Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La filosofia politica moderna è incentrata sul rapporto tra potere statale (eliminazione del conflitto) e garanzia della libertà individuale, in senso politico (questione della separazione dei poteri) e religioso (problema della tolleranza). Ma la teoria dello Stato risolve il problema del conflitto interno, non della guerra: di qui il cosmopolitismo e l’ipotesi di organismi internazionali; soluzioni a lungo termine, che prevedono una concezione progressiva della storia.
Il processo politico fondamentale dell’età moderna è la formazione degli Stati nazionali e la fine delle guerre di religione. Il risvolto concettuale di questo processo è l’elaborazione della teoria contrattualistica dello Stato, in base alla quale esso è il risultato di un patto con cui gli individui escono da una condizione prestatuale (ipotetico “stato di natura”) e si sottopongono a un sovrano riconosciuto universalmente. Il patto viene concepito in due modalità diverse a seconda del prevalere dell’una o dell’altra delle istanze politiche fondamentali che lo motivano: la garanzia della sicurezza da un lato, e la tutela dei diritti individuali dall’altro. La prima esigenza porta a un rapporto pattizio in cui i contraenti rinunciano a ogni diritto in favore di un terzo, il sovrano, ricevendone in cambio la sola garanzia della sicurezza fisica (Thomas Hobbes); la seconda porta invece a concepire il patto come cessione parziale di prerogative, in cui i futuri cittadini conservano alcuni diritti naturali (cioè inalienabili), quali vita, libertà e proprietà (John Locke). Le due soluzioni esprimono le due forme teoriche fondamentali in cui si realizza il processo di razionalizzazione dello Stato: l’assolutismo e il costituzionalismo.
Nella prospettiva assolutistica di Hobbes ogni divisione dei poteri politici è ovviamente esclusa, perché riprodurrebbe all’interno dello Stato la pluralità che è alla base del conflitto naturale. Locke ritiene invece che la separazione dei poteri sia condizione indispensabile per garantire la tutela dei diritti fondamentali, fornendo in questo modo una elaborazione teorica, in direzione del liberalismo moderno, del tradizionale costituzionalismo inglese. Si devono quindi distinguere tre funzioni del potere. Il “legislativo” è il potere sovrano, ma non assoluto. L’“esecutivo” (governo), che applica la legge e punisce i trasgressori (comprendendo anche il potere giudiziario), è subordinato al legislativo. Il “federativo”, che gestisce i rapporti con gli altri Stati, cioè la politica estera, dipende a sua volta dall’esecutivo. Cinquant’anni dopo l’idea della distribuzione del potere come garanzia della libertà è ripresa in Francia da Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, il quale la connette alla tradizionale distinzione delle forme di governo. Esse vengono distinte intrecciando due criteri: il numero di coloro che detengono il potere e il modo in cui esso è esercitato. Nel governo repubblicano (oligarchico o democratico) il potere viene esercitato da più persone (pochi o tutti) secondo la legge; nel governo monarchico da uno solo e in ossequio alla legge; nel governo tirannico ancora da uno solo, ma in maniera arbitraria. La libertà politica che connota le prime due forme di governo, indipendentemente dal numero, è data dalla distribuzione dei poteri, che può avvenire in forme diverse a seconda delle situazioni storiche: se in Inghilterra essa si traduce in un vero balance of power, in Francia può essere più opportunamente realizzata dalla funzione di controllo che i parlamenti esercitano nei confronti del potere monarchico.
