PENITENZA
. Storia delle religioni. - La penitenza è correlativa al peccato. Col peccato è turbato un ordine di cose che con la penitenza vuol essere ricomposto. Quest'ordine di cose può essere un sistema di forze sacrali oppure una legge stabilita da una divinità. Nel primo caso il peccato consiste, p. es., in una violazione di tabu, nel secondo in una trasgressione di precetti divini; nel primo caso il male che consegue al peccato è concepito come un fluido pernicioso emanante dalle cose stesse violate, nel secondo come un castigo divino. Corrispondentemente, la penitenza nel primo caso consiste essenzialmente in qualche operazione materiale per l'eliminazione del male generato dal peccato; nel secondo, in qualche atto destinato a placare la divinità offesa e ad ottenere, col suo perdono, la cessazione del castigo.
La prima concezione - che possiamo chiamare dinamistica o magica - della penitenza prevale in ambiente più o meno primitivo, presso popoli di civiltà inferiore: ivi la penitenza si fa con abluzioni, con l'asportazione o dispersione di qualche oggetto in cui il male è trasferito e concentrato, con suffumigi, con lo sputo, il vomito, l'estrazione di sangue da varie parti del corpo, ecc. Poiché il male conseguente al peccato è in primo luogo il male fisico, non fa meraviglia che l'operazione penitenziale sia spesso assai simile a un'operazione terapeutica. Spesso l'operazione penitenziale è accompagnata dalla confessione del peccato che ha anch'essa carattere eliminatorio in quanto concorre all'eliminazione del male mercé la enunciazione-evocazione (magia della parola) del peccato stesso.
Nel Messico antico i peccatori andavano a confessarsi ai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la "dea delle sozzure", cioè dei peccati, specialmente dei peccati carnali), i quali imponevano la penitenza: questa consisteva nel farsi uscire sangue dalla lingua o dalle orecchie, perforandole con una spina acuminata di agave. Anche nell'America Centrale c'era l'uso di estrarsi il sangue "per devozione" dalla lingua, dalle orecchie, dalle braccia, dalle cosce, dai polpacci, ecc. Nell'antico Perù il penitente si confessava all'ichuri; la confessione aveva luogo possibilmente in prossimità d'un corso d'acqua, dove il penitente doveva poi tuffarsi; l'inca, cioè il sovrano, chiedeva perdono delle sue colpe al Sole o gettava un mazzo di erbe nell'acqua corrente; il gran sacerdote dichiarava nel tempio i suoi peccati all'Essere supremo e gettava un mazzo di erbe sul fuoco, poi le sue ceneri nell'acqua.
In ambienti di civiltà progredita prevale sempre più la seconda concezione - che possiamo chiamare "teistica" - della penitenza eseguita per placare l'ira di un Dio e per allontanare il castigo, pur sussistendo tuttavia le tracce della prima.
Così nella religione vedica, accanto alla preghiera e al sacrifizio per ottenere - specialmente dal dio Varuṇa - il perdono dei peccati, è in uso la prassi eliminatoria per mezzo dell'acqua, del fuoco e simili. Anche nell'antica Babilonia il penitente invoca l'aiuto di questa o quella divinità (in ispecie Ea, Marduk, Istar) contro qualche demone cattivo che lo tormenta in punizione d'un peccato commesso, ma la preghiera suole essere accompagnata dalla recitazione di qualche formula di scongiuro e da varie pratiche eliminatorie come abluzioni, aspersioni, ecc. Quando tutta la comunità è colpita da sciagura in conseguenza di qualche peccato, si celebrano delle cerimonie penitenziali collettive, le quali da straordinarie si trasformano spesso in periodiche: tale l'ohoharahi ("grande purificazione") nello shintoismo giapponese, celebrata ogni sei mesi e culminante in una presentazione di offerte agli dei, che poi sono gettate nell'acqua; tale presso gli Ebrei il jōm ha-kippūrīm ("giorno delle espiazioni") celebrato annualmente il 10 di tiskrī in espiazione dei peccati dell'annata, col caratteristico rito del capro espiatorio. A Babilonia la celebrazione annuale dell'akitu comprendeva dei riti penitenziali eseguiti sulla persona del re, che, introdotto nel santuario di Marduk, era dal sacerdote urigallu spogliato delle insegne della sovranità, colpito sulla guancia, tirato per le orecchie e fatto inginocchiare. I riti penitenziali del re assunsero in Babilonia un particolare sviluppo in ragione dell'importanza eccezionale della persona del re come rappresentante di tutta la comunità: poiché il male del re ridonda su tutto il paese, la sua penitenza libera il popolo dalle calamità. In occasione, per es., d'un terremoto il re doveva farsi radere: i peli erano chiusi in un vaso che si trasportava al confine e si gettava al di là in terra nemica. (Anche in Cina quando una grave sciagura opprimeva il paese, il sovrano faceva per scritto dichiarazione dei suoi peccati, si ritirava fuori della città, e si tagliava unghie e capelli). Alcuni testi penitenziali originariamente recitati - specie dal re - nel corso delle pratiche di penitenza sono fra le cose più belle della letteratura babilonese e per la profondità del sentimento religioso (per quanto condizionato dalla preoccupazione eudemonistica della liberazione dal male) sono stati paragonati ai Salmi dell'Antico Testamento.
