pena
Punizione per chi viola un obbligo
Quando i giuristi parlano di pena, intendono il castigo che l’autorità giudiziaria infligge all’autore di un reato. Negli ordinamenti civili la pena presenta quattro caratteri fondamentali: è personale – nel senso che colpisce solo e unicamente il colpevole –, inderogabile – deve essere applicata sempre –, proporzionata – viene commisurata alla gravità del reato – e legale – per cui deve essere comminata solo nei casi e nelle forme espressamente previsti dalla legge.
L’ordinamento italiano vuole che la pena punisca e che, insieme, favorisca la rieducazione del condannato. Anche per questo da noi non è prevista la pena di morte
Il termine pena ricorre tanto nel linguaggio ordinario quanto nel linguaggio specialistico dei giuristi: in quest’ultimo, però, presenta una particolarità che ne restringe il significato a casi circoscritti e ben individuati. Per vedere quali siano questi casi – e quindi per stabilire cosa sia giuridicamente una pena – è bene partire dal linguaggio comune. Qui pena è sinonimo di castigo, e come tutti i castighi rimanda all’idea del male, del dolore cioè che viene inflitto a colui che ha trasgredito un qualunque comando.
In questo senso costituisce una pena sia la punizione comminata dal sergente al soldato indisciplinato sia lo scapaccione del padre al figlio disubbidiente sia la nota inflitta dal maestro all’alunno impertinente. Note, scapaccioni e punizioni sono tutte pene, ossia castighi che fanno soffrire coloro che li subiscono.
Anche per i giuristi la pena implica sempre un castigo e dunque una sofferenza: la sofferenza alla quale essi fanno riferimento, però, è quella patita da un ben determinato soggetto – il reo – e comandata da un soggetto altrettanto ben determinato – il giudice. Sicché nel linguaggio più ‘ristretto’ dei giuristi si dice pena soltanto un particolare castigo: la pena è il castigo col quale lo Stato, mediante l’autorità giudiziaria, punisce l’autore di un reato.
Fin qui abbiamo individuato chi soffre. Ora, però, si tratta di stabilire come e perché si soffre. Quanto al primo interrogativo – come si soffre? – si è concordi nel rispondere così: la pena fa soffrire perché priva o diminuisce il reo di singoli beni individuali. Questi beni – per lo meno negli Stati che consideriamo civili – sono in genere la vita – che viene tolta tramite la pena capitale, là dove è ancora ammessa –, la libertà – colpita dalle pene restrittive della libertà personale, in particolare dalla detenzione in carcere – e il patrimonio – colpito dalle pene pecuniarie.
Meno concorde, invece, è la risposta alla seconda domanda: perché il reo deve soffrire? Come si giustifica il suo castigo? O, più semplicemente: perché si punisce? Problema eterno, questo, che fin dall’antichità classica ha lacerato gli animi originando una pluralità di scuole di pensiero, ciascuna delle quali poi si è divisa al suo interno in ulteriori, molteplici tendenze. Nonostante questo ventaglio di posizioni così frastagliato, però, tutti alla fine muovono essenzialmente da due concezioni fondamentali: da una parte c’è chi spiega la pena con l’evento che è già accaduto, con il passato insomma; dall’altra c’è chi la giustifica con l’evento che dovrebbe – o meglio che non dovrebbe – accadere in futuro.
Per gli uni, bisogna punire perché – prima – è stato commesso un delitto; per gli altri, si punisce perché – dopo – non se ne commettano più. Qui la pena serve a prevenire nuovi mali; lì a ricambiare il male che è stato già consumato. Questa è la teoria del contraccambio, conosciuta anche come teoria della retribuzione; quella, invece, è la teoria della prevenzione, che a sua volta si sdoppia in prevenzione speciale e prevenzione generale. Conviene esaminare queste teorie una alla volta, così che di ognuna potremo evidenziare meglio i vizi e le virtù, i meriti e i demeriti.
Per i teorici della retribuzione, punire è giusto, posto che per giustizia debba intendersi l’esatta corrispondenza tra ciò che uno dà e ciò che uno riceve. Sicché chi ha operato bene va premiato col bene, e chi ha operato male va castigato col male. In questo senso, chi ha fatto soffrire deve sopportare la stessa sofferenza che ha cagionato agli altri. La retribuzione ricorda un po’ la legge del taglione – «occhio per occhio, dente per dente» –, la cui ispirazione muove da un sentimento di vendetta che non è mai riuscito, non da solo almeno, a fronteggiare efficacemente i problemi della criminalità. Tanto più che a svolgerne con coerenza il postulato iniziale – il reo deve patire precisamente il male che ha inflitto alla vittima – si arriva a giustificare la pena di morte: chi ha ucciso deve essere ucciso perché perde il diritto alla vita chi l’ha tolta ad altri. Ma la pena di morte è cosa che ripugna alla nostra sensibilità e comunque è espressamente vietata dalla maggior parte delle Carte costituzionali – inclusa la nostra.
Queste le ‘ombre’ della teoria della retribuzione. Essa, però, ha anche diverse ‘luci’, perché, partendo dal presupposto che il male va ripagato col male, conclude logicamente che la pena deve essere applicata, appunto, all’autore del male; solo a lui, si badi, e non ad altri: non ai suoi parenti, non a suoi amici, a nessuno insomma tranne che alla persona del reo. Da qui il principio, che è un’autentica conquista di civiltà, della personalità della pena, precisamente quella pena che i dettami della giustizia – inflessibili come solo i dettami della giustizia sanno essere – vogliono sia applicata sempre, in ogni caso e peraltro nella misura adatta alla gravità della colpa. Da cui gli altri due principi, non meno fondamentali, della inderogabilità e della proporzionalità della pena. Per i teorici della retribuzione, dunque, la pena è giusta quando è scontata dall’autore del reato (personalità) il quale, senza scappatoie di sorta (inderogabilità), paga il prezzo adeguato (proporzionalità) per il suo torto.