Jean-Jacques Rousseau è più vicino a Hobbes che a Locke per quanto riguarda la cessione dei diritti individuali al corpo sovrano nella stipulazione del patto, il quale prevede “l’alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti, in favore di tutta la comunità” (Contratto sociale, I, VI). Ma il corpo politico cui l’individuo cede se stesso non è che l’io collettivo, in cui ciascun membro, come “parte indivisibile del tutto”, ritrova rafforzati i diritti che ha ceduto. La concezione politica di Rousseau è quindi essenzialmente connessa a una forma di democrazia diretta, in cui ciascun cittadino partecipa personalmente del potere in una sua gestione assembleare, sul modello delle poleis greche. In questo modo Rousseau realizza l’esigenza di garantire sia l’assolutezza del potere statale, necessaria per una pacifica convivenza sociale, sia la libertà dell’individuo. Questo modello verrà ripreso da Immanuel Kant, anch’egli preoccupato che la forza irresistibile di cui deve godere lo Stato non vada a detrimento della libertà del cittadino. Ma con una differenza. Affinché il potere dello Stato sia assoluto, Rousseau respinge le dottrine della separazione dei poteri (la sovranità è indivisibile) e della rappresentanza politica (la sovranità non è rappresentabile). Viceversa Kant ritiene che l’incoercibilità del potere sovrano – sancita dalla negazione del diritto di resistenza – non sia incompatibile con la divisione dei poteri e con la concezione rappresentativa della sovranità, condizioni indispensabili per realizzare la forma costituzionale “repubblicana” (il potere è esercitato secondo la legge) in opposizione a quella “dispotica” (il potere è detenuto arbitrariamente).
Il problema della salvaguardia della libertà dei cittadini nei confronti del potere costituito, quando viene considerato dal punto di vista religioso anziché strettamente politico, configura la questione della tolleranza. Accanto alla disputa tra assolutismo e costituzionalismo essa rappresenta uno dei temi più importanti della riflessione politica moderna.
Il dibattito attraversa tutto il periodo dell’Illuminismo. Sul piano storico è racchiuso da due documenti fondamentali: il Toleration Act del 1689, con cui vengono mitigate le pene contro le confessioni diverse dalla Chiesa anglicana, e l’editto di tolleranza verso i protestanti con cui nel 1787 Luigi XVI cerca di porre riparo alle disastrose conseguenze socio-economiche – ad esempio l’emigrazione di consistenti colonie di ugonotti – della revoca nel 1685 dell’editto di Nantes. Le rivoluzioni americana e francese concludono il dibattito, trasformando in “diritti dell’uomo” – libertà di pensiero, di culto, di espressione – ciò che prima era solo tollerato. Tolleranza e intolleranza – dirà Thomas Paine in I diritti dell’uomo (1791) – sono entrambe espressione di dispotismo: l’una pretende di negare, l’altra di concedere, un diritto che gli uomini già possiedono naturalmente.
Ancora una volta è Locke ad avviare la discussione con il Saggio sulla tolleranza (1667), cui seguono tre Lettere sulla tolleranza (1689, 1690 e 1693). Sulla base del principio che il potere sovrano non deve essere diviso in alcun modo, pena l’introduzione della conflittualità propria dello stato di natura, Hobbes aveva negato qualsiasi separazione tra Stato e Chiesa, subordinando il potere spirituale a quello politico. Locke afferma viceversa il principio della separazione tra Stato e Chiesa, che diventerà uno dei cardini del pensiero liberale. L’assunto di partenza è che Stato e Chiesa sono associazioni aventi finalità diverse e indipendenti. Se la società politica tende alla conservazione dei diritti naturali dell’uomo, la Chiesa ha come scopo la salvezza dell’anima. Essa è “una libera società di uomini” che intendono venerare Dio secondo i loro convincimenti e pertanto non ha obblighi di obbedienza nei confronti dello Stato. Ciò significa tuttavia anche che la Chiesa, se può perseguire coloro che dissentono dalle sue finalità con anatemi e scomuniche, in nessun modo può servirsi del braccio secolare dello Stato per dare loro esecuzione. In altri termini, se Hobbes lascia all’individuo solo la libertà interiore di pensiero, con Locke si perviene a un’esplicita difesa della libertà esteriore di culto. Con due limitazioni, determinate dal fatto che la libertà di culto non deve interferire con le finalità dello Stato né costituire una minaccia per la sicurezza pubblica. Nelle particolari condizioni storiche in cui vive, Locke ritiene che queste garanzie non siano date né dagli atei, i cui giuramenti sono infidi perché non fondati su Dio, né dai cattolici, che in quanto “papisti” obbediscono all’autorità anche politica di un sovrano straniero.