È nella religione d'Israele che in rapporto con un'idea elevatissima della divinità (Jahvè) anche la concezione del peccato si approfondisce in una valutazione etica della colpa come offesa fatta a Dio e corrispondentemente la penitenza si spoglia delle scorie eudemonistiche, si fa tutta interiore, tutta pentimento e contrizione e rimorso toccando le vette più sublimi del sentimento religioso. Nelle fasi successive del giudaismo propriamente detto lo slancio religioso cede, anche nella penitenza, al formalismo e alla norma livellatrice. Ciò si verifica anche in altre religioni di tipo spiccatamente legalistico come il mandeismo. Nel parsismo si ha addirittura una tariffa dei peccati e delle pene corrispondenti fissate in un determinato numero di battiture.
Anche nel buddhismo originario fu superata la nozione oggettiva del peccato nella concezione volitiva del karma, e ai varî riti battesimali del brahmanesimo fu contrapposto il pentimento come momento negativo della volontà di peccare (Thorīgātha, 87 seg., 236-48, 345-49). Ma in seguito prevalse il formalismo della regola monastica, e la penitenza fu organizzata in cerimonia quindicinale (uposatta) con recitazione d; un formulario di confessione (pātimokkha) divenuto fine a sé stesso, senza più alcuna risposta confessionale da parte dei presenti. Peggio ancora quando la penitenza fu completamente meccanizzata nel volgimento dei "mulini da preghiera" come surrogato della recitazione di formule aniedistiche e simili.
Nell'Islām la penitenza è meno organizzata: il peccato è di volta in volta perdonato da Dio in base a un semplice atto interiore di contrizione del peccatore che a Dio si rivolge per intercessione (Sür., 9, 113; 66, 4); accedono in via facoltativa le abluzioni e le buone opere (elemosine, affrancamento di schiavi). Nei mistici il sentimento della colpa è approfondito.
Bibl.: R. Pettazzoni, La confessione dei peccati, I-III, Bologna 1929-35; id., Busswesen, I, Religionsgeschichtlich, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 2ª ed., I, Tubinga 1927, col. 1388 segg.; per gli Ebrei, v. G. F. Moore, Judaism, Cambridge Mass., 1928-30, voll. 3.
La penitenza cristiana.
Storia. - Nella versione greca dell'Antico e nel Nuovo Testamento μετανοεῖν e μεταμέλεσϑαι corripondono, si suol dire, all'ebraico niḥām "essere triste per qualche cosa o per avere fatto qualche cosa" (significato presente anche dove niḥām esprime un mutamento d'opinione); invece ἐπιστρέϕειν corrisponde all'ebraico shūb, letteralmente "rivolgersi, tornare indietro" usato per esprimere la concezione, fondamentale nei profeti, della necessità di un ritorno alla fedeltà e ubbidienza a Dio, essendo il male morale o religioso un allontanarsi da lui. Quando però anche nel verbo shūb (e nel sostantivo tĕshubāh usato in questo senso nelle scuole rabbiniche) prevale il concetto di mutamento di propositi, si ha in greco μετανοέω. Ma si noti che "l'uso dei termini greci nella versione dei Settanta non giustifica quella precisa discriminazione dei sinonimi che è stata talvolta tentata" (G. F. Moore).
La parola greca metánoia "quam nos latine possumus resipiscentiam dicere" (Lattanzio) venne invece resa con paenitentia. Specialmente a proposito di essa, e dei suoi derivati, conviene dunque distinguere il puro e semplice pentimento o ravvedimento che può dare luogo talvolta a una vera e propria "conversione", l'istituzione che ha per oggetto la remissione dei peccati compiuti dal cristiano, e che nella Chiesa cattolica è il "sacramento della penitenza", ora chiamato per lo più dai fedeli "confessione sacramentale" o semplicemente "confessione"; la soddisfazione imposta al penitente (per la dottrina cattolica, v. appresso) e, infine, la "vita di penitenza" cioè la rinuncia al mondo nelle varie forme di ascetismo. Il presente articolo considera soltanto la disciplina penitenziale.
Un invito alla metánoia si può dire apra lo stesso racconto evangelico, con la predicazione di Giovanni (Matteo, III, 2; Marco, I, 4; Luca, III, 3). Ma si deve prescindere dalle colpe anteriori al battesimo, rimesse con questo. Per i peccati postbattesimali, invece, la questione è assai grave: mentre secondo la dottrina cattolica il "potere delle chiavi" fu da Gesù trasmesso a S. Pietro e agli apostoli riuniti, e pertanto alla Chiesa, varî critici acattolici hanno addirittura negato l'esistenza d'una disciplina penitenziale nella Chiesa primitiva (fondandosi su passi come Ebrei, VI, 4-7; X, 26-31) almeno per certi peccati più gravi (cfr. I Giovanni, V, 16: peccato che conduce alla morte" πρὸς ϑὰνατον; Marco, III, 28 seg. e Matteo, XII, 31 seg.: "bestemmia contro lo Spirito Santo").