A differenza della pena retributiva che – come sappiamo – si fonda sulla giustizia, la pena preventiva si fonda sull’utilità. La pena, secondo questo modo di vedere, non è giusta di per sé, ma è o può essere utile, ed è utile quando previene le azioni che l’ordinamento considera nocive. Ora, tale opera di prevenzione è assicurata sia in astratto dalla legge penale sia in concreto dall’autorità giudiziaria. Nel primo caso, grazie alla previsione legislativa, ciascun uomo può conoscere in anticipo le conseguenze del suo reato, o meglio del reato che ha intenzione di compiere. E poiché si tratta di conseguenze spiacevoli – la cui ‘spiacevolezza’ quantomeno pareggia il ‘bene’ che egli può ricavare dal delitto – ecco che per effetto di un calcolo delle opportunità questo reo (virtuale) è dissuaso dal compiere l’azione proibita. L’azione proibita non gli conviene, e non gli conviene perché richiama su di sé tali e tante sofferenze da annullare qualunque vantaggio egli possa trarre dalla consumazione del delitto. Allo stesso modo, nel preciso istante in cui il giudice castiga un determinato uomo, gli altri – tutti gli altri – ne vengono come intimiditi; è proprio allora, infatti, che essi sperimentano l’autorità dello Stato, il quale non permette che si violino impunemente i suoi comandi. Di qui un freno alle tendenze criminose che possono serpeggiare nella generalità dei cittadini. Ecco perché non solo la pena scoraggia i delitti – e in questo senso li previene –, ma li previene in generale, in base al principio secondo cui colpendo un colpevole (reale) se ne educano cento (potenziali).
Come la teoria della retribuzione, anche la teoria della prevenzione ha punti di forza e punti di debolezza. Il principale punto di debolezza è il seguente: se la pena deve colpirne uno per ammonirne cento, ne viene che questi cento saranno tanto meglio ammoniti quanto più quell’uno verrà castigato in maniera dura e pesante. Anche più pesante, quindi, di quanto richieda la gravità oggettiva del reato. Da qui uno sbilanciamento tra il delitto e il castigo da cui esce mortificato il principio della proporzionalità della pena.
Il punto di forza, invece, è che qui il castigo è minacciato dalla legge, sicché dovranno essere puniti gli atti e i fatti che la legge stessa ha qualificato come reati: solamente quelli e nessun altro.
Ma c’è di più: per ogni reato andranno applicate soltanto le pene espressamente e previamente previste dalla legge. Ancora una volta, solo quelle e nessun’altra. E questo è il principio – davvero fondamentale – della «legalità dei reati e delle pene» che la nostra Costituzione ha recepito nel comma 2 dell’articolo 25. Poco più avanti, la Carta costituzionale stabilisce che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato» (articolo 27, comma 3). Con il che veniamo rinviati alle teorie della prevenzione speciale.
Mentre nella prevenzione generale la pena serve innanzitutto a intimidire gli altri, coloro cioè che non hanno ancora commesso il delitto (ma che potrebbero farlo se non ne venissero dissuasi), nella prevenzione speciale il castigo serve all’autore stesso del delitto il quale, almeno per il futuro, deve essere distolto dalle tentazioni del crimine. Ora, se si vuole che il colpevole non ricada più nel reato, bisogna che il giudice lo punisca, sì, ma tenendo conto della sua personalità, dei suoi moventi, della condotta precedente e della condotta susseguente al reato; bisogna cioè che la pena diventi flessibile. Solo così, ‘flettendola’ e adeguandola alle specialità del caso singolo (ecco perché si parla di prevenzione ‘speciale’), sarà meno difficile recuperare il reo alla normalità della vita sociale.
In questo senso, quando il condannato ha tenuto una buona condotta, può essere opportuno condonargli una parte della pena (sempre che, si capisce, entro un certo tempo non commetta altri reati). Tenerlo in carcere potrebbe solo inasprire la sua personalità e quindi, per poco che gliene capiti l’occasione, renderla pronta a nuovi delitti. Ecco: l’istituto della ‘liberazione condizionale’ è una tipica misura di prevenzione speciale. Come tale è volta ad applicare il dettato della Carta costituzionale che, come sappiamo, vuole la rieducazione e non soltanto la punizione del condannato.
Oltre alla funzione rieducativa della pena, al divieto della pena di morte e alla legalità, la Costituzione italiana stabilisce ancora due princìpi: al comma 3 dell’articolo 27 vieta le pene contrarie «al senso di umanità»: sono tali la tortura, le pene corporali (mutilazione, fustigazione e così via), le pene infamanti (marchio, gogna e via dicendo) e qualunque altra punizione che possa pregiudicare la salute fisica e psichica del condannato. Inoltre, al comma 2 dell’articolo 25, la nostra Carta fondamentale scolpisce la regola della irretroattività della pena. Si tratta di questo: non si può punire un atto o un fatto che quando venne compiuto non costituiva ancora reato. Ecco perché le leggi penali sfavorevoli all’imputato non valgono mai per il passato – e perciò non sono retroattive. Sono invece retroattive le leggi penali favorevoli all’imputato (o al già condannato), nel senso che non si può continuare a punire una persona per un atto e per un fatto che quando venne compiuto costituiva reato ma che dopo, con l’intervento di una legge successiva, lo Stato non considera più tale. L’irretroattività, dunque, vieta due cose: sia di punire l’atto che non era ancora reato sia di continuare a punire l’atto che non lo è più. E questo è un altro fondamentale principio della nostra civiltà giuridica.