Alla questione della tolleranza è strettamente connesso l’atteggiamento filosofico del “deismo”. A differenza del “teismo”, che presuppone la credenza in un Dio personale oggetto di rivelazione positiva, esso intende la divinità come un Essere impersonale, causa intelligente dell’universo e garante delle sue leggi armoniche, ma ininfluente rispetto alle singole vicende individuali. Il deismo è una religione razionale, rispetto a cui le diverse religioni positive o perdono completamente valore o sono ridotte a espressioni storiche di un contenuto concettuale universale. Ciò ha un’immediata ricaduta politica sulla questione della tolleranza. Le religioni positive, relativizzate e storicizzate, cioè liberate dal riferimento a un’unica rivelazione, sono considerate sostanzialmente equivalenti: si ricordi la storia dei tre anelli, le tre religioni monoteistiche, raccontata da Gotthold Ephraim Lessing in Nathan il saggio. Ciascun culto esprime quindi convinzioni religiose che hanno gli stessi diritti delle altre e implicano il dovere di tolleranza reciproca.
Sviluppatosi in Gran Bretagna alla fine del XVII secolo, il deismo trova grande diffusione in Francia anche grazie alle Lettere filosofiche di Voltaire. Attraverso l’incontro con la tradizione libertina autoctona e con il pensiero di Pierre Bayle, anche il deismo francese è strettamente legato all’idea di tolleranza, spesso estesa, sul modello di Bayle, agli atei, di cui si difende la capacità di essere soggetti morali. In Voltaire, come in genere nel movimento illuministico, l’idea di tolleranza viene confortata da una concezione debole e talvolta, come in Bayle, decisamente scettica della verità: la ragione umana, seppur unico strumento di giudizio e di conoscenza, ha limiti precisi e non può conseguire un sapere assoluto. Inoltre in Voltaire – che scrive nel 1763 un Trattato sulla tolleranza – la questione assume un significato più ampio. Il termine infâme, sinonimo di intolleranza, non comprende solo la Chiesa e la religione istituzionale ma, più in generale, ogni forma di fanatismo, di superstizione, di prevaricazione del potere politico e giudiziario. L’azione di Voltaire non si limita all’ambito teorico, ma si sviluppa anche in azioni pratiche, come l’opera di riabilitazione del protestante Jean Calas, torturato e giustiziato con l’accusa di aver impiccato il figlio – in realtà suicidatosi – per impedire che si convertisse al cattolicesimo.
Una consapevole connessione tra Illuminismo e tolleranza è presente anche nello scritto su Che cos’è l’Illuminismo? di Kant. Illuminismo è “l’uscita dallo stato di minorità”, intesa “come incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. Ma perché questo obiettivo sia conseguito occorre consentire l’“uso pubblico” della ragione, cioè tollerare che ciascuno esprima liberamente i propri pensieri sugli argomenti di interesse generale. L’unico limite alla “libertà di penna” è, ancora una volta, la sicurezza dello Stato e il dovere di obbedire alle sue leggi. Per questo Kant assume come modello ideale di sovrano Federico II di Prussia, che aveva combattuto il fanatismo e praticato la tolleranza religiosa senza indebolire il principio autocratico del potere (“Ragionate quanto volete e su ciò che volete; ma ubbidite!”).