Per il periodo delle origini, una grave difficoltà è data dalla scarsezza e dalla natura dei documenti pervenutici. Nei quali "le allusioni, anche fuggevoli, all'esercizio del potere di rimettere i peccati commessi dopo il battesimo, sono rare, quasi sempre contestabili" (E. Amann).
È tuttavia un fatto indiscutibile che anche nei primissimi tempi della Chiesa vi fu chi venne meno all'ideale della perfezione evangelica. Il problema posto dalla presenza di tali peccatori fu vivamente sentito. Che venisse risolto ovunque uniformemente e solo nel senso che essi si dovessero considerare per condannati senza remissione, non è dimostrabile. Certo è che così pensavano "taluni maestri" secondo i quali non vi era altra penitenza all'infuori di quella battesimale: teoria accolta, in linea generale, anche da Erma (v.), il quale tuttavia proclama che, per i convertiti da tempo, Dio ha concesso - e fa annunciare da lui - un'occasione unica di far penitenza, dalla quale sono esclusi gli "apostati e blasfemi contro il Signore e traditori dei servi di Dio" (Sim., IX, xix, 1).
Secondo una teoria, un tempo universalmente accolta e tuttora, nonostante varie critiche, sostenuta da autorevoli studiosi, lo svolgimento storico della disciplina penitenziale, dal Pastore di Erma in poi, sarebbe stato, nelle sue grandi linee, il seguente: mentre in origine non si concedeva il perdono per nessuno dei tre peccati più gravi, adulterio, omicidio e idolatria (almeno fuori del punto di morte), per la prima colpa sarebbe stata concessa la penitenza - e quindi la remissione - da un decreto del papa Callisto; dopo la persecuzione di Decio, la necessità di esaminare la posizione dei numerosi lapsi fornì l'occasione di estendere la penitenza e il perdono anche ad essi; più tardi, in epoca imprecisata, fu considerato remissibile anche l'omicidio. Tali estensioni della penitenza non avvennero senza una viva resistenza da parte di gruppi e scrittori "rigoristi": Tertulliano e la setta montanista, oltre a Origene e a Ippolito romano nel primo caso, Novaziano e la sua setta nel secondo. Tale dottrina, nella sua linearità alquanto schematica, è stata colpita anzitutto dalle discussioni recenti intorno all'editto di un pontifex... maximus, quod est episcopus episcoporum, proclamante: ego et moechiae et fornicationis delicta paenitentia functis dimitto, contro il quale si scaglia Tertulliano (De pudicitia; cfr. I, 6) divenuto montanista, rinnegando quanto aveva sostenuto, sotto l'influsso di Erma, nel De paenitentia; e questo non solo perché riconosce il potere di rimettere i peccati solo alla ecclesia spiritus per spiritalem hominem, ma perché teme che la penitenza, concessa ora per le colpe carnali, sia estesa agli altri due peccati. Secondo alcuni, quel vescovo sarebbe il papa Callisto, cui Ippolito rimprovera di avere "per primo consentito agli uomini tutto ciò che riguarda i piaceri, dicendo che da lui a tutti venivano rimessi i peccati" (Philos., IX, 12); secondo altri, Agrippino di Cartagine. Discussa è anche la testimonianza di Origene, il quale si meraviglia che alcuni "si vantino capaci di rimettere l'idolatria o di perdonare l'adulterio o la fornicazione come se mediante la preghiera fatta per chi ha osato tanto fosse sciolto anche il peccato ad mortem" (De orat., 28, 8-10). A sostegno della dottrina dei peccati irremissibili si citano, tra gli altri, testi di S. Cipriano e i canoni del concilio di Elvira (Iliberri) i quali, in varî casi d'idolatria, omicidio e reati carnali, sanciscono che non si debba concedere la comunione al colpevole neppure in punto di morte. Ma S. Cipriano non esclude che il peccato irremissibile possa essere perdonato da Dio.
