga, Baniun, Congolesi).
Bibl.: G. R. Steinmetz, Ethnologische Studien zur ersten Entwicklung der Strafe, Groninga 1928; E. Westermarck, Der Ursprung der Strafe, in Zeitschrift für Sozialwissenschaft, III, p. 685; M. Mauss, La religion et les origines du droit pénal, Parigi 1897; B. Malinowski, Crime and custom in savage society, Londra 1926; A. E. Post, Afrikanische Jurisprudenz, Oldenburg-Lipsia 1888.