Teoria della separazione dei poteri e difesa della tolleranza religiosa sono intesi come strumenti per garantire all’interno della società politica forme di libertà che non si traducano in conflitto. Il problema non è quello di eliminare il conflitto, ma di sospingerlo al di là dei confini dello Stato. Che lo stato di natura sia viceversa una condizione di conflitto permanente, almeno potenzialmente, è invece un assunto che almeno fino all’Illuminismo non sembra essere messo in discussione. La dottrina del diritto naturale moderno che caratterizza il XVI secolo (Ugo Grozio, Samuel Pufendorf) e influenza fortemente anche il razionalismo settecentesco (Christian Wolff), riconosceva la guerra come strumento giuridico naturale per dirimere le vertenze laddove, come nei rapporti internazionali, non fosse possibile ricorrere all’autorità di un potere superiore. Il giusnaturalismo non si propone di eliminare la guerra, ma soltanto di regolamentarla in modo che essa venga dichiarata solo per una causa valida (teoria della guerra giusta) e condotta secondo norme formali prestabilite (teoria della guerra solenne). Tra le “giuste cause” di guerre era solitamente contemplata non solo la guerra di difesa, ma anche quella intrapresa per la ripetizione del dovuto (cioè per l’affermazione di un diritto accampato per ragioni dinastiche, contrattuali o di altro genere) e quella per la punizione di un torto, subito in prima persona o da altri. Ovviamente ciò rendeva alquanto difficile, eccetto che nel caso si subisse un attacco o un’invasione, determinare se e in quale misura sussistessero le condizioni per la “guerra giusta”. Di qui il contrapporsi delle motivazioni e contromotivazioni di diritto e l’effettiva impossibilità di controllare l’espansione bellica con strumenti giuridici.
La cultura illuministica, tendenzialmente pacifistica, cerca di contrastare il dilagare del conflitto e della guerra con due strumenti. Il primo, di natura culturale, è la diffusione del cosmopolitismo. Il secondo, di carattere più espressamente giuridico, è l’estensione del modello contrattualistico dal piano infrastatuale a quello internazionale.
Il cosmopolitismo settecentesco prende a modello quello dell’antichità classica, nelle due versioni cinica e stoica. Nel caso di Diogene il Cinico si tratta di un cosmopolitismo individualistico (Diogene abbandona la polis per vivere in una botte), il cui fulcro consiste in un processo di depoliticizzazione dell’individuo, che rivendica la sua libertà di uomo contro i vincoli che gli derivano dall’appartenenza a una società politica. “Il filosofo non è né francese, né inglese, né fiorentino – dice Voltaire – è di tutti i paesi” (Dictionnaire philosophique, voce “Cartésianisme”). Questo tipo di cosmopolitismo individualistico è fruttuoso dal punto di vista culturale: è alla base della république des lettres, per cui tutti i dotti del mondo sono apparentati da un legame che li solleva al di sopra delle loro nazionalità. Esso appare tuttavia poco produttivo dal punto di vista politico, poiché rischia di fare dell’individuo un cattivo cittadino che non si interessa al destino del proprio stato. Questa critica – cui diede voce in modo particolare Rousseau, fornendo la base all’anticosmopolitismo romantico – favorisce la prevalenza del secondo modello classico, quello stoico, documentato da Zenone di Cizio a Epitteto e Marco Aurelio, passando attraverso Seneca e Cicerone. Qui la cittadinanza si articola in una serie di sfere concentriche, che vanno dalla partecipazione alla propria polis alla condivisione di un’unica natura umana.
Questo modello consentiva di conciliare il rispetto dei doveri del patriottismo con quelli del filantropismo universale. La tendenza alla tolleranza è insita in ogni forma di cosmopolitismo. Ma mentre nel caso del patriottismo individualistico essa nasce da un atteggiamento di disinteresse per le differenze nazionali, nel caso del cosmopolitismo “universalistico” essa tende a promuovere la collaborazione tra popoli diversi senza negare le diversità che li distinguono.