Tertulliano, che considera ancora la penitenza quale una non iterabile rinnovazione della metánoia battesimale, ci descrive l'atto con cui viene realizzata esteriormente, che con una parola greca si chiama ἐξομολόγησις, esomologesi: confessione del peccato fatta a Dio, dalla quale nasce il pentimento che ottiene il perdono. Si tratta dunque di prosternarsi e umiliarsi nel sacco e nella cenere, di ritornare col pensiero sul male commesso, di digiunare e pregare, piangere e chiedere perdono ai sacerdoti, invocando anche l'intercessione dei fratelli di fede, per ottenere la misericordia divina: e questo pubblicamente, senza falsi pudori (De paen., IX e X). Da questa, e da altre fonti, si può ricostruire la procedura normalmente seguita. Confessato il peccato, pubblicamente o in segreto, al vescovo o al prete, questi impone la penitenza, che consiste soprattutto negli atti di umiltà e di contrizione e nell'esclusione dalla comunione, per un tempo proporzionato alla gravità della colpa; infine, a soddisfazione compiuta, la riconciliazione ridà al cristiano il pieno esercizio dei suoi diritti, tra cui, principalissimo, la partecipazione all'eucaristia. I "penitenti" costituiscono dunque nella Chiesa una categoria speciale (ordo paenitentium) di fedeli separati dagli altri, ma non "scomunicati" nel senso proprio del termine. Nella chiesa greca, sono anzi ripartiti nelle diverse "stazioni": i "piangenti" innanzi alla porta della chiesa, gli "ascoltanti" ammessi a udire le letture liturgiche, i "prosternati" a terra insieme con i catecumeni, e gli "eretti" che assistono, ma non prendono parte, alla celebrazione eucaristica (Gregorio Taumaturgo, Epist. canon.).
Nei secoli immediatamente successivi al III, la disciplina penitenziale non variò di molto. Teodoreto (Hist. eccl., V, xviii), nella sua drammatica narrazione della penitenza di Teodosio, ci mostra S. Ambrogio vietare all'imperatore l'accesso alla Chiesa, imponendogli "il legame che Dio, signore di tutte le cose, ratifica dall'alto"; e irremovibile nel mantenere il divieto, anche di fronte alle insistenze di Teodosio, finché questi non chieda d'essere sciolto e che gli sia aperta "la porta che il Signore aprì a tutti quelli che hanno usato penitenza (μεταμέλεια)" e non abbia dato una prova manifesta del suo pentimento. Più tardi, e in Roma, il Sacramentario gelasiano ci mostra i penitenti coprirsi con il cilicio e accogliere la penitenza, cioè l'esclusione dalla Chiesa, il mercoledì delle ceneri; e il vescovo concedere la riconciliazione, a quelli che hanno compiuto la penitenza prescritta, il giovedì santo, in modo da assicurare loro la partecipazione al rito eucaristico nella Pasqua (quando i catecumeni ricevevano il battesimo). In qualche chiesa, alla penitenza è preposto uno speciale sacerdote: quanto a Roma, la cosa ha dato luogo a discussioni; è certa per Costantinopoli, ove peraltro il vescovo Nettario (381-397) soppresse l'ufficio del penitenziere, in seguito a un grave scandalo.
Nella dichiarazione di S. Cipriano, che la penitenza va concessa ai lapsi anche per infondere loro speranza e coraggio, mentre, disperando della propria salvezza, qualcuno potrebbe essere tentato a ricadere nella vita mondana o addirittura a passare tra gli eretici e gli scismatici che non hanno sacramenti validi (Ep., LV, xvii, 1-2), taluno ravvisa gli ultimi echi d'una teoria, secondo la quale i rei dei tre peccati più gravi si sarebbero in certo qual modo posti automaticamente, e in maniera assoluta, fuori della Chiesa. Invece, più tardi, la Didascalia degli apostoli sostiene che la penitenza va concessa in ogni caso, appunto per non esporre il peccatore alla perdizione eterna. Circa il valore della riconciliazione, i polemisti cattolici che combattono lo scisma novazianeo, S. Ambrogio e S. Paciano, sostengono, soprattutto il secondo, che la facoltà di assolvere spetta pienamente al sacerdote, come quella di amministrare gli altri sacramenti. S. Agostino paragona l'anima del peccatore, che ha compiuto la penitenza, a Lazzaro, il quale risorge alla chiamata di Dio, ma è ancora legato, ed è poi sciolto dagli apostoli. Il perdono rimane tuttavia, nonostante tutto, effetto dell'intervento di Dio (Sermoni, 67, 3; 98, 6; 295, 2; 352, 8). Così anche S. Gregorio Magno. S. Leone Magno, poi (Ep., 108), afferma che senza le preghiere dei sacerdoti il perdono divino non si può ottenere. Ai tre classici "peccati irremissibili" - tali, ormai, nel senso che per essi la penitenza vera e propria è necessaria - Agostino ne aggiunge parecchi altri (cfr. Sermoni, 9, 17; 17, 5; 56, 11; 352, 8; De fide et operibus, 34); con S. Cesario d'Arles troviamo il concetto che la ripetizione dei peccati leggieri ha le stesse conseguenze del peccato grave, e vengono presi in considerazione i peccati di pensiero. In Oriente, una classificazione analoga ci si presenta in S. Gregorio di Nissa (Epistola canonica), insieme con una specie di tariffa che indica la durata della penitenza nei diversi casi, come fa anche S. Basilio.
È lecito ravvisare nella formazione di questi elenchi un effetto delle nuove condizioni create dall'aumento del numero dei cristiani, specie dopo la pace della Chiesa. D'altra parte molti, intimoriti dal fatto che la penitenza non si può rinnovare, la ritardano - come, ancora al tempo di S. Agostino, il battesimo - spesso sino alla fine della vita. S. Agostino deplora questa pratica; tuttavia essa prevale, e con essa una semplificazione per cui l'imposizione della penitenza e la riconciliazione rimangono separate l'una dall'altra, ma possono - come nella liturgia visigotica - essere compiute di seguito: così la seconda cessa d'essere consecutiva alla soddisfazione e vediamo "i due riti del mercoledì delle ceneri e del giovedì santo ricondotti così ad una cerimonia quasi privata" (Amann). Vi sono invece i più timorati che si rivolgono al vescovo, per sottoporsi alla disciplina penitenziale anche per colpe lievi. E poiché la penitenza completamente pubblica poteva provocare scandali gravi, vediamo estendersi l'uso da parte dei vescovi di decidere se costoro dovessero essere o no sottoposti alla penitenza solenne, e, secondo alcuni, anche quello di amministrare in segreto la riconciliazione, così come segreta è stata la penitenza (cosiddetta correptio secreta, di cui si è molto discusso). Si hanno così dei paenitentes che, riconciliati con la Chiesa il giovedì santo, continuano a vivere in continenza e in umiltà, o i conversi, affini a essi.
Di questa "penitenza pubblica", di cui s'è finora parlato, gli storici protestanti e indipendenti hanno negato il carattere sacramentale; dal canto loro, invece, i più tra i cattolici moderni mirano a dimostrare che la disciplina penitenziale è sempre esistita nella Chiesa e ha sempre avuto - anche nella forma della penitenza pubblica - carattere di sacramento (v. appresso: Teologia cattolica).
Circa le origini della penitenza privata, con l'avvento della quale si fa generalmente cominciare un nuovo periodo della storia dell'istituzione, gli studiosi sono partiti dalla constatazione che i Libri penitenziali (v.), la cui origine è da cercare nelle isole britanniche, ci presentano un sistema diversissimo dall'antico. Quella che troviamo in essi è una vera e propria tariffa (onde anche il termine di "penitenza tariffata") che prevede la misura e il grado dell'espiazione proporzionata alla gravità del peccato; la soddisfazione è prestata non prima, ma dopo la riconciliazione o assoluzione e il penitente non viene dunque più a trovarsi in uno stato o condizione particolare, quale era l'ordo paenitentium; infine, questa penitenza è iterabile. Insomma secondo le parole del Penitenziale cosiddetto di Teodoro: Reconciliatio... in hac provincia publice statuta non est, quia et publica paenitentia non est. Lo scopo dei Penitenziali è appunto di facilitare al sacerdote il compito di stabilire con la massima esattezza la gravità del peccato e una soddisfazione proporzionale, dopo avere ascoltato la confessione privata del penitente ed eventualmente averlo interrogato con accortezza. Un'altra peculiarità rispetto al sistema precedente consiste nel fatto che le penitenze (consistenti di regola in giorni di digiuno, o astinenza, da ripetersi spesso per anni) possono essere scontate mediante la sostituzione (i cosiddetti arrea) di pratiche ascetiche più dure, ma più brevi.
Di fronte a ciò si è presentato spontaneo il raffronto con il guidrigildo e la sua minuziosa determinazione nelle leggi barbariche. I monaci irlandesi trapiantatisi sul continente e le missioni anglosassoni diffusero, con i libri penitenziali, la loro prassi su tutta l'Europa, non senza incontrare qualche resistenza, specie nella Spagna (concilio di Toledo del 589).
Ma anche in qualche Penitenziale si trovano ancora tracce della penitenza pubblica: così quello di Teodoro che nello stesso ordo paenitentium distingue varie categorie, secondo la prassi della Chiesa orientale.
Da alcuni segni, appare che la nuova disciplina si affiancò - più che sostituirsi d'un tratto - all'antica, conservatasi specialmente nella Spagna e nell'Italia; ma quest'ultima è attestata anche nelle isole britanniche, dove il concilio di Clovesho biasima gli arrea, e in Francia e Germania, con la reazione episcopale contro i Penitenziali e in favore delle collezioni canoniche e contro le sostituzioni (che consistono ora anche in elemosine o simili, per cui si vedono anche dei penitenti farsi sostituire nel digiuno da salariati). Tuttavia, la penitenza segreta rimane in vigore, e gli scrittori insistono sull'obbligo della confessione (Beda si fonda su Giacomo, V, 16). Finisce così con affermarsi la regola che la penitenza segreta è per i peccati segreti, la pubblica per i pubblici. Ma elementi della prima forma penetrano anche nella seconda: per es., spesso la riconciliazione è data insieme con l'imposizione della penitenza, o poco dopo. A poco a poco, e specie dopo la riforma ecclesiastica del sec. XI, la vecchia penitenza pubblica, conservata nei libri liturgici e nelle collezioni canoniche, si riduce ancora. Nel sec. XII troviamo distinte, non già due, ma tre forme di penitenza: quella detta "solenne", che non è se non l'antica penitenza pubblica, della quale d'altronde si finisce con ammettere che possa venire ripetuta; la cosiddetta "penitenza pubblica" che è tale soltanto per un certo carattere di pubblicità delle opere di soddisfazione, in relazione a colpe manifeste; e la segreta. Infine, sanzionando la prassi generalmente osservata e fornendo una maniera chiara ed efficace di distinguere i cattolici dagli eretici, il IV Concilio lateranense (1215) emana il suo famoso 21° canone, Omnis utriusque sexus fidelis, che fa obbligo a tutti i cattolici di confessare segretamente (solus) almeno una volta l'anno i loro peccati al "proprio sacerdote", di adempiere la penitenza ingiunta loro e di ricevere con reverenza, almeno in occasione della Pasqua, il sacramento dell'eucaristia.