Questa seconda espressione di cosmopolitismo assume spesso la forma di un cosmopolitismo istituzionale, legato all’estensione del modello contrattuale all’intera comunità delle nazioni. Nel 1713-14 l’abate Charles-Irenée de Saint-Pierre dà voce a questa esigenza con il Progetto per rendere perpetua la pace in Europa (1713-14), dove tuttavia l’estensione della “federazione” per la pace è limitata al continente europeo. Una completa realizzazione di questo ideale si ha soltanto con il Progetto di pace perpetua (1795) di Kant, che prevede l’unione mondiale di tutti gli Stati. Quest’unione non dovrebbe tuttavia consistere in uno “Stato di popoli” (cioè non dovrebbe essere uno Stato mondiale federale, con un unico governo centrale), poiché ciò favorirebbe il dispotismo e soffocherebbe una feconda azione di concorrenza pacifica tra gli Stati. Si deve piuttosto realizzare una “federazione di popoli” che, lasciando intatta la sovranità nazionale dei singoli Stati, li impegni comunque in una alleanza per la pace. Partendo dalla Francia repubblicana, la federazione dovrebbe estendersi progressivamente al mondo intero.
Ovviamente, tanto l’espansione del cosmopolitismo universalistico quanto la realizzazione della federazione internazionale per la pace presuppongono una prospettiva storica a lungo termine. La fiducia nella loro possibilità non è dunque separabile dalla concezione progressistica della storia che rappresenta una delle peculiarità del pensiero illuministico. Già Voltaire – cui si deve anche la creazione dell’espressione “filosofia della storia” – nelle sue opere storiografiche prospetta uno sviluppo storico che, seppure con periodi di stasi, procede nell’insieme verso un sempre maggiore sviluppo della ragione, della conoscenza e delle arti. Anne-Robert-Jacques Turgot, a sua volta, contrappone all’andamento circolare della natura quello rettilineo della storia, individuando come criteri di progresso lo sviluppo della tecnica e l’espansione della libertà. Ma la più chiara teorizzazione del progresso storico in età illuministica si ha con Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, quando la Rivoluzione francese – di cui egli sarà tuttavia vittima – accresce le speranze degli uomini nell’avanzamento inarrestabile della storia. Nell’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Condorcet sostiene che l’avanzamento storico è determinato da “leggi generali dello sviluppo delle nostre facoltà”. È così possibile una “scienza dell’uomo” che non solo spiega le fasi del passato dell’umanità, ma ne prevede anche lo sviluppo futuro. Condorcet divide la storia del genere umano in dieci epoche, di cui la decima è appunto dedicata ai progressi futuri, che prevedono l’eliminazione della diseguaglianza tra le nazioni, il progresso dell’eguaglianza tra i membri di uno stesso popolo e l’indefinito perfezionamento della natura umana, sia dal punto di vista fisico (una vita sempre più lunga) sia del punto di vista morale.
Il fattore politico costituisce per Condorcet uno dei principali criteri dell’avanzamento storico. L’aumento di conoscenza e di razionalità che caratterizza il progresso va di pari passo con l’espansione della libertà e dell’eguaglianza. La stessa congiunzione tra cultura e politica si ritrova anche in Kant, per il quale il fine ultimo della storia risiede nel perfezionamento delle naturali disposizioni alla ragione insite nella natura umana. Accogliendo un suggerimento della riflessione socio-economica britannica (Bernard de Mandeville, Adam Smith) Kant ritiene che questo avanzamento sia favorito da un meccanismo intrinseco alle relazioni sociali tra gli uomini, mediante cui il negativo si volge in positivo: la “insocievole socievolezza” degli uomini, cioè l’antagonismo che determina le loro relazioni, produce uno spirito di concorrenza che spinge verso gradi sempre più alti di cultura e di civiltà politica. Accanto allo sviluppo della ragione umana, diventa quindi finalità essenziale del progresso il perfezionamento della costituzione politica sia interna sia esterna. La costituzione internamente perfetta è il governo repubblicano, in cui il potere viene esercitato secondo la legge e, quindi, secondo la volontà popolare, ancorché concepita più come ideale normativo che come dato di fatto. La costituzione esternamente perfetta è la federazione dei popoli per la pace. Kant riconduce in questo modo il suo pensiero politico a una concezione progressiva della storia e conferma la sua stretta dipendenza dai canoni dell’Illuminismo.