Già prima si manifesta la tendenza ad abbandonare le pene e le tariffe dei Penitenziali e a lasciare il confessore arbitro d'imporre gli atti di soddisfazione che gli appaiono più opportuni: e così si viene affermando accanto a quella dei pellegrinaggi - genere di penitenza che può avere carattere pubblico o privato, quasi di atto volontario - la pratica della flagellazione, talvolta per opera del confessore. D'altra parte, come sviluppo storico degli arrea e aprendo la via a un alleggerimento delle pene, s'incomincia a diffondere l'uso delle indulgenze. Ma la decisa prevalenza, ormai, della penitenza segreta appare dal fatto che la confessione è sempre più dichiarata necessaria. È la tesi principale d'un'operetta, che ebbe sullo sviluppo della disciplina e della teologia penitenziali un'influenza enorme: il trattatello pseudoagostiniano De vera et falsa paenitentia, redatto tra la fine del sec. XI e il principio del XII: secondo esso, la confessione è così indispensabile che, in caso di necessità, può essere fatta ai laici.
Ma ai teologi di questo periodo manca ancora una dottrina teologica ben definita intorno alla natura, al carattere e al numero dei sacramenti, e il maggiore progresso è compiuto a proposito della soddisfazione. Secondo Pier Lombardo la remissione commuta la pena eterna dovuta per il peccato in una pena temporale, da scontare o in questa vita mediante le opere di soddisfazione, o nel Purgatorio. Dopo il Concilio lateranense, tuttavia, gli scolastici riconoscono tutti la necessità della confessione, taluni cercando di trovarne la base in Giacomo, V, 16. Ma, mentre la penitenza "solenne" e la "pubblica" perdurano dopo quel concilio, resta viva la tendenza a sottolineare l'importanza della contrizione. Un passo innanzi si compie con Guglielmo d'Alvernia e col distinguere più nettamente l'attrizione dalla contrizione, che si definisce come avente per motivo l'amore di Dio e come informata dalla grazia. Il penitente, mediante il sacramento, passa dalla prima alla seconda. Su questa via si mettono anche Alessandro di Hales e S. Bonaventura; ma le loro distinzioni, come quella più netta, introdotta da S. Alberto Magno, tra la materia cioè la contrizione manifestata con segni esterni, e la forma, cioè la grazia, separano in maniera esagerata le varie parti del sacramento che essi presentano come agenti successivamente nel procurare da una parte la remissione della colpa e della pena eterna, dall'altra la commutazione della pena eterna in temporale e la remissione di quest'ultima. Così, benché si affermi l'obbligatorietà della confessione, benché S. Alberto Magno insegni già che la contrizione non giustifica, se non è accompagnata dalla ferma intenzione di confessarsi, di prestare soddisfazione e di ricevere l'assoluzione, l'accento, per così dire, è posto ancora sulla contrizione. Si riconosce ora generalmente a S. Tommaso il merito d'avere trovato un modo assai più soddisfacente per conciliare la contrizione e l'assoluzione, affermando l'unità del sacramento della penitenza, nelle sue varie parti. Gli atti del penitente ne sono, in certo qual modo, la materia. Insomma, salvo per alcune divergenze d'opinione, che si notano soprattutto tra il Commento alle Sentenze di Pier Lombardo e la Summa theologica, salvo qualche punto che provoca discussioni tra gli esegeti del suo pensiero e, più genericamente, fra i teologi moderni - soprattutto a proposito dell'attrizione - S. Tommaso può essere considerato come il fondatore della teologia moderna della penitenza e la sua dottrina è già, nell'insieme, quella che la Chiesa proclamerà nel Concilio di Trento. Dopo l'Aquinate, la scuola tomistica seguita a discutere altre questioni, quali quella della relazione tra il sacramento e la grazia, e quella della natura e del valore dell'attrizione: vanno ricordati, per i loro contributi in questa materia nel sec. XIII Pietro da Tarentasia (poi Innocenzo V), Guglielmo di Parigi e Giovanni di Friburgo, nel XIV Pietro de la Palu, nel XV Capreolo e S. Antonino, nel XVI Silvestro Mazzolini (Prierias), Francesco Silvestri da Ferrara e soprattutto il card. Gaetano (Tommaso de Vio) e Francesco da Vittoria: per tacere di M. Cano e D. Soto, che parteciparono entrambi al Concilio di Trento.
Nella scuola francescana, d'altra parte, Duns Scoto considera la penitenza come un sacramento che ha solo la forma e, propriamente, è privo di materia: gli atti del penitente ne sono parte integrante ma non essenziale, l'importante è l'assoluzione. Insieme, egli fa progredire la distinzione tra la contrizione e l'attrizione: la seconda è ritenuta da lui sufficiente non per meritare la grazia, ma per ricevere con frutto la remissione nel sacramento. Egli ritiene altresì che, di potenza assoluta, Dio potrebbe perdonare al peccatore anche senza alcuna penitenza. La teologia della penitenza è così strettamente connessa a quella della giustificazione. Le proposizioni dei maestri secolari di Parigi, Guglielmo di Saint-Amour e poi Giovanni di Pouilly, che nelle loro lotte contro gli ordini mendicanti sostennero essere illecito ai fedeli confessarsi ai frati (beninteso, autorizzati canonicamente), furono condannate da Alessandro IV e da Giovanni XXII. Anzi proprio negli ordini mendicanti vengono redatte le numerose Summae confessorum, manuali che accanto alle questioni di teologia dogmatica trattano quelle morali, con fini pratici.
Attacchi più pericolosi contro il sacramento della penitenza (anzi, i sacramenti in genere) e il potere delle chiavi vennero dalle diverse eresie medievali, e furono condannati specialmente in J. Wycliffe, che non ammette altro perdono se non quello che Dio conferisce direttamente al peccatore contrito, in J. Hus, alle teorie antiecclesiastiche e antisacramentalistiche del quale si ricollega per certi aspetti anche l'insegnamento di Lutero. Tuttavia Lutero nell'ultima fase della sua evoluzione si sentì ancora vincolato, in certo modo, dai passi biblici relativi al potere delle chiavi; e la Confessione di Augusta, sotto l'influenza di Melantone, mantenne ancora una forma larvata di confessione segreta, che, in momenti diversi secondo i luoghi, ma generalmente nel corso del sec. XVII, fu sostituita da una confessione pubblica generale, fatta ripetendo una formula, prima della celebrazione della Cena: forma in uso tuttora. Qualche tentativo di reintrodurre la confessione auricolare si è avuto nel sec. XIX. Gli altri riformatori, invece, specie Calvino e Zwingli, si mantennero molto più risolutamente di Lutero fedeli al principio antisacramentale che è alla base della rivoluzione religiosa da loro compiuta. La comunione anglicana subì, anche a proposito della penitenza, le stesse oscillazioni che si notano in altri campi. In essa, la penitenza non è un sacramento; tuttavia, accanto alla confessione pubblica, non è mai cessata del tutto quella privata, che il "movimento di Oxford" si adoperò a rimettere in onore nel sec. XIX. Essa è ammessa, ma non obbligatoria, così come non s'impone che sia generale, né vi sono limiti alla scelta del confessore.
Per contro, la chiesa ortodossa considera la penitenza come un sacramento; ma, rimasta estranea al movimento della scolastica, ha ignorato fino al sec. XVI - né attribuì loro grande importanza in seguito - le discussioni intorno alla materia e alla forma del sacramento. I suoi teologi insistono meno dei cattolici sulla sua necessità; esso è stato amministrato in prevalenza dai monaci (abusivamente, ma a volte con una certa frequenza, anche non sacerdoti); non si usano confessionali.
Contro le dottrine protestanti, la Chiesa cattolica ha fissato la sua dottrina, in maniera definitiva, nel Concilio di Trento. Dopo di esso, la speculazione teologica si è volta soprattutto a polemizzare contro i dissidenti, a commentare e chiarire le decisioni del Tridentino, specie per opera di S. Roberto Bellarmino, e a discutere qualche punto che non tocca il dogma; ma la corrente principale della teologia post-tridentina mira piuttosto ad approfondire le questioni che interessano il confessore nell'esercizio del suo ministero, cioè la teologia morale, che non il sacramento della penitenza per sé stesso.
Teologia cattolica. - La penitenza è considerata sia come virtù morale, sia come sacramento istituito da Gesù Cristo.
Come virtù morale la penitenza è un dolore dell'animo e una detestazione del peccato commesso, in quanto è offesa di Dio, insieme con il proponimento di non peccare più in avvenire (cfr. Concilio Tridentino, sess. XIV, c. 4). Oggetto materiale di questa virtù è il peccato personale, che essa si propone di distruggere; a praticarla sono quindi tenuti, sia per necessità di mezzo sia per necessità di precetto, coloro che si trovano in peccato mortale e vogliono conseguire la giustificazione (Conc. Trid., sess. XIV, c. 1).
Come sacramento la penitenza è definita: un segno sensibile istituito da Gesù Cristo, in cui mediante la giuridica assoluzione del sacerdote si rimettono i peccati commessi dopo il battesimo al cristiano che ne ha dolore, li confessa e ne promette soddisfazione.
L'esistenza di questo sacramento, distinto da quello del battesimo, è dogma di fede cattolica, definito dal Concilio di Trento (sess. XIV, can. 1 segg.) specialmente contro i protestanti; gli argomenti teologici a dimostrazione di questo dogma sono tratti da alcuni passi del Nuovo Testamento (Giovanni, XX, 22-23; Matteo, XVI, 19; XVIII, 18), ma specialmente dalla tradizione e dalla prassi ecclesiastica lungo i secoli.
Come in tutti gli altri sacramenti, anche in questo la teologia cattolica distingue la "materia" e la "forma". La "materia" remota sono i peccati commessi dopo il battesimo; circa la materia prossima si disputa, ma la sentenza più comune è che essa sia costituita dagli atti del penitente (dolore, confessione e soddisfazione) che riceve il sacramento. La "forma" è costituita dalle parole del sacerdote che pronunzia la formula d'assoluzione. Il ministro di questo sacramento è il sacerdote, il quale inoltre deve essere stato legittimamente deputato a tale ufficio: in tale ministro, cioè, si richiede la "potestà di ordine" (sacerdozio) e la "potestà di giurisdizione" (facoltà di amministrare il sacramento della penitenza). Qualunque sacerdote riceve dalla Chiesa la potestà di giurisdizione riguardo a un cristiano che versi in pericolo di morte.
Chi riceve questo sacramento, ossia il penitente, è tenuto ai seguenti atti: concepire un vero dolore spirituale dei peccati commessi e non ancora cancellati (v. contrizione); compiere la confessione di detti peccati; eseguire la soddisjazione impostagli dal sacerdote.
La confessione, in quanto fa parte di questo sacramento, è definita l'accusa dei proprî peccati fatta al legittimo sacerdote per averne la sacramentale assoluzione. Il Concilio di Trento (sess. XIV, can. 5) insegna che siffatta confessione è d'istituzione divina, è necessaria a un cristiano per ottenere normalmente la remissione di qualsiasi peccato mortale, e che essa o segreta o pubblica è veramente sacramentale. La confessione deve essere integra, cioè estendersi al numero e alla specie di tutti i peccati mortali non ancora cancellati (i peccati veniali ne sono oggetto non necessario) e orale (salvo un'impotenza fisica o morale). Il sacerdote è obbligato a conservare su ciò che ha udito dalla confessione penitenziale quell'assoluto e incondizionato silenzio, che va sotto il nome di sigillo" o segreto sacramentale (v. segreto). La confessione, inoltre, deve essere sincera, umile, riverente.
Al penitente che ha compiuto la sua confessione il sacerdote, ordinariamente, impartisce consigli, ammonizioni ed esortazioni; infine impone la soddisfazione. Questa, chiamata usualmente "la penitenza", viene definita la pena imposta dal sacerdote per compensare l'offesa fatta a Dio e redimerne la pena temporale dopo la cancellazione del peccato. Essa consiste oggi comunemente in un'opera di carità verso il prossimo, di devozione verso Dio, di mortificazione e simili (elemosina, preghiera, digiuno, ecc.), che il penitente promette di eseguire. Dopo questa promessa il sacerdote pronuncia sul penitente la formula d'assoluzione (v. sopra).
L'effetto principale e diretto del sacramento della penitenza è la restituzione della grazia santificante al cristiano che ne è privo per il peccato mortale. Perciò nel penitente ben disposto sono cancellati tutti i peccati mortali, essendo impossibile la coesistenza d'un solo peccato mortale con la grazia. Altri effetti sono il cancellamento dei peccati veniali, la diminuzione della pena temporale (oltre alla remissione della pena eterna che avviene col cancellamento del peccato mortale), la reviviscenza dei meriti personali aboliti dal peccato mortale, le grazie attuali, ecc.
Il sacramento della penitenza, come appare dal già detto, è di necessità di mezzo al cristiano aggravato di peccato mortale. A costui quindi incombe l'obbligo di ricevere questo sacramento almeno una volta l'anno, in forza del precetto della Chiesa che impone di ricevere la comunione eucaristica in occasione della Pasqua, comunione da riceversi in stato di grazia.
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Fra i trattati di teologia: D. Palmieri, De paenitentia, Roma 1879; Lépicier, Tractatus de paenitentia, ivi 1924; A. D'Alès, De sacrament paenitentiae, Parigi 1926; P. Galtier, De paenitentia, 2ª ed., Parigi 1931. Nel protestantismo: articoli Beichte, Busse e Busswesen, II, in Die Relig. in Gesch. u. Gegenwart, I, Tubinga 1929.